Corriere di Taranto

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Le notizie del giorno
Concorso Anpi, vince De Sinno
29 aprile 2015 Attualità
Lo studente del liceo "Archita" si è classificato primo nel bando “Taranto 25 aprile 1945-25 aprile
2015” e insieme al secondo e terzo classificato parteciperà ad una visita istituzionale a Roma il
prossimo ottobre
Andrea De Sinno è lo studente vincitore del concorso “Taranto 25 aprile 1945-25 aprile 2015”.
L’alunno del liceo “Archita” si è classificato primo nell’iniziativa promossa dall’Associazione
Nazionale Partigiani d’Italia Taranto. Al secondo e terzo posto si sono classificati Cristian Vernile del
“Battaglini” e Martina Loberto del “Pitagora”.
De Sinno, Vernile e Loberto parteciperanno alla visita istituzionale a Roma che l’Anpi Taranto
organizzerà nel mese di ottobre. Al concorso hanno partecipato studenti dell’Archita, Battaglini,
Ferraris, Pitagora, Quinto Ennio, con la collaborazione dei docenti Gisa Villani, Loredana Flore, Giulia
Cannarile, Angela Vinci. Gli elaborati studenteschi sono stati vagliati dai professori Nino Palma,
Maddalena Renzulli, Salvatore Aloisio e Gianfranco Esposito.
Giovanni Battafarano, presidente dell’Anpi Taranto, ha commentato: “È stata una bella
esperienza. Gli studenti si sono cimentati con serietà su una vicenda cruciale della nostra storia
recente, con la volontà di conoscere e capire. Voglio ringraziarli insieme con i loro docenti per
questa bella prova di impegno culturale e civile. Un plauso uguale – conclude – agli studiosi che
hanno animato la tavola rotonda Salvatore Romeo, Pino Stea, Roberto Nistri, Riccardo Pagano”.
Taranto 1945-2015:
la storia di una realtà economica “fuori di chiave”
Il nome
della città di Taranto entra a far parte dell’immaginario letterario sia con racconti
leggendari che la legano ai nomi di Falanto, suo fondatore come unica colonia spartana o Taras,
raffigurato nello stemma cittadino sul dorso di un delfino; sia con racconti storici che la presentano, in epoca antica, come una delle città più potenti ed influenti della Magna Grecia insieme a
Siracusa, Crotone, Sibari e Metaponto e, oggi, a distanza di ben oltre due millenni e mezzo dalla sua
fondazione, come la città dei due mari e dei tre ponti ma anche dei mille problemi, la città della
Marina Militare e dello stabilimento siderurgico più grande d'Europa, la città della diossina e delle
morti bianche. Celebrata per la purezza delle acque del fiume Galeso e la ricchezza dei luoghi
circostanti dal poeta classico Virgilio come dal poeta moderno Giovanni Pascoli, la città ionica
subisce, nel secondo dopoguerra, la stessa trasformazione di altre realtà urbane in “steel city” (città
di acciaio). I risultati di questa trasformazione saranno così estremi da far meritare alla città
l’appellativo di “poisonville” (città dei veleni), nel libro “Terroni” di Giancarlo De Cataldo; ma
anche da far mobilitare un gruppo di associazioni per la prima marcia contro l’inquinamento (29
novembre 2008) e un team di medici, specie pediatri, a difesa della tutela della salute dei bambini.
Il primo evento che trasforma il volto della città risale già al 1889, quando fu inaugurato l’Arsenale
Militare, dopo circa sei anni di lavori, alla presenza del re Umberto I. Fu Cataldo Nitti, all’epoca
Presidente del Consiglio Provinciale di terra d’Otranto a riprendere il progetto napoleonico di un
insediamento navale a Taranto, affidandosi, in generale, al positivo andamento economico della
nazione e agli strategici investimenti nel settore navale e meccanico e, in particolare, alla posizione
geografica della città come porta della penisola tra due continenti, l’Europa e l’Asia.
Tutta la popolazione partecipò con gioia all’avvenimento e solo i pescatori e i mitilicoltori si
opposero alla costruzione dell’Arsenale, preoccupati che le loro attività fossero messe in pericolo,
come in effetti lo0 sarebbero state, dall’occupazione dello specchio di mare antistante la spiaggia di
S. Lucia in Mar Piccolo.
Parallelamente proseguirono gli studi per la costruzione di un ponte girevole che collegasse il borgo
alla città, ma anche che permettesse alle grosse navi di passare. Per questi motivi furono esaminati e
studiati i progetti di quanto già fatto a Brest, a Marsiglia e a Londra.
