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Vengono dall’Asia, dall’Africa, ma anche dal Medio Oriente. In questo momento vengono soprattutto dall’Iraq. Nei loro Paesi svolgevano un lavoro gratificante, ma estremamente pericoloso: quello di informare l’opinione pubblica. Molti luoghi “caldi” del mondo si stanno
svuotando dei loro reporter. Che, se tentano di rientrare nei loro Paesi rischiano, nel migliore dei casi, l’arresto. La Francia li accoglie e li aiuta a inserirsi in un mondo diverso dal loro.
Ecco alcune delle loro storie
Nella Maison
dei giornalisti esuli
di Francesca Lancini
Alessandra Garusi
CULTURA 2
Lo sport è il miglior modo per dimentica“iracheno
re tutto”, ci dice sorridendo un ragazzo
in T-shirt e pantaloncini da calcio.
Bakhtiyar Hadad, ex fixer (procacciatore di
storie e contatti, ndr) e traduttore per molti
reporter d’Oltralpe, non riesce a stare
Poi con passo veloce ci porta nella sua stan- fermo. Molti pensieri affiorano nella sua
za dove, accanto a una valigia di pelle conmente rendendolo irrequieto: il primo
sumata da cui fuoriescono alcuni vestiti pie- impiego come tecnico di una compagnia
gati in fretta, ci sono un pallone, la foto del- elettrica ai tempi di Saddam, gli studi presso
l’attaccante francese Franck Ribery e un
l’Istituto di Lingua Francese, la svolta come
piatto con lo schizzo di Erbil, la sua città a
fixer di autorevoli testate (tra cui “Le
nord dell’Iraq, in Kurdistan. Quando gli
Monde”, “Le Figaro”, France 2, Canal+,
chiediamo cosa non può scordare del suo
RTL) dopo l’inizio della guerra nel 2003,
martoriato Paese, lasciato pochi mesi fa,
l’arresto da parte dell’esercito statunitense
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NELLA MAISON DEI GIORNALISTI ESULI
assieme al fotografo Corentin Fleury. A
questo punto il giovane 32enne resta in
silenzio, spostando lo sguardo al paesaggio
che si vede dalla finestra.
Siamo nel XVesimo arrondissement, in una
zona tranquilla a ridosso della periferia parigina, vicino a un parco. Da cinque anni
all’interno di una fabbrica ristrutturata
sorge la Maison des Journalistes, la prima e
unica “casa” al mondo che ospita giornalisti
e operatori dei media richiedenti asilo politico. L’edificio su tre piani è arioso e pieno di
luce, ma in ognuna delle 15 stanze con le
porte colorate – i rifugiati, che restano al
massimo sei mesi, il tempo necessario per
ottenere l’asilo politico, sono trenta all’anno
– c’è una storia di persecuzione ed esilio,
come quella di Haddad.
“Tutti i nostri ospiti hanno subito violenze
di vario tipo, fisiche e psicologiche”, rivela
Philippe Spinau, giornalista parigino e uno
dei fondatori della Maison con la collega e
amica Daniele Ohayon. Ha un aspetto stravagante per i suoi 58 anni (lunga barba
bianca, maglia e pantaloni larghi, scarpe
stringate color arancione), ma un carattere
molto pragmatico: “Intuisco le sofferenze
dei miei ospiti dai loro sguardi, anche se
non pretendo sempre di sapere tutto. Per
questo ci sono psicologi che si occupano di
loro”.
