Edvige Costanzo - Lend - Lingua e Nuova Didattica

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Edvige Costanzo - Lend - Lingua e Nuova Didattica
© LEND 2011. Calzetti M.T., Panzeri Donaggio L. (a cura di), Educare alla scrittura
CREATIVITÀ’ E SCRITTURA IN LINGUA STRANIERA:
PROCESSI E PRODOTTI
Edvige Costanzo
Développez votre étrangeté légitime.
R. Char
Tempo fa, dovendo trattare di «creatività e scrittura», ritenemmo opportuno
iniziare con una piccola incursione nell’esistente scolastico per verificare il
senso che queste due parole assumono, insieme o indipendentemente,
nell’insegnamento della lingua straniera.
A distanza di qualche anno non possiamo che ribadire la triste sorte di questi
due termini. Il primo, infatti, continua a essere confuso con una produzione
libera non meglio definita, mentre per il secondo, appena risolti o ritenuti tali i
problemi di trascrizione del nuovo codice, si tende a riproporre gli stessi tipi di
«scrittura» presenti nella tradizione scolastica dell’insegnamento dell’italiano,
con l’unico risultato di demotivare progressivamente alunni già annoiati da una
pletora di riassunti, temi e commenti che spesso finiscono con l’accomunare in
una specie di «ipertesto» diverso solo contenutisticamente. Gli stessi
programmi ministeriali infine non sembrano amare molto la parola «creatività»
se si accontentano di definirla come un generico «sviluppo delle capacità
espressivo-creative» (si vedano i programmi di italiano della scuola media
inferiore) ignorandola totalmente quando si parla della lingua straniera per cui
si prevedono, come produzione scritta, dialoghi (sic!), lettere, riassunti, ma ci si
guarda bene dal segnalare la sola possibilità di attivare, attraverso forme di
scrittura creativa, quel piacere del testo che appare sempre più confinato a dotte
bibliografie su Roland Barthes.
Eppure la letteratura in materia di creatività è ormai abbondante e se la
psicologia ci permette di indagare meglio il processo, la pedagogia stessa è da
tempo interessata al fenomeno e i laboratori di «scrittura creativa», prassi
diffusa nel mondo anglosassone, cominciano a essere presenti anche nella
nostra realtà scolastica a dimostrazione che, come diceva Queneau, «c’est en
écrivant qu’on devient écriveron».
È quanto cercheremo di mettere in evidenza in questo contributo, precisando
quali sono i principi psicologici cui facciamo riferimento nel parlare di
«processo creativo» e di «scrittura», proponendo un repertorio di pratiche di
scrittura creativa essenzialmente basate sull’attivazione della funzione ludica
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del linguaggio possibili sia in italiano sia in lingua straniera, per concludere
infine con una riflessione sul tipo di pedagogia più adatta a queste pratiche.
1. SCRITTURA E LINGUA STRANIERA NELLA PSICOLOGIA COGNITIVA: PERCHÉ VYGOTSKIJ
Contemporaneamente al grande boom dell’approccio comunicativo
nell’insegnamento delle lingue straniere, o forse, conseguentemente a questo,
alla fine degli anni settanta ci si comincia a interessare in modo più preciso
della creatività anche in questo settore. È infatti di quest’epoca il magistrale, e
per certi versi ancora insuperato, libriccino Jeu, langage et créativité in cui
Debyser esamina il problema sotto diverse angolature raccogliendo una somma
preziosa di informazioni e di suggerimenti per chiunque voglia, secondo le sue
stesse parole, «fare saltare il meccanismo strappando quell’ultimo velo
neoclassico del linguaggio che è la funzione poetica per fare apparire nella sua
nudità un po’ cruda la FUNZIONE PIACERE» (Caré e Debyser, 1978, p. 6).
Lo stesso però, prima di mostrare come «faire sauter la machine», si
sofferma su alcuni dei significati che la parola «creatività» può assumere in
psicologia, linguistica e pedagogia.
Per la prima, il riferimento proposto è la psicologia americana, e
precisamente i lavori di Guilford e Torrance perché, secondo Debyser (ivi, p.
117):
hanno preferito studiarla empiricamente nelle azioni e nelle attività
creative dove è sembrato loro che fattori come la fluidità e la
flessibilità di spirito, l'originalità e l'attitudine a destrutturare e a
ristrutturare rapidamente i dati dell'esperienza, le immagini, i concetti,
le forme e i sistemi, hanno un ruolo determinante.
Se è sicuramente vero che l’interesse per la creatività è aumentato
considerevolmente a seguito della pubblicazione dei lavori dei due americani
negli anni cinquanta e sessanta e che dai loro lavori sono derivate applicazioni
efficientistiche nei settori più disparati, dalla ricerca industriale alla pubblicità,
è vero anche però che la psicologia cognitiva, tramite i lavori di Vygotskij,
aveva già abbondantemente esplorato il pianeta creatività fin dagli anni venti e
trenta.
