RASSEGNA STAMPA FALCRI 19 FEBBRAIO 2009 A

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RASSEGNA STAMPA FALCRI 19 FEBBRAIO 2009 A
RASSEGNA STAMPA FALCRI 19 FEBBRAIO 2009
A cura di Manlio Lo Presti
ESERGO
Le cose incomprensibili fanno uscire di senno: perciò è meglio dare la colpa agli
apparecchi, agli specchi, alle proiezioni, così la gente ride.
Mas Bergman a Berti Guve nel film “FANNY E ALEXANDER”, 1948
www.corriere.it
Tonfo di Alleanza e Unicredit
Piazza Affari ancora in rosso. Rimbalza Ubi Banca, bene i titoli del lusso
MILANO - Alleanza e Unicredit nella bufera, il listino di Piazza Affari ancora segnato dai ribassi e
gli indici che alla fine limitano i danni grazie al rimbalzo di alcuni titoli e al recupero di Wall Street.
Anche oggi l’andamento delle Borse è stato caratterizzato dall’incertezza. Ma almeno non si è
ripetuto il tracollo della vigilia. Le variazioni negative, infatti, sono rimaste contenute ovunque
sotto il punto percentuale. Il risultato peggiore in Europa è stato quello di Londra (-0,68% l’indice
Ftse 100), mentre Francoforte (Dax 30) ha ceduto lo 0,28% e Parigi è rimasto sostanzialmente
fermo (-0,04%).
Leggermente peggiori gli indici della Borsa di Milano: -0,87% l’S&P/Mib e -0,73% il Mibtel,
con scambi per un controvalore di 1,9 miliardi di euro. La prospettiva di una fusione nella
controllante Generali senza passare attraverso un’Opa in contanti ha deluso gli azionisti di
Alleanza, che anche oggi hanno venduto il titolo, provocandone il forte ribasso (-7,3% la
quotazione di riferimento, scesa al nuovo minimo dell’anno).
L’altra forte flessione della giornata, quella di Unicredito, è dovuta invece alle preoccupazioni
del mercato per la situazione economica dei paesi dell’Est europeo, dove la banca guidata da
Alessandro Profumo (il cui titolo ha ceduto il 6,51%) è particolarmente esposta. Altri ribassi
significativi, fra i valori dell’S&P/Mib, nel comparto editoriale (Mondadori -4,82%, l’Espresso 3,39%), in quello industriale (StMicroelectronics -4,59%, Pirelli -3,88%, Buzzi-Unicem -3,22%) e
in quello energetico (A2A -3,84%).
Per quanto riguarda invece le variazioni positive, spicca innanzi tutto il rimbalzo di Ubi
Banca (+4,77%), dopo che la società ha rassicurato il mercato circa la possibilità di una
distribuzione di dividendo cash. Fra i bancari, bene anche Intesa-Sanpaolo (+1,79%) e
Mediolanum (+1,37%), mentre hanno prontamente reagito ai ribassi di ieri i titoli del lusso
compresi nel paniere dei 40 più capitalizzati: Bulgari e Geox sono infatti rimbalzati rispettivamente
del 2,08% e del 3,33%. In recupero, infine, Fiat (+1,43%), Fondiaria-Sai (+2,83%), Impregilo
(+1,95%), Seat Pagine Gialle (+2,01%), e Snam Rete Gas (+1,08%).
Giacomo Ferrari
18 febbraio 2009
BISOGNA AGGIORNARE LO STRUMENTO DEL REDDITOMETRO CHE RISALE AL '92
Fisco: si evadono 200 miliardi all'anno
Il direttore delle Finanze: «Evasione fenomeno di massa, l'economia sommersa è pari a 250 miliardi»
ROMA - Gli italiani, eccetto i lavoratori dipendenti, stanno diventando progressivamente un
popolo di evasori. Per questo bisogna fornire al Fisco nuovi e più efficaci mezzi d'indagine.
L'evasione fiscale è diventata:«un fenomeno di portata molto ampia, possiamo parlare di evasione
di massa. Le strategie di lotta all'evasione debbono dunque essere rapportate alla dimensione del
fenomeno che è enorme» ha detto il direttore generale del Dipartimento delle Finanze del
ministero dell'Economia, Fabrizia Lapecorella, nel corso di un'audizione alla Commissione
parlamentare sull'Anagrafe tributaria.
STIME – La pecorella ha ricordato come, secondo le ultime stime disponibili, l'ampiezza
dell'economia sommersa sia «fra i 230 e i 250 miliardi di euro». Per quanto riguarda in particolare
l'evasione fiscale, il Dipartimento delle Finanze stima che «l'ammontare dei valore aggiunto lordo
evaso stimato per il 2004 sia di circa 200 miliardi di euro. I settori in cui si evade di più in termini
relativi - ha riferito ancora il direttore generale - sono quelli dei servizi personali , del commercio e
della ristorazione, delle costruzioni». Per combattere l'evasione, secondo Lapecorella, bisogna
procedere all'integrazione delle banche dati e «aggiornare lo strumento del redditometro» che
risale al '92.
18 febbraio 2009
«OPPURE POTREBBE ESSERE UTILIZZATO PER CREARE UN FONDO DI GARANZIA PER LE PMI»
«Il Tfr per un anno resti in azienda»
Marcegaglia: «Per un anno i flussi non vadano all'Inps, ma vengano usati per finanziare le imprese»
FOGGIA - La proposta farà discutere. Le imprese potrebbero finanziarsi con i soldi dei lavoratori.
Almeno di quelli che hanno deciso di lasciare il trattamento di fine rapporto (Tfr) in azienda e di
non destinarlo ad un fondo pensione. « Si potrebbe arrivare alla decisione che per un anno i flussi
di Tfr non vadano all'Inps, ma vengano tenuti all'interno delle imprese». Oppure i flussi del Tfr
potrebbero servire a «creare un fondo di garanzia che aiuti il sistema del credito alle piccole e
medie imprese». È una delle proposte lanciate dal presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia,
per superare la crisi economica in Italia. Marcegaglia lo ha detto incontrando i giornalisti a Foggia
dopo una riunione con gli imprenditori locali.
18 febbraio 2009
E Scajola attacca la Confindustria:
«Basta corvi, diffondete pessimismo»
«I centri studi si compiacciono di rivedere al ribasso le stime degli istituti internazionali, sono perplesso»
ROMA - E ora è scontro anche tra governo e Confindustria. I «Centri studi nazionali si
compiacciono di diffondere il pessimismo, rivedendo sistematicamente al ribasso di mezzo punto
percentuale le stime effettuate dagli istituti internazionali» ha detto il ministro per lo Sviluppo
economico Claudio Scajola in occasione di un suo intervento ad un convegno della Fim-Cisl.
CORVI - «Finiamola con questi corvi che passano per strada - ha sottolineato Scajola - sono
perplesso per gli scenari diffusi da Confindustria ogni volta che escono valutazioni di organismi
internazionali tipo Ocse o Fmi. Vedo sempre posizioni dure di Confindustria e ogni volta c'è un
carico», ha detto il ministro riferendosi alle ultime previsioni sul Pil riviste ulteriormente al ribasso
dal centro studi di Confindustria (oltre il 2,5% in corso d'anno). Scajola ha poi invitato a non
«cedere alla rassegnazione» anche perchè lo stesso Fondo ha sottolineato che «nel nostro Paese
la crisi si è manifestata con caratteri meno accentuati rispetto ad altri Paesi industrializzati.
