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Un piccolo punto
«La superstizione è l’eredità
di persone abili di un secolo
lasciata agli stupidi dell’avvenire».
Honoré de Balzac
entunesimo secolo. Il nostro tempo.
Nel definirlo, com’è d’uso, “secondo millennio”, sembrerebbe che abbiamo poco più di duemila anni di storia alle
spalle. Duemila anni di esperienze, di evoluzione, di crescita, ma anche di sbagli, cadute e
incomprensioni.
Naturalmente non è così. Duemila anni fa
abbiamo soltanto posto uno “zero” sulla linea
temporale, facendolo coincidere con la nascita di Colui che la nostra cultura cristiana considera il “figlio di Dio”. Tuttavia, quell’“anno
zero” è un punto molto vicino a noi (e alla
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Il possibile e l’impossibile
nostra possibilità di documentare la storia)
ma decisamente assai distante da quello che
si può considerare “l’inizio” dell’avventura umana su questo pianeta. Un percorso immenso, difficile persino da immaginare.
Tanto per dare un’idea, se consideriamo
come punto di partenza l’età della pietra 1 e
consideriamo il tempo passato fino ai giorni
nostri vasto come un campo di calcio regolamentare (un’estensione che tutti, più o meno,
hanno presente)... ebbene, il nostro splendido
ultimo secolo, quello del trionfo di scienze e
tecnologie, è ampio quanto circa 18 centimetri quadrati, grosso modo la grandezza del dischetto di centro campo, quello da cui si batte
il calcio d’inizio.
L’epoca del razionalismo, delle scienze
e­satte e dell’interpretazione del mondo in termini prettamente materiali è quindi ben poca
cosa rispetto all’esperienza umana. Se oggi
1. L’uomo è comparso sulla Terra molto prima (si
parla di sei milioni di anni), ma l’età della pietra
(a partire da 3.500.000 anni fa) è il momento che
vede la “nascita” della tecnologia, ovvero la costruzione dei primi rudimentali utensili in pietra.
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tendiamo a “leggere” ogni fenomeno secondo
un criterio razionale, non dobbiamo tuttavia
pensare che sia sempre stato così.
Per lungo tempo l’essere umano non è stato in grado di spiegare i fenomeni cui assisteva e a cui era sottomesso. La natura lo sovrastava e tutto ciò che egli non era in grado
di spiegare non poteva che attribuirlo a entità
di gran lunga superiori e certamente dotate di
poteri immensi.
In tutte le regioni del mondo si svilupparono credenze legate all’esistenza di dèi, responsabili delle varie manifestazioni naturali.
Nei Paesi più a sud la faceva da padrone il sole, mentre a nord erano più venerate divinità
associate al mondo vegetale, ai ghiacci e alla
qualità notturna.
Non vogliamo stabilire una regola, ma i
culti legati al sole e alla luna erano presenti
dovunque, nel riconoscimento del fenomeno
più potente e regolare che si potesse osservare: l’alternanza del giorno e della notte, cicli
con le loro qualità opposte di calore-attivitàcrescita e freddo-quiete-stasi. Nella gerarchia
di importanza, seguivano poi tutte le mani15
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festazioni di potenza (tuono, lampo, eruzioni, inondazioni) e quelle legate agli elementi
fondamentali, fuoco, acqua, aria, terra. Infine
gli dèi preposti alle attività vitali, che all’alba
dei tempi erano soprattutto la caccia e la guerra (oggi la prima è diventata una passione da
coltivare nel tempo libero, mentre il mestiere
di uccidere gli altri – culturalmente aborrito
da tutti – rimane tuttora una delle occupazioni
più praticate e redditizie).
Secondo le evidenze storiche, i culti politeistici furono soppiantati dalle prime religioni monoteistiche intorno al 1800 a. C.
(ebraismo, e poi Atonismo in Egitto e Zoroastrismo in Persia e tutta l’Asia centrale). Se
vogliamo dare un’idea di grandezza, secondo
l’immagine già utilizzata del campo di calcio, possiamo approssimare il periodo in cui
l’umanità ha accettato l’idea di un Dio unico
all’ampiezza della porta, per un metro all’esterno di essa (circa 7 mq). Tutto il resto del
campo, dunque, corrisponde al periodo del
politeismo, ovvero a forme religiose che ammettevano l’esistenza di più divinità.
Questo secondo la storia conosciuta, che
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comunque fatica a spingersi così in là, per via
della scarsità di evidenze documentali.