Il richiamo al grande psicologo russo, che assumiamo come punto di
riferimento della nostra riflessione, lungi dall’essere il banale riconoscimento
di una primogenitura cronologica, ininteressante nel contesto che ci riguarda,
serve a rivendicare anche in questo settore la validità dei concetti seguenti:
- il peso sociale che Vygotskij, a differenza degli americani e dello stesso
Piaget, attribuisce a quell’esperienza che in vario modo tutti i cognitivisti
riconoscono essere alla base dell'acquisizione del linguaggio;
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- l’individuazione della «zona di sviluppo prossimo (o prossimale) 1» che, di
importanza strategica in ogni settore della pedagogia, è decisiva anche in un
insegnamento/apprendimento della creatività sia per la lingua madre sia per
le lingue straniere;
- le considerazioni sulla scrittura come «discorso-monologo, lingua
concettualizzata, conversazione con il foglio bianco [...] con un interlocutore
immaginario» (Vygotskij, 1990, p. 258) e sull’apprendimento della lingua
straniera come processi in parte simili perché implicanti un’intenzione e una
realizzazione coscienti.
1.1. Creatività e/è esperienza
Postulando 1’origine sociale, esterna, del pensiero, Vygotskij attribuisce al
linguaggio la funzione di strumento nello sviluppo delle capacità cognitive
individuali, per cui ciò che si acquisisce non è il linguaggio come sistema
autonomo, ma l’interazione tra le caratteristiche del sistema linguistico di cui si
dispone e le caratteristiche del funzionamento dello stesso utilizzato per
conoscere, comunicare, agire.
In questa «relazione sociale o interazione sociale» (Vygotskij, 1990, p. XIX)
va collocata anche la creatività, il «pensiero divergente» delle varie
tassonomie, definita semplicemente da Vygotskij come «qualunque attività
umana che produca qualcosa di nuovo, sia poi questo prodotto un oggetto del
mondo esterno o una certa costruzione dell’intelligenza o del sentimento»
(1986, p. 19) e quindi immediatamente distinta dall’altra importantissima
attività che chiama «riproduttrice» perché legata all’esperienza anteriore
unicamente in senso conservatore e reiterativo.
L’attività creativa, fondata invece sulle facoltà combinatorie del cervello, è
quella che solitamente viene designata come «immaginazione» e che, come
ricorda Vygotskij, è alla base di tutto quanto ci circonda perché «tutto il mondo
della cultura è per intero, rispetto a quello della natura, un prodotto
dell’mmaginazione umana e della creatività che su questa si fonda» (1986, p.
22). Lungi dall’essere quindi patrimonio di pochi eletti qualificandosi come
eccezione, la creatività esiste in chiunque riesca solo a modificare 1’esistente
sulla base dell’esperienza acquisita e diventa regola e condizione
indispensabile dell’esistenza quotidiana.
Come l’immaginazione si rapporti alla realtà è problema che Vygotskij
risolve distinguendo quattro forme di rapporto che obbediscono a loro volta a
leggi precise.
La prima di queste forme scaturisce dal fatto che ogni prodotto
dell’immaginazione è composto di elementi presi dalla realtà e già presenti
nell’esperienza passata dell’individuo. Da qui la prima legge sulla creatività
1
Vygotskij 1990. L’«Introduzione», nel capitolo «Edizioni e traduzioni», comprende il
«Lessico vygotskijano» in cui è spiegato il perché di determinate scelte terminologiche.
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che Vygotskij formula così: «l’attività creatrice dell’immaginazione è in diretta
dipendenza dalla ricchezza e varietà della precedente esperienza dell’individuo,
per il fatto che questa esperienza è quella che fornisce il materiale di cui si
compongono le costruzioni della fantasia» (1986, p. 29) con la conseguenza
esemplificativa che, se a maggiore esperienza corrisponde materiale più
abbondante per l’immaginazione, nel bambino, contrariamente ai luoghi
comuni esistenti, quest’ultima è più povera che nell’adulto.
La seconda forma di rapporto immaginazione-realtà è più complessa perché
riguarda la relazione tra il prodotto della prima e un fenomeno complesso della
seconda ed è quella che permette a ciascuno di noi, ad esempio, di immaginare
il quadro di un evento storico senza averlo mai vissuto, ma basandoci solo su
studi o ricerche fatte da altri che ne consentono la rappresentazione. Anche per
questa seconda forma vale la prima legge enunciata, poiché l’esperienza resta
comunque alla base dell’immaginazione, ma questa volta il rapporto è reso
possibile solo dall’esperienza sociale, nella fattispecie dagli studi che altri
avranno fatto sull’argomento per permetterci, attraverso la loro conoscenza, la
ricostruzione dell’evento in questione.
La terza forma di rapporto immaginazione-realtà è quella che Vygotskij
chiama emozionale e in cui distingue due aspetti. Il primo permette di
verificare come le emozioni o i sentimenti abbiano tendenza a produrre
immagini a essi corrispondenti secondo la «legge della duplice espressione dei
sentimenti», per cui, accanto alle reazioni fisiche che, ad esempio, la collera
può suscitare in noi in un determinato momento, bisogna collocare anche i
pensieri che nello stesso momento ci attraversano la mente. Gli stessi, in
seguito, potranno, a loro volta, tradursi in immagini secondo un’altra legge
detta «del segno emozionale comune» che sottolinea come le immagini capaci
di produrre reazioni emozionali affini tendano a riunirsi, nel processo
combinatorio dell'attività creatrice, anche se eterogenee: un caso privilegiato è
rappresentato dai sogni.