Abbiamo certo un problema di crescita ma - ha aggiunto Scajola - non si è verificata l'implosione
del mercato finanziario nè il collasso del settore immobiliare e il governo sta facendo il possibile,
nel rispetto dei vincoli di bilancio, per salvaguardare la struttura produttiva del Paese».
18 febbraio 2009
www.denaro.it
Euribor scende ancora Nuovo minimo storico
Tensioni ancora in calo sull'interbancario: l'Euribor a tre mesi, riferimento che le banche utilizzano
per basare le proprie politiche nei mutui ipotecari, è stato fissato ieri all'1,912 per cento, che
corrisponde al livello più basso da quando è stata costituita l'Unione monetaria. Stessa direzione
per gli altri tassi: quello a un mese è sceso all'1,603 per cento e quello a sei mesi all'1,997 per
cento, sceso addirittura sotto il 2 per cento, soglia su cui è attualmente fissato il tasso ufficiale
della Bce.
del 18-02-2009 num. 032
Salza: Siamo solidi e cresceremo ancora
"Il gruppo Intesa Sanpaolo ha confermato la sua solidità grazie al forte radicamento nella realtà
italiana e sapra' crescere ancora". Lo ha sottolineato ieri il presidente del consiglio di gestione di
Intesa Sanpaolo, Enrico Salza, davanti ai circa 800 direttori delle filiali del Piemonte, della Liguria
e della Valle d'Aosta, riuniti al Lingotto di Torino. L'incontro, al quale hanno partecipato anche
l'amministratore delegato, Corrado Passera e il direttore generale, Enrico Micheli, è una delle
tappe nelle otto macroregioni d'Italia per presentare ai direttori la riorganizzazione della Banca dei
Territori. Micheli ha ribadito che nelle filiali, grazie alla nuova organizzazione, sono possibili 1.200
assunzioni. "Il perno del sistema - ha detto Salza - è la centralità della filiale perché è attraverso
di essa che si costruisce il rapporto di fiducia con il cliente. Noi dobbiamo tutelare il risparmio dei
tanti clienti che hanno fiducia in noi, pronti a dare continuita' nella concessione del credito alle
famiglie e alle imprese migliori che vogliono investire e crescere".
del 18-02-2009 num. 032
www.finanzaonline.com
Generali, possibile formazione di un superpolo nel ramo vita
Finanzaonline.com - 18.2.09/08:04
Dopo la conferma di una possibile fusione tra Generali e Alleanza, si scatenano diverse ipotesi
sull'operazione. Secondo gli esperti, il Leone di Trieste, che già detiene il 50% della compagnia
assicurazione vita, potrebbe rilevare il restante emettendo nuove azioni per circa 1,4 miliardi e
attingendo alle azioni proprie raccolte dal piano di buy back per altri 6-700 milioni. In questo
modo l'impatto sul capitale del gruppo di Trieste sarebbe limitato e Mediobanca, che è primo socio
con il 14%, scenderebbe a circa il 13%. Inoltre, la fusione potrebbe essere seguita da un
accorpamento di tutte le attività nel ramo vita di Alleanza, Toro, Ina e Generali, creando così un
super polo nel vita. Domani si raccoglieranno i vertici di Generali e Alleanza, ma al momento sono
escluse decisioni sull'operazione.
www.milanofinanza.it
Germania approva disegno legge per nazionalizzazione banche
18/02/2009 11.45
Il governo tedesco presieduto da Angela Merkel ha approvato una bozza di legge che consente allo
stato la nazionalizzazione delle banche in difficoltà. Lo ha annunciato oggi il ministro delle finanze
tedesco, confermando le indiscrezioni che erano già circolate nel corso della mattina.
Il disegno di legge apre la strada alla possibilità per Berlino di prendere il controllo della leader
tedesca dell'immobiliare Hypo Real Estate e lascia aperta la possibilità di un'espropriazione degli
azionisti come ultima risorsa. Hypo ha già ricevuto 102 miliardi di euro in garanzie da parte dello
stato e di altre banche, ma le sue condizioni finanziarie restano precarie.
Il disegno di legge, che dovrà essere approvato dal Parlamento tedesco per entrare in vigore, è
conforme alla costituzione tedesca che impedisce l'espropriazione degli azionisti senza l'appoggio
di una nuova legge. Nel caso di Hypo Re il Governo ha bisogno dell'opzione di espropriazione
senza la quale potrebbe incontrare forti ostacoli nella piena presa di controllo della banca che è
posseduta per un quarto dal private equity Jc Flowers.
Il Governo ha detto chiaramente di non voler prendere il controllo delle banche tedesche a meno
di non essere costretto a farlo da un aggravarsi della crisi. Secondo il disegno di legge,
l'espropriazione degli azionisti potrà verificarsi soltanto entro il 31 ottobre 2009 e un decreto del
governo in questo senso dovrà essere presentato non oltre la fine di giugno. Soltanto il mese
scorso Berlino ha preso una quota del 25% di Commerzbank.
Arianna Ferrari
Crisi, perplessità scenari Confindustria
18/02/2009 14.00
Il ministro dello Sviluppo Claudio Scajola ha espresso perplessità per le stime pessimistiche sulla
recessione italiana elaborate dai centri studi nazionali come quello di Confindustria, peggiori di
quelle internazionali. Parlando nel corso di un convegno della Cisl Scajola ha detto di finirla "con
questi corvi", e ha sottolineato come i centri studi nazionali "si compiacciano di diffondere il
pessimismo, rivedendo sistematicamente al ribasso" le previsioni internazionali. Nel suo intervento
Scajola ha ricordato che "le recenti stime del Fondo monetario internazionale" indicano che "la
ripresa per l'Italia arriverà nel 2010. Nessuno può dire se oggi queste previsioni saranno
confermate".
Germania approva disegno legge su nazionalizzazione banche
18/02/2009 10.30
Il Governo tedesco presieduto da Angela Merkel ha approvato una bozza di legge che consente
allo stato la nazionalizzazione delle banche in difficoltà. Lo ha affermato una fonte governativa. Il
disegno di legge apre la strada alla possibilità per Berlino di prendere il controllo della leader
tedesca dell'immobiliare Hypo Real Estate e lascia aperta la possibilità di un'espropriazione degli
azionisti come ultima risorsa. Hypo ha già ricevuto 102 miliardi di euro in garanzie da parte dello
stato e di altre banche, ma le sue condizioni finanziarie restano precarie.
www.ilmanifesto.it
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ACCORDO QUADRO
RIFORMA DEGLI ASSETTI CONTRATTUALI
ROMA, 22 GENNAIO 2009
Il Governo e le parti sociali firmatarie del presente accordo, con l’obiettivo dello
sviluppo economico e della crescita occupazionale fondata sull’aumento della
produttività, l’efficiente dinamica retributiva e il miglioramento di prodotti e
servizi resi dalle pubbliche amministrazioni, convengono di realizzare - con
carattere sperimentale e per la durata di quattro anni- un accordo sulle regole e
le procedure della negoziazione e della gestione della contrattazione collettiva, in
sostituzione del regime vigente.