Sembrerebbe dunque che per un’interminabile periodo l’umanità abbia vissuto una
lenta evoluzione, poi accelerata bruscamente,
in poche migliaia di anni.
C’è chi sostiene, invece, che in quello spazio di tempo si siano succedute civiltà avanzatissime di cui non è rimasta traccia. È il caso, per esempio, di Mu, la Terra Madre che,
secondo alcuni, avrebbe dato origine alla civilizzazione su questo pianeta.2 Secondo questa
ipotesi, il continente Mu era un vasto terri2. Il colonnello inglese James Churchward pubblicò nel 1920 il testo The lost continent of Mu (Il
continente perduto di Mu) in cui raccontava del ritrovamento, in un tempio indiano, nel 1868, di antichissime tavolette sacre narranti la cosmogonia
dell’universo e la nascita della specie umana nel
continente scomparso di Mu. Il bramino indiano
che aiutò il colonnello a tradurre le tavolette disse
che erano state scritte dai “Sacri Fratelli” – “Naacal” – giunti in Asia dalla madre patria Mu per diffondere avanzate dottrine scientifiche e religiose.
Secondo la descrizione di Churchward, le tavolette erano state rinvenute presso Rishi, una delle
sette città sacre dell’India, e appartenevano a una
collezione ben più vasta, mai ritrovata in seguito.
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Il possibile e l’impossibile
torio situato nell’Oceano Pacifico, nell’area
circoscritta tra le attuali isole Hawaii, l’isola di
Pasqua e le isole Fiji. Ricca di vegetazione tropicale, fiumi, laghi e abitata da grandi animali,
Mu assomigliava a un “giardino dell’Eden”.
Grazie alla comparazione di documenti di
diversa natura (il Manoscritto Troano, il Codex Cortesianus, il Manoscritto di Lhasa, il
Ramayana, le iscrizioni del tempio di Uxmal
nello Yucatan e quelle del tempio di Xochicalo
a sud-ovest di Città del Messico) Churchward
ricostruì la storia di Mu: secondo lui, il continente era abitato da sessantaquattro milioni
di abitanti, divisi in dieci tribù e governati da
Ra-Mu, un monarca assoluto, il cui regno era
definito “impero del Sole”. Sempre secondo
le descrizioni del colonnello, gli abitanti di
Mu credevano in un Dio unico (Ra il Sole),
nell’immortalità dell’anima e del suo ritorno
al Divino. Divisa in tre grandi zone, sembra
che Mu contasse sette città principali; la sua
civiltà fondò diverse colonie, da cui sarebbero
derivati l’impero dei Maya, in America, e il
regno dei Naga nell’Asia meridionale.
Le affermazioni di Churchward furono in
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parte avvalorate dal naturalista Alfred Russel Wallace (sosteneva che sarebbe esistito un
continente tra l’Australia, la Nuova Guinea,
le isole Salomon – e probabilmente le Fiji e
l’India – attraverso il quale i marsupidi avrebbero raggiunto l’Australia) e, indirettamente,
dallo zoologo Philip L. Slater 3 e dal naturalista
tedesco Ernst Haeckel, secondo il quale si può
ipotizzare la presenza di un continente tra il
Madagascar e la Malesia.
Questo continente nell’Oceano Indiano –
Lemuria – avrebbe compreso anche ampie zone dell’Oceano Pacifico e in seguito alla sua
scomparsa (cataclisma planetario?) ne sarebbero rimaste solo le propaggini nord orientali,
corrispondenti a Mu.
Anche Mu sarebbe poi scomparso, lasciando solo alcune colossali costruzioni, come i
moai dell’isola di Pasqua, alcune enormi vesti3. Secondo Slater esisteva un subcontinente tra l’India e l’Africa, visto che esistono fossili di proscimmie lemuri – attualmente presenti in Madagascar – sia in zone meridionali dell’India che su
alcune coste africane. Slater chiamò questo ipotetico continente Lemuria.
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gia in molte isole del Pacifico e, scoperta più
recente, i resti delle strutture artificiali rinvenuti sui fondali di Yonaguni (Giappone occidentale) nel 1987.4
È piuttosto interessante il fatto che, diversi
decenni prima, Madame Helena Petrovna Blavatsky, fondatrice della “Società Teosofica”,
attraverso un contatto in stato di trance con
un’entità che ella chiamava “il tibetano” aveva
avuto visione de Il Libro di Dzyan,5 un antico
testo che rivelava la storia dimenticata dell’uomo. Secondo questo documento le “razze
madri” dell’umanità erano sette e la terza era
proprio quella dei Lemuriani, tra i quali figu4. Dopo la prima scoperta del giapponese Kihachiro
Aratake, solo verso la fine del 1997 uno studio
rivelò molti risultati sorprendenti, tra cui l’esistenza di un arco massiccio e diversi passaggi tra gli
enormi blocchi di pietra che sembravano combaciare perfettamente tra loro. Esplorazioni più approfondite individuarono strutture simili a rampe
di scale, strade lastricate e incroci che conducevano a piazze circondate da pilastri in pietra.
