Febbraio 2016 - Istituto Friedrich Schürr

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Febbraio 2016 - Istituto Friedrich Schürr
“Poca favilla gran fiamma seconda”
Dante, Par. I, 34
la Ludla
(la Favilla)
Periodico dell’Associazione “Istituto Friedrich Schürr”
per la valorizzazione del patrimonio dialettale romagnolo
Autorizzazione del Tribunale di Ravenna n. 1168 del 18.9.2001
Questo numero è stato realizzato con l’apporto del Comune di Ravenna
Società Editrice «Il Ponte Vecchio»
Anno XX • Febbraio 2016 • n. 2 (166°)
Un nuovo riconoscimento
internazionale per il romagnolo
SOMMARIO
di Ivan Miani
p. 2 L’antico equivoco sulla Segavecchia
di Renato Cortesi
Dove eravamo rimasti? Nel mio ultimo articolo per la Ludla, pubblicato nel maggio 2009 (p. 13), annunciavo che l’ISO aveva inserito il
romagnolo nel suo elenco delle lingue parlate nel mondo. L’emilianoromagnolo era stato cancellato e al suo posto erano stati introdotti il
romagnolo (codice rgn) e l’emiliano (codice egl). Pensavo di aver raggiunto il mio obiettivo. Non sapevo, invece, che l’Unesco nel suo
Atlante delle lingue minoritarie e in pericolo [vedi il logo in fondo alla pagina], recepiva ancora l’emiliano-romagnolo come lingua esistente (mentre sappiamo benissimo che tale idioma non è mai esistito).
Ho capito che dovevo rifare lo stesso lavoro una seconda volta. In questo caso ci ho messo molto più tempo perché l’Atlante Unesco non
viene aggiornato tutti gli anni. La mia istanza è stata inoltrata il 2 ottobre 2012. Ho spiegato che quella che loro considerano una lingua non
esiste assolutamente. Ero ottimista perché con SIL International (l’istituto che gestisce l’elenco delle lingue del mondo per conto dell’ISO)
la mia richiesta aveva riscontrato successo.
Passa un anno: niente. Ne passano due: niente. Quelli dell’Atlante
sono proprio lenti. Finalmente nel settembre 2015 (!) mi arriva la
risposta: hanno capito che l’emiliano-romagnolo è da cancellare. Terranno conto delle mie indicazioni nella redazione del nuovo elenco
aggiornato. “Fantastico!” - penso. Finalmente si sono svegliati.
In novembre mi scrivono di nuovo: mi avvisano che le modifiche
sono state caricate nella nuova versione dell’Atlante. Vado a vedere:
“Emilian-Romagnol” non c’è più. Bene. Ma qui comincia un piccolo
giallo. Che cosa c’è al suo posto? “Emilian”. E basta. Il romagnolo
non c’è. Mi sono chiesto: perché
non l’hanno inserito? Scrivo
immediatamente e mi rispondono che è questione di qualche
giorno: “sono i tempi tecnici”. Ma
dopo una settimana non si vede
ancora niente.
Continua a pag. 7
la Ludla
Febbraio 2016
p. 4 Gioacchino Strocchi: E’ dutor
di Pier Giorgio Bartoli
p. 5 Séra e matena
di Eugenio Fusignani
p. 6 E’ becacino int e’ bar
di Sauro Mambelli
Illustrazione di Giuliano Giuliani
p. 8 L’udor dla niva
di Lidiana Fabbri
Illustrazione di Giuliano Giuliani
p. 10 Tracce di un passato remoto
VIII - E’ strolgh
di Gian Maria Vannoni
p. 11 Parole in controluce: stampanòn -
stanè
Rubrica di Addis Sante Meleti
p. 12 Don Zvanen, Gigion e la neva
di Radames Garoia
p. 13 Pierluigi Moressa - 52 miti e
misteri di Romagna
di Maria Piazza
p. 14 Röb d’incudè: Jobs act docet
di Silvia Togni
p. 15 Int e’ sol ad Febrer
di Mario Vespignani
p. 15 I scriv a la Ludla
p. 16 Massimo Meluzzi - Adès a scor me
di Paolo Borghi
1
La cultura popolare attuale rimanda
l’origine della festa che si tiene a Forlimpopoli, in cui il fantoccio viene
segato in due, al ricordo di una vecchia che in tempo di Quaresima contravvenne ai precetti religiosi mangiando una salsiccia; nel caso della
festa analoga che si tiene invece a
Conselice, ad una fattucchiera colta
nell’eseguire un maleficio.
Già lo storico di Forlimpopoli Alberto Aramini, riferendosi a studi di Frazer, identificò l’origine della tradizione negli antichi riti di fertilità, ed in
particolare in quelli della celebrazione del superamento dell’inverno e del
ritorno della buona stagione: la vecchia generava nuovi frutti grazie al
suo sacrificio, rappresentati, nelle
feste di oggi, dai dolciumi e dalla frutta secca contenuti all’interno del
pupazzo; ipotesi già vicina alla verità
ma si può analizzare anche più approfonditamente.
Nell’accezione comune è abitudine
ritenere che il nome derivi dal fatto di
“segare la vecchia” come suggerito da
quella che è l’azione caratteristica
della sagra1. Vedremo come il nome
abbia probabilmente una diversa origine, sempre analizzando, come ha
fatto Aramini, i rituali religiosi delle
popolazioni antiche.
È proprio lo stesso Frazer a ricordarci2
come nell’antichità fosse abitudine
serbare le ultime spighe del campo
per realizzare un fantoccio chiamato,
quasi universalmente, “la madre del
grano”, con il quale si compivano
alcuni rituali che differivano solo per
minimi particolari. Ricorderemo solo
quelli che hanno una maggiore similitudine con il nostro caso.
In Stiria si raccoglievano gli ultimi
steli del campo per comporre un fantoccio (la Madre, o la “vecchia”3) ed
una corona. Il fantoccio così realizzato veniva bruciato mentre la corona
era conservata dal capo del villaggio
fino all’anno successivo, periodo in
cui i chicchi delle spighe che la componevano venivano seminati, con
l’evidente significato di “suggerire”
una continuità col ciclo vitale della
vegetazione; nelle campagne di Belfast
il fantoccio era chiamato granny (nonnina) ed i mietitori lanciavano le falci
2
L’antico equivoco
sulla Segavecchia
di Renato Cortesi
alle ultime spighe rimaste nel campo
(quelle che poi sarebbero servite per
realizzare il fantoccio) cercando, con
questa azione, di tagliare gli steli; nel
Galles, fino a pochi decenni fa, nonostante ormai le macchine avessero
sostituito le falci, gli uomini utilizzavano vecchi attrezzi per cercare di recidere con il lancio degli stessi lo stelo di
una treccia realizzata con le ultime
spighe del campo; analoghi riti si
ricordano in Lituania, dove il simulacro aveva nome di baba (vecchia).
A testimonianza della diffusione di
questa tradizione va ricordato inoltre
che in tutti i luoghi menzionati i mietitori cercano di evitare di essere proprio loro a tagliare le ultime spighe; in
questo caso il “vincitore” veniva sbeffeggiato e sottoposto a pesanti scherzi.
Potremmo continuare con altri esempi, ma riteniamo che quanto riportato sia sufficiente a dimostrare come il
rituale avesse il significato universale
di imprigionare l’anima del grano in
qualcosa (il fantoccio) che veniva onorato prima di essere distrutto, secondo la stessa logica con la quale (come
analizza perfettamente Frazer) gli antichi re latini venivano uccisi prima che
morissero di morte naturale, perché
erano ancora nella pienezza del loro
vigore fisico.
In analogia con la stessa logica, quindi, l’anima del grano nel fantoccio
rimaneva quella che esso possedeva
nel momento in cui era stato colto,
ossia quello del massimo rigoglio, e
non quello dei chicchi pestati, frantumati, sfarinati e cotti: piantati nell’anno successivo cedevano la loro vitalità
al raccolto successivo. Era un modo di
dare continuità al raccolto, di perpetuare nel tempo una caratteristica
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benefica (“la Vecchia non muore
mai” era un detto degli Indiani
d’America).
Che si tratti di un rito analogo a quello dell’uccisione dei re illustrata da
Frazer lo dimostra anche la riluttanza
dei mietitori a recidere gli ultimi steli:
ciò si spiega con la punizione che
avrebbe potuto colpire l’uccisore che
alzava la mano sul re; pur nella necessità sociale del sacrificio si trattava
comunque di offendere una figura
simile ad una divinità, e quindi l’atto
era coperto da innumerevoli tabù,
che con il passare del tempo si trasformarono nell’atto di ricevere insulti e
dileggio.
Secondo questa logica i dolciumi
contenuti nella Vecchia sono quindi
i chicchi che “trasmettono” un raccolto abbondante anche nell’anno
successivo.
A questo punto viene spontaneo ritenere che il nome di questa festa tradizionale debba intendersi non tanto
come il ricordo di una “vecchia segata” quanto quello di un fantoccio (la
Madre, o la Vecchia) realizzata con le
ultime spighe “mietute”.
È appena il caso di ricordare che nel
dialetto romagnolo l’atto di mietere il
grano si dice, appunto, ðghè (segare).
La perdita di memoria dell’esatto
significato del rituale, ma il mantenimento del ricordo di un termine
(ðghè) legato al rituale stesso ha probabilmente condotto a ritenere che
dovesse riferirsi al modo in cui la vecchia doveva essere uccisa.
Inoltre la religione cristiana ha contribuito alla cosa, sostituendo un concetto pagano (il sacrificio) ad una
colpa più conforme ai dettami religiosi (l’aver mancato di rispettare il digiula Ludla
no durante la Quaresima). Inoltre ciò
ha prodotto anche uno spostamento
temporale della festa, visto che il rito
era evidentemente legato al periodo
della mietitura.
Sappiamo che tutte le volte che un
sacrificio prevedeva la morte della vittima (umano o simulacro) i meccanismi antropologici pretendevano la
sua sparizione, affinché si potesse
pensare che il corpo fosse passato ad
un mondo superiore. Per questo era
previsto che il sacrificato venisse bruciato, o affogato e lasciato alla corrente del fiume, sotterrato, o dilaniato
fino a che ogni singolo brandello non
apparisse più alla vista; nel nostro
caso lo smembramento ha finito per
mascherare la crudeltà dello smembramento nel desiderio di aprire il
fantoccio per far apparire i dolciumi.
