RASSEGNA STAMPA FALCRI 19 FEBBRAIO 2009 A
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RASSEGNA STAMPA FALCRI 19 FEBBRAIO 2009 A
RASSEGNA STAMPA FALCRI 19 FEBBRAIO 2009 A cura di Manlio Lo Presti ESERGO Le cose incomprensibili fanno uscire di senno: perciò è meglio dare la colpa agli apparecchi, agli specchi, alle proiezioni, così la gente ride. Mas Bergman a Berti Guve nel film “FANNY E ALEXANDER”, 1948 www.corriere.it Tonfo di Alleanza e Unicredit Piazza Affari ancora in rosso. Rimbalza Ubi Banca, bene i titoli del lusso MILANO - Alleanza e Unicredit nella bufera, il listino di Piazza Affari ancora segnato dai ribassi e gli indici che alla fine limitano i danni grazie al rimbalzo di alcuni titoli e al recupero di Wall Street. Anche oggi l’andamento delle Borse è stato caratterizzato dall’incertezza. Ma almeno non si è ripetuto il tracollo della vigilia. Le variazioni negative, infatti, sono rimaste contenute ovunque sotto il punto percentuale. Il risultato peggiore in Europa è stato quello di Londra (-0,68% l’indice Ftse 100), mentre Francoforte (Dax 30) ha ceduto lo 0,28% e Parigi è rimasto sostanzialmente fermo (-0,04%). Leggermente peggiori gli indici della Borsa di Milano: -0,87% l’S&P/Mib e -0,73% il Mibtel, con scambi per un controvalore di 1,9 miliardi di euro. La prospettiva di una fusione nella controllante Generali senza passare attraverso un’Opa in contanti ha deluso gli azionisti di Alleanza, che anche oggi hanno venduto il titolo, provocandone il forte ribasso (-7,3% la quotazione di riferimento, scesa al nuovo minimo dell’anno). L’altra forte flessione della giornata, quella di Unicredito, è dovuta invece alle preoccupazioni del mercato per la situazione economica dei paesi dell’Est europeo, dove la banca guidata da Alessandro Profumo (il cui titolo ha ceduto il 6,51%) è particolarmente esposta. Altri ribassi significativi, fra i valori dell’S&P/Mib, nel comparto editoriale (Mondadori -4,82%, l’Espresso 3,39%), in quello industriale (StMicroelectronics -4,59%, Pirelli -3,88%, Buzzi-Unicem -3,22%) e in quello energetico (A2A -3,84%). Per quanto riguarda invece le variazioni positive, spicca innanzi tutto il rimbalzo di Ubi Banca (+4,77%), dopo che la società ha rassicurato il mercato circa la possibilità di una distribuzione di dividendo cash. Fra i bancari, bene anche Intesa-Sanpaolo (+1,79%) e Mediolanum (+1,37%), mentre hanno prontamente reagito ai ribassi di ieri i titoli del lusso compresi nel paniere dei 40 più capitalizzati: Bulgari e Geox sono infatti rimbalzati rispettivamente del 2,08% e del 3,33%. In recupero, infine, Fiat (+1,43%), Fondiaria-Sai (+2,83%), Impregilo (+1,95%), Seat Pagine Gialle (+2,01%), e Snam Rete Gas (+1,08%). Giacomo Ferrari 18 febbraio 2009 BISOGNA AGGIORNARE LO STRUMENTO DEL REDDITOMETRO CHE RISALE AL '92 Fisco: si evadono 200 miliardi all'anno Il direttore delle Finanze: «Evasione fenomeno di massa, l'economia sommersa è pari a 250 miliardi» ROMA - Gli italiani, eccetto i lavoratori dipendenti, stanno diventando progressivamente un popolo di evasori. Per questo bisogna fornire al Fisco nuovi e più efficaci mezzi d'indagine. L'evasione fiscale è diventata:«un fenomeno di portata molto ampia, possiamo parlare di evasione di massa. Le strategie di lotta all'evasione debbono dunque essere rapportate alla dimensione del fenomeno che è enorme» ha detto il direttore generale del Dipartimento delle Finanze del ministero dell'Economia, Fabrizia Lapecorella, nel corso di un'audizione alla Commissione parlamentare sull'Anagrafe tributaria. STIME – La pecorella ha ricordato come, secondo le ultime stime disponibili, l'ampiezza dell'economia sommersa sia «fra i 230 e i 250 miliardi di euro». Per quanto riguarda in particolare l'evasione fiscale, il Dipartimento delle Finanze stima che «l'ammontare dei valore aggiunto lordo evaso stimato per il 2004 sia di circa 200 miliardi di euro. I settori in cui si evade di più in termini relativi - ha riferito ancora il direttore generale - sono quelli dei servizi personali , del commercio e della ristorazione, delle costruzioni». Per combattere l'evasione, secondo Lapecorella, bisogna procedere all'integrazione delle banche dati e «aggiornare lo strumento del redditometro» che risale al '92. 18 febbraio 2009 «OPPURE POTREBBE ESSERE UTILIZZATO PER CREARE UN FONDO DI GARANZIA PER LE PMI» «Il Tfr per un anno resti in azienda» Marcegaglia: «Per un anno i flussi non vadano all'Inps, ma vengano usati per finanziare le imprese» FOGGIA - La proposta farà discutere. Le imprese potrebbero finanziarsi con i soldi dei lavoratori. Almeno di quelli che hanno deciso di lasciare il trattamento di fine rapporto (Tfr) in azienda e di non destinarlo ad un fondo pensione. « Si potrebbe arrivare alla decisione che per un anno i flussi di Tfr non vadano all'Inps, ma vengano tenuti all'interno delle imprese». Oppure i flussi del Tfr potrebbero servire a «creare un fondo di garanzia che aiuti il sistema del credito alle piccole e medie imprese». È una delle proposte lanciate dal presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, per superare la crisi economica in Italia. Marcegaglia lo ha detto incontrando i giornalisti a Foggia dopo una riunione con gli imprenditori locali. 18 febbraio 2009 E Scajola attacca la Confindustria: «Basta corvi, diffondete pessimismo» «I centri studi si compiacciono di rivedere al ribasso le stime degli istituti internazionali, sono perplesso» ROMA - E ora è scontro anche tra governo e Confindustria. I «Centri studi nazionali si compiacciono di diffondere il pessimismo, rivedendo sistematicamente al ribasso di mezzo punto percentuale le stime effettuate dagli istituti internazionali» ha detto il ministro per lo Sviluppo economico Claudio Scajola in occasione di un suo intervento ad un convegno della Fim-Cisl. CORVI - «Finiamola con questi corvi che passano per strada - ha sottolineato Scajola - sono perplesso per gli scenari diffusi da Confindustria ogni volta che escono valutazioni di organismi internazionali tipo Ocse o Fmi. Vedo sempre posizioni dure di Confindustria e ogni volta c'è un carico», ha detto il ministro riferendosi alle ultime previsioni sul Pil riviste ulteriormente al ribasso dal centro studi di Confindustria (oltre il 2,5% in corso d'anno). Scajola ha poi invitato a non «cedere alla rassegnazione» anche perchè lo stesso Fondo ha sottolineato che «nel nostro Paese la crisi si è manifestata con caratteri meno accentuati rispetto ad altri Paesi industrializzati. Abbiamo certo un problema di crescita ma - ha aggiunto Scajola - non si è verificata l'implosione del mercato finanziario nè il collasso del settore immobiliare e il governo sta facendo il possibile, nel rispetto dei vincoli di bilancio, per salvaguardare la struttura produttiva del Paese». 18 febbraio 2009 www.denaro.it Euribor scende ancora Nuovo minimo storico Tensioni ancora in calo sull'interbancario: l'Euribor a tre mesi, riferimento che le banche utilizzano per basare le proprie politiche nei mutui ipotecari, è stato fissato ieri all'1,912 per cento, che corrisponde al livello più basso da quando è stata costituita l'Unione monetaria. Stessa direzione per gli altri tassi: quello a un mese è sceso all'1,603 per cento e quello a sei mesi all'1,997 per cento, sceso addirittura sotto il 2 per cento, soglia su cui è attualmente fissato il tasso ufficiale della Bce. del 18-02-2009 num. 032 Salza: Siamo solidi e cresceremo ancora "Il gruppo Intesa Sanpaolo ha confermato la sua solidità grazie al forte radicamento nella realtà italiana e sapra' crescere ancora". Lo ha sottolineato ieri il presidente del consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo, Enrico Salza, davanti ai circa 800 direttori delle filiali del Piemonte, della Liguria e della Valle d'Aosta, riuniti al Lingotto di Torino. L'incontro, al quale hanno partecipato anche l'amministratore delegato, Corrado Passera e il direttore generale, Enrico Micheli, è una delle tappe nelle otto macroregioni d'Italia per presentare ai direttori la riorganizzazione della Banca dei Territori. Micheli ha ribadito che nelle filiali, grazie alla nuova organizzazione, sono possibili 1.200 assunzioni. "Il perno del sistema - ha detto Salza - è la centralità della filiale perché è attraverso di essa che si costruisce il rapporto di fiducia con il cliente. Noi dobbiamo tutelare il risparmio dei tanti clienti che hanno fiducia in noi, pronti a dare continuita' nella concessione del credito alle famiglie e alle imprese migliori che vogliono investire e crescere". del 18-02-2009 num. 032 www.finanzaonline.com Generali, possibile formazione di un superpolo nel ramo vita Finanzaonline.com - 18.2.09/08:04 Dopo la conferma di una possibile fusione tra Generali e Alleanza, si scatenano diverse ipotesi sull'operazione. Secondo gli esperti, il Leone di Trieste, che già detiene il 50% della compagnia assicurazione vita, potrebbe rilevare il restante emettendo nuove azioni per circa 1,4 miliardi e attingendo alle azioni proprie raccolte dal piano di buy back per altri 6-700 milioni. In questo modo l'impatto sul capitale del gruppo di Trieste sarebbe limitato e Mediobanca, che è primo socio con il 14%, scenderebbe a circa il 13%. Inoltre, la fusione potrebbe essere seguita da un accorpamento di tutte le attività nel ramo vita di Alleanza, Toro, Ina e Generali, creando così un super polo nel vita. Domani si raccoglieranno i vertici di Generali e Alleanza, ma al momento sono escluse decisioni sull'operazione. www.milanofinanza.it Germania approva disegno legge per nazionalizzazione banche 18/02/2009 11.45 Il governo tedesco presieduto da Angela Merkel ha approvato una bozza di legge che consente allo stato la nazionalizzazione delle banche in difficoltà. Lo ha annunciato oggi il ministro delle finanze tedesco, confermando le indiscrezioni che erano già circolate nel corso della mattina. Il disegno di legge apre la strada alla possibilità per Berlino di prendere il controllo della leader tedesca dell'immobiliare Hypo Real Estate e lascia aperta la possibilità di un'espropriazione degli azionisti come ultima risorsa. Hypo ha già ricevuto 102 miliardi di euro in garanzie da parte dello stato e di altre banche, ma le sue condizioni finanziarie restano precarie. Il disegno di legge, che dovrà essere approvato dal Parlamento tedesco per entrare in vigore, è conforme alla costituzione tedesca che impedisce l'espropriazione degli azionisti senza l'appoggio di una nuova legge. Nel caso di Hypo Re il Governo ha bisogno dell'opzione di espropriazione senza la quale potrebbe incontrare forti ostacoli nella piena presa di controllo della banca che è posseduta per un quarto dal private equity Jc Flowers. Il Governo ha detto chiaramente di non voler prendere il controllo delle banche tedesche a meno di non essere costretto a farlo da un aggravarsi della crisi. Secondo il disegno di legge, l'espropriazione degli azionisti potrà verificarsi soltanto entro il 31 ottobre 2009 e un decreto del governo in questo senso dovrà essere presentato non oltre la fine di giugno. Soltanto il mese scorso Berlino ha preso una quota del 25% di Commerzbank. Arianna Ferrari Crisi, perplessità scenari Confindustria 18/02/2009 14.00 Il ministro dello Sviluppo Claudio Scajola ha espresso perplessità per le stime pessimistiche sulla recessione italiana elaborate dai centri studi nazionali come quello di Confindustria, peggiori di quelle internazionali. Parlando nel corso di un convegno della Cisl Scajola ha detto di finirla "con questi corvi", e ha sottolineato come i centri studi nazionali "si compiacciano di diffondere il pessimismo, rivedendo sistematicamente al ribasso" le previsioni internazionali. Nel suo intervento Scajola ha ricordato che "le recenti stime del Fondo monetario internazionale" indicano che "la ripresa per l'Italia arriverà nel 2010. Nessuno può dire se oggi queste previsioni saranno confermate". Germania approva disegno legge su nazionalizzazione banche 18/02/2009 10.30 Il Governo tedesco presieduto da Angela Merkel ha approvato una bozza di legge che consente allo stato la nazionalizzazione delle banche in difficoltà. Lo ha affermato una fonte governativa. Il disegno di legge apre la strada alla possibilità per Berlino di prendere il controllo della leader tedesca dell'immobiliare Hypo Real Estate e lascia aperta la possibilità di un'espropriazione degli azionisti come ultima risorsa. Hypo ha già ricevuto 102 miliardi di euro in garanzie da parte dello stato e di altre banche, ma le sue condizioni finanziarie restano precarie. www.ilmanifesto.it · ACCORDO QUADRO RIFORMA DEGLI ASSETTI CONTRATTUALI ROMA, 22 GENNAIO 2009 Il Governo e le parti sociali firmatarie del presente accordo, con l’obiettivo dello sviluppo economico e della crescita occupazionale fondata sull’aumento della produttività, l’efficiente dinamica retributiva e il miglioramento di prodotti e servizi resi dalle pubbliche amministrazioni, convengono di realizzare - con carattere