Febbraio 2016 - Istituto Friedrich Schürr
Transcript
Febbraio 2016 - Istituto Friedrich Schürr
“Poca favilla gran fiamma seconda” Dante, Par. I, 34 la Ludla (la Favilla) Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr” per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001 Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna Società Editrice «Il Ponte Vecchio» Anno XX • Febbraio 2016 • n. 2 (166°) Un nuovo riconoscimento internazionale per il romagnolo SOMMARIO di Ivan Miani p. 2 L’antico equivoco sulla Segavecchia di Renato Cortesi Dove eravamo rimasti? Nel mio ultimo articolo per la Ludla, pubblicato nel maggio 2009 (p. 13), annunciavo che l’ISO aveva inserito il romagnolo nel suo elenco delle lingue parlate nel mondo. L’emilianoromagnolo era stato cancellato e al suo posto erano stati introdotti il romagnolo (codice rgn) e l’emiliano (codice egl). Pensavo di aver raggiunto il mio obiettivo. Non sapevo, invece, che l’Unesco nel suo Atlante delle lingue minoritarie e in pericolo [vedi il logo in fondo alla pagina], recepiva ancora l’emiliano-romagnolo come lingua esistente (mentre sappiamo benissimo che tale idioma non è mai esistito). Ho capito che dovevo rifare lo stesso lavoro una seconda volta. In questo caso ci ho messo molto più tempo perché l’Atlante Unesco non viene aggiornato tutti gli anni. La mia istanza è stata inoltrata il 2 ottobre 2012. Ho spiegato che quella che loro considerano una lingua non esiste assolutamente. Ero ottimista perché con SIL International (l’istituto che gestisce l’elenco delle lingue del mondo per conto dell’ISO) la mia richiesta aveva riscontrato successo. Passa un anno: niente. Ne passano due: niente. Quelli dell’Atlante sono proprio lenti. Finalmente nel settembre 2015 (!) mi arriva la risposta: hanno capito che l’emiliano-romagnolo è da cancellare. Terranno conto delle mie indicazioni nella redazione del nuovo elenco aggiornato. “Fantastico!” - penso. Finalmente si sono svegliati. In novembre mi scrivono di nuovo: mi avvisano che le modifiche sono state caricate nella nuova versione dell’Atlante. Vado a vedere: “Emilian-Romagnol” non c’è più. Bene. Ma qui comincia un piccolo giallo. Che cosa c’è al suo posto? “Emilian”. E basta. Il romagnolo non c’è. Mi sono chiesto: perché non l’hanno inserito? Scrivo immediatamente e mi rispondono che è questione di qualche giorno: “sono i tempi tecnici”. Ma dopo una settimana non si vede ancora niente. Continua a pag. 7 la Ludla Febbraio 2016 p. 4 Gioacchino Strocchi: E’ dutor di Pier Giorgio Bartoli p. 5 Séra e matena di Eugenio Fusignani p. 6 E’ becacino int e’ bar di Sauro Mambelli Illustrazione di Giuliano Giuliani p. 8 L’udor dla niva di Lidiana Fabbri Illustrazione di Giuliano Giuliani p. 10 Tracce di un passato remoto VIII - E’ strolgh di Gian Maria Vannoni p. 11 Parole in controluce: stampanòn - stanè Rubrica di Addis Sante Meleti p. 12 Don Zvanen, Gigion e la neva di Radames Garoia p. 13 Pierluigi Moressa - 52 miti e misteri di Romagna di Maria Piazza p. 14 Röb d’incudè: Jobs act docet di Silvia Togni p. 15 Int e’ sol ad Febrer di Mario Vespignani p. 15 I scriv a la Ludla p. 16 Massimo Meluzzi - Adès a scor me di Paolo Borghi 1 La cultura popolare attuale rimanda l’origine della festa che si tiene a Forlimpopoli, in cui il fantoccio viene segato in due, al ricordo di una vecchia che in tempo di Quaresima contravvenne ai precetti religiosi mangiando una salsiccia; nel caso della festa analoga che si tiene invece a Conselice, ad una fattucchiera colta nell’eseguire un maleficio. Già lo storico di Forlimpopoli Alberto Aramini, riferendosi a studi di Frazer, identificò l’origine della tradizione negli antichi riti di fertilità, ed in particolare in quelli della celebrazione del superamento dell’inverno e del ritorno della buona stagione: la vecchia generava nuovi frutti grazie al suo sacrificio, rappresentati, nelle feste di oggi, dai dolciumi e dalla frutta secca contenuti all’interno del pupazzo; ipotesi già vicina alla verità ma si può analizzare anche più approfonditamente. Nell’accezione comune è abitudine ritenere che il nome derivi dal fatto di “segare la vecchia” come suggerito da quella che è l’azione caratteristica della sagra1. Vedremo come il nome abbia probabilmente una diversa origine, sempre analizzando, come ha fatto Aramini, i rituali religiosi delle popolazioni antiche. È proprio lo stesso Frazer a ricordarci2 come nell’antichità fosse abitudine serbare le ultime spighe del campo per realizzare un fantoccio chiamato, quasi universalmente, “la madre del grano”, con il quale si compivano alcuni rituali che differivano solo per minimi particolari. Ricorderemo solo quelli che hanno una maggiore similitudine con il nostro caso. In Stiria si raccoglievano gli ultimi steli del campo per comporre un fantoccio (la Madre, o la “vecchia”3) ed una corona. Il fantoccio così realizzato veniva bruciato mentre la corona era conservata dal capo del villaggio fino all’anno successivo, periodo in cui i chicchi delle spighe che la componevano venivano seminati, con l’evidente significato di “suggerire” una continuità col ciclo vitale della vegetazione; nelle campagne di Belfast il fantoccio era chiamato granny (nonnina) ed i mietitori lanciavano le falci 2 L’antico equivoco sulla Segavecchia di Renato Cortesi alle ultime spighe rimaste nel campo (quelle che poi sarebbero servite per realizzare il fantoccio) cercando, con questa azione, di tagliare gli steli; nel Galles, fino a pochi decenni fa, nonostante ormai le macchine avessero sostituito le falci, gli uomini utilizzavano vecchi attrezzi per cercare di recidere con il lancio degli stessi lo stelo di una treccia realizzata con le ultime spighe del campo; analoghi riti si ricordano in Lituania, dove il simulacro aveva nome di baba (vecchia). A testimonianza della diffusione di questa tradizione va ricordato inoltre che in tutti i luoghi menzionati i mietitori cercano di evitare di essere proprio loro a tagliare le ultime spighe; in questo caso il “vincitore” veniva sbeffeggiato e sottoposto a pesanti scherzi. Potremmo continuare con altri esempi, ma riteniamo che quanto riportato sia sufficiente a dimostrare come il rituale avesse il significato universale di imprigionare l’anima del grano in qualcosa (il fantoccio) che veniva onorato prima di essere distrutto, secondo la stessa logica con la quale (come analizza perfettamente Frazer) gli antichi re latini venivano uccisi prima che morissero di morte naturale, perché erano ancora nella pienezza del loro vigore fisico. In analogia con la stessa logica, quindi, l’anima del grano nel fantoccio rimaneva quella che esso possedeva nel momento in cui era stato colto, ossia quello del massimo rigoglio, e non quello dei chicchi pestati, frantumati, sfarinati e cotti: piantati nell’anno successivo cedevano la loro vitalità al raccolto successivo. Era un modo di dare continuità al raccolto, di perpetuare nel tempo una caratteristica Febbraio 2016 benefica (“la Vecchia non muore mai” era un detto degli Indiani d’America). Che si tratti di un rito analogo a quello dell’uccisione dei re illustrata da Frazer lo dimostra anche la riluttanza dei mietitori a recidere gli ultimi steli: ciò si spiega con la punizione che avrebbe potuto colpire l’uccisore che alzava la mano sul re; pur nella necessità sociale del sacrificio si trattava comunque di offendere una figura simile ad una divinità, e quindi l’atto era coperto da innumerevoli tabù, che con il passare del tempo si trasformarono nell’atto di ricevere insulti e dileggio. Secondo questa logica i dolciumi contenuti nella Vecchia sono quindi i chicchi che “trasmettono” un raccolto abbondante anche nell’anno successivo. A questo punto viene spontaneo ritenere che il nome di questa festa tradizionale debba intendersi non tanto come il ricordo di una “vecchia segata” quanto quello di un fantoccio (la Madre, o la Vecchia) realizzata con le ultime spighe “mietute”. È appena il caso di ricordare che nel dialetto romagnolo l’atto di mietere il grano si dice, appunto, ðghè (segare). La perdita di memoria dell’esatto significato del rituale, ma il mantenimento del ricordo di un termine (ðghè) legato al rituale stesso ha probabilmente condotto a ritenere che dovesse riferirsi al modo in cui la vecchia doveva essere uccisa. Inoltre la religione cristiana ha contribuito alla cosa, sostituendo un concetto pagano (il sacrificio) ad una colpa più conforme ai dettami religiosi (l’aver mancato di rispettare il digiula Ludla no durante la Quaresima). Inoltre ciò ha prodotto anche uno spostamento temporale della festa, visto che il rito era evidentemente legato al periodo della mietitura. Sappiamo