Il secondo aspetto del rapporto emozionale ribalta i termini attribuendo
all’immaginazione la possibilità di influire sui sentimenti secondo quella che
Vygotskij chiama la «legge della realtà dell’immaginazione» e che ci permette,
ad esempio, di provare una sensazione di paura al solo sentire un rumore che,
nella nostra immaginazione, è identificato con un evento negativo: si possono
così spiegare fenomeni come la cosiddetta sindrome di Stendhal, per cui le
aspettative su un’opera d’arte create dall’immaginazione e la violenza
emozionale provocata dalla realtà dell’opera stessa si traducono in un vero e
proprio stato di malessere fisico.
La quarta forma che riveste il rapporto immaginazione-realtà è, secondo
Vygotskij, la naturale sintesi delle altre.
L’immaginazione, grazie a quanto detto, può costruire infatti qualcosa di
totalmente nuovo rispetto all’esistente, ma «questa immaginazione
cristallizzata, divenuta una cosa tra le altre, incomincia realmente a sussistere
nel mondo e ad agire sulle altre cose diventando a sua volta realtà» (Vygotskij,
1986, p. 37). Si spiega in questo modo come certi personaggi di romanzi, nati
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da elementi della realtà, si combinino tra loro secondo una logica che
appartiene alla stessa immagine, cominciando quasi a vivere di vita propria. E
Dostoevskij spiega così la nascita di Stavrogin, il protagonista dei Demoni:
All’inizio, e cioè alla fine dell’anno scorso, consideravo questo
romanzo con una certa baldanzosa sicurezza, come una cosa ormai
pronta e fatta, che non mi sarebbe più costata sforzi e tormenti [...].
Quindi in estate si è verificato un altro cambiamento: si è fatto avanti
un nuovo personaggio che avanzava la pretesa di essere lui il vero
protagonista del romanzo, cosicché il precedente protagonista si è
ritirato in secondo piano. Questo nuovo protagonista mi ha talmente
affascinato che ho cominciato un’altra volta a riscrivere il romanzo.
(Dostoevskij,1991, p. 121.)
1.2. Il «sistema di apprendimento funzionale» e la «zona di sviluppo prossimo»
Per Vygotskij lo sviluppo non è solo una lenta accumulazione di trasformazioni
unitarie, ma, come scrive egli stesso (1980, p. 111):
un complesso processo dialettico, caratterizzato dalla periodicità, dalle
irregolarità nello sviluppo delle diverse funzioni, dalla metamorfosi o
trasformazione qualitativa di una forma in un’altra, dall’intrecciarsi di
fattori esterni e interni e processi di adattamento.
La necessità di ribadire l’unità dialettica e quindi la costante interazione dei
due piani, quello biologico e quello culturale, lo spinge a formulare il concetto
chiave di «sistema di apprendimento funzionale» il cui principio di
trasformazione è determinato da un processo di trattamento dell’informazione
che, con bella metafora, definisce «nutrizionale» per la facoltà che ha, come il
corpo in crescita, di «digerire» o rifiutare, in qualunque momento, i principi
nutritivi.
In questo contesto il linguaggio occupa una posizione privilegiata come
esempio dell’uso di segni che, una volta interiorizzato, diventa parte integrante
dei processi psicologici superiori permettendo di unificare aspetti diversi del
comportamento quali la percezione, la memoria, il problem solving. Pensiero e
linguaggio si incontrano così non come identità, ma come «intersecazione di
due linee diverse, dopo di che il pensiero diventa verbale e il linguaggio
diventa intellettivo» (Vygotskij, 1990, p. 112).
Benché il sistema di apprendimento funzionale postulato da Vygotskij non
comporti nessuna «età evolutiva» a cui applicarlo in modo privilegiato, le
principali implicazioni educative che ne derivano, tra cui l’identificazione della
famosa «zona di sviluppo prossimo», vengono fuori dall’osservazione dei
bambini e, nella fattispecie, di quell’universo particolare che è il gioco
infantile.
Quest’ultimo, secondo Vygotskij, è un’attività «progettuale» in cui i
bambini, anticipando ruoli e valori futuri della loro cultura, sono in anticipo
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sullo sviluppo reale, soprattutto quando, attraverso le dinamiche
dell’immaginazione e il riconoscimento di regole implicite che governano le
attività riprodotte nei giochi, essi riescono a raggiungere una padronanza
elementare del pensiero astratto.
Allo stesso modo l’istruzione scolastica è in anticipo sullo sviluppo
cognitivo del bambino perché, come nel gioco, essa crea una «zona di sviluppo
prossimo» definita come «la distanza tra l’effettivo livello di sviluppo in
quanto determinato dal problem solving autonomo e il livello di sviluppo
potenziale così come è determinato attraverso il problem solving sotto la guida
di un adulto o in collaborazione con i propri pari più capaci» (Vygotskij, 1980,
p. 127).
Se la «zona di sviluppo prossimo» così intesa è il denominatore comune di
gioco e scuola, essa diventa automaticamente la migliore giustificazione di una
pedagogia della creatività in tutti i settori dell’apprendimento, ivi compreso
quello della scrittura e delle lingue straniere, altri due settori oggetto di
osservazioni specifiche da parte di Vygotskij.
1.3. Scrittura e lingua straniera
Secondo Vygotskij, una lingua straniera viene assimilata a scuola, anche in
tenera età, in modo completamente diverso da come è assimilata la lingua
materna.