5.Le Stanze dal Libro di Dzyan costituiscono l’argomento principale del primo e secondo volume de
La dottrina segreta, opera in due volumi pubblicata nel 1888 da Helena Petrovna Blavatsky.
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ravano androgini divini dotati di straordinarie
conoscenze esoteriche, tramandate in seguito
solo ad iniziati.
Sulla stessa linea di indagine si muovono le
ipotesi riferite al mito di Atlantide, uno dei
tormentoni più longevi della curiosità di ogni
tempo.
Alla base della maggior parte delle congetture su Atlantide sta senz’altro la descrizione che Platone ne fa nei “Dialoghi” Timeo e
Crizia (340 a.C. circa). Nel testo è riportato il
racconto di un Sacerdote di Iside al legislatore
greco Solone, in merito a una civiltà straordinariamente evoluta – al cui confronto quella
greca appare “come un popolo appena fanciullo” – esistita, diversi millenni prima, al di là
delle colonne d’Ercole, cioè nell’area dell’Oceano Atlantico.
Atlantide viene descritta come un’isola a
forma di rettangolo (poco più della metà della
nostra Italia: circa 540 x 360 chilometri) circondata su tre lati da montagne che la proteggono dai venti freddi del nord e aperta a sud
sull’Oceano. Qualche contraddizione – do21
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vuta certamente alle conoscenze geografiche
dell’epoca – sulle dimensioni deriva dal fatto
che viene descritta come «un’isola più grande
della Libia e dell’Asia messe insieme, e da essa si poteva passare ad altre isole, e da queste
isole alla terraferma di fronte», cosa che la
collocherebbe come “ponte” ideale con la costa delle Americhe.
Platone riferisce che «il paese in quei giorni era abitato da diverse classi di cittadini:
c’erano artigiani e vi erano uomini di famiglia
e vi era anche una classe guerriera, in origine costituita da uomini divini. Questi ultimi
vivevano per conto loro e avevano tutto ciò
che occorreva per nutrirsi e per l’educazione;
nessuno di loro possedeva niente, ma essi utilizzavano tutto ciò che avevano quale comune
proprietà, niente essi chiedevano di avere dagli altri cittadini oltre al cibo necessario».
Il filosofo riporta anche che «...essendo
succeduti terremoti e cataclismi straordinari,
nel volgere di un giorno e di una brutta notte... tutto in massa si sprofondò sotto terra, e
l’isola Atlantide similmente ingoiata dal mare
scomparve».
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Il fatto che di Atlantide non restino vestigia
è ulteriormente precisato: «Molti grandi diluvi
si sono susseguiti durante i novemila anni,
perché questo é il numero di anni che sono
passati dal tempo di cui sto parlando; e durante tutto questo tempo e attraverso così tanti
cambiamenti non c’è mai stato un consistente
accumulo di suolo che scendeva dalle montagne, come per altri posti, ma la terra é caduta
via tutto attorno ed é sparita dalla vista. La
conseguenza è che in confronto a ciò che era,
sono restate solo le ossa del vasto corpo, se
così si può dire delle piccole isole, tutto il soffice e ricco terreno é andato via e solo lo scheletro della terra è restato».
Platone spiega anche che «ci fossero dei
sopravvissuti, come ho già detto, essi erano
uomini che vivevano sulle montagne, essi non
conoscevano l’arte della scrittura e avevano
sentito solo i nomi dei capi della terra ma sapevano molto poco delle loro azioni. Essi erano ancora in grado di tramandare questi nomi
ai loro figli ma, riguardo le virtù e le leggi dei
loro antenati, essi le conoscevano solo attraverso oscure tradizioni e siccome ad essi stessi
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e ai loro figli mancò per diverse generazioni
il necessario per vivere, indirizzarono le loro
attenzioni a sopperire ai loro bisogni e di ciò
essi conversarono, dopo aver dimenticato gli
eventi accaduti in tempi antichi [che] vennero introdotti nelle città quando essi incominciarono ad avere del tempo libero e quando
videro che al necessario per vivere si era già
provveduto, ma non prima. Ed è questa la ragione per cui i nomi degli antichi sono stati
conservati fino a noi ma non le loro azioni».