sperimentale e per la durata di quattro anni- un accordo sulle regole e le procedure della negoziazione e della gestione della contrattazione collettiva, in sostituzione del regime vigente. Le parti fanno espresso rinvio agli accordi interconfederali sottoscritti al fine di definire specifiche modalità, criteri, tempi e condizioni con cui dare attuazione ai principi, di seguito indicati, per un modello contrattuale comune nel settore pubblico e nel settore privato: 1. l’assetto della contrattazione collettiva è confermato su due livelli: il contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria e la contrattazione di secondo livello come definita dalle specifiche intese; 2. il contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria: - avrà durata triennale tanto per la parte economica che normativa; - avrà la funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori del settore ovunque impiegati nel territorio nazionale; - per la dinamica degli effetti economici si individuerà un indicatore della crescita dei prezzi al consumo assumendo per il triennio - in sostituzione del tasso di inflazione programmata - un nuovo indice previsionale costruito sulla base dell’IPCA (l’indice dei prezzi al consumo armonizzato in ambito europeo per l’Italia), depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati. L’elaborazione della previsione sarà affidata ad un soggetto terzo; - si procederà alla verifica circa eventuali scostamenti tra l’inflazione prevista e quella reale effettivamente osservata, considerando i due indici sempre al netto dei prodotti energetici importati; - la verifica circa la significatività degli eventuali scostamenti registratisi sarà effettuata in sede paritetica a livello interconfederale, sede che opera con finalità di monitoraggio, analisi e raccordo sistematico della funzionalità del nuovo accordo; - il recupero degli eventuali scostamenti sarà effettuato entro la vigenza di ciascun contratto nazionale; - il nuovo indice previsionale sarà applicato ad un valore retributivo individuato dalle specifiche intese; - nel settore del lavoro pubblico, la definizione del calcolo delle risorse da destinare agli incrementi salariali sarà demandata ai Ministeri competenti, previa concertazione con le Organizzazioni sindacali, nel rispetto e nei limiti della necessaria programmazione prevista dalla legge finanziaria, assumendo l’indice (IPCA), effettivamente osservato al netto dei prodotti energetici importati, quale parametro di riferimento per l’individuazione dell’ indice previsionale, il quale viene applicato ad una base di calcolo costituita dalle voci di carattere stipendiale e mantenuto invariato per il triennio di programmazione; - nel settore del lavoro pubblico, la verifica degli eventuali scostamenti sarà effettuata alla scadenza del triennio contrattuale, previo confronto con le parti sociali, ai fini dell’eventuale recupero nell’ambito del successivo triennio, tenendo conto dei reali andamenti delle retribuzioni di fatto dell’intero settore; 3. la contrattazione collettiva nazionale di categoria o confederale regola il sistema di relazioni industriali a livello nazionale, territoriale e aziendale o di pubblica amministrazione; 4. la contrattazione collettiva nazionale o confederale può definire ulteriori forme di bilateralità per il funzionamento di servizi integrativi di welfare; 5. per evitare situazioni di eccessivo prolungamento delle trattative di rinnovo dei contratti collettivi, le specifiche intese ridefiniscono i tempi e le procedure per la presentazione delle richieste sindacali, l’avvio e lo svolgimento delle trattative stesse; 6. al rispetto dei tempi e delle procedure definite è condizionata la previsione di un meccanismo che, dalla data di scadenza del contratto precedente, riconosca una copertura economica, che sarà stabilita nei singoli contratti collettivi, a favore dei lavoratori in servizio alla data di raggiungimento dell’accordo; 7. nei casi di crisi del negoziato le specifiche intese possono prevedere anche l’interessamento del livello interconfederale; 8. saranno definite le modalità per garantire l’effettività del periodo di “tregua sindacale” utile per consentire il regolare svolgimento del negoziato; 9. per il secondo livello di contrattazione come definito dalle specifiche intese parimenti a vigenza triennale - le parti confermano la necessità che vengano incrementate, rese strutturali, certe e facilmente accessibili tutte le misure volte ad incentivare, in termini di riduzione di tasse e contributi, la contrattazione di secondo livello che collega incentivi economici al raggiungimento di obiettivi di produttività, redditività, qualità, efficienza, efficacia ed altri elementi rilevanti ai fini del miglioramento della competitività nonché ai risultati legati all’andamento economico delle imprese, concordati fra le parti; 10. nel settore del lavoro pubblico l’incentivo fiscalecontributivo sarà concesso, gradualmente e compatibilmente con i vincoli di finanza pubblica, ai premi legati al conseguimento di obiettivi quantificati di miglioramento della produttività e qualità dei servizi offerti, tenendo conto degli obiettivi e dei vincoli di finanza pubblica; 11. salvo quanto espressamente previsto per il comparto artigiano, la contrattazione di secondo livello si esercita per le materie delegate, in tutto o in parte, dal contratto nazionale o dalla legge e deve riguardare materie ed istituti che non siano già stati negoziati in altri livelli di contrattazione; 12. eventuali controversie nella applicazione delle regole stabilite, saranno disciplinate dall’autonomia collettiva con strumenti di conciliazione ed arbitrato; 13. la contrattazione di secondo livello di cui al punto 9, deve avere caratteristiche tali da consentire l’applicazione degli sgravi di legge; 14. per la diffusione della contrattazione di secondo livello nelle PMI, con le incentivazioni previste dalla legge, gli specifici accordi possono prevedere, in ragione delle caratteristiche dimensionali, apposite modalità e condizioni; 15. salvo quanto già definito in specifici comparti produttivi, ai fini della effettività della diffusione della contrattazione di secondo livello, i successivi accordi potranno individuare le soluzioni più idonee non esclusa l’adozione di elementi economici di garanzia o forme analoghe, nella misura ed alle condizioni concordate nei contratti nazionali con particolare riguardo per le situazioni di difficoltà economico-produttiva; 16. per consentire il raggiungimento di specifiche intese per governare, direttamente nel territorio o in azienda, situazioni di crisi o per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale, le specifiche intese potranno definire apposite procedure, modalità e condizioni per modificare, in tutto o in parte, anche in via sperimentale e temporanea, singoli istituti economici o normativi dei contratti collettivi nazionali di lavoro di categoria; 17. salvo quanto già definito in specifici comparti produttivi, i successivi accordi dovranno definire, entro 3 mesi, nuove regole in materia di rappresentanza delle parti nella contrattazione collettiva valutando le diverse ipotesi che possono essere adottate con accordo, ivi compresa la certificazione all’INPS dei dati di iscrizione sindacale; 18. le nuove regole possono determinare, limitatamente alla contrattazione di secondo livello nelle aziende di servizi pubblici locali, l’insieme dei sindacati, rappresentativi della maggioranza dei lavoratori, che possono proclamare gli scioperi al termine della tregua sindacale predefinita; 19. le parti convengono sull’obiettivo di semplificare e ridurre il numero dei contratti collettivi nazionali di lavoro nei diversi comparti. Le parti confermano che obiettivo dell’intesa è il rilancio della crescita economica, lo sviluppo occupazionale e l’aumento della produttività, anche attraverso il rafforzamento dell’indicazione condivisa da Governo, imprese e sindacati per una politica di riduzione della pressione fiscale sul lavoro e sulle imprese, nell’ambito degli obiettivi e dei vincoli di finanza pubblica. www.ilmessaggero.it Marcegaglia: bloccare il Tfr per un anno all'interno delle aziende ROMA (18 febbraio) - «Si potrebbe arrivare alla decisione che per un anno i flussi di Tfr non vadano all'Inps, ma vengano tenuti all'interno delle imprese. Oppure i flussi del Tfr potrebbero servire a creare un fondo di garanzia che aiuti il sistema del credito alle piccole e medie imprese»: è questa una delle proposte lanciate dal presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, per superare la crisi economica in Italia. «Il tema del credito è fondamentale - ha detto la Marcegaglia a Foggia dopo una riunione con gli imprenditori locali - servono decisioni concrete perché se non c'è credito si blocca il sistema delle imprese, ancor più nel Sud. E' assolutamente necessario che, come sta accadendo in tutti i Paesi europei e anche negli Stati Uniti e in Cina, il governo italiano sostenga l'economia. Comprendiamo il problema del debito pubblico, ma riteniamo che in un momento come questo serva un sostegno all'economia, senza il quale rischiamo veramente che molte imprese non riescano ad andare avanti». Oltre a quella sul Tfr, Marcegaglia ha avanzato la proposta che la Cassa depositi e prestiti anticipi i crediti delle imprese con le pubbliche amministrazioni e che venga reso al più presto operativo il Fondo di garanzia di 450 milioni di euro previsto nel Decreto 185 per le Confidi. Cgil: sì se è Tfr non usato per previdenza complementare. «Se la Marcegaglia si riferisce a quella parte del Tfr non utilizzato dai lavoratori per la previdenza complementare - dice la segretaria confederale della Cgil, Morena Piccinini - e che dal 2007 le aziende con oltre 50 dipendenti versano all'Inps, riteniamo che sia legittimo che il sistema delle imprese chieda che quelle risorse vengano utilizzate tutte a sostegno delle attività produttive e dello sviluppo del Paese. Questo era l'obiettivo con il quale il fondo stesso era stato istituito dall'allora governo Prodi. Obiettivo che nel tempo si è disperso, provocando una situazione per la quale parte significativa di quelle risorse sono ora desinate ad altri scopi, compreso il finanziamento del ministero della Difesa». Proprio per raggiungere l'obiettivo originario, aggiunge Piccinini, «è controproducente ipotizzare il ritorno tout court del Tfr nelle singole aziende perché questo determinerebbe ulteriori complicazioni nel rapporto tra azienda, Inps e lavoratori, con il rischio non secondario per il lavoratore di veder ridotta la possibilità di conseguire tutte le sue spettanze alla cessazione del rapporto di lavoro». Per la sindacalista sarebbe, infine, «opportuno che il sistema delle imprese si rendesse disponibile ad ampliare le possibilità di anticipazione del Tfr ai lavoratori, oltre i casi già previsti, proprio per far fronte anche a questa situazione di crisi». Damiano: proposta che lascia perplessi. «La proposta del presidente di Confindustria di finanziare il credito alle pmi è giusta, ma lo strumento che propone ci lascia alquanto perplessi dice il deputato del Pd, Cesare Damiano - Come sempre la costituzione di un fondo implica anche la definizione di chi lo gestisce e con quale trasparenza, il che espone a rischio di creare strumenti di una qualche complessità. In ogni caso quello che va ricordato è che l'attuale flusso del Tfr al fondo di tesoreria, che riguarda le aziende al di sopra dei 50 dipendenti, è una misura varata dal governo Prodi che trovò forti resistenza da parte delle aziende. Queste risorse servono per finanziare le infrastrutture. Va anche ricordatoche il memorandum del novembre 2006 che istituì questa misura, la previde per 2 anni. Essa è scaduta al 31 dicembre del 2008, e basterebbe che le parti sociali pretendessero dal governo di ripristinare la situazione precedente e far ritornare il tfr in azienda. Infine, va sempre ricordato che le risorse del Tfr appartengono ai lavoratori, come sottolinearono i critici dell'epoca, e che il finanziamento del credito alle piccole aziende dovrebbe far parte di un pacchetto di interventi a sostegno delle imprese che il governo dovrebbe mettere a disposizione con risorse fresche e aggiuntive, al fine di contrastare gli effetti della crisi». Confcooperative: il blocco aiuterebbe le imprese. «Conservare il Tfr in azienda per un anno rappresenterebbe un'importante boccata d'ossigeno per le imprese, soprattutto, per quelle labour intensive, cioè ad alta intensità di lavoro, come le cooperative - dice Luigi Marino, presidente di Confcooperative - La gestione della liquidità delle imprese è stata erosa anche dalle scelte assunte da passati governi che, nel modificare il versamento del Tfr, avevano assicurato misure compensative che non sono mai arrivate. Va ricordato inoltre che il 72% delle cooperative denuncia una carenza di liquidità e il 35% di esse si lamenta delle peggiorate condizioni