In parte per la presenza di significati delle parole già pronti e
sviluppati, che sono semplicemente tradotti nella lingua straniera,
ossia in parte per il fatto stesso della relativa maturità della lingua
madre, in parte perché una lingua straniera è assimilata in un sistema
completamente diverso di condizioni interne ed esterne, questo
processo di assimilazione di una lingua straniera presenta in tutto lo
sviluppo tratti profondamente diversi da quelli del corso di sviluppo
della lingua madre. (Vygotskij, 1990, p. 219).
Postulare differenze di assimilazione non significa però, nel sistema
vygotskijano, che questi due processi di sviluppo non abbiano tra loro niente in
comune: «in fondo appartengono ad un’unica classe di processi dello sviluppo
verbale a cui, d’altra parte, si accompagna il processo estremamente originale
dello sviluppo del linguaggio scritto» (1990, p. 220). Quest’ultimo, a sua volta,
non ripete nessuno dei procedimenti, ma rappresenta una nuova variante nel
processo di sviluppo della lingua in cui sviluppo della lingua materna e
straniera e sviluppo del linguaggio scritto si trovano in un’interazione
estremamente complessa, a dimostrazione della loro appartenenza a un’unica
classe di processi genetici.
Originale e importante, anche se meno sviluppata, è l’osservazione
sull’influenza della lingua straniera sulla lingua madre a proposito della quale
Vygotskij parte dall’affermazione di Goethe che chi non conosce nessuna
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lingua straniera non conosce la propria lingua. La frase, secondo lo psicologo
russo, è da intendere nel senso della presa di coscienza delle forme della
lingua, dell’uso più consapevole e più volontario della parola come strumento
del pensiero e come espressione del concetto per cui «si può dire che
l’assimilazione di una lingua straniera innalza ad un livello superiore il
linguaggio materno del bambino quanto l’assimilazione dell’algebra innalza ad
un livello superiore il pensiero aritmetico» (1990, p. 221). Questo sarebbe
possibile proprio perché lo sviluppo della lingua straniera non ripete quello
della lingua madre, stante 1’esistenza dell’apprendimento come nuovo fattore
di sviluppo che permette di differenziare lo «sviluppo verbale spontaneo della
lingua madre» da quello «non spontaneo» della lingua straniera.
Le stesse caratteristiche di apprendimento «non spontaneo» sono da
attribuire, secondo Vygotskij, alla scrittura, questo linguaggio senza
interlocutore che è anch'esso un’«algebra del linguaggio» come la lingua
straniera in quanto permette al bambino di «accedere al piano astratto più
elevato del linguaggio, riorganizzando allo stesso tempo il sistema psichico del
linguaggio orale precedentemente formato» (1990, p. 259).
Il linguaggio scritto appare quindi come una vera, nuova funzione psichica
superiore attraverso cui «i bambini scoprono [...] la possibilità di un
simbolismo di secondo grado [...]. La scrittura non denota direttamente gli
oggetti, ma rappresenta il linguaggio parlato» (Schneuwly, 1988).
Da una tale concezione dello scritto, il vygotskijano Schneuwly ricava le
seguenti conseguenze di ordine pedagogico:
- apprendimento precoce della scrittura;
- apprendimento della scrittura in contesti significativi;
- apprendimento non delle lettere, ma del «linguaggio» scritto.
Esse sono valide nella fase che Vygostkij chiama della «preistoria» del
linguaggio scritto e che precede la «storia» individuale. Per quest’ultima,
caratterizzata dal rapporto cosciente e volontario con il linguaggio, con la
situazione, con i risultati del processo di produzione, sembra dunque legittimo
postulare, alla luce dei concetti esaminati, maggiore spazio per pratiche di
scrittura, come quelle creative, che, agendo sulla materialità del segno e sul
significato nel testo, contribuiscono a potenziare la costruzione del linguaggio
scritto, in lingua madre e a maggior ragione in lingua straniera, come facoltà
psichica superiore.
2. I PRODOTTI: ALLA DERIVA CREANDO
Prendiamo in prestito da Malineau 1’espressione «mezzi per dire» (1975, p. 1)
per sottolineare come non intendiamo presentare, attraverso i prodotti di
scrittura creativa su cui ci soffermeremo, un insieme più o meno esteso di
esempi in appoggio a quanto detto, né un repertorio di temi, ma strutture e
tecniche che consentono una scrittura «altra» da quella istituzionale. Passare in
rassegna questi «mezzi per dire» significherà quindi farsi carico, da una parte,
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della motivazione attivando la famosa «funzione piacere» di cui parla Debyser;
dall’altra, dello sviluppo intellettuale mobilitando tutte quelle energie psichiche
spesso lasciate incolte, amputate, da un’istituzione paga di sviluppare
nell’alunno solo le buone qualità riproduttive dell’«impiegato di concetto», se
scrivere bene è ritenuto ancora da molti insegnanti un dono di natura.
2.1. I vantaggi dell’imitazione
Che scrivere bene non sia un dono di natura, residuo immiserito
dell’ispirazione divina di romantica memoria, per cui lo scrittore, maledetto e
incompreso, scrive solo se in preda a grandi passioni, pena l’afasia del foglio
bianco, lo sapevano già gli antichi retori che ponevano come prima tappa della
creazione la tanto vituperata «imitazione».
