Sierotipi di pneumococco: il portatore sano ed il bambino con

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Sierotipi di pneumococco: il portatore sano ed il bambino con
Sierotipi di pneumococco: il portatore sano ed il bambino con malattia
invasiva
Nicola Principi
Streptococcus pneumoniae (Sp) colonizza il faringe fin dai primi giorni di vita e da
questa sede può diffondersi alle strutture vicine o invadere il torrente circolatorio
causando, nel primo caso, le cosiddette patologie mucose, vale a dire otite media
acuta, rinosinusite, polmonite, e, nel secondo, forme invasive potenzialmente mortali
quali batteriemia, sepsi, meningite, osteomielite. La colonizzazione è massima durante
i primi anni di vita, quando la gran parte dei bambini risulta portatore di uno o più
sierotipi di Sp, e scende progressivamente con il crescere dell’età. Esatte valutazioni
della entità della colonizzazione, misurata eseguendo i tamponi nelle sedi faringee più
opportune a seconda dell’età e utilizzando modalità di identificazione batterica con
elevata sensibilità e specificità, hanno dimostrato che nei primi anni di vita fino ad
oltre il 70% dei bambini è portatore sano di Sp e che tali valori, pur riducendosi
nell’età scolare avanzata e nell’adolescente, rimangono comunque superiori al 30%. Il
prelievo in nasofaringe nel bambino di età prescolare e in orofaringe in quello della
scuola dell’obbligo, così come l’impiego di metodiche di biologia molecolare anziché
della classica coltura offrono, infatti, maggiore garanzie di una più precisa
identificazione dello stato di portatore. Vari fattori, tra i quali quelli socioeconomici
sono certamente quelli di maggior rilievo, possono influenzare le dimensioni della
colonizzazione. Esiste, infatti, chiara evidenza che povertà, scarsa igiene, bassa
cultura, condizioni di vita disagiate possono fortemente incrementare la presenza di
Sp in faringe.
Lo stato di portatore e la vaccinazione
La stretta correlazione tra colonizzazione faringea con Sp e sviluppo di patologia
pneumococcica è stata fortemente confermata dall’introduzione nei programmi di
immunizzazione dell’infanzia della vaccinazione con i vaccini pneumococcici coniugati, in
particolare del preparato eptavalente (PCV7). Il controllo dell’efficacia del vaccino ha,
infatti, dimostrato che la caduta della frequenza di comparsa della patologia
pneumococcica sostenuta dai sierotipi contenuti in PCV7, sia nei bambini vaccinati che
negli adulti non vaccinati, corrispondeva in modo molto preciso ad una forte riduzione
della presenza degli stessi sierotipi nel faringe di tutti questi soggetti. Lo stesso è
stato evidenziato più recentemente quando PCV7 è stato sostituito da un preparato a
13 componenti (PCV13) in funzione della necessità di offrire copertura, oltre che
verso i sierotipi contenuti nel vecchio vaccino, anche ad un gruppo di sierotipi
emergenti. La riduzione, fino alla scomparsa, dei sierotipi contenuti in PCV7 è, infatti,
stata seguita da una loro sostituzione con altri sierotipi che hanno ripopolato il
faringe, determinando patologia e condizionando, quindi, la necessità di un
allargamento della composizione vaccinale.
Lo stato di portatore come indicatore della efficacia dei vaccini pneumococcici
Studi che hanno correlato i livelli anticorpali indotti da PCV7 per i singoli sierotipi con
l’efficacia protettiva del vaccino hanno portato ad individuare il cosiddetto correlato
di protezione, vale a dire la concentrazione di IgG contro i polisaccaridi capsulari
sufficiente a evitare lo sviluppo di malattia. Stabilito che un livello serico di 0,35
μg/mL poteva essere sufficiente, si è deciso che nel momento in cui fosse stato
necessario autorizzare l’immissione in commercio di nuovi vaccini pneumococcici, le
autorità regolatorie, per verificare l’efficacia del nuovo preparato utilizzassero un
criterio immunologico anziché la logica degli studi clinici controllati. La disponibilità di
un preparato come PCV7 di cui era nota la efficacia escludeva, infatti, per problemi
etici, la possibilità di condurre studi comparativi tra il nuovo vaccino e un placebo
perché una parte della popolazione in studio sarebbe stata sottratta ad una forma di
prevenzione comunque attiva. In pratica, l’uso di PCV13 è stato autorizzato perchè gli
studi immunologici hanno dimostrato che la somministrazione del vaccino, sia con la
schedule 3+1, sia con quella 2+1, permetteva il raggiungimento di concentrazioni
anticorpali contro tutti i sierotipi inclusi, almeno eguali, se non superiori a 0,35 μg/mL.