di accesso al credito. Per sanare la piaga dei mancati pagamenti risultano irrimandabili due punti: che la Cassa depositi prestiti anticipi i crediti per la Pa e che sia reso operativo e irrobustito il fondo di garanzia per i Confidi. www.ilsole24ore.com Abi: le imprese usano i prestiti per ristrutturare i debiti Le imprese chiedono prestiti solo per ristrutturare il proprio debito e non per fare investimenti. Lo sostiene l'Abi (Associazione bancaria italiana) nel suo bollettino mensile. A gennaio si è registrato un lieve rallentamento della crescita degli impieghi che, a gennaio, sono saliti del 4,2% a 1.526 miliardi di euro (+62 miliardi rispetto allo stesso mese di un anno fa) contro il +4,9% di dicembre 2008. Le imprese chiedono soldi per ristrutturare il debito I prestiti alle imprese non finanziarie, relativi però al mese di dicembre, sono saliti del 6,6%. In crescita rispetto al +6% di novembre mentre per quanto riguarda le famiglie, i finanziamenti hanno registrato una crescita dell'1,4%, in ripresa rispetto al -0,7% di novembre. Ma la domanda di prestiti delle aziende - rileva l'Abi citando l'indagine Bank Lending Survey di Bankitalia fatta in collaborazione con la Bce - è risultata rilevante «solo ai fini della ristrutturazione del debito». Si è infatti registrato un forte calo degli investimenti fissi, delle operazioni di fusione, acquisizione e delle ristrutturazioni. L'esigenza di fondi per investimenti fissi ha segnato in Italia (a dicembre 2008 rispetto a settembre dello stesso anno) un saldo percentuale negativo pari al 62,5%. Si tratta del il peggior risultato da quando è iniziata la rilevazione (gennaio 2003). Raccolta bancaria in lieve rallentamento Frena anche l'andamento della raccolta bancaria, pur mantendosi su livelli di crescita oltre il 10%. A gennaio - spiega il bollettino mensile dell'Abi sui mercati finanziari e creditizi - il tasso di crescita su base annua è stato del 10,2%, in rallentamento rispetto all'11,7% di dicembre ma in accelerazione nel confronto con gennaio dell'anno scorso (+9,9%). In particolare, alla fine di gennaio la raccolta bancaria è stata pari a 1.784 miliardi di euro e nel corso dell'ultimo anno lo stock è aumentato di circa 166 miliardi. Tassi ai minimi dal 2006 La discesa dell'euribor dei mesi scorsi si fa sentire sui dei tassi d'interesse sui mutui immobiliari per le famiglie. A gennaio sono scesi sotto il 5%, ai valori minimi dalla fine del 2006. Il mese scorso - spiega il bollettino mensile dell'Abi - il tasso sui prestiti alle famiglie per l'acquisto di abitazioni è diminuito al 4,84%, in netta flessione rispetto al 5,09% di dicembre, «tornando sui valori di novembre 2006». Dopo il record del 5,95% segnato ad agosto scorso, per i tassi d'interesse sui mutui si tratta quindi del quinto calo consecutivo. Nessun aumento delle sofferenze Resta alta la qualità del credito del sistema bancario. Secondo il rapporto dell'Abi le sofferenze lorde a dicembre (tradizionale mese di 'pulizià dei bilanci) sono risultate pari a 41,1 miliardi di euro contro i 39,6 miliardi di novembre ma in deciso calo rispetto ai 47,2 miliardi di fine 2007. In particolare il rapporto fra sofferenze nette e impieghi totali ad ottobre (ultimi dati disponibili) è stato pari all'1,08% mentre il rapporto fra sofferenze nette e patrimonio di vigilanza ha raggiunto quota 5,27%. 18 febbraio 2009 www.iltempo.it Allo studio lo scambio azionario tra le 2 società Generali-Alleanza, fusione vicina Generali studia la fusione con Alleanza che, a dispetto delle attese della borsa, non passerà attraverso un'Opa sulla controllata. Senza la prospettiva di un'offerta in contanti il titolo della compagnia vita del Leone perde il suo appeal speculativo e lascia sul terreno a fine seduta l'8,2% a 4,99 euro. Va male anche alla capogruppo, che termina in calo del 4,72% a 13,9 euro in una mercato che già ragiona sui concambi. «Così come già avvenuto in passato, è in fase di studio un'ipotesi di fusione per incorporazione di Alleanza in Generali», si legge in un comunicato diffuso su richiesta della Consob dopo le indiscrezioni degli ultimi giorni. Peraltro si precisa che «non è allo stato possibile prevedere se, entro quali tempi e a quali condizioni l'operazione ipotizzata - che non darebbe in ogni caso luogo ad alcun diritto di recesso a favore dei soci delle società interessate - potrà essere portata all'attenzione degli organi deliberanti delle due società», conclude la nota. In sostanza Generali conferma per la prima volta l'ipotesi sulla quale da anni la borsa periodicamente scommette, quella di un accorciamento della catena di controllo, ma delude chi aveva puntato su un'offerta pubblica d'acquisto per ritirare il titolo dal listino. Quel che Trieste sta valutando, assistita dall'azionista (al 14%) Mediobanca e da Ubs, è un'operazione carta contro carta, utilizzando anche il 2% di azioni proprie che ha in portafoglio. Non è prevista, in ogni caso, una Ops (offerta pubblica di scambio): sul tavolo c'è la fusione per incorporazione senza neanche il diritto di recesso per i soci di minoranza. Questi ultimi, se il progetto allo studio andrà in porto, potranno disfarsi dei titoli solo vendendoli in Borsa prima della fusione, come forse qualcuno ha già cominciato a fare. Il titolo Alleanza dopo il comunicato del gruppo ha infatti invertito la rotta in Borsa chiudendo pesante, al pari della capogruppo, su un concambio teorico di 2,78 azioni della controllata per ogni azione del Leone. Un livello non lontano dai 2,81 ritenuti equi, secondo i calcoli fatti, senza tener conto di eventuali sinergie dalla fusione, dagli analisti di Unicredit. La prima occasione, per il Leone, per fare il punto sull'eventuale fusione è la riunione del comitato esecutivo domani a Milano. L'appuntamento, comunque, era già in agenda da tempo. 18/02/2009 www.ilgiornale.it Livingston pronta ad assumere la hostess «pasionaria» Daniela Martani, la ex hostess «pasionaria» dell'Alitalia ed ex protagonista del Grande Fratello, potrebbe presto tornare a volare. Ma non più con la divisa dell'ex compagnia di bandiera, che l'ha licenziata, bensì con quella della Livingston, compagnia specializzata in collegamenti leisure e charter. Lo annuncia in una nota la stessa Livingston, che comunica di «essere disponibile ad assumere Daniela Martani tra il proprio personale di volo». L'assunzione, specifica la compagnia, potrebbe scattare «a partire da giugno 2009, con un contratto inizialmente stagionale». Evidentemente, l'atteggiamento della Martani, poco apprezzato dai nuovi vertici Alitalia, viene invece apprezzato da quelli della Livingston per i quali, si legge sempre nella nota, «la determinazione e il coraggio della signora Martani, che si definisce, nelle dichiarazioni rilasciate alla stampa, "una combattente e una combattiva per natura", sono state giudicate da Livingston qualità interessanti, unitamente alla decisione di abbandonare il reality per far valere il diritto al lavoro sullo "show business"». Per Massimo Ferrero, presidente di Livingston spa, «con questa decisione, la signora Martani ha dimostrato responsabilità e risolutezza». Quindi, se la volontà della Martani, continua Ferrero, è quella di continuare la professione di assistente di volo, troverà in Livingston «un'ottima opportunità di lavoro e di successo». Al momento non si conoscono le reazioni della diretta interessata. La compagnia Livingston è stata ceduta la settimana scorsa dal gruppo Viaggi del Ventaglio alla società 4Fly. Fondiaria Sai, premi in calo nel 2008 I primi risultati di Fondiaria-Sai sull'esercizio appena concluso sono stati approvato dal consiglio di amministrazione. A livello consolidato la raccolta premi complessiva del lavoro diretto ha raggiunto 11.492 milioni di euro, con un calo del 3,2%. Nei rami Danni essa ammonta a 7.286 milioni (erano 7.309 nel 2007, meno 0,3%). A tale dato ha contribuito la compagnia serba Ddor, acquisita a fine 2008, con un volume di premi pari a 125 milioni. Pertanto in termini omogenei la raccolta dei Danni segnerebbe una flessione del 2% circa. Tuttavia è da segnalare la performance positiva dei Rami Non Auto che registrano una raccolta pari a 2.485 milioni con una crescita del 5,1%, risultato raggiunto nonostante il contesto macro economico non favorevole. Nei rami Vita i premi emessi hanno raggiunto 4.206 milioni, con un calo del 7,7%. Anche in tal caso va segnalato che la flessione sconta l'uscita dal perimetro di consolidamento della controllata Po Vita, ceduta nel corso del primo trimestre 2008, che aveva contribuito alla raccolta dell'esercizio 2007 per 573 milioni. In termini omogenei, dunque, depurando cioè il contributo di Po Vita alla raccolta 2007, i rami Vita segnerebbero un incremento del 5,5%. Risulta significativo l'apporto di Popolare Vita, che al termine del 2008 ha totalizzato premi per 1.879 milioni. Il quadro della raccolta Vita si completa considerando inoltre la raccolta relativa ai contratti di investimento che ammonta a 297 milioni. Al termine dell'esercizio 2008, la raccolta premi del lavoro diretto della capogruppo ha raggiunto 4.918 milioni, con un calo del 2,7% rispetto al 2007. Tale dato è allineato ai principi contabili italiani e comprende anche la componente di puro investimento della raccolta dei rami Vita. Nei rami Danni sono stati raccolti 3.787 milioni con un calo di circa l'1,5%, di questi 2.509 milioni (meno 4,0%) nei rami Auto. Da segnalare il buon andamento dei rami Non Auto che registrano una raccolta pari a 1.278 milioni con una crescita del 3,8%. L'andamento dei rami Auto risente della riduzione delle immatricolazioni di nuovi veicoli nonché della tensione in atto sul mercato delle tariffe Rca e degli effetti della Legge n.40/2007 (Bersani Bis) in tema di attribuzione della classe di merito bonus malus, che hanno portato a una ulteriore contrazione del premio medio. Tuttavia è da evidenziare, in merito al ramo Rc Auto, che il numero dei sinistri denunciati registra un calo dell'1,8%. La particolare fase di mercato richiederà una costante e attenta politica di selezione dei rischi e di riduzione dei costi. Nei rami Vita la raccolta premi del lavoro diretto ammonta a 1.131 milioni (meno 6,4%), evidenziando una flessione determinata soprattutto dal minor apporto dei prodotti di capitalizzazione (meno 31%). Al fine di ridurre l'esposizione del portafoglio investimenti all'andamento del mercato azionario, il gruppo ha portato a termine nelle ultime settimane un programma di copertura acquistando opzioni put sull'indice Eurostoxx50, con durata sei mesi, per un controvalore complessivo di circa 500 milioni, pari quasi al 50% dell'esposizione azionaria del gruppo. Tale strategia consente di neutralizzare le perdite potenziali del portafoglio azionario conseguenti al perdurare della crisi dei mercati, senza precludere la partecipazione a eventuali movimenti rialzisti. L'assemblea dei soci si terrà il 23 aprile in prima convocazione e il 24 aprile in seconda. www.repubblica.it Chiesti 21,6 miliardi di dollari di aiuti al governo Usa Nardelli: "L'alleanza con Fiat ci consente sinergie globali" Dramma Gm, 47mila tagli con Chrysler chiede fondi di ARTURO ZAMPAGLIONE NEW YORK - Perseguitate dal fantasma di un fallimento tutt'altro che impossibile, la General Motors e la Chrysler hanno consegnato ieri al ministero del Tesoro due voluminosi documenti con i piani di ristrutturazione delle loro attività e la richiesta di nuovi aiuti pubblici (che la Chrysler quantifica in 2 miliardi di dollari). La Gm spiega come ridurrà il numero dei marchi, che ora sono troppi (otto), e come chiuderà alcune fabbriche per fronteggiare il calo della domanda. La Chrysler, che prevede altri 3.000 licenziamenti nel 2009, illustra in dettaglio l'alleanza con la Fiat. La speranza delle due case automobilistiche? Che Washington si convinca della loro capacità di superare la crisi e di ripagare i prestiti concessi dallo stato, approvando così ulteriori finanziamenti indispensabili alla sopravvivenza. La presentazione dei due piani entro la scadenza di ieri era stata richiesta dal governo al momento in cui, nel dicembre scorso, aveva prestato 4 miliardi di dollari alla Chrysler e 9,4 miliardi di dollari alla Gm (che ieri ne ha ricevuti altri 4 di quello stesso pacchetto). Il ministero del Tesoro aveva messo anche come condizione che le due case di Detroit in maggiori difficoltà (la Ford per il momento non ha chiesto nulla) moltiplicassero gli sforzi per ridurre il debito e tagliare i costi arrivando entro il 31 marzo ad alcuni obiettivi precisi. Uno degli obiettivi era di versare almeno la metà dei contributi al fondo sanitario dei dipendenti (spesa prevista: 20 miliardi per la Gm, 9,9 per la Chrysler) non più in contanti ma in azioni della società. Una seconda direzione di marcia era di convertire in titoli azionari i due terzi delle obbligazioni: sul mercato ci sono oggi 28 miliardi di bond della Gm e 9 miliardi di quelli della Chrysler. Nelle