che tutte le volte che un sacrificio prevedeva la morte della vittima (umano o simulacro) i meccanismi antropologici pretendevano la sua sparizione, affinché si potesse pensare che il corpo fosse passato ad un mondo superiore. Per questo era previsto che il sacrificato venisse bruciato, o affogato e lasciato alla corrente del fiume, sotterrato, o dilaniato fino a che ogni singolo brandello non apparisse più alla vista; nel nostro caso lo smembramento ha finito per mascherare la crudeltà dello smembramento nel desiderio di aprire il fantoccio per far apparire i dolciumi. In tal modo un rito per favorire la fertilità fu trasformato in un esempio morale che rammentava che cosa poteva succedere a chi infrangeva precetti religiosi. Interessante notare come il termine granny (nonnina) già ricordato sia molto simile al termine gregna, così riportato nell’Enciclopedia Treccani: Gregna. Ramicelli secchi, paglie, fascio di biade secche, unione di covoni. Dal latino CREMIA, che attiene al verbo CREMARE (bruciare). Vocabolo di probabile origine napoletana; a sua volta questo termine è molto simile al dialettale romagnolo fegna per indicare il pagliaio, che troviamo su “La nascita di Roma”4 di F. Talanti. L’intera frase scritta da Talanti recita: “… i l’acatë lughè dri d’na fegna …” (lo trovarono nascosto dietro ad un pagliaio). La somiglianza fonetica dei termini ci pare non potere essere casuale, il che ci fa apparire logico il percorso fegna › gregna › granny. A riprova di quanto questi termini siano legati alle operazioni della mietitura possiamo ricordare quanto Addis Sante Meleti ci fa notare su fegna, ossia che sia nel Dizionario Latino Georges che nell’Oxford Latin Dictionary è registrato l’aggettivo latino feneus (o faeneus) con il significato “di fieno”. In latino il termine “mucchio di fieno” era quindi meta fenea, rimasto nel nostro dialetto come meda (mucchio tronco-conico di varie cose). la Ludla In Lombardia colui che “gregna” ha voglia di ridere e prendere in giro; a Bergamo si dice grignà per “deridere”; sempre in quelle zone esiste la metafonesi: me go òia de grignà (io ho voglia di ridere) senza dimenticare l’italiano “digrignare i denti”. Alla luce di questi fatti può interpretarsi uno dei modi di dire più controversi tra quelli romagnoli, ossia il motto: e’ bala la vêcia. Le spiegazioni di questo modo di dire sono tante, ma più o meno tutte fanno riferimento ad una persona (“la vecchia”) che a causa dell’effetto di tremolio dell’aria calda appare come se ballasse. Altre spiegazioni si riferiscono al “ballare” più come un barcollamento piuttosto che ad un tremolio, indotto dalla stanchezza e dallo sfinimento a causa della torrida temperatura di quel momento dell’anno: il soggetto che balla non deve essere ritenuto una persona in carne ed ossa, ossia non è una “vecchia”, ma “la vecchia” (il covone). Il covone che sembra tremolare diventa allora, in questo modo di dire, la “vecchia” che balla. E questo probabilmente chiude il cerchio. Non ci è difficile pensare che al rito di distruzione di un fantoccio (la vecchia-covone) fossero connessi atteggiamenti di allegria e festa, riti che terminavano in feste in cui l’aspetto ludico poteva sfociare in modi più vicini ad atteggiamenti dio- nisiaci ed orgiastici, nei quali sostanze inebrianti rivestivano una parte importante. In questa particolare situazione veder “ballare” gli oggetti non doveva essere una cosa rara. Il concetto degli spiriti come “elemento aereo” non è raro nelle tradizioni romagnole: si pensi al mazapégul inteso anche come un alito di vento (il fulet)5. Note 1. Ricordiamo come riti analoghi, sia nel significato che nell’azione fisica di portare alla luce dolcetti rompendo vasellame che li contiene, siano presenti in altre popolazioni. Sono note molte feste simili definite generalmente come “festa della pentolaccia” in cui vengono distrutti recipienti dai quali escono dolciumi. Molto nota anche la festa messicana dei defunti, con caratteristiche pressoché analoghe. 2. FRAZER, J.: Il Ramo d’oro, Newton Compton, 2009, pag. 454 e seguenti. Frazer ricorda riti simili in Galizia, Francia, Germania, Polonia ed altri paesi, anche al di fuori dell’area europea. 3. “Vecchia” evidentemente nell’accezione di “antica”. In tutte le antiche religioni la “madre” terra è considerata antichissima, e quindi “vecchia” è un appellativo comune a molte culture. 4. TALANTI, F.: A dila s-ceta. Sonetti in dialetto romagnolo, Ediz. Del Girasole, Ravenna 1969, pag. 150. 5. Si rimanda, su questo argomento, alle interessanti analisi di Anselmo Calvetti. Stampa popolare della metà dell’Ottocento per la Segavecchia di Forlimpopoli Febbraio 2016 3 Ventisette marzo 1967, giorno di Pasqua. Ero a pranzo da parenti, quando una commensale si sentì male. La portammo subito da e’ Dutor: «A fnès d’ magnêr i caplètt e pu a t’ guêrd». Diagnosticò un’appendicite acuta. Là nelle Ville Unite e Disunite quando si diceva e’ Dutór si intendeva il medico condotto di San Pietro in Vincoli, Gioacchino Strocchi. Quel titolo era divenuto addirittura un patronimico: i suoi fratelli, infatti, venivano abitualmente chiamati la Maria de’ Dutór e Lino de’ Dutór. Quest’ultimo, di vent’anni più giovane, era stato mantenuto agli studi dal fratello maggiore e si era laureato medico dentista. Su Gioacchino e la sua passione per la poesia e il teatro filodrammatico e le battute graffianti altri hanno già molto scritto, anche su queste pagine, così pure sulla drammatica deportazione in Germania nel 1944 di cui ha lasciato un notevole diario dove, tra l’altro, si parla di Tonino Guerra e delle sue poesie. Quest’ultimo, che conobbe appunto in prigionia, dettò la frase che compare nella targa commemorativa affissa nella casa del Nostro: edificio ex casa colonica ristrutturato dall’amico muratore Aldo ad Bert. Il dottore ha esercitato la professione medica fino al 1982, poi il 6 febbraio 1986 se n’è andato: «A m’ so’ ardot ch’a n’ fag gnint piò par nissôn: l’è mej ch’a vega a là int e’ mond di pió». In questo trentennale della scomparsa vogliamo commemorarlo con qualcosa di inedito: alcuni episodi della sua fanciullezza e gioventù. Gioacchino, che portava il nome del nonno, era nato il 23 novembre 1900 da Domenico e Adele Amici, coloni. Fu il primo di sette figli di cui due morti subito dopo la nascita. La famiglia abitava in parrocchia di Campiano, in via Cella 195, nella casa colonica di un podere di proprietà Zotti, situato al di là del Fiumicello tra le vie San Rocco e Arrigoni, oggi nuova zona residenziale di Carraie. Ma nella famiglia patriarcale in cui viveva, narra, vi fu odore di ribellione: la gioventù è andata via. Se non c’è gio- 4 Gioacchino Strocchi: E’ dutor di Pier Giorgio Bartoli ventù, la casa abbandonata è costretta a morire. Fu così che, nel 1903, i suoi genitori si trasferirono in via Masullo 32: all’epoca era una strada che faceva un arco che partiva dalla via Beveta e si congiungeva con la via Lunga. Quella zona era chiamata Burdôn: una gran larga già di proprietà Guiccioli, situata fra Classe e Campiano (di cui si vedevano gli antichi campanili), di fianco alla Standiana e lungo il Dismano. Là le case sono lontane, lontana la strada. Il terreno è argilloso, duro arrabbiato, i pastori vi accudiscono i loro greggi e i suoi famigliari vi si trovarono retrocessi al ruolo di braccianti, con una gran miseria. I ricordi di Gioacchino bambino vanno all’ordigno infernale che, sotto la pineta, vedeva sempre alla stessa ora. Era nero, fumante e lungo come un biscione. Un giorno d’inverno, Il dottor Gioacchino Strocchi (1900-1986) in un disegno di Giuliano Giuliani. Febbraio 2016 un freddo che pelava, col babbo andò in pineta a raccattar legna e costatò che non si trattava di un mostro, bensì del treno che pacificamente trasportava merci e persone. Altri mezzi di trasporto che lo attiravano erano i barconi carichi di covoni di riso tirati all’alzana nel Fosso Ghiaia. Là nei pressi, nello stradello della Pasolina, c’era un albaráz (pioppo bianco) sotto la cui ombra provvidenziale i braccianti si adunavano per mangiare un boccone. Il bambino crebbe in mezzo a loro, e alla loro scuola, dice, quanto ho imparato! Compiuti i sei anni, andò alle scuole comunali, che raggiungeva dopo un lungo cammino. Frequentò le elementari fino alla sesta, ma essendo di salute cagionevole perse due anni. Dalla prima alla terza ebbe la maestra Sara Rambelli nella scuola di Campiano, istituita nel 1866 in via Violaro (vecchio) 71 in un villone già di proprietà Assunta Morri in Zarabbini, ma in origine appartenente all’abbazia di Porto (vi era annessa anche una fornace per mattoni). Per la quarta e la quinta dovette