In realtà, questo tipo di approccio può essere fortemente criticato, sia perché il
valore di 0,35 μg/mL è la media dei valori ottenuti in un limitato numero di studi che,
singolarmente, hanno dato valori molto diversi, sia, e soprattutto, perché esso
rappresenta quanto può valere per le sole IPD ma non per le altre patologie
pneumococciche o per lo stato di portatore, situazioni per le quali sembrano
necessarie concentrazioni anticorpali nettamente superiori, massime proprio per lo
stato di portatore.
Da qui, la recente presa di posizione di molti esperti che ritengono che il monitoraggio
della colonizzazione faringea con le variazioni indotte dai diversi vaccini pneumococcici
possa meglio esprimere l’efficacia di un vaccino pneumococcico e hanno suggerito che
questo parametro possa, in futuro, sostituire il dato immunologico nelle pratiche
registrative di nuovi preparati.
La vaccinazione e lo stato di portatore del bambino grande e dell’adolescente
La grande maggioranza degli studi
pneumococcici coniugati sullo stato di
vaccinati, quindi, da poco. L’effetto
pneumococco contenuti nei vaccini è,
che hanno valutato l’impatto dei vaccini
portatore hanno considerato bambini piccoli,
di eliminazione dal faringe dei sierotipi di
quindi, certo solo per questi. Considerazioni
diverse potrebbero essere fatte prendendo in considerazione i pochi dati disponibili
sui bambini più grandi. Recenti ricerche condotte in soggetti di età scolare od
adolescenziale sembrano, infatti, indicare che dall’età di ingresso nella scuola in poi è
possibile trovare bambini o adolescenti che, pur essendo stati pienamente vaccinati
nel primo anno di vita, rimangono portatori di alcuni sierotipi di pneumococco contenuti
nei vaccini che avevano ricevuto. Ciò sembra indurre qualche dubbio sulla logica di
considerare lo stato di portatore come indicatore della efficacia dei nuovi vaccini e
solleva, ancora una volta, il problema del livello anticorpale necessario a contenere o
eliminare la colonizzazione con i vari sierotipi di pneumococco. Si è detto in
precedenza che anche nel bambino piccolo, l’eliminazione della colonizzazione
presuppone livelli anticorpali > 0,35 μg/mL. Poiché è inevitabile che con il passare del
tempo le concentrazioni anticorpali evocate dal vaccino scendano, è ragionevole
pensare che ad una certa età queste si riducano al punto che, pur rimanendo
sufficienti ad evitare le IPD, non bastino più ad impedire la ricolonizzazione faringea
da parte dei sierotipi contenuti nei vaccini. Ciò spiegherebbe l’apparente
contraddizione tra la bassissima incidenza di IPD nel bambino grande e nell’adulto e
l’elevata colonizzazione faringea che si può riscontrare in questi soggetti, anche se
vaccinati, e suggerisce la necessità di chiarire se, contrariamente alle attuali
raccomandazioni, un richiamo del vaccino pneumococcico coniugato non debba essere
eseguito dopo i 5 anni, anche nel soggetto altrimenti sano, per ridurre la circolazione
di sierotipi invasivi, aumentando, così, l’immunità di gregge e la copertura di coloro che
non sono vaccinati e lo sono solo parzialmente.
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Attuale spazio terapeutico per le cefalosporine orali in pediatria
Nicola Principi
Molto largamente utilizzate fino alla fine del secolo scorso, le cefalosporine orali (CO)
sono progressivamente uscite di scena ed oggi hanno parte molto modesta
nell’armamentario terapeutico del pediatra. Troppo largamente considerate anni fà a
scapito di molecole, meno costose e, in certi casi, a parità di efficacia, decisamente
più tollerate, sono oggi riservate alla terapia di un certo numero di indicazioni, quasi
sempre come molecole di seconda istanza o da riservare a casi particolari.