In tal modo un rito per favorire la fertilità fu trasformato in un esempio
morale che rammentava che cosa
poteva succedere a chi infrangeva precetti religiosi.
Interessante notare come il termine
granny (nonnina) già ricordato sia
molto simile al termine gregna, così
riportato nell’Enciclopedia Treccani:
Gregna. Ramicelli secchi, paglie, fascio di
biade secche, unione di covoni. Dal latino
CREMIA, che attiene al verbo CREMARE
(bruciare). Vocabolo di probabile origine
napoletana; a sua volta questo termine
è molto simile al dialettale romagnolo
fegna per indicare il pagliaio, che troviamo su “La nascita di Roma”4 di F.
Talanti. L’intera frase scritta da Talanti recita: “… i l’acatë lughè dri d’na fegna
…” (lo trovarono nascosto dietro ad
un pagliaio).
La somiglianza fonetica dei termini ci
pare non potere essere casuale, il che ci
fa apparire logico il percorso fegna › gregna › granny. A riprova di quanto questi
termini siano legati alle operazioni
della mietitura possiamo ricordare
quanto Addis Sante Meleti ci fa notare
su fegna, ossia che sia nel Dizionario
Latino Georges che nell’Oxford Latin Dictionary è registrato l’aggettivo latino
feneus (o faeneus) con il significato “di
fieno”. In latino il termine “mucchio
di fieno” era quindi meta fenea, rimasto
nel nostro dialetto come meda (mucchio tronco-conico di varie cose).
la Ludla
In Lombardia colui che “gregna” ha
voglia di ridere e prendere in giro; a
Bergamo si dice grignà per “deridere”;
sempre in quelle zone esiste la metafonesi: me go òia de grignà (io ho voglia di
ridere) senza dimenticare l’italiano
“digrignare i denti”.
Alla luce di questi fatti può interpretarsi uno dei modi di dire più controversi tra quelli romagnoli, ossia il
motto: e’ bala la vêcia.
Le spiegazioni di questo modo di dire
sono tante, ma più o meno tutte
fanno riferimento ad una persona (“la
vecchia”) che a causa dell’effetto di
tremolio dell’aria calda appare come
se ballasse. Altre spiegazioni si riferiscono al “ballare” più come un barcollamento piuttosto che ad un tremolio, indotto dalla stanchezza e dallo
sfinimento a causa della torrida temperatura di quel momento dell’anno:
il soggetto che balla non deve essere
ritenuto una persona in carne ed
ossa, ossia non è una “vecchia”, ma
“la vecchia” (il covone). Il covone che
sembra tremolare diventa allora, in
questo modo di dire, la “vecchia” che
balla.
E questo probabilmente chiude il cerchio. Non ci è difficile pensare che al
rito di distruzione di un fantoccio (la
vecchia-covone) fossero connessi
atteggiamenti di allegria e festa, riti
che terminavano in feste in cui
l’aspetto ludico poteva sfociare in
modi più vicini ad atteggiamenti dio-
nisiaci ed orgiastici, nei quali sostanze
inebrianti rivestivano una parte
importante. In questa particolare
situazione veder “ballare” gli oggetti
non doveva essere una cosa rara.
Il concetto degli spiriti come “elemento aereo” non è raro nelle tradizioni
romagnole: si pensi al mazapégul inteso anche come un alito di vento (il
fulet)5.
Note
1. Ricordiamo come riti analoghi, sia nel
significato che nell’azione fisica di portare alla luce dolcetti rompendo vasellame
che li contiene, siano presenti in altre
popolazioni. Sono note molte feste simili definite generalmente come “festa
della pentolaccia” in cui vengono
distrutti recipienti dai quali escono dolciumi. Molto nota anche la festa messicana dei defunti, con caratteristiche
pressoché analoghe.
2. FRAZER, J.: Il Ramo d’oro, Newton Compton, 2009, pag. 454 e seguenti. Frazer
ricorda riti simili in Galizia, Francia, Germania, Polonia ed altri paesi, anche al di
fuori dell’area europea.
3. “Vecchia” evidentemente nell’accezione di “antica”. In tutte le antiche religioni la “madre” terra è considerata antichissima, e quindi “vecchia” è un appellativo
comune a molte culture.
4. TALANTI, F.: A dila s-ceta. Sonetti in dialetto romagnolo, Ediz. Del Girasole, Ravenna 1969, pag. 150.
5. Si rimanda, su questo argomento, alle
interessanti analisi di Anselmo Calvetti.
Stampa popolare della metà dell’Ottocento per la Segavecchia di Forlimpopoli
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3
Ventisette marzo 1967, giorno di
Pasqua. Ero a pranzo da parenti,
quando una commensale si sentì
male. La portammo subito da e’
Dutor: «A fnès d’ magnêr i caplètt e pu a
t’ guêrd». Diagnosticò un’appendicite
acuta.
Là nelle Ville Unite e Disunite quando si diceva e’ Dutór si intendeva il
medico condotto di San Pietro in
Vincoli, Gioacchino Strocchi. Quel
titolo era divenuto addirittura un
patronimico: i suoi fratelli, infatti,
venivano abitualmente chiamati la
Maria de’ Dutór e Lino de’ Dutór. Quest’ultimo, di vent’anni più giovane,
era stato mantenuto agli studi dal
fratello maggiore e si era laureato
medico dentista.
Su Gioacchino e la sua passione per
la poesia e il teatro filodrammatico e
le battute graffianti altri hanno già
molto scritto, anche su queste pagine, così pure sulla drammatica
deportazione in Germania nel 1944
di cui ha lasciato un notevole diario
dove, tra l’altro, si parla di Tonino
Guerra e delle sue poesie. Quest’ultimo, che conobbe appunto in prigionia, dettò la frase che compare nella
targa commemorativa affissa nella
casa del Nostro: edificio ex casa colonica ristrutturato dall’amico muratore Aldo ad Bert.
Il dottore ha esercitato la professione
medica fino al 1982, poi il 6 febbraio 1986 se n’è andato: «A m’ so’ ardot
ch’a n’ fag gnint piò par nissôn: l’è mej
ch’a vega a là int e’ mond di pió».
In questo trentennale della scomparsa vogliamo commemorarlo con
qualcosa di inedito: alcuni episodi
della sua fanciullezza e gioventù.
Gioacchino, che portava il nome del
nonno, era nato il 23 novembre
1900 da Domenico e Adele Amici,
coloni. Fu il primo di sette figli di
cui due morti subito dopo la nascita.
La famiglia abitava in parrocchia di
Campiano, in via Cella 195, nella
casa colonica di un podere di proprietà Zotti, situato al di là del Fiumicello tra le vie San Rocco e Arrigoni,
oggi nuova zona residenziale di Carraie.
Ma nella famiglia patriarcale in cui
viveva, narra, vi fu odore di ribellione:
la gioventù è andata via. Se non c’è gio-
4
Gioacchino Strocchi:
E’ dutor
di Pier Giorgio Bartoli
ventù, la casa abbandonata è costretta a
morire. Fu così che, nel 1903, i suoi
genitori si trasferirono in via Masullo 32: all’epoca era una strada che
faceva un arco che partiva dalla via
Beveta e si congiungeva con la via
Lunga. Quella zona era chiamata
Burdôn: una gran larga già di proprietà Guiccioli, situata fra Classe e
Campiano (di cui si vedevano gli
antichi campanili), di fianco alla
Standiana e lungo il Dismano. Là le
case sono lontane, lontana la strada. Il
terreno è argilloso, duro arrabbiato, i
pastori vi accudiscono i loro greggi e i
suoi famigliari vi si trovarono retrocessi al ruolo di braccianti, con una
gran miseria.
I ricordi di Gioacchino bambino
vanno all’ordigno infernale che, sotto
la pineta, vedeva sempre alla stessa
ora. Era nero, fumante e lungo come
un biscione. Un giorno d’inverno,
Il dottor Gioacchino Strocchi (1900-1986) in
un disegno di Giuliano Giuliani.
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un freddo che pelava, col babbo andò
in pineta a raccattar legna e costatò
che non si trattava di un mostro,
bensì del treno che pacificamente trasportava merci e persone.
Altri mezzi di trasporto che lo attiravano erano i barconi carichi di covoni di riso tirati all’alzana nel Fosso
Ghiaia. Là nei pressi, nello stradello
della Pasolina, c’era un albaráz (pioppo bianco) sotto la cui ombra provvidenziale i braccianti si adunavano
per mangiare un boccone. Il bambino crebbe in mezzo a loro, e alla loro
scuola, dice, quanto ho imparato!
Compiuti i sei anni, andò alle scuole
comunali, che raggiungeva dopo un
lungo cammino. Frequentò le elementari fino alla sesta, ma essendo
di salute cagionevole perse due anni.
Dalla prima alla terza ebbe la maestra Sara Rambelli nella scuola di
Campiano, istituita nel 1866 in via
Violaro (vecchio) 71 in un villone già
di proprietà Assunta Morri in Zarabbini, ma in origine appartenente
all’abbazia di Porto (vi era annessa
anche una fornace per mattoni). Per
la quarta e la quinta dovette recarsi a
San Pietro in Campiano (in funzione
dal 1861) e la sesta la frequentò a
Campiano presso la parrocchiale San
Cassiano in Decimo dove, per la sua
intelligenza, fu notato da don Enrico
Dall’Aglio, là arciprete dal 1910 al
1923. Questo parroco provvide a
mandarlo nel Seminario di Ravenna
e, a sue spese, gli fece poi compiere
anche gli studi universitari.
Alla fine dell’anno scolastico
1914/15, Gioacchino, dopo essere
la Ludla
stato preparato da don Dall’Aglio, si
presentò in seminario, dove sostenne e superò l’esame di ammissione
alla terza Ginnasio. Monellaccio
sfrenato, in collegio, dove tutto era
regolato dalla campana, ci mise un
po’ a essere domato dagli antipatici
superiori. Infatti, il primo anno fu
rimandato a ottobre in italiano, latino e francese. All’esame di riparazione fu bocciato e dovette ripetere la
terza. Dopo questa batosta si impegnò e finalmente arrivarono i sette e
gli otto.
Raccontava che la scuola, i giochi e
gli amici annebbiavano il ricordo
della casa paterna, ma di notte, o
quando era in castigo, esso si faceva
vivo con la memoria dei pini sotto la
tormenta della bora o il ribollire
della valle durante l’estate. Ma a
lungo andare ciò si perse a poco a
poco.