Nel giro di pochi decenni, dall’insediamento dell’Arsenale alla esecuzione di opere della Marina, la
città di Taranto subì una vera e propria rivoluzione sotto il profilo urbanistico, demografico,
culturale, sociale ed economico. Vennero espropriati numerosi chilometri di spiaggia per i bisogni
del cantiere e per quelli della altre costruzioni marittime, vennero espropriate e abbattute le antiche
ville che coronavano le rive del Mar Piccolo con successive opere di disboscamento; fu abbattuta,
inoltre, per la costruzione del ponte girevole, la parte nord-orientale del Castello Aragonese.
Naturalmente non mancò di verificarsi
un rapido processo di inurbamento con conseguente
trasformazione della struttura occupazionale, per un esponenziale aumento della popolazione attiva
nell’industria, con conseguente riduzione della popolazione dedita alla pesca e della manodopera
femminile dedita alle tradizionali attività tessili.
Alle trasformazioni economiche corrispose un rinnovamento socio-culturale, con la nascita di
numerose testate giornalistiche locali, lo sviluppo dell’associazionismo, di circoli sportivi e
culturali, nonché l’aumento del numero di scuole elementari. Nel 1913 fu istituita pure la prima
scuola di allievi operai, destinata non solo all’Arsenale, ma anche alle aziende navalmeccaniche e
alla futura Italsider.
Nel 1914 la struttura industriale della città viene ulteriormente rafforzata dall’installazione dei
Cantieri Tosi, nati sull’onda della prospettiva bellica colonialista. Durante la prima guerra
mondiale, il Mar Piccolo ospitò la flotta da guerra italiana ed alcuni unità inglesi di sostegno, tale da
comportare una continua attività lavorativa dell’Arsenale fino al 1918 e una continua migrazione
verso la città di militari, operai e tecnici specializzati. Alla posizione centrale del ceto operaio nella
vita economica della città in guerra corrispose, al contrario, come in tante altre città, la crisi delle
classi medie a reddito fisso, le cui attività erano rimaste estranee alla produzione bellica.
Ristabilita la pace e terminato il periodo di commesse militari, il settore navalmeccanico attraversò
un momento molto delicato finché, negli anni trenta, il regime fascista intraprese una nuova politica
di espansione militare, realizzando ampliamenti al corpo dell’Arsenale, che assunse la fisionomia
definitiva. La città diventa capoluogo di Provincia e viene sottoposta ad una serie di lavori per ospitare gli
uffici della Provincia, della Prefettura e della Questura. A partire dal ’34, per effetto del piano di
“risanamento” avviato dal regime per tutta la parte bassa della città vecchia, un intero quartiere, dalla
discesa Vasto alla chiesa di S. Giuseppe, quello di Torrepenna, che ospitava gran parte della comunità dei
pescatori tarantini, fu abbattuto con i suoi vicoli, per far posto ai casermoni popolari.
Nel 1940, nel corso del secondo conflitto mondiale, Taranto veniva bombardata dalla Royal Air
Force inglese con l’obiettivo di distruggere l’Arsenale. Questo raid, invece, fu responsabile della
distruzione di alcune aree del Borgo.
La costruzione dell’Arsenale, se da un lato aveva portato benessere economico e aumento
demografico per effetto di un fenomeno di immigrazione dalle altre province pugliesi, dall’altro,
sfrattò l’ostricoltura e la mitilicoltura dal primo seno del mar Piccolo, sostituendo le “sciaje”, i
giardini del mare, con il cemento delle banchine.
Oggi le Sciaje sono una associazione che, in sinergia con altre associazioni o Enti, si preoccupa di
sviluppare un percorso di sviluppo eco-compatibile della nostra città, per salvare il mar Piccolo di
Taranto, nonché di recuperare la tarentinità nel suo rapporto col mare, una tarentinità che risulta
alquanto “residuale” per Roberto Nistri, che alla sua città ha dedicato sia la direzione della rivista
“Galeso” che vari libri-saggio. A lui si deve un quadro della città alquanto sconcertante, visto che
non è riuscita a proteggere la cultura degli ulivi contro la minaccia degli altiforni.
Riprendendo l’excursus storico di Taranto, con la fine del secondo conflitto bellico le commesse
militari terminarono e l’Arsenale e tutta la sua industria navalmeccanica attraversarono una seconda
profonda crisi. Il sistema delle piccole officine connesse all’Arsenale, che aveva operato fuori ogni
logica di mercato anche attraverso i canali clientelari del subappalto, dopo aver raggiunto la
massima capacità occupazionale nel corso della guerra, già nel 1949 manifestava una contrazione
del sessanta per cento.