Le parti fanno espresso rinvio agli accordi interconfederali sottoscritti al fine di
definire specifiche modalità, criteri, tempi e condizioni con cui dare attuazione ai
principi, di seguito indicati, per un modello contrattuale comune nel settore
pubblico e nel settore privato:
1. l’assetto della contrattazione collettiva è confermato su due livelli: il contratto
collettivo nazionale di lavoro di categoria e la contrattazione di secondo livello
come definita dalle specifiche intese;
2. il contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria:
- avrà durata triennale tanto per la parte economica che normativa;
- avrà la funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi
comuni per tutti i lavoratori del settore ovunque impiegati nel territorio
nazionale;
- per la dinamica degli effetti economici si individuerà un indicatore della crescita
dei prezzi al consumo assumendo per il triennio - in sostituzione del tasso di
inflazione programmata - un nuovo indice previsionale costruito sulla base
dell’IPCA (l’indice dei prezzi al consumo armonizzato in ambito europeo per
l’Italia), depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati.
L’elaborazione della previsione sarà affidata ad un soggetto terzo;
- si procederà alla verifica circa eventuali scostamenti tra l’inflazione prevista e
quella reale effettivamente osservata, considerando i due indici sempre al netto
dei prodotti energetici importati;
- la verifica circa la significatività degli eventuali scostamenti registratisi sarà
effettuata in sede paritetica a livello interconfederale, sede che opera con finalità
di monitoraggio, analisi e raccordo sistematico della funzionalità del nuovo
accordo;
- il recupero degli eventuali scostamenti sarà effettuato entro la vigenza di
ciascun contratto nazionale;
- il nuovo indice previsionale sarà applicato ad un valore retributivo individuato
dalle specifiche intese;
- nel settore del lavoro pubblico, la definizione del calcolo delle risorse da
destinare agli incrementi salariali sarà demandata ai Ministeri competenti, previa
concertazione con le Organizzazioni sindacali, nel rispetto e nei limiti della
necessaria programmazione prevista dalla legge finanziaria, assumendo l’indice
(IPCA), effettivamente osservato al netto
dei prodotti energetici importati, quale parametro di riferimento per
l’individuazione dell’ indice previsionale, il quale viene applicato ad una base di
calcolo costituita dalle voci di carattere stipendiale e mantenuto invariato per il
triennio di programmazione;
- nel settore del lavoro pubblico, la verifica degli eventuali scostamenti sarà
effettuata alla scadenza del triennio contrattuale, previo confronto con le parti
sociali, ai fini dell’eventuale recupero nell’ambito del successivo triennio, tenendo
conto dei reali andamenti delle retribuzioni di fatto dell’intero settore;
3. la contrattazione collettiva nazionale di categoria o confederale regola il
sistema di relazioni industriali a livello nazionale, territoriale e aziendale o di
pubblica amministrazione;
4. la contrattazione collettiva nazionale o confederale può definire ulteriori forme
di bilateralità per il funzionamento di servizi integrativi di welfare;
5. per evitare situazioni di eccessivo prolungamento delle trattative di rinnovo dei
contratti collettivi, le specifiche intese ridefiniscono i tempi e le procedure per la
presentazione delle richieste sindacali, l’avvio e lo svolgimento delle trattative
stesse;
6. al rispetto dei tempi e delle procedure definite è condizionata la previsione di
un meccanismo che, dalla data di scadenza del contratto precedente, riconosca
una copertura economica, che sarà stabilita nei singoli contratti collettivi, a
favore dei lavoratori in servizio alla data di raggiungimento dell’accordo;
7. nei casi di crisi del negoziato le specifiche intese possono prevedere anche
l’interessamento del livello interconfederale;
8. saranno definite le modalità per garantire l’effettività del periodo di “tregua
sindacale” utile per consentire il regolare svolgimento del negoziato;
9. per il secondo livello di contrattazione come definito dalle specifiche intese parimenti a vigenza triennale - le parti confermano la necessità che vengano
incrementate, rese strutturali, certe e facilmente accessibili tutte le misure volte
ad incentivare, in termini di riduzione di tasse e contributi, la contrattazione di
secondo livello che collega incentivi economici al raggiungimento di obiettivi di
produttività, redditività, qualità, efficienza, efficacia ed altri elementi rilevanti ai
fini del miglioramento della competitività nonché ai risultati legati all’andamento
economico delle imprese, concordati fra le parti;
10. nel settore del lavoro pubblico l’incentivo fiscalecontributivo sarà concesso,
gradualmente e compatibilmente con i vincoli di finanza pubblica, ai premi legati
al conseguimento di obiettivi quantificati di miglioramento della produttività e
qualità dei servizi offerti, tenendo conto degli obiettivi e dei vincoli di finanza
pubblica;
11. salvo quanto espressamente previsto per il comparto artigiano, la
contrattazione di secondo livello si esercita per le materie delegate, in tutto o in
parte, dal contratto nazionale o dalla legge e deve riguardare materie ed istituti
che non siano già stati negoziati in altri livelli di contrattazione;
12. eventuali controversie nella applicazione delle regole stabilite, saranno
disciplinate dall’autonomia collettiva con strumenti di conciliazione ed arbitrato;
13. la contrattazione di secondo livello di cui al punto 9, deve avere
caratteristiche tali da consentire l’applicazione degli sgravi di legge;
14. per la diffusione della contrattazione di secondo livello nelle PMI, con le
incentivazioni previste dalla legge, gli specifici accordi possono prevedere, in
ragione delle caratteristiche dimensionali, apposite modalità e condizioni;
15. salvo quanto già definito in specifici comparti produttivi, ai fini della
effettività della diffusione della contrattazione di secondo livello, i successivi
accordi potranno individuare le soluzioni più idonee non esclusa
l’adozione di elementi economici di garanzia o forme analoghe, nella misura ed
alle condizioni concordate nei contratti nazionali con particolare riguardo per le
situazioni di difficoltà economico-produttiva;
16. per consentire il raggiungimento di specifiche intese per governare,
direttamente nel territorio o in azienda, situazioni di crisi o per favorire lo
sviluppo economico ed occupazionale, le specifiche intese potranno definire
apposite procedure, modalità e condizioni per modificare, in tutto o in parte,
anche in via sperimentale e temporanea, singoli istituti economici o normativi dei
contratti collettivi nazionali di lavoro di categoria;
17. salvo quanto già definito in specifici comparti produttivi, i successivi accordi
dovranno definire, entro 3 mesi, nuove regole in materia di rappresentanza delle
parti nella contrattazione collettiva valutando le diverse ipotesi che possono
essere adottate con accordo, ivi compresa la certificazione all’INPS dei dati di
iscrizione sindacale;
18. le nuove regole possono determinare, limitatamente alla contrattazione di
secondo livello nelle aziende di servizi pubblici locali, l’insieme dei sindacati,
rappresentativi della maggioranza dei lavoratori, che possono
proclamare gli scioperi al termine della tregua sindacale predefinita;
19. le parti convengono sull’obiettivo di semplificare e ridurre il numero dei
contratti collettivi nazionali di lavoro nei diversi comparti.