Per Hadad il ricordo più traumatico è quello
della sua prigionia, che però preferisce
“lasciare in fondo ai pensieri”. Nell’ottobre
2004 Hadad e Fleury vanno a Falluja per
coprire l’offensiva Usa contro i ribelli sunniti. Ogni giorno ci sono bombardamenti
nei quali – si verrà a scoprire un anno dopo
con un’inchiesta di RAINews 24 – viene
gettato anche il fosforo bianco, un agente
chimico proibito dalle Convenzioni internazionali che brucia i corpi e lascia intatti gli
abiti. L’8 novembre, giorno dell’”assalto
finale”, Hadad e Fleury cercano di lasciare la
città, ma vengono arrestati dai marine americani. Il fotografo francese è rilasciato dopo
cinque giorni, mentre Hadad viene liberato
solo il 5 dicembre, dopo aver passato le ultime due settimane nella famigerata prigione
di Abu Ghraib, per il sospetto, mai provato,
di aver collaborato con la guerriglia irachena. Non è quest’esperienza, tuttavia, la
ragione che spinge il fixer a fuggire dal suo
Paese, ma la collaborazione a un servizio sul
conflitto fra sciiti e sunniti che sarà tra122
_Sopra, le immagini dell’iracheno Bakhtiyar Hadad, ex
procacciatore di storie e contatti e traduttore per molti
reporter e autorevoli testate d’Oltralpe, arrestato dopo l’inizio della guerra nel 2003
smesso in Francia il 13 settembre 2007. Lui,
l’8 settembre, temendo per la propria vita, è
già partito per Parigi.
“Fra un mese probabilmente otterrò l’asilo
politico, ma vorrei tornare a fare il fixer in
Iraq”, aggiunge il ragazzo, che sembra non
essersi abituato alla vita “quasi normale” di
Parigi. “Là ci sono mio padre, i miei amici e
ancora tante storie da raccontare. Questo è
il lavoro più emozionante del mondo, non
voglio rinunciarci”.
Nell’atrio della Maison, dedicato ad Anna
Politkovskaia, la giornalista russa uccisa a
Mosca nell’ottobre 2006, una donna sulla
sessantina, con cappello nero appoggiato sul
capo e cappotto di pelle lungo dello stesso
colore, aspetta l’inizio del corso di francese.
“Dopo aver fornito un tetto, un buono alimentare giornaliero, una carta dei trasporti
e una telefonica, la nostra priorità è insegnare loro il francese perché possano continuare a vivere e a lavorare”, spiega Spinau
nel suo ufficio ad ampie vetrate di fianco
all’ingresso. “Devo essere molto onesto. È
mio compito spiegare che è molto difficile
Alessandra Garusi (3)
CULTURA 2
_Sopra, Saesan, scrittrice di Bassora, ed ex collaboratrice
di giornali, fuggita dall’Iraq perché cristiana. A fianco,
Philippe Spinau, giornalista parigino e uno dei fondatori
della Maison insieme con la collega Daniele Ohayon
tornare a fare i giornalisti in Francia,
soprattutto per chi non sa bene la lingua.
Non c’è un solo modo di lavorare. Ogni
Paese ha regole, consuetudini e codici diversi. Finora solo una decina su 138 ospiti ha
continuato a fare il suo lavoro. Gli altri
hanno trovato impieghi diversi”.
Con voce sottile l’anziana studentessa che
porta il nome di un fiore, Sawsan (lillà), ci
dice di essere una scrittrice di Bassora, a sud
dell’Iraq, ed ex collaboratrice di giornali.
Due anni fa è fuggita perché cristiana: “Se
le milizie (gruppi armati di musulmani radicali, ndr) avessero visto questa mia collana
con la croce battista avrebbero potuto anche
uccidermi”.
Nell’ultimo periodo la maggior parte degli
ospiti della Maison è arrivata dall’Iraq, dove
l’anno scorso sono stati uccisi 47 giornalisti
e 9 operatori dei media. Il Paese mediorientale si sta ormai svuotando dei suoi reporter,
come anche altri luoghi caldi dell’Asia e del
Sud del mondo: Afghanistan, Eritrea o
Myanmar (ex Birmania). Than Win Htut,
arrivato da una sola settimana, sembra
molto più giovane dei suoi 39 anni. Forse
per i lunghi capelli corvini legati in una
coda, i pantaloni sarong color zafferano, le
infradito e la T-shirt con il volto di Aung
San Suu Kyi, per la quale nutre una profonda ammirazione. “È una santa”, dice senza
mezzi termini.