D’altronde, se la creatività si basa sull’esperienza di sé e degli altri, non vi
può essere scrittura creativa senza un qualche «modello» da cui emanciparsi
progressivamente ed è ancora una volta la tradizione letteraria a suffragare
questa affermazione se consideriamo che, dai capolavori ai romanzi
d’appendice, i testi nascono sempre da altri testi le cui tracce non scompaiono
mai totalmente. Se Borges, Manzoni, Marivaux o Eco si divertono a citare
esplicitamente il fenomeno dell’intertesto parlando, nei loro romanzi, di uomini
che scoprono un testo, esso stesso copiato da un manoscritto, in parte strappato
o ricopiato male e così via, è probabile che giocare a rimpiattino con i testi
possa essere di grande utilità anche in un’aula scolastica.
Sì, dunque, all’imitazione che non sia mimetismo e, se ogni testo ha un suo
modello, più o meno semplice, spesso modello di genere, il gioco consisterà
soprattutto nello «smontare» e «rimontare» testi la cui struttura sarà così
identificata e riutilizzata per ottenere nuovi testi insieme simili e diversi.
Riabilitando questo principio, innumerevoli sono le «derive» creative che, dal
semplice al complesso, si possono ottenere «a partire da... » e, tra i
procedimenti più noti, troviamo in primo piano:
- il plagio, attività osteggiata e punita dalla scuola, ma corrente nel mondo
delle lettere fino all’invenzione dei diritti d’autore di fine Settecento e, a
quanto pare, di moda tra gli artisti anche dopo se, come dimostrato da
Duchesne e Leguay, nella loro Petite fabrique de littérature, già Musset
copiava Carmontelle e, prima di lui, Mozart copiava Bach e Voltaire
Maynard;
- il pastiche, che, con il fine esplicito di imitare quanto più possibile un autore
a partire da un suo testo, si rivela prezioso se, per scrivere come l’autore in
questione, bisogna identificarne i procedimenti stilistici più caratterizzanti e
fare comunque in modo che il prodotto si differenzi dalla semplice copia
visto che il pasticheur è un falsario dichiarato. Anche in questo caso si
rischia di ritrovarsi in compagnia di falsari illustri quali il Proust
«flaubertiano» dell’Affaire Lemoine o La Bruyère che rifà Montaigne;
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- la parodia, che aggiungendo all’imitazione la caricatura, si rivela di estremo
interesse e, anche in questo caso, arte e letteratura abbondano di esempi, dal
Don Chisciotte, parodia di un intero genere letterario, al Déjeuner sur
l’herbe di Picasso dietro il quale si ritrova Manet o a molti film di Totò che
puntualmente hanno fatto il verso alle varie «mode» cinematografiche (Totò
contro Maciste, Totò le Moko, ecc.).
2.2. Le possibilità dell’adattamento
Alle «derive» da imitazione non possiamo non aggiungere quelle da
«adattamento», altra fonte di «ispirazione» massicciamente utilizzata anche da
quegli stessi romantici cui si deve il succitato mito dell’originalità dello
scrittore quando hanno riscritto, adattandoli, racconti orali e canti secondo una
tradizione che già contava nomi quali Perrault o Andersen. E all’adattamento
va attribuita anche la riscrittura di un testo in funzione di un pubblico
determinato secondo un procedimento che il discorso di volgarizzazione
scientifica conosce da sempre, ma che è ben presente anche nella letteratura
dove Tournier può riscrivere il suo Vendredi ou les Limbes du Pacifique per un
pubblico adolescente facendolo diventare Vendredi ou la vie sauvage.
Tra i prodotti ottenuti con questo procedimento ricordiamo:
- i ritocchi, che hanno l’ambizione di eliminare, riscrivendole, le parti di un
testo ritenute mediocri come fa Balzac quando, in Béatrix, offre un
bell’esempio di ritratto femminile «ritoccando» uno dei Portraits
Contemporains di Gautier2;
- il prolungamento di un testo che facilmente può dare origine alla cosiddetta
serie, come succede per i Tre moschettieri seguiti da Vent’anni dopo o per le
serie cinematografiche degli spaghetti-western, dei film catastrofe, dei vari
007...
- il centone, specie di patchwork letterario che consiste nel mettere insieme
pezzi di opere di autori diversi per crearne una nuova che non abbia niente
in comune con il contenuto di quelle originarie. Interessante l’esempio delle
poesie di Blaise Cendrars nei Documentaires originariamente battezzati
Kodak e poi rititolati dopo diffida dell’omonima marca di materiale
fotografico;
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Testo di Gautier:«Cette chevelure, au lieu d'avoir une couleur indécise, scintillait au jour
comme des filigranes d'or bruni. Son front large et bien taillé recevait avec amour la lumière
qui s'y jouait en des luisants satinés, sa prunelle d'un bleu de turquoise brillait sous un sourcil
pale et velouté d'une extrême douceur... ».
Testo di Balzac: «Les cheveux scintillent et se contournent aux faux jours en manière de
filigranes d'or bruni. Le front large, plein, bombé, attire et retient la lumière qui s'y joue en
luisants satinés. Une prunelle brune scintille sous un sourcil pale et velouté d'une extrême
douceur... ».