recarsi a San Pietro in Campiano (in funzione dal 1861) e la sesta la frequentò a Campiano presso la parrocchiale San Cassiano in Decimo dove, per la sua intelligenza, fu notato da don Enrico Dall’Aglio, là arciprete dal 1910 al 1923. Questo parroco provvide a mandarlo nel Seminario di Ravenna e, a sue spese, gli fece poi compiere anche gli studi universitari. Alla fine dell’anno scolastico 1914/15, Gioacchino, dopo essere la Ludla stato preparato da don Dall’Aglio, si presentò in seminario, dove sostenne e superò l’esame di ammissione alla terza Ginnasio. Monellaccio sfrenato, in collegio, dove tutto era regolato dalla campana, ci mise un po’ a essere domato dagli antipatici superiori. Infatti, il primo anno fu rimandato a ottobre in italiano, latino e francese. All’esame di riparazione fu bocciato e dovette ripetere la terza. Dopo questa batosta si impegnò e finalmente arrivarono i sette e gli otto. Raccontava che la scuola, i giochi e gli amici annebbiavano il ricordo della casa paterna, ma di notte, o quando era in castigo, esso si faceva vivo con la memoria dei pini sotto la tormenta della bora o il ribollire della valle durante l’estate. Ma a lungo andare ciò si perse a poco a poco. Uscito dal Seminario, nel 1922 si iscrisse alla facoltà di medicina all’università di Ferrara, e due anni dopo passò a quella di Bologna, dove si laureò il 6 novembre 1928 con la tesi “Su di un caso di sclerosi laterale amiotrofica a lungo corso”. Neolaureato iniziò la professione come interino a Castiglione di Ravenna, poi a Bagnacavallo. Nel 1931 vinse il concorso per la condotta di Sant’Alberto – Mandriole – Mezzano, dove si impegnò nella lotta contro la malaria. Nel 1937 ottenne il trasferimento a San Pietro in Vincoli, e ben presto divenne un punto di riferimento stabile e sicuro per la popolazione, anche oltre la sua funzione di medico. In quei tempi si innamorò perdutamente di una bellissima ragazza di Faenza che però non corrispose al suo amore. Divenne quasi misogino e non pensò più a sposarsi, anzi proclamava che la sua professione era una missione che non doveva aver vincoli, tanto che ruppe i rapporti con un collega e amico quando seppe che si sarebbe sposato. Col passare degli anni il suo amore lo riversò nella natura: allevava canarini, cani e gatti, ma il suo hobby preferito era la coltivazione della rosa «che s’la n’è culor d’rösa, l’è un êt cvël; s’l’è ròssa, zala l’è un êt fior, un fior che sénza dobi, l’è ben bël mo, par ëss’ rösa, ch’epa e’ su culor». Bibliografia: AA.VV., Alle origini era la scuola rurale: il caso di San Pietro in Campiano. 2013. Archivio di Stato, Mappe catastali 1835-1911. ASCRA, Fondo scuole. Banzola M. – Gardini R., Introduzione al diario di Gioacchino Strocchi. Comune di Ravenna, Fascicolo di Casa strade Masullo e Cella, Popolazione stabile Maschi. Morini G., Stradario storico di Ravenna. Porisini G., Rogiti notarili delle Abbazie di Ravenna. 1963. Preda A. – Trevisan G., Preti della diocesi di Ravenna – Cervia. Seminario Arcivescovile, Registri studenti. Strocchi G., A m’la sent. Strocchi G., In Campagna una volta. Strocchi G., Fola fulaja. UniBo, Fascicolo studenti. Testimonianze di: Cellini Maria Luisa, Ceroni Margherita, Giuliani Giuliano, Pasolini Achille, Perderziani Franca, Spadoni Nevio, Sternini Arrigo, Strocchi Maria, Tramontani Enzo. Séra e matena di Eugenio Fusignani Staðema acsè brazé séra e matena scriché senza stachês gnânch pr un minut. Sta voja ‘d stê cun te l’è birichena cvânt ch’a n t’ò acvè, dacânt a me, u m pê d’murì. Ðmitema ‘d rabatês tot cvânt la stmâna me par stê ben u m basta un tu rispir. Se t’sent frèþar e’ côr cvânt t’am tci vðena staðema acsè brazé séra e matena. la Ludla Stiamo così abbracciati / sera e mattina / stretti / senza staccarci nemmeno per un minuto. // Questa voglia di stare con te è birichina / quando non ti ho qui / accanto a me / mi sembra di morire. // Smettiamola di arrabattarci tutta quanta la settimana / a me per star bene basta un tuo respiro. // Se senti friggere il cuore quando mi sei vicina / stiamo così abbracciati / sera e mattina. Febbraio 2016 5 E’ Becacino, o Marafon, dal pêrt ad Zirvia u s ciâma nenca Piroch, l’è e’ þugh prènzip dla nazion rumagnôla, coma ch’l’à scret e’ faenten Alteo Dolcini int un libret indov e’ spiega al régul principêli, una cvelca strategì, e indov e’ preðenta al sët partì piò famoði: la piò vëcia l’è cvela ad Borodino di cvàtar ad setèmbar de’ 1812 þughêda da cvàtar suldé rumagnul dl’armêda Italia ch’la cumbateva par Napoleon. E’ Becacino l’è incora viv in Rumâgna e int i bar indov che u s þuga al chêrt u j è sèmpar un tavulen cun do cöpi che i s fa una partida e cvest e’ zuzed soratot int i zìrcul che incora i reðest int i paið. Se on l’entra indov che i þuga u s n’adà sòbit se i sta faðend un Becacino parchè atorna a i cvàtar tituler u s forma una curona ad þenta, chi in ðdé, chi da dret, che i guerda e i cumenta. Ad sòlit, zertament int i zìrcul, u s scor in dialet. Di cument di spetadur, che i s ciâma nenca þugadur de’ canton e che i ved 6 E’ becacino int e’ bar di Sauro Mambelli Illustrazione di Giuliano Giuliani toti al chêrt cvindi i n ðbaja mai, u s’in sent ad tot al raz: “T’an se fê gnint!”, “T ci un cagnaz, duvivta tajê!”, “Chi t’à dê al chêrt int al mân?”, “T’at si ðmengh ch’la jera bona!”, sol par arcurdên un cvalcadon. E acsè che pò sucèdar che chi ch’e’ ðbaja l’à da fêr i cont cun e’ söci e cun tot cvi che i sta atorna. E se lò u n i sta a la crètica u s azend dal discusion ch’a n fnes piò. Febbraio 2016 Me a jò cminzê a þughêr a Becacino ch’aveva nôv dið èn, in ca cun e’ mi vðen Neo, che spes a la sera u m purteva int e’ zìrcul di ripublichen ad Sa’ Piravencul, indov che a guardeva i grend e a impareva. Da i cveng èn in avânti int i bar de’ paeð a j andeva da par me e a þugheva cun tot, nench cun i piò brév. Da alora a n ò smes piò, nenca se a n so un acanì, a þugh cvânt ch’e’ càpita la Ludla coma adës cvând che a s’atruven int e’ zìrcul di republichen ad Cas-cion ad Ravena. A lè i þuga nenca a Buraco e a Pinacolo cun al chêrt da ramen, cun la þenta ch’la guêrda, mo apena che u s forma e’ têvul da Becacino, che nó a ciamen Piroch, tot i s sposta e i s met d’atorna. Dop a e’ Becacino a i cvaranton u s fa al brèscul e pu incora e’ Becacino e al brèscul. Par fni la sfida e’ bðogna vènzar tre partì: se u s in venz do pr on u j scapa la bëla, a Becacino. Agl’ è partì indov che a m divert una gran masa, soratot se a venz e cvest e’ càpita spes, a m divert nenca parchè, coma det prema, u s scor e u s rogia in dialet cun dal batudi che agl’è toti da sintì, soratot cvând chicadon e’ ðbaja. Mo turnend a e’ lìvar Il Principe di Romagna. Marafon-Beccaccino, stampê de’ 1975, Alteo Dolcini e’ dið che da e’ Becacino purtê da Piero Maroncelli in America e da Aurelio Saffi in Inghiltëra e’ sareb nêd e’ Bridge che in veritê e’ preðenta nenca lò al brèscul da tajê che al s ciâma Atout. E Silvio Lombardi, uriginêri dla Cuclì, int la su Stôria Furleða scurend de’ Marafon e’ dið che l’è pröpi e’ þugh ch’e’ rapreðenta e’ caràtar de’ rumagnôl che u n s’arend mai gnânca davânti a i putent: e acsè un cvàtar ch’l’è e’ scarten piô bas, quând ch’l’è ad brèscula e’ pò tajêr un tre ch’l’è la chêrta piò êlta e guadagnês la preða. Par ciarì la fazenda e’ bðugnareb scrìvar toti al règul de’ þugh, mo la sareb tröpa longa, basta dì che e’ þugador ch’l’è da la mân e’ met al brèscul e cal chêrt al cmânda sora toti cagl’êtri. La gerarchì dal chêrt l’è fata da e’ tre, e’ do e l’as che insen i fa la creca o marafona, e pu e’ re, e’ caval, e’ fânt: da e’ set a e’ cvàtar j è tot scarten che int e’ punteg i n vêl gnint. U s þuga cun un maz ad cvarânta chêrt rumagnôli, cun cvàtar cartir, dið danêri, dið copi, dið bastoni e dið spêdi: a la fen dal dið ciapêdi u s conta i pont: ogni tre figur l’è un pont, l’as e’ vêl par tre figur, l’utma ciapêda la vêl tre figur; int i tornei u s conta al figur e acsè u n va da mêl gnint. Se cvel che e’ bateza al brèscul l’à la creca (as, do e tre) a la fen e’ conta tri pont ad piò. Coma che u s ved, fôrza ad ciacarê, e’ ven fura pareci règul de’ þugh: ona dal piò impurtânti l’è de’ þugador che l’inveja una ciapêda e ad cvel che e’ pò dì a e’ su söci. U s dið che e’ Becacino u l’epa invintê cvàtar surd e mot e cvindi al parôli che u s pò dì agl’è pôchi: boss (meti la mej e torna!), stress (a n ò incora dal znini!), vól (ad ste carter a n n’ò piò). Mo sta règula spes la n ven rispetêda e in ogni sid indov che u s þuga la pò cambiê: a Cas-cion u s fa scòrar ad piò, forsi tròp, ma l’impurtânt l’è che e’ sistema e’ vêla par tot. Un nuovo riconoscimento internazionale per il romagnolo Sono stati di