Le parti confermano che obiettivo dell’intesa è il rilancio della crescita economica,
lo sviluppo occupazionale e l’aumento della produttività, anche attraverso il
rafforzamento dell’indicazione condivisa da Governo, imprese e sindacati per una
politica di riduzione della pressione fiscale sul lavoro e sulle imprese, nell’ambito
degli obiettivi e dei vincoli di finanza pubblica.
www.ilmessaggero.it
Marcegaglia: bloccare il Tfr per un anno all'interno delle aziende
ROMA (18 febbraio) - «Si potrebbe arrivare alla decisione che per un anno i flussi di Tfr non
vadano all'Inps, ma vengano tenuti all'interno delle imprese. Oppure i flussi del Tfr potrebbero
servire a creare un fondo di garanzia che aiuti il sistema del credito alle piccole e medie imprese»:
è questa una delle proposte lanciate dal presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, per
superare la crisi economica in Italia. «Il tema del credito è fondamentale - ha detto la Marcegaglia
a Foggia dopo una riunione con gli imprenditori locali - servono decisioni concrete perché se non
c'è credito si blocca il sistema delle imprese, ancor più nel Sud. E' assolutamente necessario che,
come sta accadendo in tutti i Paesi europei e anche negli Stati Uniti e in Cina, il governo italiano
sostenga l'economia. Comprendiamo il problema del debito pubblico, ma riteniamo che in un
momento come questo serva un sostegno all'economia, senza il quale rischiamo veramente che
molte imprese non riescano ad andare avanti».
Oltre a quella sul Tfr, Marcegaglia ha avanzato la proposta che la Cassa depositi e prestiti anticipi i
crediti delle imprese con le pubbliche amministrazioni e che venga reso al più presto operativo il
Fondo di garanzia di 450 milioni di euro previsto nel Decreto 185 per le Confidi.
Cgil: sì se è Tfr non usato per previdenza complementare. «Se la Marcegaglia si riferisce a
quella parte del Tfr non utilizzato dai lavoratori per la previdenza complementare - dice la
segretaria confederale della Cgil, Morena Piccinini - e che dal 2007 le aziende con oltre 50
dipendenti versano all'Inps, riteniamo che sia legittimo che il sistema delle imprese chieda che
quelle risorse vengano utilizzate tutte a sostegno delle attività produttive e dello sviluppo del
Paese. Questo era l'obiettivo con il quale il fondo stesso era stato istituito dall'allora governo
Prodi. Obiettivo che nel tempo si è disperso, provocando una situazione per la quale parte
significativa di quelle risorse sono ora desinate ad altri scopi, compreso il finanziamento del
ministero della Difesa». Proprio per raggiungere l'obiettivo originario, aggiunge Piccinini, «è
controproducente ipotizzare il ritorno tout court del Tfr nelle singole aziende perché questo
determinerebbe ulteriori complicazioni nel rapporto tra azienda, Inps e lavoratori, con il rischio
non secondario per il lavoratore di veder ridotta la possibilità di conseguire tutte le sue spettanze
alla cessazione del rapporto di lavoro». Per la sindacalista sarebbe, infine, «opportuno che il
sistema delle imprese si rendesse disponibile ad ampliare le possibilità di anticipazione del Tfr ai
lavoratori, oltre i casi già previsti, proprio per far fronte anche a questa situazione di crisi».
Damiano: proposta che lascia perplessi. «La proposta del presidente di Confindustria di
finanziare il credito alle pmi è giusta, ma lo strumento che propone ci lascia alquanto perplessi dice il deputato del Pd, Cesare Damiano - Come sempre la costituzione di un fondo implica anche
la definizione di chi lo gestisce e con quale trasparenza, il che espone a rischio di creare strumenti
di una qualche complessità. In ogni caso quello che va ricordato è che l'attuale flusso del Tfr al
fondo di tesoreria, che riguarda le aziende al di sopra dei 50 dipendenti, è una misura varata dal
governo Prodi che trovò forti resistenza da parte delle aziende. Queste risorse servono per
finanziare le infrastrutture. Va anche ricordatoche il memorandum del novembre 2006 che istituì
questa misura, la previde per 2 anni. Essa è scaduta al 31 dicembre del 2008, e basterebbe che le
parti sociali pretendessero dal governo di ripristinare la situazione precedente e far ritornare il tfr
in azienda. Infine, va sempre ricordato che le risorse del Tfr appartengono ai lavoratori, come
sottolinearono i critici dell'epoca, e che il finanziamento del credito alle piccole aziende dovrebbe
far parte di un pacchetto di interventi a sostegno delle imprese che il governo dovrebbe mettere a
disposizione con risorse fresche e aggiuntive, al fine di contrastare gli effetti della crisi».
Confcooperative: il blocco aiuterebbe le imprese. «Conservare il Tfr in azienda per un anno
rappresenterebbe un'importante boccata d'ossigeno per le imprese, soprattutto, per quelle labour
intensive, cioè ad alta intensità di lavoro, come le cooperative - dice Luigi Marino, presidente di
Confcooperative - La gestione della liquidità delle imprese è stata erosa anche dalle scelte assunte
da passati governi che, nel modificare il versamento del Tfr, avevano assicurato misure
compensative che non sono mai arrivate. Va ricordato inoltre che il 72% delle cooperative
denuncia una carenza di liquidità e il 35% di esse si lamenta delle peggiorate condizioni di accesso
al credito. Per sanare la piaga dei mancati pagamenti risultano irrimandabili due punti: che la
Cassa depositi prestiti anticipi i crediti per la Pa e che sia reso operativo e irrobustito il fondo di
garanzia per i Confidi.
www.ilsole24ore.com
Abi: le imprese usano i prestiti per ristrutturare i debiti
Le imprese chiedono prestiti solo per ristrutturare il proprio debito e non per fare
investimenti. Lo sostiene l'Abi (Associazione bancaria italiana) nel suo bollettino mensile. A
gennaio si è registrato un lieve rallentamento della crescita degli impieghi che, a gennaio, sono
saliti del 4,2% a 1.526 miliardi di euro (+62 miliardi rispetto allo stesso mese di un anno fa)
contro il +4,9% di dicembre 2008.
Le imprese chiedono soldi per ristrutturare il debito
I prestiti alle imprese non finanziarie, relativi però al mese di dicembre, sono saliti del 6,6%. In
crescita rispetto al +6% di novembre mentre per quanto riguarda le famiglie, i finanziamenti
hanno registrato una crescita dell'1,4%, in ripresa rispetto al -0,7% di novembre. Ma la domanda
di prestiti delle aziende - rileva l'Abi citando l'indagine Bank Lending Survey di Bankitalia fatta in
collaborazione con la Bce - è risultata rilevante «solo ai fini della ristrutturazione del debito».
Si è infatti registrato un forte calo degli investimenti fissi, delle operazioni di fusione, acquisizione
e delle ristrutturazioni. L'esigenza di fondi per investimenti fissi ha segnato in Italia (a
dicembre 2008 rispetto a settembre dello stesso anno) un saldo percentuale negativo pari al
62,5%. Si tratta del il peggior risultato da quando è iniziata la rilevazione (gennaio 2003).
Raccolta bancaria in lieve rallentamento
Frena anche l'andamento della raccolta bancaria, pur mantendosi su livelli di crescita oltre il 10%.
A gennaio - spiega il bollettino mensile dell'Abi sui mercati finanziari e creditizi - il tasso di crescita
su base annua è stato del 10,2%, in rallentamento rispetto all'11,7% di dicembre ma in
accelerazione nel confronto con gennaio dell'anno scorso (+9,9%). In particolare, alla fine di
gennaio la raccolta bancaria è stata pari a 1.784 miliardi di euro e nel corso dell'ultimo anno lo
stock è aumentato di circa 166 miliardi.
