giurato Massimo Marino

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giurato Massimo Marino
giurato Massimo Marino
critico teatrale, giornalista
Rione San Rocco
Urukhan. Invito alla follia
San Rocco punta quest’anno sull’immaginazione, sul desiderio e sul sogno, con una “sfilata” dai
toni circensi e felliniani, non senza un’agrodolce morale.
La rappresentazione scorre su un binario drammaturgico semplice ma efficace: la fuga dalla vita
quotidiana, la necessità di colorare il mondo, di ritrovare i sogni, i voli sulle stelle e i “pinguini rosa”
dell’infanzia, e mettere in atto il coraggio necessario per colorare la vita.
Il meraviglioso, a volte un po’ facile, di clown, ballerine acrobate, scozzesi, fate più o meno
travestite, grandi tavolate, maschere e paillette viene propiziato da un grillo parlante-voce della
coscienza nelle fattezze di un nano issato nella testa di un pupazzo gigante. Invita a osare, e il
mondo si trasforma, per incanto, in un grande suggestivo pacco dono che contiene gli inconfessati,
abbandonati sogni di quando si era ingenui e convinti che l’erba voglio potesse colorare di verde la
vita.
Oltre ogni facile e consolatoria edulcorazione il protagonista – un Paolino qualsiasi, precipitato da
una piazza dove si svolge un simbolico, grigio affannarsi in cerchio, senza soluzione, di figure
quotidiane e dimesse – scopre che per rendere durevoli e veri i sogni bisogna combattere contro
minacciosi mostri e contro invischianti reti che impediscono al combustibile dell’amore di
incendiare la fantasia attraverso l’ascolto, la follia, la dedizione, la volontà.
Morale semplice ma efficacemente svolta per contrasti, con brevi pezzi recitati, con entrate di
macchine sceniche che materializzano i voli del desiderio, con danze appropriate su musiche forse
a volte lievemente banali.
L’effetto d’insieme è quello di un bel sogno che riesce a riscaldare una realtà sentita come troppo
banale. Ma questo contrasto nutre diverse delle “sfilate” di quest’anno, con una maturazione
drammaturgica che aspetta un corrispettivo anche nelle parti recitate, in molti casi ancora non
fluide e perfettamente introiettate.
Rione Sant’Angelo
Arcano
Avrebbe potuto e non è stato, questo Arcano, alias la storia di Guerrin Meschino alla ricerca delle
sue origini nell’antro della Sibilla.
Ci sono tanti spunti tematici, troppi, non risolti teatralmente. Si parte con la ricerca del padre, del
nome, della stirpe: dell’identità, in una parola. Si continua con la discesa in territori magici, che
avrebbero potuto innescare un viaggio nelle tradizioni o nei miti popolari, e si rimane al di là di
questo. Lo stesso elemento arcano è suggerito in due o tre scene, e poi subito negato, con una
Sibilla più simile a una Cleopatra (e con balletti più vicini a quelli dei film peplum anni ’60 che alle
tradizioni umbro-marchigiane); una Sibilla che alla fine agisce in piena luce, lontana dal suo
magico, misterioso antro. È accennato l’elemento della subordinazione della donna e poi
abbandonato e non perfettamente ripreso. Anche qui si parte da un quieto agitarsi quotidiano e da
un realismo difficile da reggere teatralmente con mezzi non professionali e non si salta
compiutamente, se non in pochi momenti, nel mito.
La “sfilata” si appoggia troppo sulla narrazione senza raggiungere una forma drammatica, senza
mettere in moto contrasti capaci di sviluppare gli eventi e di tenere sospeso lo spettatore.
L’antro è appena accennato e il gioco scenico raggiunge un momento suggestivo ed efficace solo
nella parte delle barche e delle donne che si muovono a specchio, una bianca-una nera. Poteva
essere un appiglio a una soluzione che affrontasse il problema dell’identità, ma mi sembra che non
ci sia sviluppo, e che lo scioglimento arrivi solo con l’espediente della rottura della sfera di cristallo.
La Sibilla diventa solo un tiranno da scalzare, togliendole ambiguità e forza, e riducendo Guerrino
a un campione di una liberazione che si rivolta – ancora – in affermazione del potere maschile
contro le donne, usando il malcontento di alcune donne, quello accennato delle ancelle, quello
delle streghe. Ma ciò che manca è proprio un approfondimento del tema del padre…
Il personaggio del gufo è l’unico, non fortissimo, viatico verso il mondo magico, con imprestati dal
Sogno di una notte di mezza estate shakespeariano.
Insomma, troppe intenzioni, poco amalgamate e risolte, troppo impegnative per un unico
personaggio troppo centrale, troppo illustrato e poco vissuto.