parola (alla fine). Adesso c’è totale uniformità tra l’Atlante Unesco e la classificazione ISO: contengono la stessa informazione. L’emiliano-romagnolo non c’è più; al suo posto ci sono l’emiliano e il romagnolo. Il mio auspicio è che venga aggiornata la filogenesi. A tutt’oggi la serie è la seguente: Lingue gallo-romanze Lingue gallo-italiche Emiliano-romagnolo Romagnolo Segue dalla prima Non mi sono fidato. Ho lanciato immediatamente una petizione sul noto sito change.org che in pochi giorni ha superato le 100 firme. La petizione (forse è la prima volta in Italia) è stata redatta in inglese e in romagnolo. All’inizio di gennaio, dopo le feste, sono tornato a vedere il sito dell’Atlante ed ho scoperto che il romagnolo è stato inserito. la Ludla Febbraio 2016 Cun e’ pasê de’ temp int e’ bar u s forma dal cöpi fesi, u s stabiles dal gerarchì ad cvi che i sa piò fê: infena a un cvelch ânn fa u j era on che al ciamema e’ mej de’ mond, l’era Elio ad Birinina, da cvând ch’l’è môrt e’ Piroch int e’ nöst bar u n è stê piò lò. Par fni e’ mi racont ecco una specie ad zirudëla che a javeva scret dið-dodg enn fa: E’ piroch a Cas-cion d’Ravena A s truven e’ dop-mëþ-dè int e’ cafè par þughê a piroch in cumpagnì par stê una ciöpa d’ór in aligrì e par ðminghês i fatëz ad tot i dè. E’ sid l’è e’ zìrcul di republichen int ‘na saleta sól pr’i þugadur e cvàtar i þuga e ch’iét j è spetadur ch’i fa un zérc atórna a e’ tavulen: mo i n sta solament a lè a guardê i scor, i rogia, i dið che t’é ðbagliê che t ci un cagnaz parchè t’an é tajê e che e’ piroch u n è e’ tu magnê. E par cvi ch’i þuga l’è un dopi lavór par tné dri al chêrt ch’al va vi, i scurs de’ söci e ad cvi ch’i sta a lè dri, e dal vôlt u t cala þò e’ sudór. Se pu t’coj a fê una capëla, ciôtat in prisia s’t’é una caparëla, chêvat sòbit sòbit da i cvajon e nö t’fê avdé pr’un pô int e’ camaron. Dopo la cancellazione dell’emiliano-romagnolo da parte degli organismi internazionali io auspico che, da Lingue gallo-italiche, si passi direttamente a romagnolo (ed emiliano). Un altro mio auspicio è che si aggiornino presto anche i libri e le enciclopedie cartacee. In conclusione, dal 2008 (quando spedii la mia prima email a SIL International) al 2016 sono passati ben otto anni. È stato difficile ma ce l’abbiamo fatta! 7 Cl’an l’èra frèd e la nìva tla zità. Us camniva a fadiga sla strèda. I nóst scarpùn lizir i era bagnìd tót i dé. I pàn tachéd ma’l scarani drì la stufa a’ carbon, te’ curidoj, cl’an era mai smorta gnènca ad nòta. E’ manchèva poc ma’ Nadèl e nùn burdèll an vidimi e’ mumènt… “Oz um fa mel la pènza” la ha det la Giuliana cla matèina. E isé l’è stè ma’ chéða. La Lucia l’an era bòna da dì al buséi e a testa bàsa e sa’l schèrpi bagnèdi l’è andè a scòla. La mà cla lavureva tla cusèina dla cantèina, l’èra stè só prèst, sèmpra tra mélla pensir, la niva l’an la vidiva gnènca. I lavur dla chéða i éra ‘na masa, ma sla zéa e la mà un si pativa gnìnt. Arturnimi da la scòla e la zéa cl’era una ciacaròuna l’aviva sempra al nòvi de’ marché e dla su’ amiga. Tra una sciaparèda e una schrichèda d’ócc a curimi sèmpra da lia. Tal strèdi la zénta la zirèva poc. “A vagh mé a tò e làt” la giva la Giuliana, a l’avimi capì che lia la vliva véda, qualdun ad scapozz! La mà l’aveva zà compri e’ bacalà da còs per e’ dé dla vgilia, e feva la pózza, énca sl’èra a mòll tla bacinéla sla fnèstra ad fura. E’ bà l’èra migrent tla Svézra se’ zèi. Da nùn e’ lavor l’era poc. Avimi las e’ paés e la tèra in campagna da un pèra d’an. Lor i lavureva t’un cantir gròs i feva i muradur t’un paés dù ch’i zcuriva e’ tèdesch, vsèina Zurigo una zità grànda, bèla! At chi timp u i èra una masa ad itaglien a lavurè, qualdùn l’aviva al famèj drì! Cl’an e’ bà l’e stè nòv mis po’ l’ha duvù arnuvè e’ cuntrat un’ènta volta. La mà l’an vliva andè in Svezra, la giva che u i èra e’ nòn, da badè la zéa, quàtri fiul, scaramazoun cumm ch’a sirmi, ma nun, is avreb mand vìa sobti! I là i scarzèva poc! I padron dla cantèina i’aviva dét ma la mà, cla putiva stè ma chéða. In zir u i èra poc uperai, sa che tampaz! E bà a l’aspitimi per al festi, l’aveva una valisa ad pàn da lavè e da archuncì. A sirmi una faméja grànda, ai stimi tót tla chéða te’ Borgh ad Sant’Andrè! Nùn fradèll tnà càmra, la zéa da par lia, i nóst t’un énta. E’ gabinet l’èra tl’òrt, un gabiot fàt ad madon s’un finistrein in élt sempra vèrt. Ilé, l’èra frèd u s steva dèntra mench ch’u’s putiva. 8 L’udor dla niva di Lidiana Fabbri Illustrazione di Giuliano Giuliani Racconto terzo classificato all’ottava edizione del concorso e’ Fat organizzato dalla nostra Associazione E bàgn us feva e’ sàbdi daventi la stufa, dèntra la mastèla tla cusèina. Dal volti, la dmènga matèina cl’ùdor bòn cl’arviva me’ nès, l’èra de’ làt e dla zàmbela, ut feva scapè de’ lèt énca se u s vliva stè ilé dèntra un ént pò. La zéa la steva sò prèst per cos al ròbi te’ forni dla stufa a legna. Pietro e’ piò znìn e’ durmiva masèd tra l’ cuerti sla bretta ad lena sla testa, fina tèrd. La cusèina dla chéða e pareva una piàza. Tót i lavur is feva ilé dèntra, plè e’ póll per al festi, fè i caplèt, u s feva i compit dla scòla, us stirèva i pàn sora e’ tevli, la machina da’ cusì se’ fil sempra infiled tl’égh, t’un canton. Una cardènza sla varnisa celesta sbrucleda. La porta dla sela l’era sempra ciusa, us magnèva ilà snà se u i era i parint. Al dmènghi d’inverni e’ dopmizdè a lavurimi sl’uncinèt. Al nosti cuséini al stèva fina chú n èra scùr. La vsèina se’ su’ marid la steva ilé a ciacarè, lia, se su’ dagócc t’ al mèni la feva tèmp a fnì un pera ad calzét. U s santiva che agl’ariveva al festi, e sareb arvàt e’ bà se’ treno! “I là u s ciàpa ad piò” e’ giva. E’ lavor l’èra pesent, e sciantèva la schina, la zurnèda la è lònga. Ma la pèga la era sicura, isé u s putiva sistemè al porti, al fnèstri, càl gl’i èra vèci e pasèva un carnisèin da e’ mèr che fèva strimulì! Magari un ént àn u s putiva cumprè una bicicleta nòva, e’ frigo, o adiritura la television. Ilà l’era fred, la niva sàl muntagni, ma al strèdi agl’era pulidi. Ló l’era capitè tnà chésa du chi era in òt cris-cen e steva bèn, i n’ha trov mai Febbraio 2016 da dì! La sera un scapeva nissùn, i feva una brescla, qualdun e scriveva una cartulèina, i stèva da santì la radio, un bicir ad vèin po’ a’ durmì! Tla su’ útma letra l’aveva scrèt che énca da ló u l’aviva fàta e che e’ viag e putiva slunghès e’ e’ treno e putiva arvì ma la stazion pió terd. A la pèz e sareb arvàt la matèina ad Nadèl. E’ vèndra, la mòj ad Gambòn la ha ciamè da la porta: “U i è e’ tu marid me’ telefon da la Svezra”. L’usteria da Gambon l’era tacheda ma la fila dal chéði. Quand l’era artórna l’èra cuntènta perché e’ bà e sareb arvàt e sàbdi ma’ la stazion. La matèina ben prèst, la zéa l’aveva cambiè i lanzul mi’ lit, l’aveva plè la galèina fàt l’impast per i caplèt. E bacalà e buliva sal pateni e la cunserva t’un tighèm grand, ad teracota, dó cuerc sora. La mà l’aveva cavè da e’ bavól la tvàja biènca quela cl’aveva dovri per e’ batesmi ad Pietro. U i era snà e’ dóbbi se us magnèva tla sela o tla cusèina… “U s magna tla cusèina”, la ha dicis la zéa. I scartuz dla ròba sla fnèstra. Al partugali e i mandàrein t’un énta, zó, zó per la schéla, e’ gòb da cos, la zvólla e chévli ilé i stèva me’ frèsch, tóta ròba per al festi. La zéa la spazeva e curidoj, la sistemèva dal scaràni per i pan. L’aviva mes un taped vèc lòngh, ròss e blò, lia la vliva fè isé tót i’ Nadèl! Tót i curiva, u s vliva priparè tót per la stmèna. Pietro te’ lèt s’al sbari ad legn in pid daparlò un si lamanteva, la Silla Ludla via cl’andeva a butéga da la paruchira a imparè e’ mis-cir, la v-gilia l’aveva dafè na’ masa. “A vagh a radanem i cavéll da la Silvia” l’aveva det la mà. La Giuliana e la Lucia agl’aviva fàt l’élbri d’Nadèl, l’èra sploch set, òt palini fàti sla lena, al fitocci ad fodri arvènzi di’artàj dla sartora. E’ su’ post l’era daventi la fnèstra! La zèa l’aveva trat fura e’ tulir per fè i caplett, agl’òvi, la farèina e s-ciadùr. A sirmi dàtonda ma’ lia. U s guardèva al su’ mèni svèlti, agl’èra mèni d’òr! Lia, l’èra la pió grànda dal sureli de’ bà, l’an s’ è mai spusè, sla paranenza e si su’ cavell récc, tiràt so’ nùn a la guardimi cum’è cla foss un ànzli. “Burdèli nu’ zcurdev da mèt la lètra sòta e’ piàt de’ vost bà!” la dà só la zéa. E’ zà, tóta cla fadica per armidiè al paroli! “Mitila t’è caset ilé a’ la mèna!” La zéa la vliva al fili di caplét drètti se’ tulir, pricisi, isé ai putimi cuntè. I caplètt i è stè méss sora e’ tevli tla sela cla era giàza, pió giàza dnà giazèra. U s’era fàt l’ora da fè e’ bàgn t’e mastèl. Nissun e’ fiazèva. Daðdé ma la tevla aspitimi la vósa da la porta. Ma e’ bà e’ tardeva. La mà