Tassi ai minimi dal 2006
La discesa dell'euribor dei mesi scorsi si fa sentire sui dei tassi d'interesse sui mutui immobiliari
per le famiglie. A gennaio sono scesi sotto il 5%, ai valori minimi dalla fine del 2006. Il mese
scorso - spiega il bollettino mensile dell'Abi - il tasso sui prestiti alle famiglie per l'acquisto di
abitazioni è diminuito al 4,84%, in netta flessione rispetto al 5,09% di dicembre, «tornando sui
valori di novembre 2006». Dopo il record del 5,95% segnato ad agosto scorso, per i tassi
d'interesse sui mutui si tratta quindi del quinto calo consecutivo.
Nessun aumento delle sofferenze
Resta alta la qualità del credito del sistema bancario. Secondo il rapporto dell'Abi le sofferenze
lorde a dicembre (tradizionale mese di 'pulizià dei bilanci) sono risultate pari a 41,1 miliardi di
euro contro i 39,6 miliardi di novembre ma in deciso calo rispetto ai 47,2 miliardi di fine 2007.
In particolare il rapporto fra sofferenze nette e impieghi totali ad ottobre (ultimi dati disponibili) è
stato pari all'1,08% mentre il rapporto fra sofferenze nette e patrimonio di vigilanza ha raggiunto
quota 5,27%.
18 febbraio 2009
www.iltempo.it
Allo studio lo scambio azionario tra le 2 società
Generali-Alleanza, fusione vicina
Generali studia la fusione con Alleanza che, a dispetto delle attese della borsa, non passerà
attraverso un'Opa sulla controllata. Senza la prospettiva di un'offerta in contanti il titolo della
compagnia vita del Leone perde il suo appeal speculativo e lascia sul terreno a fine seduta l'8,2%
a
4,99 euro.
Va male anche alla capogruppo, che termina in calo del 4,72% a 13,9 euro in una mercato che già
ragiona sui concambi.
«Così come già avvenuto in passato, è in fase di studio un'ipotesi di fusione per incorporazione di
Alleanza in Generali», si legge in un comunicato diffuso su richiesta della Consob dopo le
indiscrezioni degli ultimi giorni.
Peraltro si precisa che «non è allo stato possibile prevedere se, entro quali tempi e a quali
condizioni l'operazione ipotizzata - che non darebbe in ogni caso luogo ad alcun diritto di recesso a
favore dei soci delle società interessate - potrà essere portata all'attenzione degli organi
deliberanti delle due società», conclude la nota.
In sostanza Generali conferma per la prima volta l'ipotesi sulla quale da anni la borsa
periodicamente scommette, quella di un accorciamento della catena di controllo, ma delude chi
aveva puntato su un'offerta pubblica d'acquisto per ritirare il titolo dal listino.
Quel che Trieste sta valutando, assistita dall'azionista (al 14%) Mediobanca e da Ubs, è
un'operazione carta contro carta, utilizzando anche il 2% di azioni proprie che ha in portafoglio.
Non è prevista, in ogni caso, una Ops (offerta pubblica di scambio): sul tavolo c'è la fusione per
incorporazione senza neanche il diritto di recesso per i soci di minoranza.
Questi ultimi, se il progetto allo studio andrà in porto, potranno disfarsi dei titoli solo vendendoli in
Borsa prima della fusione, come forse qualcuno ha già cominciato a fare.
Il titolo Alleanza dopo il comunicato del gruppo ha infatti invertito la rotta in Borsa chiudendo
pesante, al pari della capogruppo, su un concambio teorico di 2,78 azioni della controllata per ogni
azione del Leone. Un livello non lontano dai 2,81 ritenuti equi, secondo i calcoli fatti, senza tener
conto di eventuali sinergie dalla fusione, dagli analisti di Unicredit. La prima occasione, per il
Leone, per fare il punto sull'eventuale fusione è la riunione del comitato esecutivo domani a
Milano. L'appuntamento, comunque, era già in agenda da tempo.
18/02/2009
www.ilgiornale.it
Livingston pronta ad assumere la hostess «pasionaria»
Daniela Martani, la ex hostess «pasionaria» dell'Alitalia ed ex protagonista del Grande Fratello,
potrebbe presto tornare a volare. Ma non più con la divisa dell'ex compagnia di bandiera, che l'ha
licenziata, bensì con quella della Livingston, compagnia specializzata in collegamenti leisure e
charter. Lo annuncia in una nota la stessa Livingston, che comunica di «essere disponibile ad
assumere Daniela Martani tra il proprio personale di volo». L'assunzione, specifica la compagnia,
potrebbe scattare «a partire da giugno 2009, con un contratto inizialmente stagionale».
Evidentemente, l'atteggiamento della Martani, poco apprezzato dai nuovi vertici Alitalia, viene
invece apprezzato da quelli della Livingston per i quali, si legge sempre nella nota, «la
determinazione e il coraggio della signora Martani, che si definisce, nelle dichiarazioni rilasciate
alla stampa, "una combattente e una combattiva per natura", sono state giudicate da Livingston
qualità interessanti, unitamente alla decisione di abbandonare il reality per far valere il diritto al
lavoro sullo "show business"». Per Massimo Ferrero, presidente di Livingston spa, «con questa
decisione, la signora Martani ha dimostrato responsabilità e risolutezza». Quindi, se la volontà
della Martani, continua Ferrero, è quella di continuare la professione di assistente di volo, troverà
in Livingston «un'ottima opportunità di lavoro e di successo». Al momento non si conoscono le
reazioni della diretta interessata. La compagnia Livingston è stata ceduta la settimana scorsa dal
gruppo Viaggi del Ventaglio alla società 4Fly.
Fondiaria Sai, premi in calo nel 2008
I primi risultati di Fondiaria-Sai sull'esercizio appena concluso sono stati approvato dal consiglio di
amministrazione. A livello consolidato la raccolta premi complessiva del lavoro diretto ha
raggiunto 11.492 milioni di euro, con un calo del 3,2%. Nei rami Danni essa ammonta a 7.286
milioni (erano 7.309 nel 2007, meno 0,3%). A tale dato ha contribuito la compagnia serba Ddor,
acquisita a fine 2008, con un volume di premi pari a 125 milioni. Pertanto in termini omogenei la
raccolta dei Danni segnerebbe una flessione del 2% circa. Tuttavia è da segnalare la performance
positiva dei Rami Non Auto che registrano una raccolta pari a 2.485 milioni con una crescita del
5,1%, risultato raggiunto nonostante il contesto macro economico non favorevole. Nei rami Vita i
premi emessi hanno raggiunto 4.206 milioni, con un calo del 7,7%. Anche in tal caso va segnalato
che la flessione sconta l'uscita dal perimetro di consolidamento della controllata Po Vita, ceduta
nel corso del primo trimestre 2008, che aveva contribuito alla raccolta dell'esercizio 2007 per 573
milioni. In termini omogenei, dunque, depurando cioè il contributo di Po Vita alla raccolta 2007, i
rami Vita segnerebbero un incremento del 5,5%. Risulta significativo l'apporto di Popolare Vita,
che al termine del 2008 ha totalizzato premi per 1.879 milioni. Il quadro della raccolta Vita si
completa considerando inoltre la raccolta relativa ai contratti di investimento che ammonta a 297
milioni. Al termine dell'esercizio 2008, la raccolta premi del lavoro diretto della capogruppo ha
raggiunto 4.918 milioni, con un calo del 2,7% rispetto al 2007. Tale dato è allineato ai principi
contabili italiani e comprende anche la componente di puro investimento della raccolta dei rami
Vita. Nei rami Danni sono stati raccolti 3.787 milioni con un calo di circa l'1,5%, di questi 2.509
milioni (meno 4,0%) nei rami Auto. Da segnalare il buon andamento dei rami Non Auto che
registrano una raccolta pari a 1.278 milioni con una crescita del 3,8%. L'andamento dei rami Auto
risente della riduzione delle immatricolazioni di nuovi veicoli nonché della tensione in atto sul
mercato delle tariffe Rca e degli effetti della Legge n.40/2007 (Bersani Bis) in tema di attribuzione
della classe di merito bonus malus, che hanno portato a una ulteriore contrazione del premio
medio. Tuttavia è da evidenziare, in merito al ramo Rc Auto, che il numero dei sinistri denunciati
registra un calo dell'1,8%. La particolare fase di mercato richiederà una costante e attenta politica
di selezione dei rischi e di riduzione dei costi. Nei rami Vita la raccolta premi del lavoro diretto
ammonta a 1.131 milioni (meno 6,4%), evidenziando una flessione determinata soprattutto dal
minor apporto dei prodotti di capitalizzazione (meno 31%). Al fine di ridurre l'esposizione del
portafoglio investimenti all'andamento del mercato azionario, il gruppo ha portato a termine nelle
ultime settimane un programma di copertura acquistando opzioni put sull'indice Eurostoxx50, con
durata sei mesi, per un controvalore complessivo di circa 500 milioni, pari quasi al 50%
dell'esposizione azionaria del gruppo. Tale strategia consente di neutralizzare le perdite potenziali
del portafoglio azionario conseguenti al perdurare della crisi dei mercati, senza precludere la
partecipazione a eventuali movimenti rialzisti. L'assemblea dei soci si terrà il 23 aprile in prima
convocazione e il 24 aprile in seconda.