Dopo le proteste dei monaci birmani dello
scorso autunno, molte magliette con la
stampa della leader per la democrazia, tenuta agli arresti dalla giunta militare, sono
state indossate da giovani di tutto il pianeta.
“Ho monitorato le ultime rivolte dalla
Thailandia, dove sono scappato nel 2002. In
Birmania la censura mi impediva di lavorare”, dice Htut, che ha lavorato per
“Democratic Voice of Burma” e “Mizzima”,
due importanti giornali di esuli birmani.
“Ho iniziato a scrivere da ragazzino, quando
distribuivo di nascosto poesie a tema politico per tutta Rangoon (oggi Yangon, ndr)”,
racconta, dopo essersi seduto a gambe incrociate su un tappeto di bambù e aver fatto
partire un cd di musica acustica della sua
terra. “Sono arrivato da poco, ma non vedo
l’ora di tornare a scrivere della Birmania. In
Thailandia potevo documentare la vita dei
profughi, ma non avevo i documenti giusti
(negati a quasi tutti i birmani, ndr).
Rischiavo continuamente di essere rimandato indietro”.
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Alessandra Garusi (3)
NELLA MAISON DEI GIORNALISTI ESULI
Spinau dice che finora solo due giornalisti
sono tornati nel loro Paese: “La maggior
parte se rientra rischia di essere arrestata.
Di solito cercano di portare qui i famigliari,
ma il procedimento di ricongiungimento
dura almeno due anni. Altre volte il contatto coi parenti, mantenuto con Internet e col
telefono, si perde col tempo”.
Sholah, sceneggiatrice e regista, è giunta in
Francia dall’Iran da circa un anno, ma non
ha alloggiato alla Maison perché aveva con
sé la figlia. Le regole della “Casa” permettono di ospitare solo il giornalista, ma consentono a quelli accompagnati dai famigliari o
che hanno già usufruito dei sei mesi di ospitalità di accedere a tutti gli altri servizi: corsi
di lingua, assistenza sociale e psicologica,
possibilità di collaborare al portale interno
L’Oeil de l’exilé, aiuto nelle pratiche per il
permesso di soggiorno. L’atteggiamento
umile di Sholah, 35 anni, nasconde coraggio
e determinazione: “Sono dovuta fuggire
dopo aver fatto un film su una lesbica”,
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_Sopra, Sholah, sceneggiatrice e regista iraniana. Sopra,
a sinistra, Rashika Lindon, fuggito dal Kosovo perché
aveva trasmesso alla radio serba musica Kosovara. Sotto,
Than Win Htut, giornalista fuggito dalla Birmania
dichiara. “L’avevo intervistata per la prima
volta in prigione e dopo dieci anni l’ho
ritrovata in ospedale per le fratture inflitte
dal marito. L’avevano costretta a sposarsi e
lui la picchiava perché non voleva avere rapporti”.
Sholah ha sempre avuto un’attitudine ribelle: “Non ho mai voluto portare l’hijab (il
velo, ndr), ma dovevo farlo per non subire
ripercussioni. I miei genitori erano già tenuti sotto controllo perché comunisti. Io ho
iniziato a combattere con la penna, ma l’hijab – simbolo dell’asservimento a una concezione mistificatoria del Corano e ai politici
– è ancora attorno alla mia mente e attorno
al mio cuore. Non so se potrò mai liberarmi
da quel senso di oppressione. Spero che
CULTURA 2
Si fugge anche dall’Africa
Alessandra Garusi (2)
Nel reportage abbiamo dato voce alle storie di chi proviene dalle
zone calde dell’Asia e dell’Est europeo, ma alla Maison ci sono ospiti
di tutto il mondo e in particolare africani francofoni. Ecco due
testimonianze.