ultime ore il chief executive della Gm Rick Wagoner e quella della Chrysler Bob Nardelli hanno intensificato i negoziati con l'Uaw (United auto workers), il sindacato del settore, e con i rappresentanti dei "bondholders", i possessori di obbligazioni, per giungere ad un accordo da inserire nel piano di ristrutturazione. Ma a dispetto delle trattative frenetiche, il tentativo non è andato in porto. Gli interlocutori delle due aziende, infatti, non hanno voluto fare concessioni prima di conoscere le strategie sull'auto del "team" di Obama. E le conseguenze si sono viste in una perdita del 13% delle quotazioni della Gm a Wall Street. Accantonata l'ipotesi di nominare uno "zar dell'auto", cioè un unico grande mediatore tra Washington e Detroit, il neo-presidente ha optato per una squadra guidata dal ministro del Tesoro Tim Geithner e dal consigliere economico Larry Summers, di cui fa parte Ron Bloom, ex-finanziere della Lazard frères con una grande esperienza nella crisi dell'industria siderurgica. Sarà questa squadra, ora, a esaminare le centinaia di pagine dei piani presentati ieri e di quelli definitivi alla fine di marzo, decidendo sul futuro. Non è affatto escluso che i due gruppi siano costretti a portare i libri in tribunale: un "fallimento tecnico" che avverrebbe in modo contestuale all'avvio di un programma di rilancio Uno scenario del genere comporta molti rischi sia per i sindacati che per i "bondholders". In compenso lo spauracchio di un fallimento potrebbe accelerare l'accettazione di sacrifici da parte di tutti. (18 febbraio 2009) Che succede se la borghesia torna povera MASSIMO GIANNINI Borghesi di tutto il mondo, unitevi. Se fosse ancora vivo, forse oggi Carlo Marx integrerebbe il suo "Manifesto", allargando il leggendario appello rivolto a suo tempo ai soli proletari. Con la tempesta perfetta che si è abbattuta sull´economia mondiale, stavolta, chi rischia di più non sono i diseredati del mondo, che non hanno nulla da perdere. Chi rischia di più, come ci avverte acutamente l´ultimo numero dell´Economist, sono gli oltre 2 miliardi di persone che, sui mercati emergenti, hanno creato un gigantesco e inedito blocco sociale: potremmo definirlo come il nuovo «ceto medio» globale. Un esercito di donne e di uomini che, dall´India alla Cina, dal Brasile alla Russia, ha propiziato con il suo lavoro e beneficiato con il suo salario del più alto tasso di sviluppo dell´economia mondiale mai registrato da un secolo a questa parte. Una crescita media, e stabile, del 5% annuo. Con punte del 12% in alcune aree del pianeta. Sembra un sogno, oggi. Ma è esattamente quello che è accaduto dall´inizio degli anni ´90 in poi. Ora che recessione e deflazione colpiscono senza pietà a tutte le latitudini, questa «nuova borghesia» non ricca ma relativamente benestante, che può impiegare almeno un terzo del suo reddito per spese voluttuarie dopo aver soddisfatto i suoi bisogni primari di alimentazione e di protezione, corre un pericolo mortale. Quello di regredire a una condizione sociale di semipovertà, la stessa dalla quale si è sollevata faticosamente e orgogliosamente dal 1990 in poi. L´Economist ripesca proprio Marx, e ricorda che «la borghesia ha sempre giocato un ruolo fortemente rivoluzionario» nella Storia. Di fronte al crollo del benessere economico e delle aspirazioni sociali, la middle class ha reagito in modo ogni volta differenti. Ha supportato i governi nazi-fascisti nell´Europa degli Anni ´30 e le giunte militari nel Sudamerica degli Anni ´80. Ha manifestato pacificamente per ottenere il diritto di voto nella Gran Bretagna del 19esimo secolo e ha ottenuto la democrazia nell´America Latina degli Anni ´90. In questo Terzo Millennio è difficile immaginare cosa potrebbe accadere, se 2 miliardi di persone, dopo aver conquistato il benessere in 15 lunghi anni, ricadessero in miseria in un anno solo. Marxianamente parlando, in gioco c´è prima di tutto la «struttura», cioè la condizione di vita di milioni e milioni di persone. Ma in ballo c´è anche la «sovrastruttura», cioè i sistemi politici, gli assetti istituzionali, le democrazie. Solo a pensarci, tremano le vene ai polsi. m.gianninirepubblica.it Fed e Bce, una rete anti-crac Financial Stability Forum, Ocse e Fondo Monetario, commissioni apposite a Washington e Bruxelles, tutti al lavoro sulle nuove regole. Divisioni sul ruolo chiave che sarà affidato alle due grandi banche centrali MARCO PANARA Sono al lavoro il G8 e il G20, il Fondo Monetario e l´Ocse, il Financial Stability Forum e la Banca dei Regolamenti Internazionali, la Commissione De Larosiére a Bruxelles e l´Economic Recovery Advisory Board a Washington. La missione è riscrivere un sistema di regole che valga per tutti paesi grandi e paesi piccoli, anglosassoni, asiatici e latini, industrializzati ed emergenti - e che sia tale da evitarci in futuro di cadere di nuovo in una crisi come questa. La posta in gioco è gigantesca per gli interessi coinvolti, perché si tratta di mettere le briglie alle banche, agli hedge fund, ai private equity, ai mercati oggi selvaggi dei titoli derivati e strutturati, agli stipendi dei manager e anche ai comportamenti degli stati. La prima tappa è stata la riunione dei ministri dell´economia e dei governatori del G7 sabato a Roma, la prossima sarà l´incontro dei capi di governo europei a Bruxelles all´inizio di marzo e quella chiave il 2 aprile prossimo a Londra, per il G20 convocato dal primo ministro britannico Gordon Brown. In tutti i documenti fin qui prodotti, così come nelle dichiarazioni di governatori, ministri e capi di governo, le parole più citate sono coordinamento e cooperazione. Peccato però che nei fatti la Francia sia contro la Germania, tutte e due siano contro l´Inghilterra mentre gli Stati Uniti se ne vanno per la propria strada. A dividere non sono querelle di poco conto: non è la stessa cosa se la Nomura, per fare un esempio, è vigilata da Londra per tutte le sue attività in Europa, come avviene oggi e Londra vuole che continui ad essere in futuro, oppure se il controllo passa a un altro soggetto che sta di qua dalla Manica. E non è la stessa cosa se il mercato dei derivati resta non organizzato e non regolamentato, come gli inglesi pensano che debba continuare ad essere, oppure se si va verso una regolamentazione. La lista è lunga, si va dal modo di valutare il capitale delle banche rispetto ai rischi che assumono a come esercitare la vigilanza sulle compagnie di assicurazione. Si parla di poteri della Fed, della Bce, delle banche centrali nazionali e delle authority che vegliano sulla trasparenza, e si parla dei poteri che i singoli governi dovrebbero cedere a soggetti sovranazionali. Il punto di partenza è che la drammaticità della crisi lascia l´impressione che non abbia funzionato nulla, che il sistema di regole che c´è sia tutto sbagliato e tutto da rifare. Probabilmente non è proprio così, ma prima ancora che gli interessi di settori e soggetti specifici e gli interessi dei singoli stati, si scontrano due diverse visioni, la prima che sostiene la tesi ‘incrementale´, ovvero migliorare e allargare il raggio di azione delle regole che già ci sono, e la seconda che invece punta su una revisione sostanziale del sistema. Accanto a questo confronto ce n´è un altro, ed è quello tra il modello europeo continentale con le sue incompiutezze ma anche con i suoi valori sociali e il modello anglosassone, che nonostante sia quello che ci ha portato in questo disastro continua ad avere una fortissima presa, perché esprime e realizza la cultura dei due principali mercati finanziari mondiali e ancora di più perché dall´egemonia di quel modello dipendono interessi economici e politici enormi degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. A provare a mettere ordine in tutto ciò sono innanzitutto l´Ocse e il Financial Stability Forum. L´Ocse si sta occupando del ‘legal standard´ del quale parla Giulio Tremonti. «Il nome ‘legal standard´ è provvisorio - dice Pier Carlo Padoan, vice segretario generale dell´Ocse - perché la parola ‘legal´ ha una forza diversa nelle culture anglosassoni rispetto a quelle dell´Europa continentale. Ma al di là del nome, la sostanza è che si può intervenire su una serie di strumenti regolatori e legali che già esistono, e che riguardano dalle multinazionali alla corporate governance, dalla trasparenza fiscale alla qualità del lavoro, per farne una revisione complessiva con l´obiettivo di renderli coerenti con il nuovo quadro e per allargarne l´ambito di applicazione. L´Ocse lavorerà a tutto questo in collaborazione con altri organismi, come l´Organizzazione Internazionale del Lavoro per i temi della qualità del lavoro o con lo stesso Financial Stability Forum per i mercati finanziari». La stabilità del sistema finanziario internazionale è affidata soprattutto al Financial Stability Forum, creato dal G7 nel 1999 proprio in seguito alle crisi asiatica e russa e al fallimento dell´hedge fund Ltcm (Long Term Capital Management). Il Forum, che è oggi presieduto a Mario Draghi, ha già presentato un sostanzioso rapporto nell´aprile del 2008, con una serie di misure alcune delle quali sono già in fase di implementazione. Altre proposte sono in corso di elaborazione. Oltre all´Ocse e al Financial Stability Forum, sono al lavoro due gruppi di lavoro, uno europeo ed uno americano, alla ricerca di soluzioni per le due aree economiche. A Washington il presidente Obama ha affidato l´incarico alle mani sapienti di Paul Volcker che, alla guida della Fed negli anni ´80, fu colui che con una politica monetaria severa riuscì a stroncare l´inflazione che era stata scatenata dai due oil shock del decennio precedente. Volcker guida l´Economic Recovery Advisory Board e si stanno già delineando alcune linee d´azione che, nei programmi, dovranno trasformarsi in un set di nuove regole da varare per la fine di giugno. Molti elementi sono già stati individuati da un gruppo di lavoro creato nel luglio del 2008 all´interno del Gruppo dei 30 e guidato dallo stesso Volcker insieme a Tommaso Padoa Schioppa e all´ex governatore del Banco do Brasil, Arminio Fraga Neto. Il 15 gennaio scorso il Gruppo dei 30 ha reso pubblico il documento conclusivo, dal titolo ‘Financial Reform, a Framework for Financial Stability´, che contiene 18 raccomandazioni rivolte a tutti i governi, ma alcune delle quali sono dirette esplicitamente a quello di Washington. Per quanto si coglie in questa fase ancora preparatoria gli Stati Uniti vanno verso una vigilanza su tutti i soggetti che hanno rilevanza sistemica, compresi quindi i grandi hedge fund e private equity, con il ruolo centrale affidato alla Federal Reserve, per la quale si prevede un più stretto matrimonio (o incesto, secondo alcuni) con il Tesoro. Alla Fed sarebbero affidate oltre alla politica monetaria la macro e la microsorveglianza su tutti i soggetti di ‘rilevanza sistemica´. La concentrazione dei poteri nella Fed è ancora oggetto di discussione, poiché nel Congresso c´è chi preferirebbe separare sorveglianza da politica monetaria e affidare la prima ad un altro soggetto, sembra tuttavia che al momento prevalga la linea della concentrazione, bilanciata però da un maggiore controllo del Congresso stesso, con il quale il presidente della Fed e i governatori, insieme al segretario del Tesoro, discuterebbero ogni tre mesi le politiche e le linee operative. Sempre negli Stati Uniti le assicurazioni manterrebbero un assetto regolamentare distinto ma non sarà loro più consentito di investire in derivati senza sottostare a specifici controlli. Infine si va verso una revisione del sistema di incentivi a manager e trader con un ruolo rafforzato dei risk manager. In Europa una missione simile a quella che svolge Volcker di là dell´Atlantico è stata affidata ad una commissione guidata dall´ex governatore della Banca di Francia Jacques de Larosière e composta da sette membri indicati da Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Polonia, Spagna e Svezia. Il membro italiano è Rainer Masera. «Concluderemo i lavori per la fine di febbraio e le proposte saranno presentate alla Commissione Europea e successivamente al Consiglio e al Parlamento. E´ un lavoro complesso che ha l´obiettivo di arrivare ad un sistema di vigilanza europea più efficiente ed integrata» spiega Masera. In Europa il lavoro è più difficile che negli Stati Uniti. C´è una divaricazione tra i paesi euro e quelli non euro, ci sono posizioni confliggenti tra gli stessi paesi dell´area euro e quando si toccano aspetti significativi si sbatte subito sulla necessità di riformare il Trattato, il che vuol dire referendum e voto parlamentare nei vari paesi. Uno dei problemi chiave è la contrapposizione tra l´Europa continentale e la Gran Bretagna, che vuol essere al centro del sistema finanziario europeo facendo riferimento però più agli Stati Uniti che all´Europa stessa. E´ una posizione che i paesi dell´euro accettano sempre meno e che ha risvolti concreti, che vanno dalla sorveglianza