l’ ha cavè e’ prit e la sora de’ lèt e zét zét a sem andè sótta l’imbutida. L’èra pas poc pió agl’òt e mèz dla sera, al lampadeini dla chéða li s’è smòrzi. la Ludla La matèina ad Nadèl u s santiva e ciàs da la cusèina, e’ pareva che u i foss pió sfunézz. Pietro e pigniva e l’aviva svigè ma’ tót. La lampadèina cesa, a sem stè só de’ lèt, te’ curidoj avem vést al valiði. ”E bà l’è arvàt, e bà l’è arvàt”! Ad galopa a sem andè tla càmra, ló l’era te’ lèt, svég, e nùn cuntint a saltimi sora e mataras. I bès, in si putiva cuntè. Intent che ló us vistiva la mà l’aveva mes al valisi sla tèvla e un po’a la volta, la capèva i pàn da una perta, una ma-ða ad scartuz da un énta. “Stè zét burdell u i è un rigal per tót” l’ha dét e bà sla vóða stràca. T’un sachet ad chérta, al stecchi ad ciocolata, u i era i bambuz fàt ad zócri znin e grànd ch’is putiva magnè, da met mi’ rem dl’élbri ad Nadèl. Un paniton, l’aveva det che u l’aviva compri ma la stazion ad Milèn. I culur per la scòla, una scatla pròn, l’aviva al sigaretti per la mà e la zèa e i zigri per e’ nòn ad Mercatein. E’ bà l’aviva compri i calzitun ad lèna, e’ giva che ilà la lèna l’èra piò bòna. Dasdè sla scaràna, intent e’ biviva e’ cafè. “I paes e al muntagni pini ad niva” e giva e bà. L’e pió bel d’instèda al muntagni datonda cuerti ad piènti virdi. U i è una masa ad mungheni in zir, di’ prè chi’ fa vòia. I fiur int i zardèin, u s vid un legh Febbraio 2016 grànd chum’e e’ mèr!” “L’aria la è bòna!” “Eh, insoma, ìr a’ sem arvènz bluched tla stazion e’ treno l’èra partì terd” . Una masa ad zènta tached i bineri, ch’i turnèva ma chésa dal famèj. A stimi da santì tót al nòvi de’ bà, senza bàt i ócc. Intènt la zéa l’aviva santì al campèni. “Ades mitiv la sutèna pulida e una bèla pitnèda” lia dà só. Che bòba la matèina ad Nadèl! Per furtuna che lia l’aveva pansè a mèt só e brùd sla galèina, intent da la pnàta u s sparpajeva un udor bòn… E’ bà l’era arvàt, al campèni al suneva per ciamè d’andè la Messa. Tót pulid e se’ capòt quel c’avimi sèmpra chélt dé, sal schèrpi bagnèdi e i calzitun nóv a sem andè ma la ciða, tót insen. I vsèin i dèva da’ dì me’ bà, il salutèva; la mà la’l tniva a bracèt, e nùn didrì. Al schèrpi li s’instichèva tla niva, nissun u s’è lamantè ch’l’aviva i pid giàz . L’èra un spétacli a veda tót che biènch dàtonda, e la zènta a pid a spargujon per la strèda. L’era arvàt un spraj ad sol, un suolostri d’or che u s slunghèva tra i tét dal chéði, da i camèin e’ scapèva un fom cèr, che scaldeva l’aria. La nìva la pareva ad zócri, l’aviva un udor particuler, énca lia che’ dé… 9 Il guaritore è una figura tradizionale tra le più diffuse all’interno dei contesti culturali tradizionali e folklorici. Numerosi studi svolti in diverse zone del nostro paese hanno messo in risalto, nei dialetti regionali e nelle tradizioni ad essi soggiacenti, la presenza di tracce relative a questa figura, evidenziando inoltre la permanenza di simili personaggi sino ai giorni nostri. Anche se col passare degli anni e con la diffusione della cultura globalizzata questo fenomeno si sta restringendo sempre di più, è ancora possibile incontrare uomini e donne, spesso anziani, dediti all’esercizio della medicina popolare. Come spesso accade per le tradizioni che sopravvivono a lungo all’interno dei contesti culturali tradizionali, anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un fenomeno antico, che getta le sue radici nel lontano passato della preistoria. Recentemente Francesco Benozzo ha analizzato i trovatori medievali dimostrando la loro discendenza rispetto ai professionisti della parola dell’Europa paleo e mesolitica. Riallacciandosi agli studi di Gabriele Costa, che attraverso la comparazione di testi appartenenti al mondo eurasiatico è riuscito a far emergere con chiarezza l’evidenza di una fase sciamanica preistorica originale e propria della storia etnolinguistica delle popolazioni indeuropee. Molti elementi evidenziati dagli studi di Costa identificano lo sciamano come poeta, cantore, musico e custode del sapere e della letteratura orale. A queste figure, infatti, per millenni era spettato il compito di custodire e trasmettere l’amplissima tradizione culturale che le genti indeuropee avevano sedimentato a partire dal Paleolitico Superiore, una tradizione orale trasmessa dalla lingua poetica. Questo elaborato mezzo verbale, attraverso un lungo processo millenario che condusse alla sua codificazione, divenne contenitore e veicolo di quelle antichissime forme di conoscenza. Attraverso la disamina dei testi sciamanici dell’area eurasiatica e dei testi bardici più antichi è possibile estrapolare alcuni caratteri fondamentali, i quali, codificandosi nelle fasi successive, divennero temi ampiamente 10 Tracce di un passato remoto VIII - E’ strolgh di Gian Maria Vannoni diffusi all’interno delle forme poetiche più antiche come quella trobadorica. Tra questi il più importante e distintivo è il riferimento all’esperienza estatica e onirica e cioè la narrazione del viaggio del poeta nel regno dell’Oltre, la quale rappresentò un vero e proprio leitmotiv della tradizione poetica trobadorica. Tracce relative alla figura del poeta/guaritore sono reperibili anche in Romagna all’interno di alcuni termini dialettali. Uno tra gli esempi più chiari di questa continuità è rappresentato dal termine dialettale romagnolo strolg, oggi utilizzato con una forte connotazione negativa. Di possible derivazione latina (lat. astrologus) questo termine è riscontrabile all’interno di un consistente numero di parlate dialettali ed è ancora utilizzato per indicare un personaggio eccentrico. Questo termine è utilizzato anche per indicare personaggi che vivono ai margini della società o persone affette da disturbi psicosomatici e/o malattie mentali. La derivazione etimologica di questo termine dal latino appare evidente, ma la moderna accezione negativa e/o ironica non è facilmente interpretabile seguendo i paradigmi delle teorie tradizionali sulla nascita e diffusione delle lingue e delle culture indeuropee. All’interno di uno dei suoi studi Francesco Benozzo analizza i termini dialettali bernardòun e bernardàun, incontrati durante la preparazione del Dizionario del dialetto di San Cesario sul Panaro, notando come questo vocabolo venga ancora utilizzato dai parlanti di quest’area geografica per definire indifferentemente il poeta (chiamato anche Febbraio 2016 puieta) e il guaritore tradizionale (chiamato anche steriòun, steriàun). Ci fa inoltre notare che un termine praticamente identico (bernardùn) è reperibile anche in area mantovana, sempre con il doppio significato di “cantastorie” e “mago”, e che allargando l’indagine ad altre parlate ci si accorge del fatto che questa consonanza onomastica non è esclusiva dell’area emiliano-lombarda ma è diffusa all’interno di numerosi dialetti europei. Il fatto che lo stesso nome sia usato per designare due figure apparentemente distanti infatti potrebbe sembrarci strano ma questo è del tutto normale se ci si riferisce all’orizzonte culturale legato a società etnografiche in cui il poeta e il guaritore non sono altro che due aspetti della stessa figura: il professionista della parola. Appare importante per ciò che riguarda l’analisi del termine romagnolo strolg osservare che simili appellativi – ad esempio bernardòun/bernardàun che oggi stanno anche per “scimunito” o “sciocco” – con il passare dei secoli hanno finito spesso per designare in maniera ironica e negativa personaggi strambi o matti, comunque ai limiti del comune senso di decenza e rispettabilità. L’attestazione di un simile scivolamento semantico rappresenta infatti una conferma del legame che intercorre tra simili termini dialettali e la tradizione culturale legata ai poeti/guaritori, dal momento che lo stesso sviluppo semantico è osservabile in parole provenienti da molte altre lingue, come ad esempio l’Inglese e l’Olandese nelle quali il termine che designa il poeta arriva a significare anche tonto o stupido. la Ludla Rubrica curata da Addis Sante Meleti da Civitella stampanòn: senza corrispondente ital. di ugual radice; in uso solo nelle valli del Bidente e del Montone. Indica il temporale estivo, breve ed improvviso; viene dall’avverbio lat. extemplo o extempulo ‘improvviso’, usatissimo da Plauto. In frasi come extemplo gràndinat (‘all’improvviso gràndina’), posto accanto al verbo impersonale, l’avverbio fu inteso come soggetto e ne venne fuori stampanòn.1 Come in altri luoghi, per farlo cessare, a Civitella i siôi [sciolgono] al campeni de Santuéri e i i tira indrenta pió ch’u s’ pò. La Madonna provvede di buon grado, cumpagn a bés un bicir d’aqua. Per inciso, siòi ‘sciogliere’ viene dal lat. ex+solvere, che è anche all’origine di assoluziòn ‘assoluzione’, con cui siamo sciolti dai peccati commessi.2 Modi di dire: tra l’aqua u i è dla timpesta: ‘grandine mista a pioggia’3; i dènn dla timpesta; o l’esclamazione sconsolata aqua sé, ma no timpesta!4 Note 1. Divenne nome pure l’aggettivo lat. temporale: timpurèl. In senso stretto, extemplo significa ‘fuori dal tempio’, che è un la Ludla ‘recinto sacro’ dentro cui si godeva dell’immunità, ritagliato a suo tempo ritualmente dall’àugure (in greco temno = ‘io taglio’): s’immagini perciò di catturare qualcuno appena mette il naso fuori dello spazio sacralizzato e crede d’essere salvo. 