Uscito dal Seminario, nel 1922 si
iscrisse alla facoltà di medicina
all’università di Ferrara, e due anni
dopo passò a quella di Bologna, dove
si laureò il 6 novembre 1928 con la
tesi “Su di un caso di sclerosi laterale
amiotrofica a lungo corso”.
Neolaureato iniziò la professione
come interino a Castiglione di
Ravenna, poi a Bagnacavallo. Nel
1931 vinse il concorso per la condotta di Sant’Alberto – Mandriole –
Mezzano, dove si impegnò nella lotta
contro la malaria. Nel 1937 ottenne
il trasferimento a San Pietro in Vincoli, e ben presto divenne un punto
di riferimento stabile e sicuro per la
popolazione, anche oltre la sua funzione di medico.
In quei tempi si innamorò perdutamente di una bellissima ragazza di
Faenza che però non corrispose al
suo amore. Divenne quasi misogino
e non pensò più a sposarsi, anzi proclamava che la sua professione era
una missione che non doveva aver
vincoli, tanto che ruppe i rapporti
con un collega e amico quando
seppe che si sarebbe sposato.
Col passare degli anni il suo amore
lo riversò nella natura: allevava canarini, cani e gatti, ma il suo hobby preferito era la coltivazione della rosa
«che s’la n’è culor d’rösa, l’è un êt cvël;
s’l’è ròssa, zala l’è un êt fior, un fior che
sénza dobi, l’è ben bël mo, par ëss’ rösa,
ch’epa e’ su culor».
Bibliografia:
AA.VV., Alle origini era la scuola rurale: il caso di San Pietro in Campiano.
2013.
Archivio di Stato, Mappe catastali
1835-1911.
ASCRA, Fondo scuole.
Banzola M. – Gardini R., Introduzione al diario di Gioacchino Strocchi.
Comune di Ravenna, Fascicolo di
Casa strade Masullo e Cella, Popolazione stabile Maschi.
Morini G., Stradario storico di Ravenna.
Porisini G., Rogiti notarili delle Abbazie di Ravenna. 1963.
Preda A. – Trevisan G., Preti della diocesi di Ravenna – Cervia.
Seminario Arcivescovile, Registri studenti.
Strocchi G., A m’la sent.
Strocchi G., In Campagna una volta.
Strocchi G., Fola fulaja.
UniBo, Fascicolo studenti.
Testimonianze di:
Cellini Maria Luisa, Ceroni Margherita, Giuliani Giuliano, Pasolini
Achille, Perderziani Franca, Spadoni
Nevio, Sternini Arrigo, Strocchi
Maria, Tramontani Enzo.
Séra e matena
di Eugenio Fusignani
Staðema acsè brazé
séra e matena
scriché
senza stachês gnânch pr un minut.
Sta voja ‘d stê cun te l’è birichena
cvânt ch’a n t’ò acvè,
dacânt a me,
u m pê d’murì.
Ðmitema ‘d rabatês tot cvânt la stmâna
me par stê ben u m basta un tu rispir.
Se t’sent frèþar e’ côr cvânt t’am tci vðena
staðema acsè brazé
séra e matena.
la Ludla
Stiamo così abbracciati / sera e mattina / stretti / senza staccarci nemmeno per un minuto. // Questa voglia di stare con te
è birichina / quando non ti ho qui / accanto a me / mi sembra
di morire. // Smettiamola di arrabattarci tutta quanta la settimana / a me per star bene basta un tuo respiro. // Se senti friggere il cuore quando mi sei vicina / stiamo così abbracciati /
sera e mattina.
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E’ Becacino, o Marafon, dal pêrt ad
Zirvia u s ciâma nenca Piroch, l’è e’
þugh prènzip dla nazion rumagnôla,
coma ch’l’à scret e’ faenten Alteo
Dolcini int un libret indov e’ spiega
al régul principêli, una cvelca strategì,
e indov e’ preðenta al sët partì piò
famoði: la piò vëcia l’è cvela ad Borodino di cvàtar ad setèmbar de’ 1812
þughêda da cvàtar suldé rumagnul
dl’armêda Italia ch’la cumbateva par
Napoleon.
E’ Becacino l’è incora viv in Rumâgna e int i bar indov che u s þuga al
chêrt u j è sèmpar un tavulen cun do
cöpi che i s fa una partida e cvest e’
zuzed soratot int i zìrcul che incora i
reðest int i paið.
Se on l’entra indov che i þuga u s
n’adà sòbit se i sta faðend un Becacino parchè atorna a i cvàtar tituler u s
forma una curona ad þenta, chi in
ðdé, chi da dret, che i guerda e i
cumenta.
Ad sòlit, zertament int i zìrcul, u s
scor in dialet.
Di cument di spetadur, che i s ciâma
nenca þugadur de’ canton e che i ved
6
E’ becacino int e’ bar
di Sauro Mambelli
Illustrazione di Giuliano Giuliani
toti al chêrt cvindi i n ðbaja mai, u s’in
sent ad tot al raz: “T’an se fê gnint!”,
“T ci un cagnaz, duvivta tajê!”, “Chi
t’à dê al chêrt int al mân?”, “T’at si
ðmengh ch’la jera bona!”, sol par
arcurdên un cvalcadon.
E acsè che pò sucèdar che chi ch’e’
ðbaja l’à da fêr i cont cun e’ söci e cun
tot cvi che i sta atorna.
E se lò u n i sta a la crètica u s azend
dal discusion ch’a n fnes piò.
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Me a jò cminzê a þughêr a Becacino
ch’aveva nôv dið èn, in ca cun e’ mi
vðen Neo, che spes a la sera u m purteva int e’ zìrcul di ripublichen ad Sa’
Piravencul, indov che a guardeva i
grend e a impareva.
Da i cveng èn in avânti int i bar de’
paeð a j andeva da par me e a þugheva cun tot, nench cun i piò brév.
Da alora a n ò smes piò, nenca se a n
so un acanì, a þugh cvânt ch’e’ càpita
la Ludla
coma adës cvând che a s’atruven int
e’ zìrcul di republichen ad Cas-cion
ad Ravena.
A lè i þuga nenca a Buraco e a Pinacolo cun al chêrt da ramen, cun la
þenta ch’la guêrda, mo apena che u s
forma e’ têvul da Becacino, che nó a
ciamen Piroch, tot i s sposta e i s met
d’atorna.
Dop a e’ Becacino a i cvaranton u s fa
al brèscul e pu incora e’ Becacino e al
brèscul.
Par fni la sfida e’ bðogna vènzar tre
partì: se u s in venz do pr on u j scapa
la bëla, a Becacino.
Agl’ è partì indov che a m divert una
gran masa, soratot se a venz e cvest e’
càpita spes, a m divert nenca parchè,
coma det prema, u s scor e u s rogia
in dialet cun dal batudi che agl’è toti
da sintì, soratot cvând chicadon e’
ðbaja.
Mo turnend a e’ lìvar Il Principe di
Romagna. Marafon-Beccaccino, stampê
de’ 1975, Alteo Dolcini e’ dið che da
e’ Becacino purtê da Piero Maroncelli in America e da Aurelio Saffi in
Inghiltëra e’ sareb nêd e’ Bridge che
in veritê e’ preðenta nenca lò al brèscul da tajê che al s ciâma Atout.
E Silvio Lombardi, uriginêri dla
Cuclì, int la su Stôria Furleða scurend
de’ Marafon e’ dið che l’è pröpi e’
þugh ch’e’ rapreðenta e’ caràtar de’
rumagnôl che u n s’arend mai gnânca davânti a i putent: e acsè un cvàtar
ch’l’è e’ scarten piô bas, quând ch’l’è
ad brèscula e’ pò tajêr un tre ch’l’è la
chêrta piò êlta e guadagnês la preða.
Par ciarì la fazenda e’ bðugnareb scrìvar toti al règul de’ þugh, mo la sareb
tröpa longa, basta dì che e’ þugador
ch’l’è da la mân e’ met al brèscul e cal
chêrt al cmânda sora toti cagl’êtri.
La gerarchì dal chêrt l’è fata da e’ tre,
e’ do e l’as che insen i fa la creca o
marafona, e pu e’ re, e’ caval, e’ fânt:
da e’ set a e’ cvàtar j è tot scarten che
int e’ punteg i n vêl gnint.
U s þuga cun un maz ad cvarânta
chêrt rumagnôli, cun cvàtar cartir,
dið danêri, dið copi, dið bastoni e dið
spêdi: a la fen dal dið ciapêdi u s
conta i pont: ogni tre figur l’è un
pont, l’as e’ vêl par tre figur, l’utma
ciapêda la vêl tre figur; int i tornei u
s conta al figur e acsè u n va da mêl
gnint.
Se cvel che e’ bateza al brèscul l’à la
creca (as, do e tre) a la fen e’ conta tri
pont ad piò.
Coma che u s ved, fôrza ad ciacarê, e’
ven fura pareci règul de’ þugh: ona
dal piò impurtânti l’è de’ þugador che
l’inveja una ciapêda e ad cvel che e’
pò dì a e’ su söci.
U s dið che e’ Becacino u l’epa invintê cvàtar surd e mot e cvindi al parôli che u s pò dì agl’è pôchi: boss (meti
la mej e torna!), stress (a n ò incora dal
znini!), vól (ad ste carter a n n’ò piò).
Mo sta règula spes la n ven rispetêda
e in ogni sid indov che u s þuga la pò
cambiê: a Cas-cion u s fa scòrar ad
piò, forsi tròp, ma l’impurtânt l’è che
e’ sistema e’ vêla par tot.
Un nuovo riconoscimento internazionale per il romagnolo
Sono stati di parola (alla fine).
Adesso c’è totale uniformità tra
l’Atlante Unesco e la classificazione
ISO: contengono la stessa informazione. L’emiliano-romagnolo non c’è
più; al suo posto ci sono l’emiliano e
il romagnolo.
Il mio auspicio è che venga aggiornata la filogenesi. A tutt’oggi la serie è la
seguente:
Lingue gallo-romanze
Lingue gallo-italiche
Emiliano-romagnolo
Romagnolo
Segue dalla prima
Non mi sono fidato. Ho lanciato
immediatamente una petizione sul
noto sito change.org che in pochi giorni
ha superato le 100 firme. La petizione
(forse è la prima volta in Italia) è stata
redatta in inglese e in romagnolo.