Di lì a poco, nell’ambito delle politiche di rilancio per il Mezzogiorno di Italia, la città viene
individuata come una delle sedi per l’insediamento di nuovi poli industriali in Puglia insieme a Bari
e Brindisi. Quella che però sarebbe potuta essere un’occasione per valorizzare la città ionica come
grande realtà del Sud, non ha fatto altro che portare alle estreme conseguenze l’idea di una
economia basata sul profitto piuttosto che sulla qualità della vita, con la messa in opera di una mega
area industriale che ha garantito sì lavoro a migliaia di cittadini tarantini e pugliesi, ma si è resa
colpevole di grossi danni alla salute e all’ambiente.
Il 9 luglio 1960 fu posta la prima pietra del siderurgico Italsider alla presenza di autorità civili,
militari e religiose. Per far posto all’acciaieria, erano state individuate tre aree in prossimità delle
maggiori arterie stradali, ferroviarie e marittime. Poco importava se fossero rispettate le norme del
piano regolatore o se dovessero essere abbattuti oltre quarantamila ulivi secolari. A tacere le
coscienze bastarono buoni indennizzi a favore dei proprietari terrieri e opportunità di ricchezza nel
presente, lasciando in eredità alle successive generazioni la consapevolezza che “se davvero credi
che l'ambiente sia meno importante dell'economia, prova a trattenere il fiato mentre conti i tuoi
soldi”, per citare una massima di Guy Mc Pherson, docente e scienziato dell’Arizona.
Taranto, città povera, città di pescatori e mezzadri, città dell’Arsenale Militare e dei Cantieri Navali
Tosi, città di analfabeti e disoccupati (oltre ventiseimila nel 1959), città di emigranti, vide nella
grande industria una tangibile rampa di lancio. Nel ‘61 entrò in funzione il tubificio.
La drammatica parabola dell’Ilva (nome assunto negli anni ottanta dall’Italsider), del più grande
impianto siderurgico italiano, ma anche della macchina dispensatrice di diossina, potrebbe essere
riassunta, paradossalmente, all’interno di una
dichiarazione rilasciata poco prima del 2010
dall’allora Capo dello Stato Giorgio Napolitano a studenti di Taranto in un incontro al Quirinale;
una dichiarazione con cui ammetteva che per tanto tempo il problema principale era stato quello di
creare posti di lavoro, specialmente nel Mezzogiorno d’Italia, per cui sembrava indispensabile
costruire fabbriche, fino a sostenere delle battaglie in prima persona perché si costruisse il grande
impianto siderurgico a Taranto. Solo l’esperienza avrebbe dato torto all’idea del lavoro ad ogni
costo. Infatti qualche anno prima di questa dichiarazione le prime inchieste della magistratura
tarantina avevano evidenziato come la forte capacità dell’Ilva di realizzare utili era stata possibile
solo a scapito della sicurezza, della salute dei lavoratori e della tutela ambientale.
Prima di arrivare a questi esiti, l’ambiente tarantino ha dovuto subire gli effetti di una logica di
mercato sempre più spietata, se si pensa che negli anni sessanta l’impianto siderurgico diventa lo
stabilimento a più alta capacità produttiva d’Italia e che, in aree adiacenti all’acciaieria, entra in
funzione la raffineria Eni, su una superficie di duecentosettanta ettari.
All’inizio degli anni ’70, la già considerevole capacità produttiva dello stabilimento siderurgico
(quattro milioni e mezzo di tonnellate l’anno) viene
raddoppiata per decisione dell’IRI.
All’espansione dello stabilimento corrispondono, naturalmente, profondi stravolgimenti urbanistici
nella città e nel porto. I tanti operai impiegati nei lavori d’ampliamento dello stabilimento
siderurgico, a metà degli anni ‘70, vengono assunti nell’acciaieria Italsider.
Gli occupati nell’Italsider di Taranto, a metà degli anni ‘70, raggiungono la quota di
venticinquemila addetti mentre, nell’indotto, gli occupati sono più di quattordicimila.
Nella metà degli anni ‘80 una fortissima crisi siderurgica investe l’Europa. I conseguenti tagli alla
capacità produttiva provocano una riduzione del trenta per cento dei livelli occupazionali in tutti i
paesi membri della Comunità europea.
Anche a Taranto si affrontano i primi esuberi occupazionali utilizzando la cassa integrazione e i
prepensionamenti.