sistemica sulle grandi istituzioni finanziarie internazionali, che sono spesso basate a Londra ma che i paesi di Eurolandia vorrebbero controllare dal continente, alla regolamentazione dei mercati oggi non organizzati, come quelli dei derivati e dei credit default swaps. Divergenze ci sono anche all´interno di Eurolandia sul ruolo della Bce. Si concorda sul fatto che è necessario prevedere una sorveglianza sui soggetti che hanno un impatto sistemico si discute tra chi, come il vice presidente della Bce Lucas Papademos (ma non solo), spinge per affidare alla Bce questi compiti e chi, come la Bundesbank, invece si oppone perché ritiene che i compiti di sorveglianza possono contaminare le scelte di politica monetaria. Ma queste sono solo le punte dell´iceberg, i problemi tecnici e politici, le divergenze tra paesi (e la tendenza di alcuni di questi di fare delle banche salvate e nazionalizzate dei campioni nazionali), la difficoltà di affidare maggiori compiti alla Bce senza che questa abbia un ministero del Tesoro di riferimento, rendono il lavoro della commissione de Larosière particolarmente complesso. Ma non è finita qui. Oltre a Ocse e Fsf, a Volcker e de Larosière, a lavorare sul problema ci sono anche altri soggetti. Il più importante è la Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea, dove si sta discutendo la questione chiave dei requisiti di capitale delle banche. E´ ormai chiaro che l´impostazione di Basilea (I e II) va corretta perché è prociclica, ovvero spinge le banche a comportamenti che accentuano la tendenza del ciclo economico e quindi, nel caso della crisi che stiamo vivendo, accentua il credit crunch. Gli svizzeri, padroni di casa ma con un sistema bancario molto provato, sostengono che il modello attuale che prevede requisiti di capitale ponderati in base alle tipologie di rischio non garantisca la stabilità del sistema, e spingono per criteri più semplici e omogenei. In questa posizione non sono isolati, ma dai requisiti di capitale dipende la leva che le banche possono attivare e quindi certamente il livello di rischio ma anche la capacità di produrre profitti per gli azionisti. Ciascuna di queste partite è delicatissima e le potentissime lobby sono al lavoro. Ma la chiave, come sempre, è nelle mani degli Stati Uniti. Da una parte la crisi ha lì le sue radici profonde, dall´altra c´è la novità dell´amministrazione Obama. Ma se l´America è disposta a condividere con gli altri la costruzione di un sistema di regole globale che le renda le mani un po´ meno libere, ancora non è chiaro. Secondo molti è improbabile, e se questi molti avranno ragione le nuove regole si faranno, ma avranno gli stessi limiti di quelle vecchie. Manifesto per la stabilità finanziaria LUIGI SPAVENTA In questi tempi così difficili, con banche che falliscono quasi ogni settimana e con le arterie del credito occluse malgrado interventi governativi di importi e natura senza precedenti, abbozzare piani di riforma del sistema finanziario potrebbe sembrare una distrazione superflua da sfide più pressanti. Non è così. Un accordo sulla definizione (per non parlare dell´attuazione) di nuove regole richiede tempo; e poi, come si dice, "beato quell´uomo che pianta un albero sotto la cui ombra non siederà mai". E così, il 15 novembre dell´anno scorso il G20 fu convocato per "gettare le fondamenta di una riforma" tale da impedire che "una crisi globale come quella che stiamo ora vivendo possa ripetersi". In quella riunione si lanciò un piano d´intervento basato su alcuni principi condivisi. Le azioni previste (nel complesso più di una quarantina) consistono in buona parte nell´assegnazione di compiti ad altre istanze internazionali, quali il Forum per la Stabilità Finanziaria, il Comitato di Basilea e le organizzazioni che stabiliscono gli standard contabili, nonché ai regolatori nazionali. Tutte queste istituzioni si sono messe alacremente al lavoro. Possiamo esser certi che nella prossima riunione i partecipanti al G20 non potranno lamentarsi per mancanza di documenti, carte e proposte dettagliate. Ma poi? Con l´approccio seguito finora, vi è il rischio che il G20 resti impantanato in una miriade di soluzioni parziali e dettagli tecnici. Il G20 riuscirà a mettere a punto le riforme del sistema finanziario mondiale? C´è il pericolo insomma che si perda di vista un disegno di riforma che dipende anche da difficili scelte politiche. Una carta per la stabilità finanziaria internazionale? Il lavoro intrapreso dal Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria (per il potenziamento dei requisiti di capitale e dell´assetto di vigilanza), dall´International Accounting Standards Board e dal Financial Accounting Standard Board (sul consolidamento delle entità fuori bilancio e sui problemi della contabilizazione delle attività finanziarie a valori di mercato in tempi di crisi), nonché dal Forum per la Stabilità Finanziaria e da altri enti nazionali e internazionali interviene per correggere, più che cambiare, la configurazione esistente e in quanto tale è di natura molto tecnica. Il G20 – un´entità preminentemente politica – assai difficilmente può entrare nello specifico delle soluzioni proposte. Il suo avvallo è naturalmente importante per rendere più spedita e agevole la traduzione dei cambiamenti e delle innovazioni elaborate nelle legislazioni nazionali (o regionali, nel caso dell´Europa). Ma questo è pressoché tutto. Mentre questo approccio ha i suoi meriti (soprattutto la rapidità), ci sono molte questioni più importanti e più generali che non possono essere risolte soltanto in base a criteri tecnici o di mera efficienza. Si tratta di questioni che richiedono scelte politiche che è impossibile delegare a istanze tecniche, ma che devono essere prese a livello di G20. Si considerino tre esempi. I partecipanti al summit del 15 novembre si sono impegnati a "garantire che tutti i mercati finanziari, i prodotti e i soggetti siano regolati o soggetti a controllo". La grossa questione che si nasconde dietro questo nebuloso obiettivo è quella di ripensare i criteri con cui fissare i confini della regolazione prudenziale (l´enfasi sul leverage, per esempio, conduce all´inserimento di broker-dealer, banche di investimento e gli hedge fund più grandi nel territorio regolamentato). La traduzione operativa di questa aspirazione è tuttavia deludente: «Le istituzioni a ciò deputate….dovrebbero intraprendere…un riesame delle finalità della regolazione finanziaria,con particolare riferimento alle istituzioni, agli strumenti e ai mercati che attualmente sono privi di regolamentazione». Ci si aspetterebbe che tocchi proprio al G20 raggiungere un consenso su questa questione, senza dover attendere un documento semi-accademico sulle "finalità della regolazione finanziaria". Si consideri poi il trading proprietario e l´attività delle grandi banche più vicina a quella di uno hedge fund, che hanno avuto un ruolo determinante nell´attuale crisi. La questione qui è capire se nel caso delle banche di deposito siffatte attività debbano essere proibite o limitate, magari per mezzo di speciali requisiti di capitale. Un terzo esempio riguarda il trattamento di istituzioni che, malgrado operino nei principali centri finanziari, sono legalmente domiciliate in località offshore, poco regolate, per sfruttare un arbitraggio normativo. Più in generale, ci si potrebbe chiedere se e come sia possibile conciliare l´esigenza di maggiori informazioni e trasparenza con l´esistenza stessa di giurisdizioni offshore. Credo proprio che l´unanimità così facilmente e rapidamente raggiunta nella dichiarazione del 15 novembre sarebbe molto più difficile da conseguire discutendo le risposte da dare a simili problemi e ad altri analoghi. Ma è precisamente questa difficoltà, che nasce dalla natura politica delle questioni in gioco, a fornire un valore aggiunto a un´organizzazione come quella del G20, nella quale un accordo politico può essere raggiunto. In questa fase, quindi, l´obiettivo da perseguire a livello di G20 dovrebbe essere un consenso condiviso su una sorta di costituzione finanziaria internazionale: un elenco di linee guida sulle questioni più importanti, che, pur se basate su principi, siano operativamente significative e tali da tradursi poi – in una fase successiva e diversa – in vere e proprie regole. Un recente rapporto del Gruppo dei Trenta (un´organizzazione privata), redatto da Paul Volcker, Arminio Fraga Neto e Tommaso Padoa-Schioppa, fornisce un buon esempio di questo metodo: quattro indicazioni fondamentali, basate su alcuni principi generali, sono dettagliate in diciotto raccomandazioni più precise. Naturalmente l´approvazione di linee guida non vincolanti può essere solo una premessa alla definizione di una vera riforma normativa, coordinata fra giurisdizioni diverse. Si tratta tuttavia di una premessa indispensabile, per dare una rotta e fissare un parametro di riferimento in rapporto al quale valutare le politiche di regolamentazione. Un esempio interessante, anche se limitato, lo si trova in ambito finanziario. L´organizzazione internazionale delle autorità di vigilanza dei mercati (International Organization of Securities Commissions) adottò nel 1998 un insieme di "Obiettivi e principi di regolamentazione finanziaria", oggi usati come piattaforma per una valutazione della legislazione e della regolazione dei paesi membri. E le istituzioni? Un accordo su uno statuto internazionale dei principi e degli obiettivi prudenziali e di stabilità non esaurirebbe certo i compiti del G20. E´ ormai opinione comune che esiste una profonda contraddizione tra la natura intrinsecamente globale del sistema finanziario e la frammentazione nazionale della regolazione. In buona sostanza ogni guardacaccia non può superare i confini della sua tenuta, mentre i cacciatori di frodo possono liberamente spostarsi da una tenuta all´altra a seconda delle convenienza (spesso allettati da un guardacaccia tollerante, desideroso di far crescere il numero di visitatori). È vero, esiste una rete complessa di organizzazioni e commissioni internazionali che si occupano di questioni relative alla regolamentazione. Tuttavia, come ha osservato Howard Davies, il "sistema", se così possiamo definirlo, è un risultato casuale più che il prodotto di un progetto intelligente" e si basa su accordi volontari. I suoi punti deboli si sono dolorosamente palesati nell´attuale crisi: le differenze nei regimi di regolamentazione tra le varie giurisdizioni hanno contribuito alle cause della crisi, mentre la mancanza di coordinamento e le differenze nei meccanismi di risoluzione ne hanno aumentato i costi. Eppure, mentre tutti ammettono che l´attuale situazione è assolutamente insoddisfacente, non si sono prese iniziative concrete per migliorarla e il dibattito sulle possibili soluzioni non fa che oscillare tra l´impossibile e l´irrilevante, senza che si prendano in considerazione posizioni intermedie praticabili. Impossibile è la ricorrente proposta di adottare un unico regolamento finanziario globale: codesta impossibilità nasce non soltanto dalla riluttanza da parte degli stati nazione a rinunciare alla loro giurisdizione in materia, ma ancor più dalla mancanza – a tutt´oggi – di un comune libro di regole e, ancor prima, dalle profonde differenze esistenti tra i sistemi legali, che limiterebbero necessariamente i poteri di un ipotetico regolatore mondiale. Sono invece irrilevanti le esortazioni a migliorare il coordinamento e la cooperazione tra le autorità di regolazione senza al di fuori di qualsiasi contesto istituzionale, come avviene nella dichiarazione del G20 (malgrado il suggerimento di istituire collegi di supervisori per le istituzioni finanziarie transfrontaliere) e nel rapporto del Gruppo dei Trenta. Per andare oltre la fase primitiva del coordinamento-cooperazione su base volontaria occorrerebbe qualche fondamento istituzionale, ma le gelosie nazionali e le controversie territoriali tra regolatori sono un ostacolo di rilievo all´evoluzione istituzionale nell´ambito della regolamentazione, come documentato tra l´altro dal testo "Nuove regole e mercati finanziari" di Fabrizio Saccomanni del 19 gennaio 2009. La ricerca di una soluzione intermedia realizzabile tra i due estremi costituiti da un regolatore unico e un vuoto istituzionale è pertanto un problema politico complesso: ma è altresì la ragione per la quale questo argomento meriterebbe una posizione di primo piano nell´agenda del G20. Due possibili soluzioni vengono in mente, ciascuna con un diverso peso istituzionale. La più "leggera" è quella offerta dallo IOSCO di cui sopra: un documento condiviso di principi e obiettivi; un modello per una rete di memorandum di intenti "concernenti la consultazione, la cooperazione e lo scambio di informazioni"; un ruolo nell´esame e nella valutazione dell´osservanza dei principi condivisi da parte dei membri. Con un segretariato molto snello, lo IOSCO fornisce una struttura organizzativa e alcune regole che fungono