All’inizio di gennaio, dopo le feste,
sono tornato a vedere il sito dell’Atlante ed ho scoperto che il romagnolo è stato inserito.
la Ludla
Febbraio 2016
Cun e’ pasê de’ temp int e’ bar u s
forma dal cöpi fesi, u s stabiles dal
gerarchì ad cvi che i sa piò fê: infena
a un cvelch ânn fa u j era on che al
ciamema e’ mej de’ mond, l’era Elio
ad Birinina, da cvând ch’l’è môrt e’
Piroch int e’ nöst bar u n è stê piò lò.
Par fni e’ mi racont ecco una specie
ad zirudëla che a javeva scret dið-dodg
enn fa:
E’ piroch a Cas-cion d’Ravena
A s truven e’ dop-mëþ-dè int e’ cafè
par þughê a piroch in cumpagnì
par stê una ciöpa d’ór in aligrì
e par ðminghês i fatëz ad tot i dè.
E’ sid l’è e’ zìrcul di republichen
int ‘na saleta sól pr’i þugadur
e cvàtar i þuga e ch’iét j è spetadur
ch’i fa un zérc atórna a e’ tavulen:
mo i n sta solament a lè a guardê
i scor, i rogia, i dið che t’é ðbagliê
che t ci un cagnaz parchè t’an é tajê
e che e’ piroch u n è e’ tu magnê.
E par cvi ch’i þuga l’è un dopi lavór
par tné dri al chêrt ch’al va vi,
i scurs de’ söci e ad cvi ch’i sta a lè dri,
e dal vôlt u t cala þò e’ sudór.
Se pu t’coj a fê una capëla,
ciôtat in prisia s’t’é una caparëla,
chêvat sòbit sòbit da i cvajon
e nö t’fê avdé pr’un pô int e’ camaron.
Dopo la cancellazione dell’emiliano-romagnolo da parte degli organismi internazionali io auspico che,
da Lingue gallo-italiche, si passi
direttamente a romagnolo (ed emiliano).
Un altro mio auspicio è che si aggiornino presto anche i libri e le enciclopedie cartacee.
In conclusione, dal 2008 (quando
spedii la mia prima email a SIL International) al 2016 sono passati ben
otto anni. È stato difficile ma ce l’abbiamo fatta!
7
Cl’an l’èra frèd e la nìva tla zità. Us
camniva a fadiga sla strèda. I nóst
scarpùn lizir i era bagnìd tót i dé. I
pàn tachéd ma’l scarani drì la stufa a’
carbon, te’ curidoj, cl’an era mai
smorta gnènca ad nòta.
E’ manchèva poc ma’ Nadèl e nùn
burdèll an vidimi e’ mumènt…
“Oz um fa mel la pènza” la ha det la
Giuliana cla matèina. E isé l’è stè ma’
chéða. La Lucia l’an era bòna da dì al
buséi e a testa bàsa e sa’l schèrpi
bagnèdi l’è andè a scòla. La mà cla
lavureva tla cusèina dla cantèina, l’èra
stè só prèst, sèmpra tra mélla pensir,
la niva l’an la vidiva gnènca. I lavur
dla chéða i éra ‘na masa, ma sla zéa e
la mà un si pativa gnìnt.
Arturnimi da la scòla e la zéa cl’era
una ciacaròuna l’aviva sempra al nòvi
de’ marché e dla su’ amiga. Tra una sciaparèda e una schrichèda d’ócc a
curimi sèmpra da lia.
Tal strèdi la zénta la zirèva poc. “A
vagh mé a tò e làt” la giva la Giuliana,
a l’avimi capì che lia la vliva véda,
qualdun ad scapozz! La mà l’aveva zà
compri e’ bacalà da còs per e’ dé dla
vgilia, e feva la pózza, énca sl’èra a
mòll tla bacinéla sla fnèstra ad fura.
E’ bà l’èra migrent tla Svézra se’ zèi.
Da nùn e’ lavor l’era poc. Avimi las
e’ paés e la tèra in campagna da un
pèra d’an. Lor i lavureva t’un cantir
gròs i feva i muradur t’un paés dù
ch’i zcuriva e’ tèdesch, vsèina Zurigo
una zità grànda, bèla! At chi timp u i
èra una masa ad itaglien a lavurè,
qualdùn l’aviva al famèj drì! Cl’an e’
bà l’e stè nòv mis po’ l’ha duvù arnuvè e’ cuntrat un’ènta volta. La mà
l’an vliva andè in Svezra, la giva che
u i èra e’ nòn, da badè la zéa, quàtri
fiul, scaramazoun cumm ch’a sirmi,
ma nun, is avreb mand vìa sobti! I là
i scarzèva poc!
I padron dla cantèina i’aviva dét ma la
mà, cla putiva stè ma chéða. In zir u i
èra poc uperai, sa che tampaz! E bà a
l’aspitimi per al festi, l’aveva una valisa
ad pàn da lavè e da archuncì. A sirmi
una faméja grànda, ai stimi tót tla
chéða te’ Borgh ad Sant’Andrè! Nùn
fradèll tnà càmra, la zéa da par lia, i
nóst t’un énta. E’ gabinet l’èra tl’òrt,
un gabiot fàt ad madon s’un finistrein
in élt sempra vèrt. Ilé, l’èra frèd u s
steva dèntra mench ch’u’s putiva.
8
L’udor dla niva
di Lidiana Fabbri
Illustrazione di Giuliano Giuliani
Racconto terzo classificato all’ottava edizione del concorso e’ Fat
organizzato dalla nostra Associazione
E bàgn us feva e’ sàbdi daventi la stufa,
dèntra la mastèla tla cusèina.
Dal volti, la dmènga matèina cl’ùdor
bòn cl’arviva me’ nès, l’èra de’ làt e
dla zàmbela, ut feva scapè de’ lèt énca
se u s vliva stè ilé dèntra un ént pò.
La zéa la steva sò prèst per cos al ròbi
te’ forni dla stufa a legna. Pietro e’
piò znìn e’ durmiva masèd tra l’ cuerti sla bretta ad lena sla testa, fina tèrd.
La cusèina dla chéða e pareva una
piàza. Tót i lavur is feva ilé dèntra, plè
e’ póll per al festi, fè i caplèt, u s feva
i compit dla scòla, us stirèva i pàn
sora e’ tevli, la machina da’ cusì se’ fil
sempra infiled tl’égh, t’un canton.
Una cardènza sla varnisa celesta sbrucleda. La porta dla sela l’era sempra
ciusa, us magnèva ilà snà se u i era i
parint. Al dmènghi d’inverni e’ dopmizdè a lavurimi sl’uncinèt. Al nosti
cuséini al stèva fina chú n èra scùr. La
vsèina se’ su’ marid la steva ilé a ciacarè, lia, se su’ dagócc t’ al mèni la
feva tèmp a fnì un pera ad calzét. U s
santiva che agl’ariveva al festi, e sareb
arvàt e’ bà se’ treno! “I là u s ciàpa ad
piò” e’ giva. E’ lavor l’èra pesent, e sciantèva la schina, la zurnèda la è
lònga. Ma la pèga la era sicura, isé u s
putiva sistemè al porti, al fnèstri, càl
gl’i èra vèci e pasèva un carnisèin da
e’ mèr che fèva strimulì! Magari un
ént àn u s putiva cumprè una bicicleta nòva, e’ frigo, o adiritura la television. Ilà l’era fred, la niva sàl muntagni, ma al strèdi agl’era pulidi. Ló
l’era capitè tnà chésa du chi era in òt
cris-cen e steva bèn, i n’ha trov mai
Febbraio 2016
da dì! La sera un scapeva nissùn, i
feva una brescla, qualdun e scriveva
una cartulèina, i stèva da santì la
radio, un bicir ad vèin po’ a’ durmì!
Tla su’ útma letra l’aveva scrèt che
énca da ló u l’aviva fàta e che e’ viag e
putiva slunghès e’ e’ treno e putiva
arvì ma la stazion pió terd.
A la pèz e sareb arvàt la matèina ad
Nadèl. E’ vèndra, la mòj ad Gambòn
la ha ciamè da la porta: “U i è e’ tu
marid me’ telefon da la Svezra”.
L’usteria da Gambon l’era tacheda ma
la fila dal chéði. Quand l’era artórna
l’èra cuntènta perché e’ bà e sareb
arvàt e sàbdi ma’ la stazion.
La matèina ben prèst, la zéa l’aveva
cambiè i lanzul mi’ lit, l’aveva plè la
galèina fàt l’impast per i caplèt. E
bacalà e buliva sal pateni e la cunserva t’un tighèm grand, ad teracota, dó
cuerc sora. La mà l’aveva cavè da e’
bavól la tvàja biènca quela cl’aveva
dovri per e’ batesmi ad Pietro. U i era
snà e’ dóbbi se us magnèva tla sela o
tla cusèina…
“U s magna tla cusèina”, la ha dicis la
zéa. I scartuz dla ròba sla fnèstra. Al
partugali e i mandàrein t’un énta, zó,
zó per la schéla, e’ gòb da cos, la zvólla e chévli ilé i stèva me’ frèsch, tóta
ròba per al festi.
La zéa la spazeva e curidoj, la sistemèva dal scaràni per i pan. L’aviva mes
un taped vèc lòngh, ròss e blò, lia la
vliva fè isé tót i’ Nadèl!
Tót i curiva, u s vliva priparè tót per la
stmèna. Pietro te’ lèt s’al sbari ad legn
in pid daparlò un si lamanteva, la Silla Ludla
via cl’andeva a butéga da la paruchira
a imparè e’ mis-cir, la v-gilia l’aveva
dafè na’ masa. “A vagh a radanem i
cavéll da la Silvia” l’aveva det la mà.
La Giuliana e la Lucia agl’aviva fàt
l’élbri d’Nadèl, l’èra sploch set, òt
palini fàti sla lena, al fitocci ad fodri
arvènzi di’artàj dla sartora. E’ su’ post
l’era daventi la fnèstra! La zèa l’aveva
trat fura e’ tulir per fè i caplett,
agl’òvi, la farèina e s-ciadùr. A sirmi
dàtonda ma’ lia. U s guardèva al su’
mèni svèlti, agl’èra mèni d’òr! Lia,
l’èra la pió grànda dal sureli de’ bà,
l’an s’ è mai spusè, sla paranenza e si
su’ cavell récc, tiràt so’ nùn a la guardimi cum’è cla foss un ànzli. “Burdèli
nu’ zcurdev da mèt la lètra sòta e’ piàt
de’ vost bà!” la dà só la zéa. E’ zà, tóta
cla fadica per armidiè al paroli! “Mitila t’è caset ilé a’ la mèna!”