La descrizione procede in modo molto accurato, ma non è questo ciò che qui ci interessa. Aggiungiamo solo che l’esistenza di una
terra oltre le colonne d’Ercole era già stata citata da Omero nell’Odissea (la Cymmeria) e
che anche Erodoto cita il popolo degli Atalanti
(«che non mangiano alcun essere animato» e
«non sognano mai»).
La leggenda che più richiama la narrazione
platonica proviene sorprendentemente dagli
indigeni messicani: nel loro mito delle origini si narra di un’isola detta “Aztlan”, situata
nell’Oceano Atlantico e inabissatasi nelle stesse acque, da cui discendono gli Aztechi, lette24
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ralmente “abitanti di Aztlan”. Molte sono infatti le analogie tra la civiltà dell’antico Egitto
– la più antica dell’area occidentale – e quelle
dell’America Centrale (costruzioni piramidali,
tecniche di imbalsamazione, anno diviso in
365 giorni, tipologia di leggende, affinità linguistiche, ecc.).
Ancora una volta, la Teosofia della signora Blavatsky precisa che ad Atlantide compaiono i primi rappresentanti della “Quarta
Razza Madre”, successiva in termini evolutivi
a quella dei Lemuriani. Secondo le informazioni della Blavatsky, inoltre, il continente di
Atlantide avrebbe subito nel tempo più di un
cataclisma, l’ultimo dei quali sarebbe quello
descritto da Platone. I disastri principali sarebbero avvenuti circa 800.000 anni fa, poi
200.000 e ancora 80.000 anni fa, lasciando
solo una parte dell’antico continente, l’isola di
Poseidon (quella citata da Platone). Nel 9564
a.C., infine, il continente si sarebbe inabissato
completamente, in seguito al cataclisma descritto nel Crizia. Esattamente la datazione da
più parti attribuita al mitico episodio del Diluvio Universale narrato ne La Bibbia.
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Non sta a noi affermare la verità o meno di
queste affermazioni. E, in realtà, poco ce ne
importa. La tradizione afferma che «chi sa
non parla». E fa molto bene – aggiungo volentieri – visto l’uso sconsiderato che oggi si
fa di ogni conoscenza.
Nutrire una curiosità fine a se stessa non
serve davvero a niente. Non trasforma la nostra vita. Ci rende semmai più presuntuosi e
saccenti. Molto meglio lavorare su noi stessi
e provare a migliorarci come esseri umani. In
caso di vera utilità le giuste conoscenze arriveranno al momento opportuno. Non prima.
E non attraverso uno scritto.
In ogni caso, in merito a questo argomento, mi sento di segnalare un testo, pubblicato
qualche anno fa,6 in cui viene fatta una lettura
prettamente esoterica della “vicenda atlantidea”, piuttosto accurata e ben esposta. Seppur
presentata in forma narrativa, si tratta di un
genere di analisi che condivido e sottoscrivo
pienamente.
6. Mauro Maggio, I maestri, Adea edizioni, Cremona, 2008.
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Ci siamo un po’ dilungati, ma lo scopo era
quello di far sorgere un dubbio sulla possibile
veridicità del fatto che per milioni di anni l’evoluzione umana sia stata di un’esasperante
lentezza. Possibile che per tanto tempo “non
sia successo niente” e poi, tutto d’un colpo
(ricordate i pochi metri davanti alla porta del
campo di calcio?) la civiltà abbia accelerato
in maniera esponenziale?
Nel novero di un interrogarci sul possibile
e l’impossibile, non è forse “un po’ più possibile” che l’umanità abbia sviluppato anticamente grandi civiltà e tecnologie di cui non
sappiamo nulla? Chi avrebbe costruito le piramidi e altri incredibili manufatti senza l’aiuto
di gru e bulldozer? Chi avrebbe diffuso culti
e conoscenze sostanzialmente identici in parti opposte del globo che, fino al XII secolo,
non sarebbero state in contatto? Chi, ancora,
avrebbe insegnato a selvagge tribù africane
sofisticate nozioni di astronomia su corpi celesti che solo i moderni radiotelescopi hanno
saputo rilevare? 7
7. Vedi ne I maestri, op. cit, l’interessante discorso a
proposito della tribù dei Dogon e della stella Sirio.