www.repubblica.it
Chiesti 21,6 miliardi di dollari di aiuti al governo Usa
Nardelli: "L'alleanza con Fiat ci consente sinergie globali"
Dramma Gm, 47mila tagli con Chrysler chiede fondi
di ARTURO ZAMPAGLIONE
NEW YORK - Perseguitate dal fantasma di un fallimento tutt'altro che impossibile, la General
Motors e la Chrysler hanno consegnato ieri al ministero del Tesoro due voluminosi documenti con i
piani di ristrutturazione delle loro attività e la richiesta di nuovi aiuti pubblici (che la Chrysler
quantifica in 2 miliardi di dollari). La Gm spiega come ridurrà il numero dei marchi, che ora sono
troppi (otto), e come chiuderà alcune fabbriche per fronteggiare il calo della domanda. La
Chrysler, che prevede altri 3.000 licenziamenti nel 2009, illustra in dettaglio l'alleanza con la Fiat.
La speranza delle due case automobilistiche? Che Washington si convinca della loro capacità di
superare la crisi e di ripagare i prestiti concessi dallo stato, approvando così ulteriori finanziamenti
indispensabili alla sopravvivenza.
La presentazione dei due piani entro la scadenza di ieri era stata richiesta dal governo al momento
in cui, nel dicembre scorso, aveva prestato 4 miliardi di dollari alla Chrysler e 9,4 miliardi di dollari
alla Gm (che ieri ne ha ricevuti altri 4 di quello stesso pacchetto). Il ministero del Tesoro aveva
messo anche come condizione che le due case di Detroit in maggiori difficoltà (la Ford per il
momento non ha chiesto nulla) moltiplicassero gli sforzi per ridurre il debito e tagliare i costi
arrivando entro il 31 marzo ad alcuni obiettivi precisi.
Uno degli obiettivi era di versare almeno la metà dei contributi al fondo sanitario dei dipendenti
(spesa prevista: 20 miliardi per la Gm, 9,9 per la Chrysler) non più in contanti ma in azioni della
società. Una seconda direzione di marcia era di convertire in titoli azionari i due terzi delle
obbligazioni: sul mercato ci sono oggi 28 miliardi di bond della Gm e 9 miliardi di quelli della
Chrysler. Nelle ultime ore il chief executive della Gm Rick Wagoner e quella della Chrysler Bob
Nardelli hanno intensificato i negoziati con l'Uaw (United auto workers), il sindacato del settore, e
con i rappresentanti dei "bondholders", i possessori di obbligazioni, per giungere ad un accordo da
inserire nel piano di ristrutturazione. Ma a dispetto delle trattative frenetiche, il tentativo non è
andato in porto. Gli interlocutori delle due aziende, infatti, non hanno voluto fare concessioni
prima di conoscere le strategie sull'auto del "team" di Obama. E le conseguenze si sono viste in
una perdita del 13% delle quotazioni della Gm a Wall Street.
Accantonata l'ipotesi di nominare uno "zar dell'auto", cioè un unico grande mediatore tra
Washington e Detroit, il neo-presidente ha optato per una squadra guidata dal ministro del Tesoro
Tim Geithner e dal consigliere economico Larry Summers, di cui fa parte Ron Bloom, ex-finanziere
della Lazard frères con una grande esperienza nella crisi dell'industria siderurgica. Sarà questa
squadra, ora, a esaminare le centinaia di pagine dei piani presentati ieri e di quelli definitivi alla
fine di marzo, decidendo sul futuro. Non è affatto escluso che i due gruppi siano costretti a portare
i libri in tribunale: un "fallimento tecnico" che avverrebbe in modo contestuale all'avvio di un
programma di rilancio Uno scenario del genere comporta molti rischi sia per i sindacati che per i
"bondholders". In compenso lo spauracchio di un fallimento potrebbe accelerare l'accettazione di
sacrifici da parte di tutti.
(18 febbraio 2009)
Che succede se la borghesia torna povera
MASSIMO GIANNINI
Borghesi di tutto il mondo, unitevi. Se fosse ancora vivo, forse oggi Carlo Marx integrerebbe il suo
"Manifesto", allargando il leggendario appello rivolto a suo tempo ai soli proletari. Con la tempesta
perfetta che si è abbattuta sull´economia mondiale, stavolta, chi rischia di più non sono i
diseredati del mondo, che non hanno nulla da perdere. Chi rischia di più, come ci avverte
acutamente l´ultimo numero dell´Economist, sono gli oltre 2 miliardi di persone che, sui mercati
emergenti, hanno creato un gigantesco e inedito blocco sociale: potremmo definirlo come il nuovo
«ceto medio» globale. Un esercito di donne e di uomini che, dall´India alla Cina, dal Brasile alla
Russia, ha propiziato con il suo lavoro e beneficiato con il suo salario del più alto tasso di sviluppo
dell´economia mondiale mai registrato da un secolo a questa parte.
Una crescita media, e stabile, del 5% annuo. Con punte del 12% in alcune aree del pianeta.
Sembra un sogno, oggi. Ma è esattamente quello che è accaduto dall´inizio degli anni ´90 in poi.
Ora che recessione e deflazione colpiscono senza pietà a tutte le latitudini, questa «nuova
borghesia» non ricca ma relativamente benestante, che può impiegare almeno un terzo del suo
reddito per spese voluttuarie dopo aver soddisfatto i suoi bisogni primari di alimentazione e di
protezione, corre un pericolo mortale. Quello di regredire a una condizione sociale di semipovertà, la stessa dalla quale si è sollevata faticosamente e orgogliosamente dal 1990 in poi.