La zéa la vliva al fili di caplét drètti se’
tulir, pricisi, isé ai putimi cuntè.
I caplètt i è stè méss sora e’ tevli tla sela
cla era giàza, pió giàza dnà giazèra.
U s’era fàt l’ora da fè e’ bàgn t’e
mastèl. Nissun e’ fiazèva. Daðdé ma la
tevla aspitimi la vósa da la porta. Ma
e’ bà e’ tardeva.
La mà l’ ha cavè e’ prit e la sora de’ lèt
e zét zét a sem andè sótta l’imbutida.
L’èra pas poc pió agl’òt e mèz dla sera,
al lampadeini dla chéða li s’è smòrzi.
la Ludla
La matèina ad Nadèl u s santiva e
ciàs da la cusèina, e’ pareva che u i
foss pió sfunézz. Pietro e pigniva e
l’aviva svigè ma’ tót. La lampadèina
cesa, a sem stè só de’ lèt, te’ curidoj
avem vést al valiði. ”E bà l’è arvàt, e
bà l’è arvàt”! Ad galopa a sem andè
tla càmra, ló l’era te’ lèt, svég, e nùn
cuntint a saltimi sora e mataras.
I bès, in si putiva cuntè. Intent che ló
us vistiva la mà l’aveva mes al valisi
sla tèvla e un po’a la volta, la capèva
i pàn da una perta, una ma-ða ad
scartuz da un énta.
“Stè zét burdell u i è un rigal per tót”
l’ha dét e bà sla vóða stràca. T’un
sachet ad chérta, al stecchi ad ciocolata, u i era i bambuz fàt ad zócri znin e
grànd ch’is putiva magnè, da met mi’
rem dl’élbri ad Nadèl. Un paniton,
l’aveva det che u l’aviva compri ma la
stazion ad Milèn. I culur per la scòla,
una scatla pròn, l’aviva al sigaretti per
la mà e la zèa e i zigri per e’ nòn ad
Mercatein. E’ bà l’aviva compri i calzitun ad lèna, e’ giva che ilà la lèna l’èra
piò bòna. Dasdè sla scaràna, intent e’
biviva e’ cafè. “I paes e al muntagni
pini ad niva” e giva e bà. L’e pió bel
d’instèda al muntagni datonda cuerti
ad piènti virdi. U i è una masa ad
mungheni in zir, di’ prè chi’ fa vòia.
I fiur int i zardèin, u s vid un legh
Febbraio 2016
grànd chum’e e’ mèr!” “L’aria la è
bòna!” “Eh, insoma, ìr a’ sem arvènz
bluched tla stazion e’ treno l’èra partì
terd” . Una masa ad zènta tached i
bineri, ch’i turnèva ma chésa dal
famèj.
A stimi da santì tót al nòvi de’ bà,
senza bàt i ócc. Intènt la zéa l’aviva
santì al campèni.
“Ades mitiv la sutèna pulida e una
bèla pitnèda” lia dà só.
Che bòba la matèina ad Nadèl! Per
furtuna che lia l’aveva pansè a mèt só
e brùd sla galèina, intent da la pnàta
u s sparpajeva un udor bòn…
E’ bà l’era arvàt, al campèni al suneva
per ciamè d’andè la Messa. Tót pulid
e se’ capòt quel c’avimi sèmpra chélt
dé, sal schèrpi bagnèdi e i calzitun
nóv a sem andè ma la ciða, tót insen.
I vsèin i dèva da’ dì me’ bà, il salutèva; la mà la’l tniva a bracèt, e nùn
didrì. Al schèrpi li s’instichèva tla
niva, nissun u s’è lamantè ch’l’aviva i
pid giàz . L’èra un spétacli a veda tót
che biènch dàtonda, e la zènta a pid a
spargujon per la strèda. L’era arvàt un
spraj ad sol, un suolostri d’or che u s
slunghèva tra i tét dal chéði, da i
camèin e’ scapèva un fom cèr, che
scaldeva l’aria.
La nìva la pareva ad zócri, l’aviva un
udor particuler, énca lia che’ dé…
9
Il guaritore è una figura tradizionale
tra le più diffuse all’interno dei contesti culturali tradizionali e folklorici.
Numerosi studi svolti in diverse zone
del nostro paese hanno messo in risalto, nei dialetti regionali e nelle tradizioni ad essi soggiacenti, la presenza
di tracce relative a questa figura, evidenziando inoltre la permanenza di
simili personaggi sino ai giorni nostri.
Anche se col passare degli anni e con
la diffusione della cultura globalizzata
questo fenomeno si sta restringendo
sempre di più, è ancora possibile
incontrare uomini e donne, spesso
anziani, dediti all’esercizio della medicina popolare. Come spesso accade
per le tradizioni che sopravvivono a
lungo all’interno dei contesti culturali tradizionali, anche in questo caso ci
troviamo di fronte ad un fenomeno
antico, che getta le sue radici nel lontano passato della preistoria.
Recentemente Francesco Benozzo ha
analizzato i trovatori medievali dimostrando la loro discendenza rispetto
ai professionisti della parola dell’Europa paleo e mesolitica. Riallacciandosi agli studi di Gabriele Costa, che
attraverso la comparazione di testi
appartenenti al mondo eurasiatico è
riuscito a far emergere con chiarezza
l’evidenza di una fase sciamanica
preistorica originale e propria della
storia etnolinguistica delle popolazioni indeuropee.
Molti elementi evidenziati dagli studi
di Costa identificano lo sciamano
come poeta, cantore, musico e custode del sapere e della letteratura orale.
A queste figure, infatti, per millenni
era spettato il compito di custodire e
trasmettere l’amplissima tradizione
culturale che le genti indeuropee avevano sedimentato a partire dal Paleolitico Superiore, una tradizione orale
trasmessa dalla lingua poetica. Questo elaborato mezzo verbale, attraverso un lungo processo millenario che
condusse alla sua codificazione,
divenne contenitore e veicolo di quelle antichissime forme di conoscenza.
Attraverso la disamina dei testi sciamanici dell’area eurasiatica e dei testi
bardici più antichi è possibile estrapolare alcuni caratteri fondamentali,
i quali, codificandosi nelle fasi successive, divennero temi ampiamente
10
Tracce di un passato remoto
VIII - E’ strolgh
di Gian Maria Vannoni
diffusi all’interno delle forme poetiche più antiche come quella trobadorica. Tra questi il più importante e
distintivo è il riferimento all’esperienza estatica e onirica e cioè la narrazione del viaggio del poeta nel regno dell’Oltre, la quale rappresentò un vero
e proprio leitmotiv della tradizione
poetica trobadorica.
Tracce relative alla figura del
poeta/guaritore sono reperibili anche
in Romagna all’interno di alcuni termini dialettali. Uno tra gli esempi più
chiari di questa continuità è rappresentato dal termine dialettale romagnolo strolg, oggi utilizzato con una
forte connotazione negativa. Di possible derivazione latina (lat. astrologus)
questo termine è riscontrabile all’interno di un consistente numero di
parlate dialettali ed è ancora utilizzato
per indicare un personaggio eccentrico. Questo termine è utilizzato anche
per indicare personaggi che vivono ai
margini della società o persone affette
da disturbi psicosomatici e/o malattie
mentali. La derivazione etimologica
di questo termine dal latino appare
evidente, ma la moderna accezione
negativa e/o ironica non è facilmente
interpretabile seguendo i paradigmi
delle teorie tradizionali sulla nascita e
diffusione delle lingue e delle culture
indeuropee.
All’interno di uno dei suoi studi Francesco Benozzo analizza i termini dialettali bernardòun e bernardàun, incontrati
durante la preparazione del Dizionario
del dialetto di San Cesario sul Panaro,
notando come questo vocabolo venga
ancora utilizzato dai parlanti di quest’area geografica per definire indifferentemente il poeta (chiamato anche
Febbraio 2016
puieta) e il guaritore tradizionale (chiamato anche steriòun, steriàun). Ci fa
inoltre notare che un termine praticamente identico (bernardùn) è reperibile
anche in area mantovana, sempre con
il doppio significato di “cantastorie” e
“mago”, e che allargando l’indagine
ad altre parlate ci si accorge del fatto
che questa consonanza onomastica
non è esclusiva dell’area emiliano-lombarda ma è diffusa all’interno di
numerosi dialetti europei.
Il fatto che lo stesso nome sia usato
per designare due figure apparentemente distanti infatti potrebbe sembrarci strano ma questo è del tutto
normale se ci si riferisce all’orizzonte
culturale legato a società etnografiche
in cui il poeta e il guaritore non sono
altro che due aspetti della stessa figura: il professionista della parola.
Appare importante per ciò che riguarda l’analisi del termine romagnolo
strolg osservare che simili appellativi –
ad esempio bernardòun/bernardàun che
oggi stanno anche per “scimunito” o
“sciocco” – con il passare dei secoli
hanno finito spesso per designare in
maniera ironica e negativa personaggi
strambi o matti, comunque ai limiti
del comune senso di decenza e rispettabilità. L’attestazione di un simile scivolamento semantico rappresenta
infatti una conferma del legame che
intercorre tra simili termini dialettali
e la tradizione culturale legata ai
poeti/guaritori, dal momento che lo
stesso sviluppo semantico è osservabile in parole provenienti da molte altre
lingue, come ad esempio l’Inglese e
l’Olandese nelle quali il termine che
designa il poeta arriva a significare
anche tonto o stupido.
la Ludla
Rubrica curata
da Addis Sante Meleti
da Civitella
stampanòn: senza corrispondente
ital. di ugual radice; in uso solo nelle
valli del Bidente e del Montone. Indica il temporale estivo, breve ed
improvviso; viene dall’avverbio lat.
extemplo o extempulo ‘improvviso’,
usatissimo da Plauto. In frasi come
extemplo gràndinat (‘all’improvviso
gràndina’), posto accanto al verbo
impersonale, l’avverbio fu inteso
come soggetto e ne venne fuori stampanòn.1
Come in altri luoghi, per farlo cessare, a Civitella i siôi [sciolgono] al
campeni de Santuéri e i i tira
indrenta pió ch’u s’ pò. La Madonna
provvede di buon grado, cumpagn a
bés un bicir d’aqua. Per inciso, siòi
‘sciogliere’ viene dal lat. ex+solvere,
che è anche all’origine di assoluziòn
‘assoluzione’, con cui siamo sciolti
dai peccati commessi.2
Modi di dire: tra l’aqua u i è dla timpesta: ‘grandine mista a pioggia’3; i
dènn dla timpesta; o l’esclamazione
sconsolata aqua sé, ma no timpesta!4
Note
1. Divenne nome pure l’aggettivo lat. temporale: timpurèl. In senso stretto, extemplo significa ‘fuori dal tempio’, che è un
la Ludla
‘recinto sacro’ dentro cui si godeva dell’immunità, ritagliato a suo tempo ritualmente dall’àugure (in greco temno = ‘io
taglio’): s’immagini perciò di catturare
qualcuno appena mette il naso fuori
dello spazio sacralizzato e crede d’essere
salvo.