2. All’efficacia del suono delle campane contro tuoni, fulmini e tempeste non credeva solo il popolino, ma anche il segretario del card. Federigo Borromeo, l’arcivescovo dei Promessi Sposi: “…gli è tanto nemico il suono delle campane ai demoni infernali, che da essi sono eccitate le grandini, e tempeste; subito al suon di esse s’impediscono…”. Ai bambini poi si raccontava ch’ l’ era e’ dgevol ch’u péccia la su dòna o la varsira, ‘versiera’ o ‘strega’. Nelle nostre colline durante i stampanón s’usava battere tra di loro oggetti metallici, come la catena del camino, il paiolo o gli attrezzi. In tempi ancor più antichi le donne avevano così invocato la luna nuova, la dea Diana: ci resta l’esclamativo pargẽna. Durante la tempesta si usava pure bruciare sulla paletta, esposta fuori dell’uscio o della finestra, una parte della palma benedetta nella domenica in albis; la cenere residua era sparsa nella vigna per scongiurare altri danni. Ma erano usi precristiani; l’olivo era una pianta sacra già prima di Cristo. 3. L’aggettivo lat. grandis, indicava l’accrescimento fisico: ne venne ‘grandine’, i grani di ghiaccio. Dal diminutivo grandinìola viene il dial. gragnóla ‘gragnòla’: anche figuratamente: una gragnóla ad sasèdi [sassate]. Magnus era invece riferito al carattere e alle imprese: non per nulla si coniò magnànimus. 4. Il dial. conserva timpésta oggi riferita solo alla ‘grandine’, ma una volta coi significati più vari neppur negativi: ‘clima’, ‘stagione’, ‘epoca’, ‘periodo’, ‘circostanza’, ecc.; infine, era pure ‘burrasca’ (dal ‘rabbuiarsi’ del cielo). L’Ercolani, Voc., segnala tampéri a Roncofreddo, dal lat. intemperies ‘intemperie’: ma pure questa voce vale per ‘cose fuori regola’, persino ‘pazzia’: quella umana, non solo temp matt. A Civitella i più vecchi dicevano: e’ purèt, l’è fora ad ca agl’intimpérii: u sarà mòll fréid (bagnato fradicio), la va a fnì ch’ui ciapa la palmonita. Per un altro significato, Plauto, Càs. 18: Ea tempestate flos poetarum fuit (A quel tempo c’era il fior fiore dei poeti…) D’altra Febbraio 2016 parte ‘tempesta’ ha la stessa origine di tempus (il tempo delle stagioni, regolato dal calendario); di ‘temperare’ (dare una regola, temprare il ferro, far la punta alla penna d’oca col ‘temperino’ e, poi, alla matita); ‘temperamento’ e ‘temperie’ al sing., è pure la fibra di cui si è fatti, ecc. Si aggiungano ‘tepore’ e ‘tiepido’, cioè tèvd. stanè, rintanès, tẽna: in ital. stanare, ecc. L’origine di queste voci è controversa: per il Devoto, Avviam., deriva dal sintagma lat. caverna subtana (‘sottana’ = ‘che sta sotto’), che avrebbe perso per strada oltre che ‘caverna, anche la prima sillaba dell’aggettivo, riducendosi a tena ‘tana’. Il dizionario Cortellazzo-Zolli ritiene la derivazione possibile, ma precisa che non mancano argomenti per ritenere ‘tana’ una voce prelatina. L’ipotesi è suggestiva: ‘tana’ arretrerebbe di secoli, fors’anche di un millennio o due.1 C’è da chiedersi se ‘tana’ abbia qualche rapporto con l’arcaico lat. -stinare (solo nei composti) per ‘stare’ (presente in ustiné ‘ostinato’ e destiné ‘destinato’, a cui si rinvia). Nota 1. È ridondante definire subtana la caverna. Il Meyer-Lübke, REW, 1911, riporta tana senz’altre precisazioni. È un termine da cacciatori e contadini, piuttosto laconici, che, se scrivevano, non lo facevano per i posteri: ‘tana’ compare registrata nel 1151 in una glossa segnalata al Du Cange dal modenese L. A. Muratori, in un proverbio latino che sembra ‘macheronico’: Vulpes vetula non intrat in tanam novam (La volpe vecchia non entra in una tana nuova). La sa ch’ui putréb éss indrenta e’ padròn pront a ðgrafagnéi e’ néð. 11 L’era e’ mes ad znêr de ‘cvarentasì. Tot cvent j enn, par Sat’Antoni, Don Zvanen e’ faseva e’ zir dla Parochia par banadì al stali e tot j animel ch’j’era a ca di cuntaden. U s j era malé e’ ciergh che ‘d solit u l’acumpagneva e alora Don Zvanen e’ dmandep cun Gigion s’u l puteva ‘iuté. Cum’s’fal a dì ‘d no a e’ paruch? Oltre tot, l’era nench e’ padron de’ sidarin dov che Gigion e l’Elvira j era a mezzadria; a dì la veritê e’ puder l’era dla Curia, mo e’ prit u s cumpurteva cme se fos e’ su. E pu, nench par l’amicizia, sè, sè… parchè e’ prit …u j andeva a truvè spes… e sèmpar cvent che Gigion l’era int i chemp a lavurê (u j andeva nenca tröp spes, che la zenta, … al savì cme i fa prëst a murmurê!…). Gigion pu l’aveva nench una zerta sudizion, quindi u n fop bon ad dì ‘d no a la richiësta ad Don Zvanen. A mitê ‘d zner i cminzep a fê e zir: is fasep da la cà pió lunténa, ch’la j era a cvatar-zencv chilòmitar da la cisa. I zireva in bicicletta: e’ prit l’aveva, sot’e’ capot, tot i parament niciseri pr al bandizion e Gigion, int e’ manubar, do grendi spôrtal ‘d pavira par metij che pó ‘d roba ch’u j era da garavlê (cme uferti par la Cisa) a cà di paruchien: ôvi, un pó ‘d farena, un salam, o magari una mëza galena za pronta da metr int la pignata; in piò, Gigion l’aveva l’umbrëla lighêda int e’ canon dla bicicletta. A ca ‘d Pumpineti, dop avé banadet la stala, e’ purzil e e’ puler i s’afarmep int la cusena, daventi e’ camen aces, a fê do ciàcar e a bes ‘na ciopa ‘d bicir ‘d sanzves. Intent l’azdôra ‘d cà la j aveva inscartuzé, ona par ona, una mëza capa d’ôv e l’agl’j aveva mesi int la sportla ‘d Gigion. E’ temp l’era brot, tot cius e un prumiteva gnint ad bon. Gigion, zà da la partenza l’aveva det: -“Mo ach brot temp, u n avrà miga voja ‘d fê dla neva!?”- (nench parchè e’ tneva dri al calèndar e spes u j ciapeva!). E’ prit, un pó sburunzot e sempar sicur de’ su pinsir: -“Mo cs’a dit!? A t e’ degh me che fra pôch e’ ven a fura e’ sol, enzi, a so acsè sicur che, vêda, a n toj so gnench l’umbrëla!”Det e fat! Dop a mëz’ora ‘d ciacar dri e’ camen i s dicidep ‘d partì… e fura 12 Don Zvanen, Gigion e la neva di Radames Garoia u j era una schêrpa’d neva! E’ faseva di blëch ch’i pareva di foj ad cvadèran! E Don Zvanen (par fê e’ sapienton davanti a cla fameja): -“Ah mo, l’era da dì,… cun che timpaz nìgar!”Gigion u n’e’ puteva supurtê, cvant e’ faseva acsè e u i staseva ‘vnend un narvos ch’u i fumeva e’ zarvël! J aspitep êt dis minut, spirend ch’e’ smites ad nvé e pu i dicidep ‘d partì: -“Dai Gigion, ch’a parten! Te t ve ad daventi cun l’umbrëla ‘verta e me a t stagh dri, dri, cvasi tachê a te che acsè a so piò riparê!”- e’ dgep e’ prit in môd autoritêri. Gigion, smuclend tra i dent, daventi cun l’umbrëla verta a fê da “apripista” e cl’êtar cvasi tachê e’ cul (che Gigion l’avreb dê la mola vluntir cvicôsa cun e’ fié, mo la n i scapeva, par e’ sfôrz e la cuncentrazion dla gvida cun ‘na mân sola). Mo l’era fadiga pidalê dret, parchè e’ viôl ‘d Pumpineti l’era a schéna ‘d sumar e u t faseva sgvilê vers e’ fos, un fuson ch’u j dgeva lës un znoc d’acva! Dop a tarsent mìtar Gigion e’ sintep e’ paruch, ad dri da lò, ch’e’ rugeva: “A vêgh…a vêgh….a vêgh!”