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- il testo farcito che consiste nello svuotare un testo di alcune categorie di
parole (sostantivi, aggettivi, verbi) e riempirlo poi con termini presi in altri
testi seguendo 1’ordine di «svuotamento» e modificando infine il testo
ottenuto per garantirne la coesione formale. Così Perec ottiene «Le liège, le
titane et le sel aujourd'hui» partendo da «Le vierge, le vivace et le bel
aujourd’hui» di Mallarmé;
- le variazioni su tema che vedono come realizzazione esemplare gli
Exercices de style di Queneau in cui la stessa storia è riscritta 99 volte
variando a volontà categorie grammaticali, comportamenti linguistici
quotidiani, generi letterari, figure retoriche...
2.3. I limiti «obbligati»
Le «derive» da imitazione o da adattamento hanno in comune l’utilizzazione di
un testo-padre da cui ricavare il testo-figlio secondo i procedimenti ricordati.
Ma la creatività può andare oltre e trovare nuovi stimoli in quei «limiti
obbligati» che Eco ritiene stiano alla base di ogni procedimento di scrittura
corretto. Si va così dalle regole redazionali che obbligano il giornalista a
contenere il «pezzo» entro un numero stabilito di parole alle regole più o meno
arbitrarie che ogni scrittore si dà in funzione del pubblico per cui scrive o alle
contraintes exquises di cui parla Valéry che, per essere affatto gratuite, non
sono meno fonte di ispirazione delle grandi passioni di romantica memoria.
Attraverso questi limiti esogeni o endogeni si esplicita il carattere di
problem solving della scrittura creativa i cui prodotti, se non saranno sempre
«colorati» artisticamente, potranno almeno contribuire a evitare gli stereo tipi
di cui abbonda la scrittura «istituzionale».
Tra le regole formali riproposte, tra 1’altro, fin dagli anni sessanta, da quello
straordinario laboratorio di scrittura creativa che è l’Oulipo, ricordiamo:
- la lettera induttrice, che permette di produrre testi a partire dalle lettere
dell’alfabeto considerate come pittogrammi, secondo una tradizione che
Genette fa rimontare al cratilismo;
- la parola induttrice, che Barthes proponeva provocatoriamente come
soggetto di dissertazione invitando a esplorarne il campo semantico secondo
i due principi dell’etimologia e della connotazione e citando come esempio
il Verre d’eau di Ponge o le pagine della Recherche proustiana;
- la frase induttrice, i famosi incipit che Aragon, Pinget e Roussel citano
come determinanti intere loro opere;
- i titoli di molte opere annunciate e mai scritte che potrebbero così vedere la
luce cominciando, ad esempio, da «La pecora nera», «Delitto in collegio»,
«Speculazione sulla posta», tutti consegnatici dalla «biblioteca invisibile» di
Baudelaire;
- le pagine strappate, o supposte tali, di romanzi che si possono far riscrivere
sulla scia degli esempi forniti da Balzac in Olimpia;
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- i giochi di società, che permettono di scrivere un romanzo a partire dal
gioco dell’oca, come avviene nel Testamento di un Eccentrico di Verne, o
da un puzzle come fa Perec in La vie, mode d’emploi o ancora dai tarocchi
come succede per Il castello dei destini incrociati di Calvino;
- gli acrostici, nobile gioco praticato, in poesia, da Villon ad Apollinaire e
designante, per analogia, anche testi non poetici quando le iniziali di ogni
rigo, lette verticalmente, danno il soggetto trattato;
- i lipogrammi, la cui stessa denominazione di «lettera mancante», indica
come regola quella di scrivere un testo escludendo l’uso di una o più lettere
dell’alfabeto, secondo una tradizione che risale al VI secolo a.c. ed è stata
riportata in auge da Perec nella Disparition, romanzo di oltre trecento
pagine lipogrammato in e;
- i pangrammi o abecedari, per cui un testo si compone di parole che
cominciano ognuna con una lettera diversa e si susseguono in ordine
alfabetico;
- i tautogrammi o pantogrammi, testi le cui parole cominciano tutte con la
stessa lettera e vantano anch’essi una tradizione illustre che vede tra i
maestri i grands rhétoriqueurs del Quattrocento francese;
- i calligrammi, testi in cui la disposizione grafica delle parole disegna il
senso e che possono vantare esempi famosi, dall’antichità (vedi Simia da
Rodi) al Cinquecento (vedi Rabelais) fino all’epoca contemporanea (vedi
Apollinaire o la pubblicità della Parker);
- i logorallye, così nominati da Queneau, testi ottenuti introducendo in un
altro testo, obbligatoriamente e secondo un ordine stabilito, le parole di una
lista preparata in anticipo;
- i testi poliglotti, scritti in più lingue, come i Pisans cantos di Ezra Pound o
Les Poésies de A. O. Barnarbooth di Valéry Larbaud;
- i testi combinatori, che propongono più percorsi attraverso cui il
lettore/scrittore è chiamato a scegliere per costruire poesie, racconti o
romanzi come fa, ad esempio, Queneau con i suoi Cent mille milliards de
poèmes o con Un conte à votre façon;
- i testi definizionali, che si ottengono sostituendo ogni parola del testo
originario con la definizione che ne propone il dizionario;
- i testi inventario, che si ottengono scrivendo, ad esempio, ciò che piace o
che non piace per confrontarlo eventualmente con lo stesso esercizio fatto
da Barthes o da Pinget;
- i dizionari soggettivi, come il «dizionario del cinico» oppure gli
sciocchezzari alla Flaubert in cui raccogliere, con la dovuta ironia, le
ovvietà del momento;
- i falsi proverbi; come i 153 che Éluard e Perec hanno «aggiornato» in 153
proverbes mis au gout du jour;
- i testi in lingue inventate, che vanno dalla semplice adozione di un nuovo
codice, per cui solo le lettere cambiano forma, all’uso di parole totalmente
inventate che fungono da jolly semantici come il verbo «puffare» fino alla
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creazione di una nuova lingua, quale la «zaumnyi jazyb, il linguaggio
transmentale dei futuristi russi, esemplare dimostrazione di forma induttrice
di senso.