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E se l’obiezione può essere che non ci sono restate prove tangibili, è così sicuro che
queste testimonianze vadano cercate solo in
rovine e manufatti (peraltro deperibilissimi in
un tempo così lungo) e non in certe tradizioni
di conoscenza 8 che mostrano di contenere un
sapere straordinario, che va molto al di là di
quanto è stato riportato per iscritto molto tempo dopo?
Continuamente vengono alla luce scoperte
imbarazzanti che, invece di suscitare la curiosità di una scienza rivolta per vocazione alla
verità, vengono subito confutate allorché non
rientrano nello schema universalmente accettato. Non si comportavano forse così anche le
varie inquisizioni da cui quella stessa scienza
si è faticosamente emancipata?
In verità, non ho la minima intenzione di polemizzare. Sono convinto che la scienza attuale, alla base, sia mossa da sincera sete di
conoscenza.
8. Per esempio lo Yoga, il Tantra, e molte pratiche
collegate al Taoismo cinese.
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Semmai, trovo che il metodo sempre più
specialistico e parcellizzante impoverisca non
poco di quella visione d’insieme, così preziosa nella necessità di comprendere una realtà
tanto complessa.
Ieri come oggi, nell’uomo c’è sempre stato alla base il desiderio di comprendere (è una
peculiarità della coscienza) e l’approccio razionale e materialistico moderno non è che
una forma di questa ricerca.
Anche nel passato la spinta è sempre stata
quella a “capire”, ma gli strumenti erano più
istintivi e la forma assunta era quella del mito
e della simbologia, decifrabile solo agli iniziati. Esattamente con lo stesso procedimento
“iniziatico” che permette oggi a un ingegnere
informatico di interpretare un complesso algoritmo o a un chimico di decifrare una formula articolata. La “segretezza” è riposta nel
livello di conoscenza, oggi come allora. E l’esperienza di chi, dopo tanto lavoro, è arrivato
a “conoscere” fornisce la garanzia che certe
informazioni non saranno alla portata di “apprendisti stregoni” qualsiasi. La conoscenza
protegge se stessa perché, in quanto tale, sa
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Il possibile e l’impossibile
bene quanto possa costare un uso scriteriato di
strumenti non convenzionali.
Ebbene, prima che la scienza fosse scienza
come noi la intendiamo, la comprensione delle
leggi era chiamata magia. I maghi erano, in sostanza, gli scienziati di un’epoca prescientifica.
Tutto ciò che oggi consideriamo vero –
scientifico – proviene dagli studi dei sapienti
di un tempo. La chimica proviene dall’alchimia, l’astronomia dall’astrologia, la farmaceutica dall’erboristeria, dalla spargiria e dalla
fitoterapia, così come la medicina, la fisica, la
meccanica sono frutto del lavoro di studiosi
che hanno attraversato i secoli, spesso perseguitati come eretici e messi al rogo come servi
del maligno.
La mentalità materialistica di oggi bolla
come “ridicolo” e superstizioso quanto resta
delle antiche vie di ricerca. Dichiara inesistente ciò che non può essere rilevato dagli strumenti e ripetibile come fenomeno. Un atteggiamento che fa un po’ sorridere: con questo
tipo di mentalità, sarebbe ragionevole affermare che l’elettricità non esistesse prima delle
scoperte di Volta: solo quando si è potuto mi30
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surarla e riprodurla la scienza ha potuto accettarla come forma di energia esistente. Prima
non era considerata che “magia” e fenomeno
da baraccone.
Si potrebbe procedere a lungo con tale genere di esempi, ma il punto è che, in realtà,
da sempre l’essere umano cerca risposte ai
fenomeni naturali cui si sente sottomesso. Per
lungo tempo non ha distinto tra accadimenti
interiori ed esteriori, intuendo una fondamentale unità tra tutti i fenomeni. Non si trattava di
confusione o mancanza di metodo scientifico,
ma di una visione figlia di un modo di intendere l’esistenza non separata dai fenomeni. Un
processo di comprensione condotto attraverso
gli strumenti che i ricercatori avevano a disposizione, epoca per epoca, e secondo la cultura
del momento.
Poi, la scienza razionale ha preferito dividere. Ogni evento è stato separato per genere 9
9. Mi chiedo: quanto il nostro modo di pensare è
stato influenzato dalla classificazione dei fenomeni naturali messo in atto a partire dal Settecento?
O ancora – molto tempo prima – dal principio di
non-contraddizione della logica aristotelica?