Rione Moncioveta
Il super investigatore incomparabile Pinkerton
Ho come l’impressione che si voglia a tutti i costi trovare una “attualità” a soggetti che poi
prendono altre strade (e vivono di altre suggestioni). Il Pinkerton di Moncioveta, nel programma
stampato sul “rionale”, promette una storia che “riguarda da vicino alcune scottanti tematiche dei
nostri tempi: la sicurezza, l’abuso di potere, la libertà”. Questi temi, ulteriormente sottolineati nelle
note di sala, sono poi travolti dal gioco teatrale, che qui strizza l’occhio al fumetto, mettendo tra i
protagonisti (Pinkerton, il bandito/ i banditi Dalton) anche Lucky Luke.
Le invenzioni sceniche qui germogliano lussureggianti sulla vita quotidiana di un villaggio del
favoloso West, tra banche da cui occhieggiano come in una slot-machine i simboli del dollaro e
cavalli meravigliosamente resi con congegni meccanici a pedali. Gli esterni, poi, si mutano in
interni, così come una improbabile famigliola diventa gli investigatori della Pinkerton pronti a
contrastare il crimine. Tra domestici can can di simpatiche sgambettanti fanciulle senza culottes,
con le loro normali mutandine nere, fumi (quanto uso di fumo si fa nelle “sfilate”!: il modello è il
musical, ma anche, mi sembra, il concerto pop e la discoteca), momenti da comica del cinema
muto, scene di (casalinghe) seduzioni di sciantose, tra la prigione, il saloon, la banca, l’agenzia di
investigazione, i dossier ingigantiti in carri sfilanti, risse e scazzottate, i nuovi custodi dell’ordine per
decreto presidenziale abusano del potere e vengono smascherati nella loro corruzione. Come eroe
solitario si staglia lui, Lucky, col suo bicchiere di limonata, un eroe buffo e romantico che avrebbe
forse meritato più risalto.
I bambini qui sono una presenza notevole, forse più che nelle altre sfilate, dove pure hanno un
ruolo, e sono uno degli elementi nodali, al pari dei carri. Questi ultimi, per la scelta di rimanere
ancorati a un (giusto) segno fumettistico, sono meno sorprendenti, e danno un’aria di West già
vista. Qui sta il difetto, opposto (e speculare) a quello di Sant’Angelo e più veniale: non c’è un
fuoco unico e sicuro. I troppi protagonisti e punti di vista non sempre si chiudono compiutamente in
un affresco coerente.
Rione Portella
Il giorno perfetto
Molto coraggiosa mi è sembrata, quest’anno, la “sfilata” del rione Portella. Affronta in modo diretto
un tema di attualità, quello del precariato, appoggiandosi al mito fondatore della letteratura
occidentale, quello delle peregrinazioni di Ulisse cantate da Omero. Alcune situazioni dell’Odissea
rivivono nei tormenti di un giovane in cerca di lavoro, tra capi sfruttatori, seduzioni di scorciatoie
improbabili, truffaldine maghe e sirene, giganteschi capi supremi pronti a triturare le rotelle di un
ingranaggio nel macello burocratico.
La “sfilata” ha molti momenti troppo lunghi, che a volte, anche a causa di incidenti tecnici, hanno
fatto “perdere” gli interpreti. Ma l’invenzione è costante e notevole (e riuscito) è il tentativo di
rileggere in modo sorprendente i nostri tempi usando la suggestione del mito. Anche certe tirate
che sembrano retoriche sono giustificate dall’altezza del modello, dal presupposto di calare figure
quotidiane in stampi eroici. L’eroismo necessario per vivere oggi viene così sottolineato con una
sottile ironia capace di relativizzare il modello e la lontana copia.
Interessante il meccanismo del narratore cieco che attraversa la scena tra sonorità (dal vivo)
orientaleggianti e movimento di teli simili a onde del mare, introducendo le scene drammatiche,
dove i contrasti vivono in modo pregnante.
L’invenzione scenografica (pur con qualche caduta nella scelta di certi materiali) ha raffinatezze
che sembrano consce di certe acquisizioni del postmodern e dell’arte povera, senza rinnegare una
cartellonistica più naif, in una profondità di prospettive dominata dalla inventiva curiosità.
La “sfilata” è stata funestata da qualche incidente e, alla conclusione, si è forse compiaciuta di
troppi finali. Eppure certe immagini, come la lotteria fatta di bussolotti multicolori, il grande padrone
Polifemo metà pupazzo gigante metà proiezione su un teleschermo, gli uffici burocraticamente
affaccendati a confondere le idee (un vero labirinto!), l’apparizione di Circe-casinò e la scomparsa
dei compagni di Ulisse ingoiati nelle slot-machine, le sirene dalla doppia faccia, quella della
seduzione e quella mostruosa della perdizione, e altre immagini ancora rimangono scolpite. Come
la finale crocifissione a una macchina, che può richiamare certe figurazioni della Tragedia
Endogonidia della Societas Raffaello Sanzio o di altri spettacoli dal segno fortemente
contemporaneo, e il volo di barchette che, su fili, invadono il cielo della piazza.
Nonostante i molti difetti, mi è sembrato il tentativo più ardito, perché non ha avuto paura di correre
il rischio di sperimentare. E perciò questa è la mia “sfilata” preferita.
Massimo Marino