- (a dì la varité a Gigion u j parep d’avé sintì nench una rubaza…..). E pu, sobit dop… un rugiaz! U s vultep indrì e u s farmep sòbit…Don Zvanen l’era infilé int e’ fos, tot ingavagnê int al sután, cun la tësta in zò, al gamb pr eria e la bicicletta sora ‘d lò! Int e’ vdé sta scena, Gigion, alè pr alè u s fasep una sbacarêda (ad cuntinteza, ad chêra, ciamila cm’u v pê, par la figuraza de’ prit, che prit un pó presuntuos, ch’e’ pinseva d’avé sèmpar rason lò). Mo sòbit u s tartnep, fasend cont ‘d lës preocupê: -“Mo Don Zvanen, cs’a fasiv? A v siv fat mêl? Dai che adës a v’aiut...”Febbraio 2016 Mo lò, senza dì una parôla, u s tachep int l’umbrëla ciusa che Gigion u j aveva slunghê e, una vôlta dret, e’ muntep a caval dla bicicletta, che nenca li la n s era fata gnint e e’ partep cme ‘na sajeta. U n s’era fat gnint parchè l’era caschê a mol in che mëz mètar d’acva ch’l’era int e’ fos. Tra ch’l’era bagnê cme un picin, tra la neva ch’la cascheva a tirumbëla, tra e’ narvos, e’ tiracul e la vergogna,… a vdél in bicicletta e’ pareva un caval ingiavlì! Gigion e’ zarchep ad stej drì, mo valà, dop a du minut u l chignep mulê e dop un pó u n e’ vdep pió. Adës ch’l’era da par lò, Gigion e’ puteva rìdar, rìdar ad gost par la caschêda int e’ fos e la figuraza de’ su pàruch! U n avdeva l’ora ad cuntêl cun l’Elvira e ad rìdar… cun tot i vsen! E’ rivep a la cisa che rideva incora, e’ truvep e’ prit int la sacrestì, ch’u s era zà mes i pen sot e ch’u l batzep sòbit: -“E’ prem cvël ch’a t voi dì… t’an rida de’ tu paruch, arcôrdat ch’a so nench e tu padron e cvent a faren i cont a la fen dl’an… t’am’é capì, vera? E pu, t’an e’ véga a cuntê… gnench a ca tu… ste fat ch’l’è sucës, a l saven sol me e te e a n voj ch’u s sepa in zir, ét capì?”E’ fop acsè che Gigion, pr un pëz e’ chignep rìdar da par lò. E’ fat u s è savù zincvant’enn dop, cvent che Don Zvanen l’arpunseva da un pëz sota un metr ad tëra int e’ campsent dri la cisa. Comuncve, …a n i cardarì, Don Zvanen, che tot j invìran l’aveva sèmpar e’ mêl ‘d gola, la tòsa, la brunchita, e’ reumatìsum, cl’inveran de’ melnovzentcvarentasì u n ciapep gnench la fardason! la Ludla Per i tipi di In Magazine, è appena uscito un agile libretto: 52 miti e misteri di Romagna. Scritto da Pierluigi Moressa, saggista e cultore di storia e di tradizioni, si suddivide in quattro argomenti: leggende, tradizioni, luoghi e miti, ciascuno aritmeticamente composto da tredici capitoletti. Il testo propone un percorso entro l’antica anima del popolo di Romagna. E davvero appare attuale la frase di Freud citata in epigrafe cioè che i miti sono i sogni coltivati per secoli dalla giovane umanità. Come si presenta allora il semplice epos romagnolo? Cultura dei campi e tradizioni di origine romana, personaggi della storia e trasfigurazioni attraverso la leggenda: tutto concorre a individuare nel substrato romagnolo un livello di interazione tra classi povere e ceto borghese, tra clero e nobiltà, che pone tutti sul medesimo piano di parità, anche sociale. Il calore e la fruibilità del testo stanno nella semplicità e nella sintesi. Si tratta in definitiva di una piccola enciclopedia del mito e della tradizione capace attraverso la lettura del passato di comprendere meglio il presente. Probabilmente esiste un’anima dei popoli e questo libro vi accenna con lo stile di una ricerca che non si disgiunge mai dal rigore della storia. Uno degli argomenti che più ha sollecitato la mia personale conoscenza è il dodicesimo capitoletto che affronta il tema dei guaritori, rimedi popolari contro le malattie, al tempo in cui il confine fra medicina e superstizione costituiva una sottile linea spesso indefinibile. Ancora oggi tuttavia, specie nelle nostre aree rurali e zone collinari, assistiamo al perpetuarsi del ricorrere ai guaritori quali portatori di magiche virtù, in forza di un dono ricevuto alla nascita, trasmesso attraverso precisi rituali. Al neonato per trasmettergli la virtù / potenzialità veniva posto nella manina un fiammifero acceso e successivamente una monetina d’oro onde poter guarire attraverso la “segnatura” il fuoco di Sant’Antonio. Nella preadolescenza, poi, al ragazzo la notte di Natale veniva trala Ludla Pierluigi Moressa 52 miti e misteri di Romagna di Maria Piazza smessa una preghiera segreta da recitare “col cuore” durante la segnatura. Il 24 dicembre, notte energicamente potente e significativa, coincide col solstizio di inverno (dopo il quale uscendo dalla fase più debole il sole ritorna vitale ed invincibile sulle tenebre). Questa pratica risente in maniera notevole dell’influenza della cultura cattolica, come si rileva dalle formule, nelle quali compaiono spesso figure importanti di questa fede a partire da Dio, Gesù, Maria e molti Santi, e dalle preghiere cristiane che vengono recitate prima e dopo la segnatura. La persona affetta dal fuoco di S. Antonio, a digiuno per tre mattine viene segnata con segni di croce sulla parte malata usando una vera benedetta non appartenente al guaritore, il quale recita la preghiera segreta. Per questa pratica non può essere ricom- Febbraio 2016 pensato in danaro né avere altre aspettative, solo simbolicamente può accettare un centesimo. Invece al neonato che si vorrà “guaritore” di disturbi agli occhi (orzaiolo e infiammazioni) alla nascita verrà collocato nella manina un fiore fresco, molto frequentemente un garofano raccolto durante il travaglio della madre. Anche in questo caso al ragazzo viene trasmessa la notte di Natale la formula specifica della preghiera segreta che durante la “segnatura” reciterà mentalmente. Prima del levarsi del sole per cinque giorni consecutivi a digiuno sarà segnato sugli occhi con segni di croce effettuati con un fiore fresco madido di rugiada. Questi simboli, lungi dall’essere il retaggio fossilizzato di epoche perdute, sono entità viventi, attive ed operanti, svincolate da leggi del tempo, ed in quanto tali tuttora pulsanti di attualità. Da una indagine svolta con molta discrezione dalla scrivente, le persone segnate hanno riferito di aver riscontrato benefici, riduzione del dolore fino alla guarigione sia dal fuoco di Sant’Antonio sia da orzaioli e da infiammazioni oculari. Il guaritore in verità non guarisce ma riequilibra così bene la persona che sarà lei stessa ad attivare la sua auto-guarigione. Visione della realtà con occhi di bambino: questo il valore del mito, che risulta ancora come il substrato delle forme di etica elementare che può illustrarci valori a tratti oggi perduti, come la differenza tra buono e cattivo, tra giusto e ingiusto, tra lecito e illecito. E in questo risiede la capacità di affacciarsi alla ricerca di una felicità che non si può solo lasciare ai territori del sogno. 13 Anche questa volta, purtroppo, mi tocca affrontare la cruda realtà quotidiana. Un onesto lavoratore romagnolo che ha ormai sorpassato la quarantina si trova, da un giorno all’altro, sbattuto in mezzo ad una strada dalla sua azienda perché - si sa - produrre in Italia non è più economicamente vantaggioso: meglio andare a sfruttare dei poveracci all’altro capo del mondo incuranti dei diritti umani e delle norme ambientali. Così il nostro malcapitato, ignaro dei cambiamenti occorsi dall’ultima volta che ha cercato un’occupazione, si reca con piglio fiducioso in un’agenzia di lavoro interinale dove, a detta loro, cercano tante figure professionali desiderose di fare. La signorina, che avrà l’età di sua nipote, gli consegna un modulo per presentare una candidatura spontanea che recita più o meno così. Gentile candidato, pensa di avere l’X factor per ricoprire il ruolo di buyer o di sales manager in una holding? Oppure ha il classico savoir-faire di chi sta nel back office a gestire l’importexport? O si sente più portato per ruoli di account assistant o segreteria? Ha l’appeal del venditore door-to-door? Allora compili il form che trova sul nostro sito web alla pagina CV, indicandoci le sue personal skills (uso PC, hobbies, etc.). Poiché il leitmotiv del mondo del futuro è la formazione, ci segnali l’eventuale disponibilità a svolgere uno stage formativo gratuito. 14 Röb d’incudè Jobs act docet di Silvia Togni Il nostro diktat è serietà quindi, in caso di assunzione, la preghiamo di evitare piercing, maquillage volgare, abiti kitsch come shorts e fuseaux e accessori fuori luogo come paillettes e sabots. Dopo che avrà creato il suo account online, le verrà inviato un sms di conferma e avrà così accesso alla pagina Job career. Grazie di averci consultati: la nostra mission è aiutare proprio la gente come lei! Lò e’ puret, ch’e’ vléva sol truvê un lavurzen par arivê a la pinsion cun dignitê, u j armasta com’un ciù. Pu u s’fa fôrza e com’un pôvar mingon e’ va int e’ bar indò ch’u j è un amigh, un pô piò pataca ed n’è lò, che u j spiega acsè e’ fat. E’ mi pôvar sgraziê, a pinsiv d’avé di nòmar par cumprê o vèndar dal rob int un post da ðburon? O a pinsiv d’savé ad ch’in fê cun l’ëstar? U v cumpa- Febbraio 2016 rèsal ad fê di cont tot e’ dè o d’stê in ufèzi ad arspòndar a e’ telèfan? Aviv una faza ch’u s i amaca i pignul in sò par andê a ròmpar i quajon a la þent int al ca? Alora scrivì quel ch’a javì fat e quel che a si bon ad fê e ch’u v pies ins e’ nòstar sid Internet (zarchì indò ch’u j è scrèt ‘CV’). A siv dispost a fê e’ tabachet senza ciapê un bajòch? E pê che la furmazion incù dè la seja propi impurtânta. E s’i v ciapa a fê un lavor e’ bsogna avstis ben e no andê là tot ðviduré coma di zèmbal. Dop ch’avrì finì la registrazion su Internet, a rizivarì un mesag ins e’ vost telefunin. Acsè a putrì avdé toti agli uferti d’lavor e indò ch’i zérca. Nó, a lavuren propri par di ðmarì ad Catarnon coma vò! Per i lettori de La Ludla i quali, per il solo fatto di leggere una rivista bilingue, meriterebbero un plauso speciale, tengo a precisare che molti dei prestiti sopra citati rispettivamente dalle lingue