L´Economist ripesca proprio Marx, e ricorda che «la borghesia ha sempre giocato un ruolo
fortemente rivoluzionario» nella Storia. Di fronte al crollo del benessere economico e delle
aspirazioni sociali, la middle class ha reagito in modo ogni volta differenti. Ha supportato i governi
nazi-fascisti nell´Europa degli Anni ´30 e le giunte militari nel Sudamerica degli Anni ´80. Ha
manifestato pacificamente per ottenere il diritto di voto nella Gran Bretagna del 19esimo secolo e
ha ottenuto la democrazia nell´America Latina degli Anni ´90. In questo Terzo Millennio è difficile
immaginare cosa potrebbe accadere, se 2 miliardi di persone, dopo aver conquistato il benessere
in 15 lunghi anni, ricadessero in miseria in un anno solo. Marxianamente parlando, in gioco c´è
prima di tutto la «struttura», cioè la condizione di vita di milioni e milioni di persone. Ma in ballo
c´è anche la «sovrastruttura», cioè i sistemi politici, gli assetti istituzionali, le democrazie. Solo a
pensarci, tremano le vene ai polsi.
m.gianninirepubblica.it
Fed e Bce, una rete anti-crac
Financial Stability Forum, Ocse e Fondo Monetario, commissioni apposite a Washington
e Bruxelles, tutti al lavoro sulle nuove regole. Divisioni sul ruolo chiave che sarà affidato
alle due grandi banche centrali
MARCO PANARA
Sono al lavoro il G8 e il G20, il Fondo Monetario e l´Ocse, il Financial Stability Forum e la Banca
dei Regolamenti Internazionali, la Commissione De Larosiére a Bruxelles e l´Economic Recovery
Advisory Board a Washington. La missione è riscrivere un sistema di regole che valga per tutti paesi grandi e paesi piccoli, anglosassoni, asiatici e latini, industrializzati ed emergenti - e che sia
tale da evitarci in futuro di cadere di nuovo in una crisi come questa. La posta in gioco è
gigantesca per gli interessi coinvolti, perché si tratta di mettere le briglie alle banche, agli hedge
fund, ai private equity, ai mercati oggi selvaggi dei titoli derivati e strutturati, agli stipendi dei
manager e anche ai comportamenti degli stati. La prima tappa è stata la riunione dei ministri
dell´economia e dei governatori del G7 sabato a Roma, la prossima sarà l´incontro dei capi di
governo europei a Bruxelles all´inizio di marzo e quella chiave il 2 aprile prossimo a Londra, per il
G20 convocato dal primo ministro britannico Gordon Brown.
In tutti i documenti fin qui prodotti, così come nelle dichiarazioni di governatori, ministri e capi di
governo, le parole più citate sono coordinamento e cooperazione. Peccato però che nei fatti la
Francia sia contro la Germania, tutte e due siano contro l´Inghilterra mentre gli Stati Uniti se ne
vanno per la propria strada. A dividere non sono querelle di poco conto: non è la stessa cosa se la
Nomura, per fare un esempio, è vigilata da Londra per tutte le sue attività in Europa, come
avviene oggi e Londra vuole che continui ad essere in futuro, oppure se il controllo passa a un
altro soggetto che sta di qua dalla Manica. E non è la stessa cosa se il mercato dei derivati resta
non organizzato e non regolamentato, come gli inglesi pensano che debba continuare ad essere,
oppure se si va verso una regolamentazione. La lista è lunga, si va dal modo di valutare il capitale
delle banche rispetto ai rischi che assumono a come esercitare la vigilanza sulle compagnie di
assicurazione. Si parla di poteri della Fed, della Bce, delle banche centrali nazionali e delle
authority che vegliano sulla trasparenza, e si parla dei poteri che i singoli governi dovrebbero
cedere a soggetti sovranazionali.
Il punto di partenza è che la drammaticità della crisi lascia l´impressione che non abbia funzionato
nulla, che il sistema di regole che c´è sia tutto sbagliato e tutto da rifare. Probabilmente non è
proprio così, ma prima ancora che gli interessi di settori e soggetti specifici e gli interessi dei
singoli stati, si scontrano due diverse visioni, la prima che sostiene la tesi ‘incrementale´, ovvero
migliorare e allargare il raggio di azione delle regole che già ci sono, e la seconda che invece
punta su una revisione sostanziale del sistema. Accanto a questo confronto ce n´è un altro, ed è
quello tra il modello europeo continentale con le sue incompiutezze ma anche con i suoi valori
sociali e il modello anglosassone, che nonostante sia quello che ci ha portato in questo disastro
continua ad avere una fortissima presa, perché esprime e realizza la cultura dei due principali
mercati finanziari mondiali e ancora di più perché dall´egemonia di quel modello dipendono
interessi economici e politici enormi degli Stati Uniti e della Gran Bretagna.
A provare a mettere ordine in tutto ciò sono innanzitutto l´Ocse e il Financial Stability Forum.
L´Ocse si sta occupando del ‘legal standard´ del quale parla Giulio Tremonti. «Il nome ‘legal
standard´ è provvisorio - dice Pier Carlo Padoan, vice segretario generale dell´Ocse - perché la
parola ‘legal´ ha una forza diversa nelle culture anglosassoni rispetto a quelle dell´Europa
continentale. Ma al di là del nome, la sostanza è che si può intervenire su una serie di strumenti
regolatori e legali che già esistono, e che riguardano dalle multinazionali alla corporate
governance, dalla trasparenza fiscale alla qualità del lavoro, per farne una revisione complessiva
con l´obiettivo di renderli coerenti con il nuovo quadro e per allargarne l´ambito di applicazione.
L´Ocse lavorerà a tutto questo in collaborazione con altri organismi, come l´Organizzazione
Internazionale del Lavoro per i temi della qualità del lavoro o con lo stesso Financial Stability
Forum per i mercati finanziari».
La stabilità del sistema finanziario internazionale è affidata soprattutto al Financial Stability
Forum, creato dal G7 nel 1999 proprio in seguito alle crisi asiatica e russa e al fallimento
dell´hedge fund Ltcm (Long Term Capital Management). Il Forum, che è oggi presieduto a Mario
Draghi, ha già presentato un sostanzioso rapporto nell´aprile del 2008, con una serie di misure
alcune delle quali sono già in fase di implementazione. Altre proposte sono in corso di
elaborazione.
Oltre all´Ocse e al Financial Stability Forum, sono al lavoro due gruppi di lavoro, uno europeo ed
uno americano, alla ricerca di soluzioni per le due aree economiche. A Washington il presidente
Obama ha affidato l´incarico alle mani sapienti di Paul Volcker che, alla guida della Fed negli anni
´80, fu colui che con una politica monetaria severa riuscì a stroncare l´inflazione che era stata
scatenata dai due oil shock del decennio precedente. Volcker guida l´Economic Recovery Advisory
Board e si stanno già delineando alcune linee d´azione che, nei programmi, dovranno trasformarsi
in un set di nuove regole da varare per la fine di giugno. Molti elementi sono già stati individuati
da un gruppo di lavoro creato nel luglio del 2008 all´interno del Gruppo dei 30 e guidato dallo
stesso Volcker insieme a Tommaso Padoa Schioppa e all´ex governatore del Banco do Brasil,
Arminio Fraga Neto. Il 15 gennaio scorso il Gruppo dei 30 ha reso pubblico il documento
conclusivo, dal titolo ‘Financial Reform, a Framework for Financial Stability´, che contiene 18
raccomandazioni rivolte a tutti i governi, ma alcune delle quali sono dirette esplicitamente a quello
di Washington.