da utile vincolo per la discrezionalità dei suoi membri. L´alternativa più pesante è un´organizzazione in stile Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO): guardiano di un preciso insieme di regole basate su accordi vincolanti negoziati tra i membri dell´organizzazione, con giurisdizione sulla risoluzione delle dispute riguardanti le presunte violazioni degli accordi; un segretariato pesante alle dipendenze di un potente direttore generale. In una graduale evoluzione, il primo modello potrebbe approdare al secondo, come è già accaduto con la transizione dal GATT al WTO. Al fine di evitare ulteriori appendici in un´arena già molto affollata, l´alquanto nebuloso e vago Forum per la Stabilità Finanziaria potrebbe, prevedendo una partecipazione più ampia, essere facilmente ristrutturato e trasformato in un´Organizzazione per la Stabilità Finanziaria. Meno si sogna una nuova Bretton Woods, tanto meglio. Per il momento siamo lontanissimi da quello standard. Tuttavia, se questa volta il meeting del G20 durasse più di un giorno solo sarebbe già un segnale positivo: significherebbe che nel suo ordine del giorno sono finalmente entrate a far parte questioni importanti e controverse. Il testo è pubblicato anche sul sito www.voxeu.org "Per le banche la leva non deve superare 15 volte il capitale" Parla Micossi: «Per i gruppi troppo grandi per fallire i primi a perdere devono essere manager e azionisti» «Se ci fosse l´Europa la partita delle regole si giocherebbe tra Stati Uniti ed Europa, ma l´Europa è una cacofonia di stati» dice Stefano Micossi, direttore generale dell´Associazione tra le società per azioni e docente al Collegio Europeo di Bruges. «Quando si parla di mercati finanziari si parla di Stati Uniti, di Europa e di un´area del Pacifico che mutua le sue regole dagli Stati Uniti. Quindi l´Europa è uno dei pilastri del sistema, che però non riuscirà ad incidere se non troverà una coesione al suo interno». Cosa dovrebbe fare? «Presentarsi come un sistema finanziario integrato, proporre l´euro come valuta di riserva, dimostrarsi capace di stabilizzare le economie dei paesi satelliti: adesso stiamo ritirando i capitali da quei paesi quando invece dovremmo sostenerne le valute e i sistemi bancari. L´Europa dovrebbe anche emettere eurobond, sia per raccogliere risorse che per offrire opportunità di investimento agli investitori internazionali. Soprattutto deve presentarsi unita, perché altrimenti restiamo tanti staterelli con una scarsa capacità di influenzare il risultato». Quali sono i punti chiave che la partita delle regole deve affrontare? «Il cuore delle difficoltà nelle quali ci dibattiamo sta negli squilibri macroeconomici. E´ dal 1971, dalla fine della parità aurea, che viviamo con un sistema monetario internazionale senza un´ancora, nel quale non c´è freno alla creazione di liquidità internazionale. E non c´è freno perché non c´è disciplina che valga per i grandi attori, prima di tutto per gli Stati Uniti, con il loro gigantesco disavanzo, ma anche per i paesi che hanno invece grandi avanzi nelle bilance commerciali». Ma chi può disciplinare gli Stati Uniti o la Cina? «Non è il caso di illudersi sulla possibilità di creare un regolatore sovranazionale, ma forse si può costruire un coordinamento che eviti o limiti gli squilibri. Non esistono soluzioni miracolose, bisogna partire da quel che abbiamo. Si deve fare del Fondo Monetario un soggetto capace di sorvegliare le politiche economiche e monetarie dei vari paesi, compresi quelli grandi, imponendo le correzioni necessarie per evitare l´accumulo di squilibri sempre crescenti». Fino ad oggi non lo ha fatto, e con il suo assetto attuale è assai improbabile che possa farlo. «Naturalmente, oltre ai denti per mordere nella sua attività di sorveglianza, il Fondo dovrebbe avere le risorse per fungere da prestatore di ultima istanza nelle fasi di turbolenza finanziaria. Ma prima di tutto, per poter solo cominciare a muoversi in quella dimensione, dovrebbe avere un assetto proprietario e di governance che tenga conto dei nuovi equilibri del mondo, il che vuol dire che non può essere più dominato da Stati Uniti ed Europa». A livello microeconomico quali sono le aree principali che dovranno essere affrontate da una nuova regolamentazione? «Sono essenzialmente tre: la regolazione degli intermediari, la regolazione dei titoli e dei mercati e il sistema degli incentivi per management e azionisti». Partiamo dagli intermediari. «L´impianto base della regolamentazione così come era stata immaginata non è in sé sbagliato. E´ un sistema costruito per obiettivi: la trasparenza e l´integrità dei mercati affidati a un regolatore; a un altro soggetto la regolamentazione prudenziale. Quest´ultima dovrebbe essere riservata alle banche che sarebbero esposte sia alle regole sulla trasparenza che a quelle prudenziali. Per gli altri soggetti invece, dagli hedge fund ai private equity, non c´è motivo di applicare regolamentazioni prudenziali ma bisogna sottoporli ad efficaci regole di trasparenza». Quali? «La pubblicità dei bilanci e del grado di indebitamento, perché dove hanno messo i soldi e quanti debiti hanno è il minimo che si possa chiedere». Per le banche invece, quando parla di regole prudenziali intende requisiti di capitale? «I requisiti di capitale sono il perno delle regolamentazioni prudenziali. L´esperienza di questi mesi ci ha insegnato in proposito parecchie cose: la prima è che i requisiti di capitale ponderati per la rischiosità degli attivi non funzionano, il requisito di capitale deve essere fissato in relazione alle attività totali di ciascuna banca e deve essere stabilito in modo da consentire una leva che non superi 12-15 volte il capitale; poi si dovrebbero prevedere requisiti aggiuntivi di capitale a fronte di attività più rischiose come l´assunzione in proprio di posizioni in derivati. La seconda cosa che abbiamo imparato è che è fondamentale che nessuno imbrogli, niente più partite o passività implicite fuori bilancio, i requisiti di capitale si devono applicare in relazione a tutti, assolutamente tutti i rischi della banca». L´altro capitolo sono i titoli: derivati, titoli strutturati, credit default swaps, tutte cose che non sono regolate e che vengono trattate fuori dai mercati regolamentati. Come si affronta questo problema? «L´obiettivo è di rendere tutti questi prodotti più standardizzati e trasparenti. Il modo per raggiungerlo è creare un sistema di incentivi e disincentivi che sospinga le transazioni in questi strumenti a passare attraverso delle piattaforme di clearing, cioè verso mercati organizzati. Non si tratta di imporre, ma di penalizzare chi scambia questi prodotti fuori dai mercati organizzati, ad esempio rendendo più severi i requisiti di capitale ai finanziatori. In questo modo si favorirebbe una standardizzazione e semplificazione dei prodotti finanziari, divenuti oggi così complicati che spesso oggi neanche i risk manager delle banche sono in grado di capire, e si riuscirebbe a non perdere i benefici delle cartolarizzazioni e dei derivati». Infine ci sono gli incentivi ai manager, che hanno sollevato nell´opinione pubblica mondiale uno sdegno assai vicino al disgusto. «Lì c´è un colossale problema di azzardo morale. In questi anni la situazione è stata la seguente: se esce testa vincono gli azionisti e i manager, se esce croce paga lo stato, ovvero i contribuenti. Un sistema folle che spingeva intermediari e investitori a prendere rischi eccessivi. Per correggere questo sistema bisogna che gli incentivi riflettano in modo bilanciato i guadagni così come le perdite possibili e qualche soluzione l´ha ben indicata proprio Lloyd Blankfein, il numero uno di Goldman Sachs, che della materia se ne intende, in un suo intervento recente sul Financial Times: nella retribuzione di gestori e broker il premio di risultato deve essere molto più in azioni che in contanti e, soprattutto, deve essere vincolato fino alla conclusione delle operazioni e delle strategie. Il secondo passaggio indispensabile è che per le istituzioni troppo grandi per essere lasciate fallire, deve essere chiaro che in caso di perdite gli azionisti e i manager saranno i primi a perdere tutto, e che anche gli obbligazionisti non possono sempre attendersi di essere pienamente rimborsati. Questa deve diventare una regola ferrea e deve essere fatta rispettare». Basta tutto ciò a farci dormire, in futuro, sogni tranquilli? «Ci vuole un´altra cosa, ci vuole una sorveglianza macro-sistemica sui mercati finanziari. Non basta tenere sotto controllo le banche una per una per una, ci vuole qualcuno che sorvegli sull´equilibrio complessivo del sistema, e questo qualcuno secondo me non può essere che la banca centrale, la quale deve vegliare sulla stabilità complessiva. In sintesi ci vuole un organo per ogni macro-area che regoli e sorvegli sulla trasparenza dei prodotti e dei mercati, un organo che abbia la responsabilità della sorveglianza prudenziale sulle banche e un terzo soggetto che garantisca la sorveglianza sulla stabilità complessiva del sistema». Ma oggi abbiamo una vigilanza paese per paese. «Dobbiamo progressivamente andare oltre, anzittutto in Europa, senza immaginare salti improvvisi. Dobbiamo costruire un processo che per cominciare affidi a un soggetto che abbia una giurisdizione sovranazionale la sorveglianza prudenziale e sistemica sulle grandi banche con operazioni significative su più mercati. Per l´Europa si tratterebbe di sottoporre ad una sorveglianza europea una ventina di gruppi bancari. Le banche nazionali e locali possono restare sotto il controllo nazionale, ma per quelle più grandi questo non basta più». (m.p.) la scheda Il documento cui fa riferimento Luigi Spaventa nel suo articolo è il rapporto "Financial Reform-A framework for Financial Stability" del gennaio 2009. L´ha redatto il gruppo di lavoro presieduto da Paul Volcker e con Tommaso Padoa-Schioppa e Arminio Fraga Neto come vicepresidenti, istituito dal Gruppo dei Trenta nel luglio 2008. Il rapporto è focalizzato soprattutto sui modi in cui il sistema finanziario globale dovrebbe essere organizzato una volta che la crisi attuale sia passata, dando quindi per assunte le misure straordinarie di cui si discute e il loro finale successo, per arrivare ad un ragionevole e accettabile grado di stabilità ed evitare che si ripetano situazioni come l´attuale. Il documento insiste sull´importanza di migliorare la governance, la gestione dei rischi, le politiche regolatorie, le pratiche e gli standard contabili. Esorta a migliorare le trasparenza, e a riformare la struttura delle "regole di prudenza", accentuando quindi il ruolo di controllo delle banche centrali e omogeneizzandolo meglio con quello di "prestatori di ultima istanza". Il tutto per creare una rete di sicurezza nell´ambito di un miglior coordinamento istituzionale. Imprese strangolate dai debiti Le banche studiano chi salvare Istituite delle task force all´interno degli istituti di credito per trovare delle soluzioni ADRIANO BONAFEDE Nelle grandi banche italiane c´è di questi tempi un gran via vai di persone. Funzionari di diverso grado e provenienza s´incontrano per gestire un´attività completamente nuova: come affrontare la crisi in atto. Uno tsunami come questo - al tempo stesso economico e finanziario - non s´era mai visto almeno da sessant´anni a questa parte. Nessuno sa come andrà a finire e quando finirà, ma nel frattempo occorre vedere cosa fare con le imprese che cominciano a mostrare difficoltà sul lato del credito. Così nascono all´interno degli istituti delle task force dedicate a questo problema. E l´impressione, girando fra le banche, è che nel 2009 quest´attività porterà via molto tempo e molte risorse. Non soltanto: queste task force vedranno via via accrescere il proprio potere e la propria importanza. Perché nei prossimi mesi decideranno chi può essere salvato e chi invece deve affondare. Una cosa, infatti, è certa: un aumento dei fallimenti delle imprese che non potranno rispettare le scadenze sul debito è già messo nel conto ed è già inserito nelle previsioni delle banche. «Il dilemma per gli istituti di credito - spiega Ignazio Rocco di Torrepadula, partner di Boston Consulting Group per il settore bancario - è quello di salvare più imprese possibili senza però mettere a rischio il denaro dei depositanti. Le banche non hanno alcun interesse a ‘ritirare´ il credito, come si legge spesso, perché in questo caso l´azienda fallirebbe. La verità, dunque, è che gli istituti giudicheranno caso per caso: cercheranno di salvare più imprese possibile ma ovviamente non sempre ciò sarà fattibile». Unicredit ha già formato la sua ‘commissione d´esame´ per le imprese in difficoltà. Si tratta di un centinaio di persone, in prevalenza commerciali, ma con l´integrazione di esperti in ristrutturazioni aziendali che fanno capo al credit risk officer Sergio Sorrentino. L´obiettivo è quello di esaminare le situazioni di difficoltà aziendali cercando di essere