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e tutto ciò che non risultava misurabile e ripetibile è stato estromesso e catalogato sotto la
voce “credulità” o “superstizione”.
Solo da non molto, la fisica, avanguardia di
una nuova scienza, cerca una spiegazione unificatrice di tutte le grandi forze che governano
l’universo (Teoria del Tutto). Cioè esattamente
quello che già cercavano gli alchimisti e i maghi del passato.
Prima di procedere, vorrei quindi sottolineare
un concetto che ritengo importante.
Ognuno di noi è convinto che il pensiero umano sia univoco, ovvero che il modo di pensare dell’essere umano sia sempre stato così
come si manifesta oggi.
Ciò non è esatto. Per quanto i processi logici seguano meccaniche universali, il pensiero è in gran parte influenzato da fattori culturali, profondamente mutati nei milioni di anni
di evoluzione umana.
Ciò che noi siamo oggi – e il nostro modo
di “pensare” e intendere la realtà –, l’abbiamo
già detto, corrisponde solo a un piccolo punto
nel lungo percorso compiuto. È certamente
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Un piccolo punto
una conseguenza del passato, ma mostra caratteristiche peculiari che non sono la verità,
ma solo un modo di interpretarla. Sicuramente
sofisticato e storicamente vincente, ma soltanto un modo. Dobbiamo esserne consapevoli
se vogliamo davvero progredire e non cadere
nuovamente in dogmi rischiosi e stantii.
Lo studio del passato e l’esame di tutte le
possibilità di indagine – anche quelle considerate superate – può aiutarci a migliorare la
nostra visione di insieme e a prendere in considerazione metodi e approcci che forse sono
stati abbandonati troppo frettolosamente. Il
pregiudizio non è certo un buon consigliere
sulla via della conoscenza.
Personalmente, per esempio, mi affido più
volentieri a un medico che, oltre a una ferrata
preparazione clinica, non disdegna di studiare
approfonditamente approcci “non convenzionali” come l’omeopatia, l’agopuntura o l’ayurveda. Se non altro avrà una mente più aperta e
potrà escludere l’efficacia di questo o quello a
ragion veduta.
Allo stesso modo, uno psicologo ben preparato in filosofia – cioè conoscitore del “mo33
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do” di pensare – o, meglio ancora, esperto di
tecniche mentali provenienti da molte tradizioni di formazione non occidentale, potrà
meglio studiare i processi psichici, e collegare
metodiche moderne con la preziosa ricchezza
di una sperimentazione millenaria.
La stessa cosa vale per i fisici, pronti oggi
a scoperte che vanno oltre la concezione dello
spazio-tempo convenzionale, o per i chimici,
ancora terribilmente distanti dalle implicazioni
sottili degli elementi. Quanto agli informatici,
possiamo anche accettare i danni che stanno
facendo, dovuti in gran parte alla ancor breve
storia della materia. Miglioreranno anche loro,
non me ne vogliano.
La conoscenza non è un punto da raggiungere, ma un modo sincero di guardare alla verità delle cose. Che è già qui, davanti a noi, e
soltanto da “svelare”.
La verità è la realtà, così com’è, e non mediata dal pensiero e dall’interpretazione.
Naturalmente non è affatto semplice riuscire a esimersi dalla tendenza a interpretare,
altrimenti vivremmo serenamente da tempo in
un mondo popolato di saggi. Ma è senz’altro
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possibile arrivarci, e la sincerità di intenti delinea la strada maestra.
In fondo, la conoscenza è solo la vecchia,
indomita, difficile lotta all’ignoranza, il vero
“demonio” che dobbiamo temere. Non un’entità al di fuori di noi, ma il rischio concreto di
perdere la nostra aspirazione al vero.
«Ritengo che la cosa più misericordiosa
al mondo sia l’incapacità della mente umana a mettere in correlazione tutti i suoi
contenuti. Viviamo su una placida isola di
ignoranza nel mezzo del nero mare dell’infinito, e non era destino che navigassimo
lontano. Le scienze, ciascuna tesa nella
propria direzione, ci hanno finora nuociuto
ben poco; ma, un giorno, la connessione
di conoscenze disgiunte aprirà visioni talmente terrificanti della realtà, e della nostra
spaventosa posizione in essa che, o diventeremo pazzi per la rivelazione, o fuggiremo dalla luce mortale nella pace e nella
sicurezza di un nuovo Medioevo».
H. P. Lovecraft, Il richiamo di Cthulhu
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