La patologia respiratoria del bambino è un insieme di situazioni cliniche nella quali le
CO può trovare applicazione. La faringite streptococcica (FS), l’otite media acuta
(OMA) e la rinosinusite (RS) sono le malattie nelle quali le CO sono ancora indicate in
tutte le linee guida per il trattamento di queste forme nel bambino. E’ chiaro che, per
ogni condizione, vanno scelte le molecole più adatte al tipo di eziologia batterica in
causa, limitando la scelta a quelle di prima generazione nel caso della FS e inserendo
quelle di II generazione per l’OMA e la RS. La necessità di far fronte al solo
Streptococcus pyogenes nel primo caso e quella di eradicare più germi, inclusi alcuni
Gram negativi, nel secondo giustificano la diversa scelta. La possibilità di limitare il
trattamento a 5 giorni nel caso della FS se si usano le CO è certamente un punto a
favore di queste molecole perché le penicilline, di prima scelta in tutte le linee guida,
richiedono un trattamento più prolungato, pena un aumento del rischio di fallimento
terapeutico. Ciò che è, comunque, tassativo evitare, sia nel caso della FS che dell’OMA
e della RS è l’impiego delle molecole di III generazione perché hanno uno spettro di
attività allargato rispetto alle precedenti e, non aggiungendo nulla nei confronti dei
batteri bersaglio, hanno un maggiore impatto sulla flora saprofita e possono, quindi,
creare inutili problemi di selezione della flora saprofita.
Ulteriori possibilità di impiego delle CO sono le infezioni cutanee e dei tessuti molli, le
infezioni delle vie urinarie non complicate e le infezioni delle ossa e delle articolazioni.
Nel primo caso, considerata la prevalente eziologia da Streptococcus pyogenes o da
Staphylococcus aureus vale ancora quanto detto per la FS, vale a dire l’impiego delle
molecole di prima generazione. Nel secondo il discorso è diverso, perché, in
considerazione della assoluta prevalenza di patogeni Gram negativi, specie di
provenienza intestinale, sono più indicate le molecole di III generazione come
ceftibuten e cefixime. In questo caso, occorre porre attenzione alle caratteristiche
cinetiche delle singole molecole, adeguando il dosaggio e, soprattutto, la frequenza di
somministrazione ai livelli di picco raggiunti dopo ogni dose e alla velocità di
eliminazione. Un simile discorso vale per la profilassi anche se, in questo caso, farmaci
come le CO trovano indicazione solo in casi eccezionali nei quali abbiano fallito le
molecole di prima istanza, quelle che determinano un minor rischio di selezione
batterica intestinale e, quindi, le più basse probabilità di ricorrenze da patogeni
resistenti come i nitrofurani o lo stesso co-trimossazolo.
Nelle osteomieliti e nelle artriti settiche l’impiego delle CO è limitato alle molecole di
I generazione, nei casi che si diagnosticano in aree geografiche ove l’incidenza di
Staphylococcus aureus meticillino-resistente è < 10% e, in ogni caso, come terapia di
prosecuzione dopo un periodo di somministrazione dell’equivalente iniettabile.
Un ultimo aspetto favorevole all’uso di certe cefalosporine orali è quello relativo al
rischio di insorgenza di manifestazioni allergiche, talora gravi, in relazione all’uso di
questi farmaci in bambini dimostratisi allergici alla penicillina. Per molti anni si è
creduto che chi fosse allergico alla penicillina non potesse essere trattato con
nessuna cefalosporina, vista la similarità di struttura molecolare tra le due classi di
farmaci. In realtà, in questi ultimi anni la valutazione dei dati epidemiologici e una più
precisa comprensione del ruolo della struttura chimica di una sostanza nello sviluppo
della reattività crociata con altre ha parzialmente modificato questa credenza e ha
permesso che alcune cefalosporine fossero introdotte nelle linee guida per il
trattamento di certe patologie al posto delle penicilline per i soggetti allergici a
queste. Un esempio tipico a questo riguardo è dato da quanto riportato nelle linee
guida per la terapia della sinusite e dell’otite media acuta stese dall’American
Academy of Pediatrics nelle quali è prevista la somministrazione di cefdinir,
cefpodoxima, ceftriaxone, and cefuroxima nei soggetti che abbiano avuto
manifestazioni allergiche alla penicillina di tipo 1 e 2 non particolarmente gravi. Di
fatto, i dati disponibili sembrano indicare che il rischio di reazioni crociate è tanto
maggiore quanto più simili sono le caratteristiche chimiche della catena laterale
dell’anello betalattamico tra la penicillina e le singole cefalosporine. Le cefalosporine
di prima generazione sono quelle che hanno la maggiore possibilità di indurre reazioni
crociate, anche se il rischio di una loro insorgenza è inferiore all’1%, ben meno del 10%
di quanto tempo fa’ calcolato. La gran parte delle cefalosporine orali di II-III e IV
generazione hanno pochissime probabilità di essere causa di fenomeni gravi e possono,
quindi, se la patologia lo richiede, essere usate con tutta tranquillità.
Bibliografia essenziale
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