2. All’efficacia del suono delle campane
contro tuoni, fulmini e tempeste non credeva solo il popolino, ma anche il segretario del card. Federigo Borromeo, l’arcivescovo dei Promessi Sposi: “…gli è
tanto nemico il suono delle campane ai
demoni infernali, che da essi sono eccitate le grandini, e tempeste; subito al
suon di esse s’impediscono…”. Ai bambini poi si raccontava ch’ l’ era e’ dgevol
ch’u péccia la su dòna o la varsira, ‘versiera’ o ‘strega’. Nelle nostre colline
durante i stampanón s’usava battere tra
di loro oggetti metallici, come la catena
del camino, il paiolo o gli attrezzi. In
tempi ancor più antichi le donne avevano così invocato la luna nuova, la dea
Diana: ci resta l’esclamativo pargẽna.
Durante la tempesta si usava pure bruciare sulla paletta, esposta fuori dell’uscio o
della finestra, una parte della palma
benedetta nella domenica in albis; la
cenere residua era sparsa nella vigna per
scongiurare altri danni. Ma erano usi precristiani; l’olivo era una pianta sacra già
prima di Cristo.
3. L’aggettivo lat. grandis, indicava l’accrescimento fisico: ne venne ‘grandine’, i
grani di ghiaccio. Dal diminutivo grandinìola viene il dial. gragnóla ‘gragnòla’:
anche figuratamente: una gragnóla ad
sasèdi [sassate]. Magnus era invece riferito
al carattere e alle imprese: non per nulla
si coniò magnànimus.
4. Il dial. conserva timpésta oggi riferita
solo alla ‘grandine’, ma una volta coi significati più vari neppur negativi: ‘clima’,
‘stagione’, ‘epoca’, ‘periodo’, ‘circostanza’, ecc.; infine, era pure ‘burrasca’ (dal
‘rabbuiarsi’ del cielo). L’Ercolani, Voc.,
segnala tampéri a Roncofreddo, dal lat.
intemperies ‘intemperie’: ma pure questa
voce vale per ‘cose fuori regola’, persino
‘pazzia’: quella umana, non solo temp
matt. A Civitella i più vecchi dicevano:
e’ purèt, l’è fora ad ca agl’intimpérii: u
sarà mòll fréid (bagnato fradicio), la va
a fnì ch’ui ciapa la palmonita. Per un
altro significato, Plauto, Càs. 18: Ea tempestate flos poetarum fuit (A quel tempo
c’era il fior fiore dei poeti…) D’altra
Febbraio 2016
parte ‘tempesta’ ha la stessa origine di
tempus (il tempo delle stagioni, regolato
dal calendario); di ‘temperare’ (dare una
regola, temprare il ferro, far la punta
alla penna d’oca col ‘temperino’ e, poi,
alla matita); ‘temperamento’ e ‘temperie’ al sing., è pure la fibra di cui si è
fatti, ecc. Si aggiungano ‘tepore’ e ‘tiepido’, cioè tèvd.
stanè, rintanès, tẽna: in ital. stanare,
ecc. L’origine di queste voci è controversa: per il Devoto, Avviam., deriva
dal sintagma lat. caverna subtana (‘sottana’ = ‘che sta sotto’), che avrebbe
perso per strada oltre che ‘caverna,
anche la prima sillaba dell’aggettivo,
riducendosi a tena ‘tana’.
Il dizionario Cortellazzo-Zolli ritiene
la derivazione possibile, ma precisa
che non mancano argomenti per
ritenere ‘tana’ una voce prelatina.
L’ipotesi è suggestiva: ‘tana’ arretrerebbe di secoli, fors’anche di un
millennio o due.1 C’è da chiedersi se
‘tana’ abbia qualche rapporto con
l’arcaico lat. -stinare (solo nei composti) per ‘stare’ (presente in ustiné
‘ostinato’ e destiné ‘destinato’, a cui
si rinvia).
Nota
1. È ridondante definire subtana la caverna. Il Meyer-Lübke, REW, 1911, riporta
tana senz’altre precisazioni. È un termine
da cacciatori e contadini, piuttosto
laconici, che, se scrivevano, non lo facevano per i posteri: ‘tana’ compare registrata nel 1151 in una glossa segnalata al Du
Cange dal modenese L. A. Muratori, in
un proverbio latino che sembra ‘macheronico’: Vulpes vetula non intrat in tanam novam
(La volpe vecchia non entra in una tana
nuova). La sa ch’ui putréb éss indrenta e’
padròn pront a ðgrafagnéi e’ néð.
11
L’era e’ mes ad znêr de ‘cvarentasì.
Tot cvent j enn, par Sat’Antoni, Don
Zvanen e’ faseva e’ zir dla Parochia
par banadì al stali e tot j animel ch’j’era a ca di cuntaden.
U s j era malé e’ ciergh che ‘d solit u
l’acumpagneva e alora Don Zvanen e’
dmandep cun Gigion s’u l puteva
‘iuté. Cum’s’fal a dì ‘d no a e’ paruch?
Oltre tot, l’era nench e’ padron de’
sidarin dov che Gigion e l’Elvira j era
a mezzadria; a dì la veritê e’ puder
l’era dla Curia, mo e’ prit u s cumpurteva cme se fos e’ su. E pu, nench
par l’amicizia, sè, sè… parchè e’ prit
…u j andeva a truvè spes… e sèmpar
cvent che Gigion l’era int i chemp a
lavurê (u j andeva nenca tröp spes,
che la zenta, … al savì cme i fa prëst a
murmurê!…). Gigion pu l’aveva
nench una zerta sudizion, quindi u n
fop bon ad dì ‘d no a la richiësta ad
Don Zvanen.
A mitê ‘d zner i cminzep a fê e zir: is
fasep da la cà pió lunténa, ch’la j era
a cvatar-zencv chilòmitar da la cisa.
I zireva in bicicletta: e’ prit l’aveva,
sot’e’ capot, tot i parament niciseri pr
al bandizion e Gigion, int e’ manubar, do grendi spôrtal ‘d pavira par
metij che pó ‘d roba ch’u j era da
garavlê (cme uferti par la Cisa) a cà di
paruchien: ôvi, un pó ‘d farena, un
salam, o magari una mëza galena za
pronta da metr int la pignata; in piò,
Gigion l’aveva l’umbrëla lighêda int
e’ canon dla bicicletta.
A ca ‘d Pumpineti, dop avé banadet
la stala, e’ purzil e e’ puler i s’afarmep
int la cusena, daventi e’ camen aces, a
fê do ciàcar e a bes ‘na ciopa ‘d bicir
‘d sanzves. Intent l’azdôra ‘d cà la j
aveva inscartuzé, ona par ona, una
mëza capa d’ôv e l’agl’j aveva mesi int
la sportla ‘d Gigion.
E’ temp l’era brot, tot cius e un prumiteva gnint ad bon. Gigion, zà da la
partenza l’aveva det: -“Mo ach brot
temp, u n avrà miga voja ‘d fê dla
neva!?”- (nench parchè e’ tneva dri al
calèndar e spes u j ciapeva!).
E’ prit, un pó sburunzot e sempar
sicur de’ su pinsir: -“Mo cs’a dit!? A t e’
degh me che fra pôch e’ ven a fura e’ sol,
enzi, a so acsè sicur che, vêda, a n toj so
gnench l’umbrëla!”Det e fat! Dop a mëz’ora ‘d ciacar dri
e’ camen i s dicidep ‘d partì… e fura
12
Don Zvanen, Gigion e la neva
di Radames Garoia
u j era una schêrpa’d neva! E’ faseva
di blëch ch’i pareva di foj ad cvadèran! E Don Zvanen (par fê e’ sapienton davanti a cla fameja): -“Ah mo,
l’era da dì,… cun che timpaz nìgar!”Gigion u n’e’ puteva supurtê, cvant e’
faseva acsè e u i staseva ‘vnend un
narvos ch’u i fumeva e’ zarvël!
J aspitep êt dis minut, spirend ch’e’
smites ad nvé e pu i dicidep ‘d partì:
-“Dai Gigion, ch’a parten! Te t ve ad
daventi cun l’umbrëla ‘verta e me a t
stagh dri, dri, cvasi tachê a te che acsè a
so piò riparê!”- e’ dgep e’ prit in môd
autoritêri. Gigion, smuclend tra i
dent, daventi cun l’umbrëla verta a fê
da “apripista” e cl’êtar cvasi tachê e’
cul (che Gigion l’avreb dê la mola
vluntir cvicôsa cun e’ fié, mo la n i
scapeva, par e’ sfôrz e la cuncentrazion dla gvida cun ‘na mân sola).
Mo l’era fadiga pidalê dret, parchè e’
viôl ‘d Pumpineti l’era a schéna ‘d
sumar e u t faseva sgvilê vers e’ fos, un
fuson ch’u j dgeva lës un znoc d’acva!
Dop a tarsent mìtar Gigion e’ sintep
e’ paruch, ad dri da lò, ch’e’ rugeva: “A vêgh…a vêgh….a vêgh!”- (a dì la varité a Gigion u j parep d’avé sintì
nench una rubaza…..). E pu, sobit
dop… un rugiaz! U s vultep indrì e u
s farmep sòbit…Don Zvanen l’era
infilé int e’ fos, tot ingavagnê int al
sután, cun la tësta in zò, al gamb pr
eria e la bicicletta sora ‘d lò!