3. PEDAGOGIA INTERATTIVA
Il potenziamento della creatività legato, nel caso nostro, all’acquisizione della
scrittura in lingua madre o in lingua straniera non sarebbe possibile se i «mezzi
per scrivere» che abbiamo presentati fossero propinati alla stregua dei tanti
«esercizi di grammatica» la cui validità sembra generalmente prescindere dal
tipo di pedagogia adottata.
Riesce difficile, infatti, immaginare un burbero insegnante che ordini agli
alunni di essere creativi dopo aver «spiegato» con dovizia di particolari le varie
tecniche, la loro storia e la loro fortuna nella critica, ma riesce altrettanto
difficile immaginare che creatività e scrittura possano svilupparsi in un lasciar
fare spontaneista generatore di prodotti sciatti e mediocri.
Perché l’utilizzazione dei vari «mezzi per scrivere» sia ottimale occorre
quindi una pedagogia doppiamente interattiva che tenga conto, da un lato, delle
acquisizioni in materia di funzionamento del cervello e rivaluti, dall’altro, la
non direttività di rogeriana memoria.
3.1. Due cervelli, due linguaggi
Dalle vecchie diatribe tra sostenitori dell’unità del funzionamento del cervello
e i partigiani delle localizzazioni cerebrali, si è giunti oggi a un’idea sistemica
del funzionamento di questo organo che, ormai non più identificabile con la
«scatola nera» skinneriana, appare diviso in grandi zone variamente interrelate,
da cui la validità di una pedagogia interattiva in grado cioè di mobilitare tutte le
funzioni specializzate corrispondenti ai vari stadi in cui è divisa la nostra massa
cerebrale e di cui ricordiamo brevemente le funzioni.
Il primo stadio o primo cervello «rettiliano» è quello che assicura la
sopravvivenza del corpo nel suo ambiente e che, essendo immediatamente
legato alla percezione sensoriale, sarebbe quindi responsabile dell’emotività e
della motivazione.
Il secondo cervello, conosciuto come «sistema limbico» avrebbe invece un
ruolo decisivo nell’affettività, nella memoria, nell’umore e nell’apprendimento.
Il terzo cervello, costituito dalla corteccia cerebrale, è diviso, a sua volta in
due emisferi, sinistro e destro, ed è il centro dell’intelligenza astratta, del gusto
artistico, della logica...
Una caratteristica importante per le conseguenze che ne derivano nel campo
educativo è che ogni tipo di informazione, prima di raggiungere la corteccia
cerebrale, passa per il sistema limbico sottoponendosi così al filtro del
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carattere, dei sentimenti... per cui, ad esempio, problemi affettivi irrisolti
possono rappresentare seri ostacoli allo sviluppo delle facoltà superiori.
Se consideriamo poi i due emisferi della corteccia cerebrale, secondo lo
schema presentato da Timbal-Duclaux (1986, p. 19) circa la divisione del
lavoro, abbiamo la situazione seguente:
CERVELLO SINISTRO
CERVELLO DESTRO
- Fa una cosa alla volta
- Procede sequenzialmente
- Fa più cose contemporaneamente
- Tratta la complessità
simultaneamente
- Riconosce la globalità (ad esempio:
un viso)
- È analogico: nota le somiglianze
- Raccoglie le emozioni
- Produce pensiero per immagini
- Esplora «schemi» a partire da
sensazioni
- Analizza i dettagli
-
È logico: deduce effetti da cause
Raccoglie l’informazione «neutra»
Produce pensiero lineare «spaziale»
Funziona secondo codici stabiliti
da cui, per il linguaggio, abbiamo che:
IL PENSIERO LINEARE
IL PENSIERO «GLOBALE
patrimonio del cervello sinistro
- controlla la sintassi, cioè la disposizione lineare corretta delle parole
attribuito al cervello destro
- ha una sintassi povera, ma è
sensibile all’aspetto poetico delle
parole o delle frasi
- opera «accostamenti»
- ricorda immagini complesse
- usa altri linguaggi
- scopre «perché»
- utilizza le parole per il loro potere
evocatorio (connota)
-
opera distinzioni
ricorda lunghe sequenze
usa solo la parola
sa dire «come»
utilizza le parole secondo un
significato preciso (denota)
La teoria del doppio funzionamento permette di giustificare, tra l’altro, vecchie
e recenti intuizioni di pensatori che, come Pascal, opponendo «esprit de
géométrie» ed «esprit de finesse», logica e intuizione, con riferimento a un
doppio funzionamento mentale, anticipavano forse la descrizione di cervelli a
dominante sinistra o destra.
E, nell’epoca dell’informatica, illogico nel senso succitato è senz’altro
identificabile con il digitale, monosemico e denotativo privilegiante
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l’informazione, la rappresentazione, il referente, il prodotto, l’istruzione, la
conoscenza laddove l’analogico, polisemico e connotativo, privilegia il
significato, l’emozione, il segno, il valore, l’empatia, la connivenza.