Nel 1987 si costituisce una nuova società e l’Italsider assume il nome di Ilva. Agli inizi degli anni
‘90 una nuova forte flessione del mercato dell’acciaio riporta in crisi il gruppo e, questa volta, la
Comunità Europea richiede la completa privatizzazione del gruppo: nel 1995 la famiglia Riva
acquista l’ILVA per circa millequattrocentosessanta miliardi di lire (circa settecentocinquanta
milioni di euro). Negli anni successivi una ristrutturazione interna porterà ad una riduzione dei
dipendenti, che scenderà a dodicimila e ad un forte turnover della manodopera con contratti di
formazione lavoro a due anni. Nel primo anno di attività del gruppo Riva, gli utili raggiungono la
cifra di seicento miliardi di lire, ma saranno destinati a salire, anche se in modo non poco
discutibile.
In particolare,
proprio quando, a partire dal 2002,
le inchieste della magistratura sull’alto
inquinamento a Genova porteranno alla chiusura delle cokerie Ilva per il loro impatto sulla salute,
le produzioni dell’area a caldo di quello stabilimento vengono trasferite paradossalmente a Taranto.
Nel 2006 la capacità produttiva dello stabilimento Ilva di Taranto raggiungerà il record storico di
quattordici milioni di tonnellate e, nel 2007, il gruppo realizzerà un utile di novecento milioni di
euro. Ma già, si fa per dire, nel 2005 viene emessa la prima condanna per inquinamento nei
confronti dei dirigenti Ilva e di Emilio Riva.
Diversi sono stati i processi per morti avvenute sui luoghi di lavoro. Nel 2009, per ordine della
Regione Puglia, furono abbattuti quasi duemila capi di bestiame perché contaminati dalla diossina.
E se nuove tecnologie avrebbero permesso di ridurre nel 2011 l’emissione annuale di diossine dagli
oltre cinquecento ai meno di dieci grammi TEQ (unità di misura grammi/anno), sarebbe stato
comunque tardi per evitare il verdetto di Arpa e Asl: divieto di allevamenti e pascolo nelle aree a
venti chilometri dallo stabilimento siderurgico.
Nel 2014 arriva la condanna per omicidio colposo nei confronti di ventisette imputati, molti dei
quali dirigenti Ilva, per le morti tra gli operai causate dall’esposizione ad amianto.
Alla fine di questo bilancio viene da chiedersi se la politica industriale, anche quando privata, possa
interamente basarsi sul raggiungimento del profitto, prescindendo dalle questioni ambientali.
C’è una nazione, l’Irlanda, che ha deciso di affrontare la crisi non solo con il piano di salvataggio
speciale disposto dal Fondo Monetario Internazionale: popolazione e Governo hanno deciso, infatti,
di operare attivamente e di comune accordo, basando la propria strategia sull’utilizzo delle energie
rinnovabili. Poi c’è un’altra nazione, l’Austria, che ha voluto continuare il proprio “cammino
siderurgico”, a condizioni differenti. A Linz, terza città austriaca per popolazione, c’è un’industria.
Linz, trent’anni fa, era proprio come Taranto. Negli anni ottanta i cittadini decidono di riprendersi il
loro diritto alla salute e Linz diventa teatro di proteste e manifestazioni. La politica li ascolta e
l’obiettivo del sindaco dell’epoca è far diventare Linz la città più pulita del paese. Vengono varati
dei pacchetti di misura antinquinamento e, dopo vent’anni di applicazione delle leggi e controlli
sulle emissioni, l’aria di Linz è pulita. I punti di forza dello stabilimento austriaco sono l’utilizzo
delle migliori tecniche produttive disponibili e una politica aziendale incentrata sulla salute e la
sicurezza dei propri addetti.
E’ triste pensare che in un mondo globale manchi ancora in molte realtà urbane, come la nostra, il
dialogo fra gli interlocutori più vicini, la politica e il cittadino. Al di là di ogni disfattismo, non
bisogna dimenticare l’ipotesi di una nuova candidatura di Taranto a città europea della cultura.
Valorizziamo, perciò, anche ai fini turistici, ciò che di incontaminato, a pochi chilometri dal mostro
siderurgico, lungo il secondo seno del mar Piccolo, tra l’oasi della Vela e il Convento del 1597 dei
Battendieri, ci offre una Natura semplice e preziosa, fatta di aironi cenerini, fenicotteri e cavalieri
d’Italia; come di ulivi, piante sempreverdi o vitigni e fichi. Una natura che insegna a conoscere
meglio la nostra città per amarla.
Martina Loberto – 5L ITES Polo Commerciale “Pitagora”