Adjim Danngar, vignettista ciadiano di 25 anni, torna spesso alla
Maison da quando ha ottenuto l’asilo politico. Ha lasciato il Ciad nel
2004 dopo essersi occupato del Darfur e dei commerci illegali fra la
Nigeria, il Camerun e il suo Paese. “L’abbandono della mia terra è
stato uno shock a cui penso sempre”, rivela il ragazzo, mostrandoci i
disegni esposti alla Casa. “Quando sono arrivato ero solo, ma ho
riempito il tempo con le pratiche burocratiche. Alla Maison ho trovato
persone con storie simili alla mia. Abbiamo condiviso le nostre
esperienze e abbiamo continuato a lavorare grazie a L’Oeil de
l’exilé”.
Foutiyou D., mauritano di 37 anni, definisce il suo Paese uno Stato
razzista e con profonde divisioni fra la comunità arabo-berbera e
quella nera, della quale fa parte. “Da quando avevo 18 anni sono
stato deportato, torturato, arrestato e rapito per la mia attività di
giornalista e difensore dei diritti dei neri. Più volte sono dovuto
fuggire in Senegal, dove mi sono formato come reporter. Alla fine nel
2005 mi sono nascosto nella stiva di una nave mercantile diretta a
Marsiglia”. Dopo una vita così dura, l’uomo dice però di aver fatto
anche esperienze straordinarie: “Sono riuscito a fondare la prima
Ong nel sud del Paese, trascurato dal governo, che ha aperto la
strada all’ingresso degli aiuti internazionali. Anche se oggi, in esilio,
per me è difficile continuare a coltivare sogni, uno posso dire di
averlo realizzato”.
almeno mia figlia, che oggi ha sette anni, ci
riesca”.
“Per loro il mestiere è una questione primordiale”, dichiara Fanny Chajniot, caporedattrice dell’Oeil de l’exilé. “Scrivono nel
tempo che resta dalle faccende burocratiche
e vedono cose che noi non vediamo. Fanno
un’analisi più neutra di ciò che accade in
Occidente e ci avvicinano ai loro temi, spesso poco conosciuti”.
Nel pomeriggio arriva anche Rashika
Lindon, kosovaro di 22 anni, per il secondo
turno del corso di francese. Vive con il fratello, trasferitosi a Parigi 15 anni fa, ma la
Maison lo sta aiutando a ottenere il permesso di asilo: “Sono dovuto fuggire perché ho
trasmesso musica serba alla radio kosovara.
Per me la musica dovrebbe unire, non dividere”. Lindon abitava a Mitrovica, la città
dove si concentra la minoranza serba nel
Kosovo a prevalenza albanese. “Volevo che i
giovani albanesi-kosovari e serbi potessero
ascoltare la stessa musica, ma hanno cominciato a minacciare me e la mia famiglia”,
aggiunge il giovane dj e tecnico radiofonico.
Il Kosovo, dichiaratosi indipendente dalla
Serbia in modo unilaterale il 17 febbraio
2008, è una delle zone dell’ex Iugoslavia più
marchiate dalle divisioni etniche. A
Mitrovica, in particolare, dalla fine della
guerra nel 1999 la comunità albanese e
quella serba vivono divise in due zone,
rispettivamente a sud e a nord del fiume
Ibar. “Nel mio villaggio”, continua il ragazzo, “i serbi hanno ucciso 120 persone in tre
ore. La mia casa è stata bruciata e io e la mia
famiglia abbiamo camminato per ore verso
Mitrovica con altre centinaia di persone. Nel
mio Paese c’è ancora molto odio, ma io
sogno la pace”.
Per evitare tensioni fra ospiti di nazionalità,
etnie e religioni diverse, Spinau ha vietato il
proselitismo politico e religioso: “Ognuno
può pregare o coltivare la sua fede politica
nella sua stanza, ma non nelle parti comuni.
Questa è una delle regole comunitarie più
importanti, visto che non ci sono orari o
altre proibizioni”. È facile, tuttavia, che si
creino più amicizie di conflitti: “Anche storie d’amore e famiglie con bambini. La cosa
più affascinante è che la vita non si ferma.
Persone completamente distrutte riescono a
ritrovare il sorriso”, dice Spinau, prima di
tornare al suo lavoro che di solito si protrae
fino a tarda sera.
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