3.2. Una pedagogia «dolce»
Un po’ in ombra in questi ultimi anni in cui 1'interesse generale sembra essersi
spostato più sulla sicurezza della programmazione e quindi del prevedibile, la
non direttività, questa pedagogia a rischio, è ancora fonte di malintesi a loro
volta generatori di false equivalenze, talora anche contraddittorie, quali:
- non direttività sinonimo di anarchia;
- non direttività coincidente con un insieme di tecniche che basta conoscere e
applicare correttamente;
- non direttività come atteggiamento «dosabile» e adoperabile solo quando le
circostanze lo permettono;
- non direttività uguale a non operatività secondo quell’illusione spontaneista
già citata.
Non direttività è sinonimo invece di altri fattori, ben noti nella maggior
parte e di cui tutti vantano i benefici guardandosi però bene dall’applicarli.
Tra questi, l’imputato principale è il lavoro di gruppo, momento interattivo
per eccellenza, di cui ricordiamo brevemente i meriti principali:
- il ruolo che un alunno può assumere nel gruppo per l’importanza del
contributo dato al lavoro comune può agire sulla sua motivazione in modo
determinante;
- la parte attiva che alunni notoriamente introversi e silenziosi possono
prendere al lavoro in gruppo ristretto;
- il miglioramento dell’affettività tra i componenti del gruppo se i risultati del
lavoro sono ritenuti soddisfacenti;
- la compensazione degli errori derivante dalla correzione reciproca;
- il miglioramento della competenza comunicativa, data la necessità degli
scambi con gli altri componenti del gruppo.
Stanti questi lati positivi, il lavoro di gruppo è quindi da valorizzare anche
per le tecniche di scrittura creativa perché, favorendo gli scambi e la
produzione diversificata, è di per se stesso un grande stimolo alla creatività. Va
da sé che, essendo il gruppo classe un gruppo coatto, di lavoro e a interazione
diretta, l’insegnante dovrà aver cura, con una pratica non episodica, di valutare,
di volta in volta, la necessità di operare eventuali «ricomposizioni» dei gruppi
per evitare il cristallizzarsi di posizioni troppo «forti» da parte di alcuni, così
come regolarmente i gruppi procederanno a comunicare, paragonare e discutere
i vari prodotti.
Il confronto, d’altronde, che si abbia nella fase conclusiva del lavoro o
caratterizzi viceversa il momento di sensibilizzazione iniziale o la fase di
ricerca di idee del brainstorming, è un altro dei punti chiave della pedagogia
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non direttiva in quanto sancisce la legittimità dell’appropriarsi di idee altrui
modificandole progressivamente fino a produrre, in armonia con il processo
creativo illustrato da Vygotskij, qualcosa di totalmente diverso.
Importante, perché favorevole alla creatività, è infine l’eliminazione, nel
gruppo-classe, di gerarchie e censure, il che pone il delicato problema delle
relazioni all’interno del gruppo e tra gruppo e insegnante.
Se è chiaro, infatti, che la gerarchia verticale insegnante-alunno inibisce
l’inventiva e non ha quindi motivo di esistere in una pratica didattica volta a
valorizzare il processo creativo, è anche vero che spetta all’insegnante, nel suo
ruolo di animatore, mettere in evidenza e chiarire, di volta in volta, il tipo di
relazioni che si stabiliscono nel gruppo per evitare, da una parte, frustrazioni o
manifestazioni di aggressività, dall’altra, casi di isolamento inevitabili in
gruppi cosiddetti autogestiti.
Allo stesso modo, spetta all’insegnante-animatore far sì che nessun prodotto
sia oggetto di censura, sia essa ideologica o culturale o semplicemente
derivante dall’ipercriticismo che si manifesta spontaneamente di fronte a
un’idea fuori dell’ordinario.
E, ultimo, ma non per questo meno importante, il clima che l’animatore
deve riuscire a creare nel gruppo per favorire «l’infantilizzazione», altra
condizione necessaria allo sviluppo della creatività.
Da non confondere con 1’infantilismo, l’«infantilizzazione», concetto
elaborato e chiarito dalla suggestopedia, è definita da Lozanov come «un
nuovo atteggiamento interiore, fatto di fiducia, di spontaneità, di distensione, di
libera espressione dell’immaginazione e dell’emozione» (in Lerède, 1987, p.
106).
Frutto di un «desuggestionamento» positivo, più incisivo in seno al gruppo,
l’infantilizzazione accetta il gioco, dissipa la tensione e lo stress, evita le
frustrazioni, è vita nel presente e al presente. Grazie a essa si superano più
facilmente le barriere della ragione critica, dell’emotività fonte di insicurezza e
dell’etica come pregiudizio. Grazie a essa è possibile uscire fuori dall’universo
dell’analisi critica e attivare quella parte «artista» del cervello che può così
contribuire a potenziare l’apprendimento. Grazie a essa si scivola infine più
facilmente in quello stato di «pseudo passività da concerto» che è
simultaneamente stato di distensione e di concentrazione, condizione ideale
perché da una pedagogia dolce come la non direttività sia favorita
1’acquisizione di una scrittura in cui regnino il gioco e l’umorismo non come
gratuità, ma come espressione di libertà.
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