propositivi nei confronti delle imprese, a cui si daranno ‘consigli´ per parare il colpo della recessione e rimettersi in carreggiata dove necessario. L´azione di salvataggio e ristrutturazione - assicurano a Unicredit sarà svolta in stretto contatto con il management delle imprese. L´indicatore aziendale sotto osservazione è la capacità di rimborsare il credito. Sotto questo aspetto, dopo il caso It Holding di Tonino Perna, sono molte le società quotate che presentano un rapporto critico tra debito e Ebitda. Le prime a segnalare il peggioramento di questo rapporto, e quindi la minore affidabilità delle emissioni obbligazionarie delle aziende, sono le società di rating. La settimana scorsa, ad esempio, Moody´s ha fatto un downgrade del rating sul debito Safilo da B1 a B2 e ha avvertito che il rating potrebbe essere ancora rivisto al ribasso. Sempre in Borsa, un debito relativamente elevato in percentuale dell´Ebitda lo hanno fra gli altri anche Seat, Tiscali, Pirelli Re e Camfin. La via della ristrutturazione del debito, con un allungamento e una ridefinizione delle scadenze, è la principale via d´uscita in questi casi. ma non sempre, come dimostra proprio il caso It Holding, questa via è praticabile. Non ci sono poi soltanto le grandi imprese quotate, verso cui le banche si dimostrano sempre particolarmente attente. Il tessuto produttivo italiano è fatto soprattutto di distretti e di piccole e medie imprese. Ed è soprattutto in questo magma che è difficile fare previsioni: «La verità - dice Gregorio De Felice, capo economista di Intesa Sanpaolo - è che l´industria italiana, che adesso soffre per la recessione, sta anche vivendo un momento di grande trasformazione. Ci sono imprese che sono andate molto bene nel 2006, 2007 e 2008 grazie a una strategia vincente fatta di innovazione, internazionalizzazione e marchi di qualità. E ci sono invece imprese che sono rimaste nel loro business tradizionale. E non stiamo parlando di settori diversi: all´interno dello stesso comparto ci sono aziende forti e aziende deboli». È probabile che non tutte saranno in grado di salvarsi, soprattutto se le difficoltà economiche si protrarranno. Una profonda incertezza regna dunque sovrana. Per le banche si tratta di vedere quanto a lungo le imprese potranno resistere, ed eventualmente ne salveranno alcune e ne lasceranno affondare altre. Vista dalla parte delle imprese, la questione sembra diversa: «Certamente - dice Andrea Moltrasio, vicepresidente di Confindustria per l´Europa - la difficoltà di accesso al credito da parte delle imprese è documentata a tutti i livelli. Il rallentamento dell´economia a partire da ottobre ha messo in crisi la domanda di credito perché i tassi di fatto sono saliti. Il credit crunch c´è, non c´è dubbio». Per il futuro Moltrasio non è pessimista: «I tassi dovrebbero diminuire e l´indebitamento delle imprese potrebbe tornare sotto controllo. In questo scenario c´è soltanto un ‘ma´: se i ricavi delle imprese continueranno a mantenersi troppo bassi (e a gennaio le vendite di tutti i settori sono cadute tra il 20 e il 40 per cento) non si sa cosa accadrà. Per questo motivo sono importanti i programmi di stimolo da parte dei governi. Il nostro si è dimostrato finora troppo prudente. È comprensibile, visto l´alto livello di deficit e debito pubblico. Ma io dico che se qualcuno affoga non aspetto che si salvi da solo o che qualcun altro lo salvi, mi butto subito magari rischiando la mia stessa vita. Dopo, potrebbe essere troppo tardi». La vera preoccupazione è per l´economia reale. Le banche, è vero, sperimenteranno quest´anno un aumento delle sofferenze che impatterà pesantemente sugli utili, ma non avranno ripercussioni gravi. «Rispetto alle crisi precedenti - dicono all´Abi - le banche sono messe meglio. Nel 2005, ad esempio, il rapporto tra sofferenze e impieghi era al 5,7 per cento. Oggi siamo all´1,1. Un aumento nel 2009 sarà fisiologico». Considerando solo il credito corporate, il Bcg stima che nel 2008 il rapporto tra sofferenze più crediti problematici e quelli totali sia stato al 5 per cento e che salirà al 7 nel 2009, «con 14 miliardi di potenziali perdite - dice Ignazio Rocco - che entreranno nel conto economico». Gioco d´azzardo una lobby che va sul sicuro DI ALBERTO STATERA Furio Pasqualucci, procuratore generale della Corte dei Conti, dev´essere un uomo frustrato. La settimana scorsa, tra le tante truffe perpetrate a danno alle pubbliche risorse ha segnalato quella che dovrebbe far riavere all´erario dai gestori concessionari dei videogiochi un risarcimento fiscale tra i 70 e 90 miliardi (diconsi miliardi) di euro. Quanti punti di pil? Quante manovre finanziarie? Quante social card o milioni di ore di cassa integrazione per la gioia del ministro Tremonti? Ma il dottor Pasqualucci sa che probabilmente questa montagna di denaro lo Stato non la rivedrà mai. E sa anche il perché. Perché in questo paese le lobby sono più potenti dello Stato. E la lobby del gioco d´azzardo è un kombinat d´acciaio praticamente inattaccabile. La storia viene da lontano. Da quando nel 2004 le slot machine divennero legali nei bar e nei locali pubblici d´Italia. Le società concessionarie dovevano versare una parte dell´incasso delle giocate in tasse. Ma la metà delle macchinette non fu in realtà mai collegata telematicamente ai Monopoli di Stato, si presume con qualche autorevole complicità burocratica nell´Agenzia del ministero delle Finanze. Per cui la metà del business sfuggì al fisco, con una fregatura allo Stato biscazziere valutata, per l´appunto, tra i 70 e 90 miliardi. Adesso tutto giace, chissà per quanto, in Corte di Cassazione e le società concessionarie, pur dovendo pagare uno stuolo di avvocati, brindano, data la cospicuità della posta in gioco congelata. Brinda più di tutti gli altri concessionari la Atlantis World, multinazionale offshore basata ai Caraibi, che copre circa il 30% del mercato, rappresentata legalmente in Italia da Amedeo Laboccetta. Questo Laboccetta è un personaggio romanzesco che meriterebbe un serial televisivo di quelli guardie e ladri. Deputato di An, appena indagato a Napoli per falso e turbativa d´asta nell´inchiesta sul sistema Romeo della Global Service, finì in galera già nel 1993 coinvolto nella vecchia Tangentopoli napoletana. E´ lui che qualche anno fa fece immortalare il leader di An Gianfranco Fini, suo ospite a pesca nel mare di Saint Marteen, di fronte al Beach Palace, uno dei casinò colà gestiti dalla Atlantis World del suo amico Francesco Corallo. Figlio di Gaetano, detto Tanino, antico latitante catanese legato al boss di Cosa Nostra Nitto Santapaola, Francesco è considerato il piccolo sovrano dell´isola caraibica: case da gioco, alberghi, giornali. Le colpe dei padri per fortuna non ricadono sui figli e Francesco Corallo, a quanto risulta, è incensurato. Ma la sua biografia ha qualche piccolo neo. Nel 1999 in Bolivia il suo nome fu fatto in relazione alla scoperta di casinò clandestini e a un traffico di droga. Ma non fu neanche mai processato. Anni prima, quando il padre Tanino fu protagonista dello scandalo di Sanremo, il tentativo di mettere le mani sulla casa da gioco pagando tangenti a politici Dc e Psi che costò anche la prigione all´ex sindaco di Imperia e oggi ministro delle Attività produttive Claudio Scajola, lui aveva soltanto 22 anni. E a tutt´oggi non c´è alcuna conferma del rapporto della Drug Enforcement Agency che lo voleva in «elevata posizione» nel clan mafioso Santapaola. In elevata posizione qui in Italia è invece l´onorevole legale rappresentante di Atlantis World. Amico personale della terza carica della repubblica e di alcuni altri dignitari di An, Laboccetta fa parte della commissione Bilancio della Camera. Ma nel novembre scorso è stato nominato anche membro della «Commissione parlamentare di inchiesta sulla mafia e le altre associazioni criminali anche straniere». Un «fenomeno», per l´appunto, l´onorevole Laboccetta. Se ne faccia una ragione il dottor Pasqualucci, procuratore generale cui va la nostra solidarietà, alla disperata rincorsa dei suoi miliardi evasi. a.staterarepubblica.it I guai di Biasi e le manovre su Unicredit il personaggio/ Perché il presidente della Fondazione Cariverona si è tirato indietro dalla ricapitalizzazione di Piazza Cordusio. Uno schiaffo a Profumo e a Tremonti GIOVANNI PONS Paolo Biasi, riverito numero uno della Fondazione CariVerona, ne ha combinata un´altra delle sue. Con la decisione a sorpresa di sfilarsi all´ultimo minuto dalla sottoscrizione del bond legato all´aumento di capitale Unicredit, si è attirato le ire di gran parte del mondo finanziario che ruota intorno alla banca di Piazza Cordusio e anche del governo e delle istituzioni. Non male per un ingegnere-industriale di Verona che in passato veniva definito il Cuccia del Nord Est, o "la sfinge", per il suo acume associato a un´innata riservatezza e al culto mai nascosto per le Assicurazioni Generali. Dal suo entourage la mossa viene tratteggiata alla stregua di una conferma del carattere indipendente dell´uomo, mai prevedibile né scontato, ancora una volta messo di fronte a una scelta difficile. Tuttavia le modalità con cui si è sfilato hanno lasciato a bocca aperta anche gli osservatori più benevoli: l´impegno della Fondazione CariVerona a sottoscrivere 500 milioni di bond era maturato a ottobre, al momento del delicato annuncio dell´aumento di capitale, e poi era stato confermato nel prospetto informativo pubblicato il 31 dicembre 2008. L´inversione a ‘U´ è arrivata solo venerdì 5 febbraio, improvvisa, adducendo motivazioni tecniche insorte nel frattempo, un aspetto che sarà oggetto di verifica con i legali delle parti. Inoltre Biasi non si è accontentato di stupire i suoi colleghi azionisti, ha fatto di più. Ha aggiunto al danno la beffa: ha acquistato sul mercato al prezzo di 1,3 euro circa l´1% di azioni Unicredit salendo così al 6% e lasciando le Fondazioni di Torino e Modena a scannarsi sul bond che prevede la conversione a 3,08 euro. Se tutti gli azionisti forti avessero ragionato in questo modo il bond legato all´aumento sarebbe andato in fumo. In più, fino a giovedì 5, Biasi è rimasto coperto nelle sue decisioni, aspettando che Torino e Modena versassero l´anticipo richiesto nelle casse di Mediobanca e adducendo il suo ritardo al mancato arrivo dell´autorizzazione da parte del Tesoro. Un atteggiamento che ha fatto infuriare anche il ministro Giulio Tremonti il quale, con un comunicato di fuoco, ha stanato in pochi minuti il giochetto di Biasi. Con il superministro dell´Economia la reciproca antipatia va avanti almeno dal 2003. Cioè da quando Biasi, protagonista con la Fondazione CariVerona della scalata vincente alle Generali condotta in primo luogo dall´Unicredit e supportata dal sistema bancario che ruotava intorno al governatore Antonio Fazio, cercò per questa via di conquistare la vicepresidenza del Leone di Trieste. I banchieri che lo conoscono riferiscono che per Biasi le Generali sono quasi un´ossessione, di quelle che contagiano un po´ tutti gli esseri viventi a una certa età. Ma il blitz gli fu negato proprio da Tremonti che a quel tempo cercava di spuntare le unghie ai vertici delle Fondazioni, a suo parere più impegnati a conquistare potere nelle banche che a spargere opere di bene nel territorio di riferimento. Si era nel 2003 e la trama dell´ingegnere veronese per arrivare in cima alle Generali era partita almeno due anni prima, nella fatidica primavera 2001, quando da esponente del comitato nomine di Mediobanca sostenne Vincenzo Maranghi e Francesco Cingano nella clamorosa cacciata di Alfonso Desiata dalla presidenza del Leone per far posto all´amministratore delegato Gianfranco Gutty, guarda caso l´uomo che oggi rappresenta CariVerona nel cda di Unicredit. Fu una mossa azzardata, che sollevò le ire della Banca d´Italia (che si astenne in assemblea, fatto altrettanto clamoroso), e dei banchieri più vicini a Desiata come Giovanni Bazoli, che già allora giudicava pericolosi i movimenti al vertice di uno dei principali azionisti della neonata Intesa-Bci. In quel frangente la sfinge Biasi aprì le porte della CariVerona per presentare i risultati e per godersi la temporanea vittoria in barba alle critiche. «Siamo già scesi in Unicredit sotto il livello previsto - disse con tono fermo e mente lucida ai giornalisti accorsi per l´occasione - e non è scritto da nessuna parte che le Fondazioni non possono avere partecipazioni in altre banche o assicurazioni. Oggi abbiamo una liquidità di 350 miliardi (di lire) che abbiamo il dovere di investire, non in aziende industriali, ma in banche e assicurazioni sì». Era l´inizio del millennio e l´economia, pur sotto i colpi della bolla Internet che si stava sgonfiando, continuava a crescere. Le aziende della famiglia Biasi, fondate dall´ingegner Leopoldo nel 1938, attive nella produzione di caldaie e radiatori e poi estese anche alla realizzazione di materiale rotabile ferroviario e di articoli in gomma, nonché con rilevanti