inglese, francese e tedesco, sono usati in italiano a la Giuda boja. Un esempio su tutti è lo pseudo anglicismo SMS che nessun madrelingua inglese o americano sarebbe in grado di comprendere, in quanto l’acronimo significa Short Message Service, ovvero un servizio di messaggeria breve e non un messaggino che qualunque anglofono chiamerebbe invece text o text message. la Ludla Int e’ sol ad Febrer di Mario Vespignani Un spraj ad sol int l’ora dla maténa e’ fa brilêr i rém di du abit, l’acénd al guzlin d’néva che la s’sfà coma candlin acési par Nadêl. Sota che grând’umbrël ch’e’ fa j abit una lus cêra la s’spargoja in þir, la s’ténþ ad rôsa a salutêr e’ dè, coma s’e’ foss turnê la premavéra. L’è incóra fred, ma e’ temp e’ fa sperê d’avê lassê indrì tot quânt e’ giazz, Ancora “Sagatê” Siccome biasso un po’ di greco (di greco d’adesso, si capisce, non di quello della ditta Èschilo - Sòfocle Evrìpede), l’altro giorno, in un libro, ò dato impetto al nostro verbo sagatê - del quale ogni tanto si parla sulla Ludla - travasato addirittura nel greco di una poesia del grande (sì, credete poi che sia grande) Costantino Kavàfis, il poeta di “Itaca”, di “Aspettando i barbari” e lascia poi dire. Sta poesia è intitolata “Molto raramente” (dico il titolo tradotto in italiano), e parla di un vecchio, debole e curvo, storpiato dagli anni. Ebbene per dire “storpiato”, Kavàfis adopera il termine σακατεμενος che in italiano si legge “sacatemènos”, participio passato del verbo σακαατευω (leggi “sacatévo”), verbo che il “Dizionario Greco Moderno”, Zanichelli, Bologna, 1996, traduce con: “storpiare, menomare, distruggere, massacrare”. la Ludla un vent alþir e’ fa dundlêr i rém, e’ fa caschê la néva ch’u j è armast. E’ pê ch’a sema fura da l’invéran e nenca l’êria la s’è fata bona, la n’è piò l’êria svidra ad chj ìtar dè, ma l’invéran l’ha incóra da passê. Nel sole di Febbraio Un fascio di luce nell’ora della mattina / fa brillare i rami dei due abeti, / accende le goccioline di neve che si scioglie / come candeline accese per Natale. // Sotto quel grande ombrello fatto dagli abeti / una Iuce chiara si spande in giro, / si tinge di rosa a salutare il giorno, / come se fosse tornata la primavera. // È ancora freddo, ma il tempo fa sperare / d’aver lasciato indietro tutto il ghiaccio, / un vento leggero fa dondolare i rami, / fa cadere la neve ch’è rimasta. // Sembra di essere fuori dall’inverno / ed anche l’aria è diventata buona / non è più l’aria gelida degli altri giorni, / ma l’inverno deve ancora da passare. I greci, quindi, sta parola l’hanno presa in prestito perpetuo da noi. Noi poi chi? Ció, io non lo so mica in quanti dialetti d’Italia la gente “sagàtti” o che, magari, che abbia “un sagàtto” di soldi. Vuol poi dire che non c’è poi mica da meravigliarsi del prestito. I nostri fratelli greci, specialmente lungo tutto l’ultimo millennio, di parole italoveneto-adriatiche ne ànno garavellate due belle due tre. Tanto per dirne una: l’arancia. Loro la chiamano “portocàli”, quasi preciso a la partugàla di voialtri ravennati. Nuiétar faintẽ, par no s cunfõndar cun vuiétar ramiẽ (u j amancarèbb sol cvèsta!), a s’acuntintẽ d’ciamêla sol “melarãza”. Giuliano Bettoli - Faenza La quiete dopo la tempesta L’altra notte pioveva a dirotto con lampi e tuoni, vento e pioggia e grandine, che mi hanno svegliato. A ottantuno anni non è facile riprendere sonno. Si pensa, si fantastica, si ricorda. Dopo mezz’ora la bufera è cessata e dagli anfratti del cervello è spuntato Leopardi: La quiete dopo la Febbraio 2016 tempesta. E subito dopo la domanda: come tradurre in dialetto romagnolo il titolo di questo canto e i primi versi? Già il titolo mi ha messo in buca, perché per me bagnacavallese la timpesta è la grandine, non lo scatenarsi di vento, pioggia, grandine, con accompagnamento di lampi e tuoni. Altro inciampo quiete. Che non è chêlma. Per un paio d’ore mi sono arrovellato e avvitato in tentativi stonati di lessico e ritmo, perfino ridicoli o grotteschi: ho fatto il verso, rovesciandolo, a Renato Rascel: “L’è pasêda la bufera / l’è finì e’ timpurêl”. Da vergognarsi in eterno tanto inadeguati e fuorvianti risultano gli ottonari. Risparmio altre goffaggini. Come tradurre “e la gallina, / tornata in su la via / che ripete il suo verso”? Evidentemente ci troviamo di fronte a due registri linguistici incomparabili. Per divertimento non mi resta che suggerire agli amici de La Ludla di bandire un concorso per la traduzione in romagnolo de La quiete dopo la tempesta di Giacomo Leopardi. Primo e unico premio una ciambella e una bottiglia di Sangiovese. Marcello Savini 15 Massimo Meluzzi Adès a scor me Le note sulla poesia dialettale ospitate in questi ultimi tempi sulla pagina sedici della Ludla, per quello che possono valere altro non sono che le analisi e le riflessioni espresse da un usuale estimatore (seguace?) della lirica romagnola, già pago di averla vista trasformarsi a poco a poco, negli anni, da marginale, epidermica esibizione di folclore e ricordo, a riconosciuta voce di poesia a tutti gli effetti. Appunti, dunque, immuni dal supporto di specifiche competenze didascaliche, bensì espressi semplicemente sull’onda delle sensazioni e dei convincimenti suscitati dall’approccio con uno specifico testo poetico, giusto come quelli che potrebbe esporre un qualunque fautore della poesia, che non si appagasse di circoscrivere l’incontro a un’occasionale e sommaria sbirciata al testo. Pur senza andare alla pretestuosa ricerca di innovative tematiche, che mirino a spiazzare il lettore, non meno che a seminare scompiglio all’interno di un preesistente modello di versificazione dialettale, e attenendosi anzi ad argomenti che sono in massima parte consueti, questa prima silloge di Massimo Meluzzi reclama da chi le si accosta proprio il suddetto impegno a un esame dei contenuti attento, partecipe e tale da indurre a quel coinvolgimento emotivo che, solo, è in grado di soprintendere alla scoperta e in seguito alla complicità con gli effettivi intendimenti del poeta. In molti dei suoi lavori, infatti, ci si trova alla presenza di epiloghi nei quali l’autore socchiude dinanzi agli occhi di coloro che si avvicinano alle sue pagine il proprio modo non certo abusato e banale di percepire gli affetti, la vita, le cose, insomma quel mondo di sua pertinenza ricco degli accumuli di vita che lo riguardano e cui ambisce riservare la propria scrittura. Gli esiti di questo suo impegno poetico ed emotivo assieme, il più delle volte, si prospettano alquanto dissimili da quelli acquisiti da un’ormai trascorsa e per molti aspetti scontata lirica romagnola. Come quando Meluzzi, con l’ultimo dei quattro incisivi versi che compongono Speréma, sembra voler suggerire con sarcasmo che solo riappropriandoci a buon diritto del nostro tempo avremo modo di tornare in sintonia con noi stessi e col mondo, abdicando all’emblematica frenesia di un’epoca odierna, che celebra il dominio parossistico di un FARE, cui dar corso sempre... subito... ad ogni costo: Speréma ch’un venga \ niséun a disturbé,\ parchè adès a j’ò da fè,\ adès a n stagh pinsénd a gnént. La dmanda U m fruléva t’la testa sémpra cla dmanda: s’a j’èl dòp dla mórta? Ò zirchè una gran masa: ò dmand m’un prit, ò dmand m’un dutòur, ò dmand m’un vec. E sò arvat m’un’èlta dmanda ancóra piò ingarbuieda ch’la m’ zira adès t’la testa: e próima dla mórta, s’a j’èl? La domanda Mi frullava in testa \ sempre quella domanda:\ cosa c’è dopo la morte?\ Ho cercato molto:\ ho chiesto a un prete,\ ho chiesto a un dottore,\ ho chiesto a un vecchio.\ E sono arivato a un’altra domanda \ ancora più ingarbugliata \ che mi gira adesso in testa:\ e prima della morte, cosa c’è? «la Ludla», periodico dell’Associazione Istituto Friedrich Schürr, distribuito gratuitamente ai soci Pubblicato dalla Società Editrice «Il Ponte Vecchio», Cesena • Stampa: «il Papiro», Cesena Direttore responsabile: Pietro Barberini • Direttore editoriale: Gilberto Casadio Redazione: Paolo Borghi, Roberto Gentilini, Giuliano Giuliani, Addis Sante Meleti Segretaria di redazione: Veronica Focaccia Errani La responsabilità delle affermazioni contenute negli articoli firmati va ascritta ai singoli collaboratori Indirizzi: Associazione Istituto Friedrich Schürr e Redazione de «la Ludla», Via Cella, 488 •48125 Santo Stefano (RA) Telefono e fax: 0544.562066 •E-mail: [email protected] • Sito internet: www.dialettoromagnolo.it Conto corrente postale: 11895299 intestato all’Associazione “Istituto Friedrich Schürr” Poste Italiane s.p.a. Spedizione in abbonamento postale. D. L. 353/2003 convertito in legge il 27-02-2004 Legge n. 46 art. 1, comma 2 D C B - Ravenna 16 Febbraio 2016 la Ludla