Int e’ vdé sta scena, Gigion, alè pr alè
u s fasep una sbacarêda (ad cuntinteza, ad chêra, ciamila cm’u v pê, par la
figuraza de’ prit, che prit un pó presuntuos, ch’e’ pinseva d’avé sèmpar
rason lò). Mo sòbit u s tartnep,
fasend cont ‘d lës preocupê: -“Mo Don
Zvanen, cs’a fasiv? A v siv fat mêl? Dai
che adës a v’aiut...”Febbraio 2016
Mo lò, senza dì una parôla, u s
tachep int l’umbrëla ciusa che
Gigion u j aveva slunghê e, una
vôlta dret, e’ muntep a caval dla
bicicletta, che nenca li la n s era fata
gnint e e’ partep cme ‘na sajeta. U n
s’era fat gnint parchè l’era caschê a
mol in che mëz mètar d’acva ch’l’era int e’ fos.
Tra ch’l’era bagnê cme un picin, tra
la neva ch’la cascheva a tirumbëla, tra
e’ narvos, e’ tiracul e la vergogna,… a
vdél in bicicletta e’ pareva un caval
ingiavlì! Gigion e’ zarchep ad stej drì,
mo valà, dop a du minut u l chignep
mulê e dop un pó u n e’ vdep pió.
Adës ch’l’era da par lò, Gigion e’
puteva rìdar, rìdar ad gost par la
caschêda int e’ fos e la figuraza de’ su
pàruch! U n avdeva l’ora ad cuntêl
cun l’Elvira e ad rìdar… cun tot i vsen!
E’ rivep a la cisa che rideva incora, e’
truvep e’ prit int la sacrestì, ch’u s
era zà mes i pen sot e ch’u l batzep
sòbit:
-“E’ prem cvël ch’a t voi dì… t’an rida de’
tu paruch, arcôrdat ch’a so nench e tu
padron e cvent a faren i cont a la fen
dl’an… t’am’é capì, vera? E pu, t’an e’
véga a cuntê… gnench a ca tu… ste fat
ch’l’è sucës, a l saven sol me e te e a n voj
ch’u s sepa in zir, ét capì?”E’ fop acsè che Gigion, pr un pëz e’
chignep rìdar da par lò.
E’ fat u s è savù zincvant’enn dop,
cvent che Don Zvanen l’arpunseva da
un pëz sota un metr ad tëra int e’
campsent dri la cisa.
Comuncve, …a n i cardarì, Don Zvanen, che tot j invìran l’aveva sèmpar
e’ mêl ‘d gola, la tòsa, la brunchita, e’
reumatìsum, cl’inveran de’ melnovzentcvarentasì u n ciapep gnench la
fardason!
la Ludla
Per i tipi di In Magazine, è appena
uscito un agile libretto: 52 miti e misteri di Romagna.
Scritto da Pierluigi Moressa, saggista e
cultore di storia e di tradizioni, si suddivide in quattro argomenti: leggende, tradizioni, luoghi e miti, ciascuno
aritmeticamente composto da tredici
capitoletti.
Il testo propone un percorso entro
l’antica anima del popolo di Romagna. E davvero appare attuale la frase
di Freud citata in epigrafe cioè che i
miti sono i sogni coltivati per secoli
dalla giovane umanità.
Come si presenta allora il semplice
epos romagnolo?
Cultura dei campi e tradizioni di origine romana, personaggi della storia e
trasfigurazioni attraverso la leggenda:
tutto concorre a individuare nel substrato romagnolo un livello di interazione tra classi povere e ceto borghese,
tra clero e nobiltà, che pone tutti sul
medesimo piano di parità, anche
sociale.
Il calore e la fruibilità del testo stanno
nella semplicità e nella sintesi. Si tratta in definitiva di una piccola enciclopedia del mito e della tradizione capace attraverso la lettura del passato di
comprendere meglio il presente.
Probabilmente esiste un’anima dei
popoli e questo libro vi accenna con
lo stile di una ricerca che non si
disgiunge mai dal rigore della storia.
Uno degli argomenti che più ha sollecitato la mia personale conoscenza è il
dodicesimo capitoletto che affronta il
tema dei guaritori, rimedi popolari
contro le malattie, al tempo in cui il
confine fra medicina e superstizione
costituiva una sottile linea spesso
indefinibile.
Ancora oggi tuttavia, specie nelle
nostre aree rurali e zone collinari,
assistiamo al perpetuarsi del ricorrere
ai guaritori quali portatori di magiche virtù, in forza di un dono ricevuto alla nascita, trasmesso attraverso
precisi rituali. Al neonato per trasmettergli la virtù / potenzialità veniva posto nella manina un fiammifero
acceso e successivamente una monetina d’oro onde poter guarire attraverso la “segnatura” il fuoco di Sant’Antonio. Nella preadolescenza, poi, al
ragazzo la notte di Natale veniva trala Ludla
Pierluigi Moressa
52 miti e misteri di Romagna
di Maria Piazza
smessa una preghiera segreta da recitare “col cuore” durante la segnatura.
Il 24 dicembre, notte energicamente
potente e significativa, coincide col
solstizio di inverno (dopo il quale
uscendo dalla fase più debole il sole
ritorna vitale ed invincibile sulle
tenebre).
Questa pratica risente in maniera
notevole dell’influenza della cultura
cattolica, come si rileva dalle formule,
nelle quali compaiono spesso figure
importanti di questa fede a partire da
Dio, Gesù, Maria e molti Santi, e
dalle preghiere cristiane che vengono
recitate prima e dopo la segnatura.
La persona affetta dal fuoco di S.
Antonio, a digiuno per tre mattine
viene segnata con segni di croce sulla
parte malata usando una vera benedetta non appartenente al guaritore,
il quale recita la preghiera segreta. Per
questa pratica non può essere ricom-
Febbraio 2016
pensato in danaro né avere altre aspettative, solo simbolicamente può accettare un centesimo.
Invece al neonato che si vorrà “guaritore” di disturbi agli occhi (orzaiolo e
infiammazioni) alla nascita verrà collocato nella manina un fiore fresco,
molto frequentemente un garofano
raccolto durante il travaglio della
madre. Anche in questo caso al ragazzo viene trasmessa la notte di Natale
la formula specifica della preghiera
segreta che durante la “segnatura”
reciterà mentalmente. Prima del
levarsi del sole per cinque giorni consecutivi a digiuno sarà segnato sugli
occhi con segni di croce effettuati con
un fiore fresco madido di rugiada.
Questi simboli, lungi dall’essere il
retaggio fossilizzato di epoche perdute, sono entità viventi, attive ed operanti, svincolate da leggi del tempo,
ed in quanto tali tuttora pulsanti di
attualità.
Da una indagine svolta con molta
discrezione dalla scrivente, le persone
segnate hanno riferito di aver riscontrato benefici, riduzione del dolore
fino alla guarigione sia dal fuoco di
Sant’Antonio sia da orzaioli e da
infiammazioni oculari. Il guaritore in
verità non guarisce ma riequilibra così
bene la persona che sarà lei stessa ad
attivare la sua auto-guarigione.
Visione della realtà con occhi di bambino: questo il valore del mito, che
risulta ancora come il substrato delle
forme di etica elementare che può
illustrarci valori a tratti oggi perduti,
come la differenza tra buono e cattivo, tra giusto e ingiusto, tra lecito e
illecito. E in questo risiede la capacità
di affacciarsi alla ricerca di una felicità che non si può solo lasciare ai territori del sogno.
13
Anche questa volta, purtroppo, mi
tocca affrontare la cruda realtà quotidiana. Un onesto lavoratore romagnolo che ha ormai sorpassato la
quarantina si trova, da un giorno
all’altro, sbattuto in mezzo ad una
strada dalla sua azienda perché - si
sa - produrre in Italia non è più economicamente vantaggioso: meglio
andare a sfruttare dei poveracci
all’altro capo del mondo incuranti
dei diritti umani e delle norme
ambientali. Così il nostro malcapitato, ignaro dei cambiamenti occorsi dall’ultima volta che ha cercato
un’occupazione, si reca con piglio
fiducioso in un’agenzia di lavoro
interinale dove, a detta loro, cercano tante figure professionali desiderose di fare. La signorina, che avrà
l’età di sua nipote, gli consegna un
modulo per presentare una candidatura spontanea che recita più o
meno così.
Gentile candidato, pensa di
avere l’X factor per ricoprire il
ruolo di buyer o di sales manager
in una holding? Oppure ha il
classico savoir-faire di chi sta nel
back office a gestire l’importexport? O si sente più portato
per ruoli di account assistant o
segreteria? Ha l’appeal del venditore door-to-door? Allora compili il form che trova sul nostro
sito web alla pagina CV, indicandoci le sue personal skills
(uso PC, hobbies, etc.). Poiché il
leitmotiv del mondo del futuro
è la formazione, ci segnali l’eventuale disponibilità a svolgere
uno stage formativo gratuito.
14
Röb d’incudè
Jobs act docet
di Silvia Togni
Il nostro diktat è serietà quindi,
in caso di assunzione, la preghiamo di evitare piercing,
maquillage volgare, abiti kitsch
come shorts e fuseaux e accessori
fuori luogo come paillettes e
sabots. Dopo che avrà creato il
suo account online, le verrà inviato un sms di conferma e avrà
così accesso alla pagina Job
career. Grazie di averci consultati: la nostra mission è aiutare
proprio la gente come lei!
Lò e’ puret, ch’e’ vléva sol truvê un
lavurzen par arivê a la pinsion cun
dignitê, u j armasta com’un ciù. Pu
u s’fa fôrza e com’un pôvar mingon
e’ va int e’ bar indò ch’u j è un
amigh, un pô piò pataca ed n’è lò,
che u j spiega acsè e’ fat.
E’ mi pôvar sgraziê, a pinsiv
d’avé di nòmar par cumprê o
vèndar dal rob int un post da
ðburon? O a pinsiv d’savé ad
ch’in fê cun l’ëstar? U v cumpa-
Febbraio 2016
rèsal ad fê di cont tot e’ dè o
d’stê in ufèzi ad arspòndar a e’
telèfan? Aviv una faza ch’u s i
amaca i pignul in sò par andê a
ròmpar i quajon a la þent int al
ca? Alora scrivì quel ch’a javì
fat e quel che a si bon ad fê e
ch’u v pies ins e’ nòstar sid
Internet (zarchì indò ch’u j è
scrèt ‘CV’). A siv dispost a fê e’
tabachet senza ciapê un bajòch?