interessi nel settore agricolo e alimentare, fatturavano circa 500 miliardi di lire. Ora la congiuntura si è messa al peggio e il gruppo Biasi ha dovuto affrontare un piano di ristrutturazione messo a punto dalla società di consulenza Alix Partners a fronte del quale ha ottenuto da Unicredit una linea di credito da circa 20 milioni di euro. La banca di Piazza Cordusio sostiene da diversi anni le aziende di Biasi in una sorta di conflitto di interessi potenziale che per il momento non è mai venuto al pettine. Fatto sta che nel 2007 il fatturato consolidato del gruppo Biasi è sceso a 156 milioni di euro con una perdita di esercizio cresciuta a 14 milioni da 1,4 milioni del 2006. La ristrutturazione del gruppo, riferiscono fonti ben informate, è stata fatta prestando particolare attenzione al territorio. Nel senso che Biasi ha evitato di chiudere alcuni stabilimenti seppur in perdita per non rovinarsi l´immagine di imprenditore che mantiene intatti i posti di lavoro. Una scelta obbligata poiché l´obbiettivo è quello di conquistare la conferma ai vertici della CariVerona nell´ottobre 2010, una nomina sulla quale inciderà non poco la politica locale e in particolare il sindaco di Verona che è uno dei principali azionisti della Cassa. Il legame con il territorio e la permanenza al vertice della Fondazione è quello che ha inciso anche nel recente strappo in Unicredit. Non a caso il sindaco di Verona Tosi è stato uno dei pochi ad aver commentato positivamente la non sottoscrizione del bond Unicredit, scelta che permette di dirottare quelle risorse al territorio in una fase dell´economia particolarmente delicata. Tuttavia, seppur con un occhio al territorio e alla propria poltrona, Biasi anche nell´ultima partita ha cercato di far valere il suo potere di primo azionista di Unicredit in funzione del suo amore di sempre, le Generali. In seguito a una speculazione di mercato che è andata nel verso sbagliato, la fondazione scaligera si è trovata nel dicembre 2008 azionista al 5% di Mediobanca. Probabilmente non l´unica speculazione andata male, dice qualcuno che conosce da vicino l´attività di trading degli uomini di Biasi. Fatto sta che all´inizio del nuovo anno a Biasi viene in mente di promuovere la fusione tra Unicredit e Mediobanca, un´unione che vedrebbe Verona svettare tra i primi azionisti in virtù della presenza pesante in entrambi gli istituti e un trampolino di lancio personale verso le sfere più alte di Trieste alla prossima occasione. Inoltre l´operazione avrebbe permesso a Biasi di non sborsare un euro per la ricapitalizzazione di piazza Cordusio in quanto il gruppo che ne sarebbe nato avrebbe goduto della solidità necessaria. L´idea del matrimonio è stata accarezzata da qualcuno in piazzetta Cuccia ma non ha avuto alcuna presa né su Profumo né sugli altri azionisti forti dei due agglomerati, a partire dal plotone dei soci francesi guidati da Vincent Bollorè. E così Biasi è tornato alla carica puntando almeno a sostituire il presidente di Unicredit avendo individuato in Guido Rossi l´uomo giusto per restituire lo smalto perduto alla banca di Profumo. Ma la nomina di Rossi sarebbe stata letta dal mercato come una sorta di commissariamento dell´amministratore delegato e lo stesso giurista, saggiamente, ha ritenuto opportuno declinare la proposta anche se il suo nome aveva già trovato il consenso dello stesso Profumo e di altri soci forti della banca. È a questo punto, senza la fusione e senza un presidente di propria nomina, con 500 milioni da versare pronta cassa, che è maturato lo strappo di Biasi. Che oltre ad aver irritato Tremonti e il governatore della Banca d´Italia Mario Draghi, ha avuto l´effetto di inimicarsi anche il governo e i soci libici entrati in autunno con il 5% del capitale. Di fronte alla possibilità che il lunedì 9 febbraio il titolo Unicredit subisse un ulteriore tracollo in Borsa per la non trascurabile defezione del primo azionista di fronte a un fondamentale aumento di capitale, il governo italiano ha chiesto ai libici di intervenire. E gli uomini di Gheddafi si sono in un certo modo trovati costretti a versare altri 250 milioni di euro per il bond dopo averne garantiti già 440 milioni nella prima fase di sottoscrizione. Dopo i tanti strappi ora Biasi è passato alla fase della ricucitura. Il suo emissario Gutty nell´ultimo cda ha votato a favore della riconferma di Dieter Rampl e di Profumo al vertice dell´istituto e fa sapere che non ha alcuna intenzione di presentare una lista di minoranza all´assemblea di aprile. Ma questa rischia di essere una mossa inevitabile se la lista di maggioranza, compilata a questo punto dalle Fondazioni di Torino e Modena e dai libici non terranno in dovuto conto le aspettative di governance degli azionisti di Verona. Proprio quell´assemblea potrebbe essere la sede per sancire la vittoria di Fabrizio Palenzona, storico antagonista di Biasi nel mondo delle fondazioni e soprattutto nel controllo di Unicredit, quale azionista pivot all´interno del primo gruppo bancario del paese. Sempre che la strategia di Profumo nella gestione della banca si riveli adeguata ai tempi di crisi nei mesi a venire. L´artefice dell´unità del credito veneto la biografia Settant´anni, cattolico, Paolo Biasi non nasce banchiere, ma imprenditore. Proviene, infatti, da una famiglia di industriali che si occupa da tre generazioni di termomeccanica ed elettronica ma ha anche partecipazioni nel settore immobiliare ed editoriale. Riservato, radicato nel mondo cattolico veronese, ha sempre smentito la sua appartenenza all´Opus Dei. Il suo cursus honorum ha avuto inizio con la vicepresidenza della Banca Cattolica del Veneto a metà degli anni ´80. Poi divenne vicepresidente del Mediocredito delle Venezie fino a che, nel 1992, fu chiamato a dirigere la Fondazione Cassa di Verona di cui è attualmente presidente. Paolo Biasi si è affermato nell´ambiente bancario per aver unito le Casse venete e poi per averle spinte al matrimonio con la Cassa di Risparmio di Torino. Quindi ha guidato il polo verso le nozze con il Credito Italiano diventando il socio più forte all´interno di Unicredito (la Fondazione della Cassa di Verona possiede infatti il 6,08 per cento di Unicredito). www.lastampa.it Nazionalizzare le banche per socializzare le perdite? L'unica certezza è che non sta funzionando. Obama firma il più grande pacchetto di stimolo all'economia della storia (è accaduto ieri) e i mercati crollano. Sì, magari è colpa dell'Europa dell'Est e del report di Moody's sulle banche esposte in quei mercati, magari è anche un po' colpa del President's Day che ha semplicemente posticipato le perdite di Wall Street. Però è da ricordare che quando Tim Geithner (segretario Usa del Tesoro) ha annunciato il piano per salvare le banche le borse hanno reagito alla stessa maniera: un bagno di sangue dei titoli azionari. Sarà stata l'incertezza sul tema fondamentale della bad bank, la chiamata improbabile di privati nell'"affare" degli asset tossici, ma di certo è andata male. Ora gli stati, sempre più confusi di fronte a una situazione che sembra ingovernabile (e anche un po' ingovernata) decidono di tirare fuori la carta comunista: nazionalizziamo le banche. Lo ha appena detto persino Alan Greenspan (che forse farebbe meglio a tacere) lo ha detto anche Angela Merkel: che ha varato ieri una nuova legge che permetterà al Governo di inglobare Hypo Real Estate. La strada è già, d'altra parte, ampiamente battuta da Gordon Brown e anche da un paese sull'orlo del fallimento (dopo anni di crescita brillante) come l'Irlanda. Ieri l'Unione europea ha, infatti, approvato la nazionalizzazione della Anglo Irish Bank: una banca che aveva già ricevuto un finanziamento d'emergenza da 1,5 miliardi di euro da parte del Governo di Dublino. Attenzione, però, perché oggi ancor più di ieri tutti dicono che bisogna agire assieme e fanno poi l'esatto opposto. Oggi la Commissione Ue ha avviato procedure per deficit eccessivo contro la Francia e la Spagna (e contro altri paesi fra cui anche l'Irlanda e la vicina Grecia), ma di fatto non ha scosso più di tanto i mercati. Basta pensare, in merito alla compattezza e alle regole Ue che ancora non si è neanche capito se, nel caso in cui fallisca un paese dell'Eurozona, gli altri lo debbano salvare o meno... L'Unione europea insomma non è mai apparsa fragile come oggi. Ognuno vara manovre protezionistiche e di tutela delle proprie posizioni: Francia, Gran Bretagna, Germania, Stati Uniti (forse sì, forse no) giocano da soli dicendo di essere una squadra e intanto il conto della crisi ha già percorso gli oceani e tocca il Brasile, la Cina, la Russia, l'India (ricordate i Bric?) e i paesi dell'Est fino a tornare qui. La bad bank non si capisce neanche più se si farà mai, anche perché forse non esiste nessuno in grado di sostenerla. Le banche non possono fallire perché si rischia un fantomatico rischio sistemico (ma perché adesso le cose vanno bene?). Rimangono le aziende e le famiglie. Sì forse alla fine, la soluzione inconfessata dei padroni del mondo è questa: sono le famiglie che devono fallire ed, eventualmente le aziende. Le società hanno ricevuto in effetti qualche aiutino (negli Stati Uniti all'economia reale tutta intera sono stati dedicati circa 787 miliardi di dollari contro i circa 2.000 previsti per le banche. Negli States GM e Chrysler chiedono 21,6 miliardi di dollari in più per non fallire: finora hanno già avuto 17,4 miliardi di dollari e quindi si capisce che la situazione appare davvero difficile. Il loro fallimento potrebbe però costare a Washington fino a 124 miliardi di dollari in spese sociali e affini per cui anche una spesa di 21,6 miliardi potrebbe essere un affare. In Europa Daimler ieri ha dichiarato 1,5 miliardi di euro di perdite e tutti sanno che il mercato dell'auto del Vecchio Continente è in pesante affanno. Oltretutto il comparto auto è solo un emblema dell'economia reale globale che perde un po' dappertutto senza sosta. Sempre in Europa la situazione non appare migliore degli Stati Uniti: gli interventi in favore delle banche sono spesso doppi o tripli di quelli in favore delle imprese o delle famiglie. Il paradosso è che nonostante questi aiuti le banche continuano a stringere i cordoni con le aziende e le famiglie. Il paradosso è che le banche sono responsabili di questa crisi e alla fine stanno facendo pagare (con coerenza suicida) all'economia reale il conto dei propri errori. Una terrificante stima degli asset potenzialmente tossici delle banche europee li valuta in circa 18 mila miliardi di euro (è una stima che sarebbe circolata in un documento della Commissione Ue non pubblicato ma discusso dai ministri dell'Economia e citato da Milano Finanza qualche giorno fa). Probabilmente nel mondo questi asset sono più che doppi. A dirla tutta è un conto troppo salato per chiunque. Ora nazionalizzando le banche socializzeremo le perdite. Forse (ma è un forse importante) è necessario. Si potrebbe almeno farla fallire qualcuna di queste banche visto che sono loro che hanno creato questo disastro? (GD) www.opinione.it CONTRO LA CRISI PECHINO PENSA A UNA SVALUTAZIONE La Cina muove sullo Yuan La Cina corre ai ripari contro la crisi e pensa di agire sui cambi per risollevare il principale motore dell’economia nazionale: l’export. Un alto responsabile governativo, Zhang Xiaoqiang, vicepresidente della Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme, non ha infatti escluso un indebolimento del yuan rispetto al dollaro nel contesto attuale di crisi economica. “Il renminbi (valuta del popolo, altro nome del yuan) ha raggiunto un livello giusto e sostenibile. E non c’è alcuna pressione perché si rafforzi”. Tuttavia, ha sottolineato, “quest’anno la nostra economia si indebolirà e la disoccupazione aumenterà. Il renminbi potrebbe quindi correggere fina a raggiungere 6,95-7 contro il dollaro”. Si tratterebbe, in sostanza, di una svalutazione attorno al 2,5% rispetto ai valori attualmente registrati dalla valuta cinese (in area 6,83). La svolta di Pechino, che arriverebbe dopo che in gennaio le esportazioni cinesi hanno accusato il terzo pesante ribasso mensile consecutivo (-17,5% tendenziale), tradisce l’emergenza economica vissuta dal Paese. Appena nel luglio 2005, sotto la pressione dei partner commerciali che giudicavano le esportazioni cinesi troppo favorite dalla sottovalutazione del yuan, le autorità cinesi avevano proceduto a rivalutare la loro valuta (del 2,1% rispetto al dollaro) e a sganciarla dal cambio fisso (8,11 yuan per un biglietto verde). Da allora la divisa cinese si è apprezzata gradualmente, senza scossoni, guidata dal sempre rigido controllo delle autorità di Pechino. Tuttavia, di fronte alla crisi che ha fatto crollare l’export, gli imprenditori locali e qualche economista ufficiale hanno chiedono una svalutazione della divisa cinese. Un’operazione, questa, che non sarebbe ben digerita dai partner commerciali, soprattutto dalla nuova Amministrazione Usa. Sebastiano Dolci