E pê che la furmazion incù dè
la seja propi impurtânta. E s’i v
ciapa a fê un lavor e’ bsogna
avstis ben e no andê là tot ðviduré coma di zèmbal. Dop
ch’avrì finì la registrazion su
Internet, a rizivarì un mesag ins
e’ vost telefunin. Acsè a putrì
avdé toti agli uferti d’lavor e
indò ch’i zérca. Nó, a lavuren
propri par di ðmarì ad Catarnon coma vò!
Per i lettori de La Ludla i quali, per
il solo fatto di leggere una rivista
bilingue, meriterebbero un plauso
speciale, tengo a precisare che molti
dei prestiti sopra citati rispettivamente dalle lingue inglese, francese
e tedesco, sono usati in italiano a la
Giuda boja.
Un esempio su tutti è lo pseudo
anglicismo SMS che nessun madrelingua inglese o americano sarebbe
in grado di comprendere, in quanto
l’acronimo significa Short Message
Service, ovvero un servizio di messaggeria breve e non un messaggino
che qualunque anglofono chiamerebbe invece text o text message.
la Ludla
Int e’ sol ad Febrer
di Mario Vespignani
Un spraj ad sol int l’ora dla maténa
e’ fa brilêr i rém di du abit,
l’acénd al guzlin d’néva che la s’sfà
coma candlin acési par Nadêl.
Sota che grând’umbrël ch’e’ fa j abit
una lus cêra la s’spargoja in þir,
la s’ténþ ad rôsa a salutêr e’ dè,
coma s’e’ foss turnê la premavéra.
L’è incóra fred, ma e’ temp e’ fa sperê
d’avê lassê indrì tot quânt e’ giazz,
Ancora “Sagatê”
Siccome biasso un po’ di greco (di
greco d’adesso, si capisce, non di
quello della ditta Èschilo - Sòfocle Evrìpede), l’altro giorno, in un libro,
ò dato impetto al nostro verbo sagatê
- del quale ogni tanto si parla sulla
Ludla - travasato addirittura nel greco
di una poesia del grande (sì, credete
poi che sia grande) Costantino Kavàfis, il poeta di “Itaca”, di “Aspettando
i barbari” e lascia poi dire.
Sta poesia è intitolata “Molto raramente” (dico il titolo tradotto in italiano),
e parla di un vecchio, debole e curvo,
storpiato dagli anni.
Ebbene per dire “storpiato”, Kavàfis
adopera il termine σακατεμενος che
in italiano si legge “sacatemènos”,
participio passato del verbo
σακαατευω (leggi “sacatévo”), verbo
che il “Dizionario Greco Moderno”,
Zanichelli, Bologna, 1996, traduce
con: “storpiare, menomare, distruggere, massacrare”.
la Ludla
un vent alþir e’ fa dundlêr i rém,
e’ fa caschê la néva ch’u j è armast.
E’ pê ch’a sema fura da l’invéran
e nenca l’êria la s’è fata bona,
la n’è piò l’êria svidra ad chj ìtar dè,
ma l’invéran l’ha incóra da passê.
Nel sole di Febbraio
Un fascio di luce nell’ora della mattina / fa brillare i rami dei
due abeti, / accende le goccioline di neve che si scioglie / come
candeline accese per Natale. // Sotto quel grande ombrello fatto
dagli abeti / una Iuce chiara si spande in giro, / si tinge di rosa
a salutare il giorno, / come se fosse tornata la primavera. // È
ancora freddo, ma il tempo fa sperare / d’aver lasciato indietro
tutto il ghiaccio, / un vento leggero fa dondolare i rami, / fa
cadere la neve ch’è rimasta. // Sembra di essere fuori dall’inverno / ed anche l’aria è diventata buona / non è più l’aria gelida
degli altri giorni, / ma l’inverno deve ancora da passare.
I greci, quindi, sta parola l’hanno
presa in prestito perpetuo da noi.
Noi poi chi? Ció, io non lo so mica in
quanti dialetti d’Italia la gente “sagàtti” o che, magari, che abbia “un sagàtto” di soldi.
Vuol poi dire che non c’è poi mica da
meravigliarsi del prestito. I nostri fratelli greci, specialmente lungo tutto
l’ultimo millennio, di parole italoveneto-adriatiche ne ànno garavellate
due belle due tre. Tanto per dirne
una: l’arancia. Loro la chiamano
“portocàli”, quasi preciso a la partugàla di voialtri ravennati.
Nuiétar faintẽ, par no s cunfõndar
cun vuiétar ramiẽ (u j amancarèbb sol
cvèsta!), a s’acuntintẽ d’ciamêla sol
“melarãza”.
Giuliano Bettoli - Faenza

La quiete dopo la tempesta
L’altra notte pioveva a dirotto con
lampi e tuoni, vento e pioggia e grandine, che mi hanno svegliato. A
ottantuno anni non è facile riprendere sonno. Si pensa, si fantastica, si
ricorda. Dopo mezz’ora la bufera è
cessata e dagli anfratti del cervello è
spuntato Leopardi: La quiete dopo la
Febbraio 2016
tempesta. E subito dopo la domanda:
come tradurre in dialetto romagnolo
il titolo di questo canto e i primi
versi?
Già il titolo mi ha messo in buca,
perché per me bagnacavallese la timpesta è la grandine, non lo scatenarsi
di vento, pioggia, grandine, con
accompagnamento di lampi e tuoni.
Altro inciampo quiete. Che non è
chêlma.
Per un paio d’ore mi sono arrovellato
e avvitato in tentativi stonati di lessico e ritmo, perfino ridicoli o grotteschi: ho fatto il verso, rovesciandolo,
a Renato Rascel: “L’è pasêda la bufera
/ l’è finì e’ timpurêl”. Da vergognarsi
in eterno tanto inadeguati e fuorvianti risultano gli ottonari.
Risparmio altre goffaggini. Come tradurre “e la gallina, / tornata in su la via
/ che ripete il suo verso”? Evidentemente ci troviamo di fronte a due registri
linguistici incomparabili.
Per divertimento non mi resta che
suggerire agli amici de La Ludla di
bandire un concorso per la traduzione in romagnolo de La quiete dopo la
tempesta di Giacomo Leopardi. Primo
e unico premio una ciambella e una
bottiglia di Sangiovese.
Marcello Savini
15
Massimo Meluzzi
Adès a scor me
Le note sulla poesia dialettale ospitate in questi ultimi
tempi sulla pagina sedici della Ludla, per quello che possono valere altro non sono che le analisi e le riflessioni
espresse da un usuale estimatore (seguace?) della lirica
romagnola, già pago di averla vista trasformarsi a poco a
poco, negli anni, da marginale, epidermica esibizione di
folclore e ricordo, a riconosciuta voce di poesia a tutti gli
effetti.
Appunti, dunque, immuni dal supporto di specifiche
competenze didascaliche, bensì espressi semplicemente
sull’onda delle sensazioni e dei convincimenti suscitati
dall’approccio con uno specifico testo poetico, giusto
come quelli che potrebbe esporre un qualunque fautore
della poesia, che non si appagasse di circoscrivere l’incontro a un’occasionale e sommaria sbirciata al testo.
Pur senza andare alla pretestuosa ricerca di innovative
tematiche, che mirino a spiazzare il lettore, non meno che
a seminare scompiglio all’interno di un preesistente
modello di versificazione dialettale, e attenendosi anzi ad
argomenti che sono in massima parte consueti, questa
prima silloge di Massimo Meluzzi reclama da chi le si
accosta proprio il suddetto impegno a un esame dei contenuti attento, partecipe e tale da indurre a quel coinvolgimento emotivo che, solo, è in grado di soprintendere
alla scoperta e in seguito alla complicità con gli effettivi
intendimenti del poeta.
In molti dei suoi lavori, infatti, ci si trova alla presenza di
epiloghi nei quali l’autore socchiude dinanzi agli occhi di
coloro che si avvicinano alle sue pagine il proprio modo
non certo abusato e banale di percepire gli affetti, la vita,
le cose, insomma quel mondo di sua pertinenza ricco
degli accumuli di vita che lo riguardano e cui ambisce
riservare la propria scrittura.
Gli esiti di questo suo impegno poetico ed emotivo assieme, il più delle volte, si prospettano alquanto dissimili da
quelli acquisiti da un’ormai trascorsa e per molti aspetti
scontata lirica romagnola.
Come quando Meluzzi, con l’ultimo dei quattro incisivi
versi che compongono Speréma, sembra voler suggerire
con sarcasmo che solo riappropriandoci a buon diritto del
nostro tempo avremo modo di tornare in sintonia con
noi stessi e col mondo, abdicando all’emblematica frenesia di un’epoca odierna, che celebra il dominio parossistico di un FARE, cui dar corso sempre... subito... ad ogni
costo:
Speréma ch’un venga \ niséun a disturbé,\ parchè adès a j’ò da
fè,\ adès a n stagh pinsénd a gnént.
La dmanda
U m fruléva t’la testa
sémpra cla dmanda:
s’a j’èl dòp dla mórta?
Ò zirchè una gran masa:
ò dmand m’un prit,
ò dmand m’un dutòur,
ò dmand m’un vec.
E sò arvat m’un’èlta dmanda
ancóra piò ingarbuieda
ch’la m’ zira adès t’la testa:
e próima dla mórta, s’a j’èl?
La domanda Mi frullava in testa \ sempre quella domanda:\ cosa c’è dopo la morte?\ Ho cercato molto:\ ho chiesto a un prete,\
ho chiesto a un dottore,\ ho chiesto a un vecchio.\ E sono arivato a un’altra domanda \ ancora più ingarbugliata \ che mi gira
adesso in testa:\ e prima della morte, cosa c’è?
«la Ludla», periodico dell’Associazione Istituto Friedrich Schürr, distribuito gratuitamente ai soci
Pubblicato dalla Società Editrice «Il Ponte Vecchio», Cesena • Stampa: «il Papiro», Cesena
Direttore responsabile: Pietro Barberini • Direttore editoriale: Gilberto Casadio
Redazione: Paolo Borghi, Roberto Gentilini, Giuliano Giuliani, Addis Sante Meleti
Segretaria di redazione: Veronica Focaccia Errani
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16
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la Ludla