Per quanto si coglie in questa fase ancora preparatoria gli Stati Uniti vanno verso una vigilanza su
tutti i soggetti che hanno rilevanza sistemica, compresi quindi i grandi hedge fund e private
equity, con il ruolo centrale affidato alla Federal Reserve, per la quale si prevede un più stretto
matrimonio (o incesto, secondo alcuni) con il Tesoro. Alla Fed sarebbero affidate oltre alla politica
monetaria la macro e la microsorveglianza su tutti i soggetti di ‘rilevanza sistemica´. La
concentrazione dei poteri nella Fed è ancora oggetto di discussione, poiché nel Congresso c´è chi
preferirebbe separare sorveglianza da politica monetaria e affidare la prima ad un altro soggetto,
sembra tuttavia che al momento prevalga la linea della concentrazione, bilanciata però da un
maggiore controllo del Congresso stesso, con il quale il presidente della Fed e i governatori,
insieme al segretario del Tesoro, discuterebbero ogni tre mesi le politiche e le linee operative.
Sempre negli Stati Uniti le assicurazioni manterrebbero un assetto regolamentare distinto ma non
sarà loro più consentito di investire in derivati senza sottostare a specifici controlli. Infine si va
verso una revisione del sistema di incentivi a manager e trader con un ruolo rafforzato dei risk
manager.
In Europa una missione simile a quella che svolge Volcker di là dell´Atlantico è stata affidata ad
una commissione guidata dall´ex governatore della Banca di Francia Jacques de Larosière e
composta da sette membri indicati da Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Polonia, Spagna e
Svezia. Il membro italiano è Rainer Masera. «Concluderemo i lavori per la fine di febbraio e le
proposte saranno presentate alla Commissione Europea e successivamente al Consiglio e al
Parlamento. E´ un lavoro complesso che ha l´obiettivo di arrivare ad un sistema di vigilanza
europea più efficiente ed integrata» spiega Masera.
In Europa il lavoro è più difficile che negli Stati Uniti. C´è una divaricazione tra i paesi euro e
quelli non euro, ci sono posizioni confliggenti tra gli stessi paesi dell´area euro e quando si
toccano aspetti significativi si sbatte subito sulla necessità di riformare il Trattato, il che vuol dire
referendum e voto parlamentare nei vari paesi.
Uno dei problemi chiave è la contrapposizione tra l´Europa continentale e la Gran Bretagna, che
vuol essere al centro del sistema finanziario europeo facendo riferimento però più agli Stati Uniti
che all´Europa stessa. E´ una posizione che i paesi dell´euro accettano sempre meno e che ha
risvolti concreti, che vanno dalla sorveglianza sistemica sulle grandi istituzioni finanziarie
internazionali, che sono spesso basate a Londra ma che i paesi di Eurolandia vorrebbero
controllare dal continente, alla regolamentazione dei mercati oggi non organizzati, come quelli dei
derivati e dei credit default swaps.
Divergenze ci sono anche all´interno di Eurolandia sul ruolo della Bce. Si concorda sul fatto che è
necessario prevedere una sorveglianza sui soggetti che hanno un impatto sistemico si discute tra
chi, come il vice presidente della Bce Lucas Papademos (ma non solo), spinge per affidare alla Bce
questi compiti e chi, come la Bundesbank, invece si oppone perché ritiene che i compiti di
sorveglianza possono contaminare le scelte di politica monetaria.
Ma queste sono solo le punte dell´iceberg, i problemi tecnici e politici, le divergenze tra paesi (e la
tendenza di alcuni di questi di fare delle banche salvate e nazionalizzate dei campioni nazionali), la
difficoltà di affidare maggiori compiti alla Bce senza che questa abbia un ministero del Tesoro di
riferimento, rendono il lavoro della commissione de Larosière particolarmente complesso.
Ma non è finita qui. Oltre a Ocse e Fsf, a Volcker e de Larosière, a lavorare sul problema ci sono
anche altri soggetti. Il più importante è la Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea, dove si
sta discutendo la questione chiave dei requisiti di capitale delle banche. E´ ormai chiaro che
l´impostazione di Basilea (I e II) va corretta perché è prociclica, ovvero spinge le banche a
comportamenti che accentuano la tendenza del ciclo economico e quindi, nel caso della crisi che
stiamo vivendo, accentua il credit crunch. Gli svizzeri, padroni di casa ma con un sistema bancario
molto provato, sostengono che il modello attuale che prevede requisiti di capitale ponderati in
base alle tipologie di rischio non garantisca la stabilità del sistema, e spingono per criteri più
semplici e omogenei. In questa posizione non sono isolati, ma dai requisiti di capitale dipende la
leva che le banche possono attivare e quindi certamente il livello di rischio ma anche la capacità di
produrre profitti per gli azionisti.
Ciascuna di queste partite è delicatissima e le potentissime lobby sono al lavoro. Ma la chiave,
come sempre, è nelle mani degli Stati Uniti. Da una parte la crisi ha lì le sue radici profonde,
dall´altra c´è la novità dell´amministrazione Obama. Ma se l´America è disposta a condividere
con gli altri la costruzione di un sistema di regole globale che le renda le mani un po´ meno libere,
ancora non è chiaro. Secondo molti è improbabile, e se questi molti avranno ragione le nuove
regole si faranno, ma avranno gli stessi limiti di quelle vecchie.
Manifesto per la stabilità finanziaria
LUIGI SPAVENTA
In questi tempi così difficili, con banche che falliscono quasi ogni settimana e con le arterie del
credito occluse malgrado interventi governativi di importi e natura senza precedenti, abbozzare
piani di riforma del sistema finanziario potrebbe sembrare una distrazione superflua da sfide più
pressanti. Non è così. Un accordo sulla definizione (per non parlare dell´attuazione) di nuove
regole richiede tempo; e poi, come si dice, "beato quell´uomo che pianta un albero sotto la cui
ombra non siederà mai". E così, il 15 novembre dell´anno scorso il G20 fu convocato per "gettare
le fondamenta di una riforma" tale da impedire che "una crisi globale come quella che stiamo ora
vivendo possa ripetersi". In quella riunione si lanciò un piano d´intervento basato su alcuni
principi condivisi.
Le azioni previste (nel complesso più di una quarantina) consistono in buona parte
nell´assegnazione di compiti ad altre istanze internazionali, quali il Forum per la Stabilità
Finanziaria, il Comitato di Basilea e le organizzazioni che stabiliscono gli standard contabili,
nonché ai regolatori nazionali. Tutte queste istituzioni si sono messe alacremente al lavoro.
Possiamo esser certi che nella prossima riunione i partecipanti al G20 non potranno lamentarsi per
mancanza di documenti, carte e proposte dettagliate. Ma poi? Con l´approccio seguito finora, vi è
il rischio che il G20 resti impantanato in una miriade di soluzioni parziali e dettagli tecnici. Il G20
riuscirà a mettere a punto le riforme del sistema finanziario mondiale?
C´è il pericolo insomma che si perda di vista un disegno di riforma che dipende anche da difficili
scelte politiche.
Una carta per la stabilità finanziaria internazionale?
Il lavoro intrapreso dal Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria (per il potenziamento dei
requisiti di capitale e dell´assetto di vigilanza), dall´International Accounting Standards Board e
dal Financial Accounting Standard Board (sul consolidamento delle entità fuori bilancio e sui
problemi della contabilizazione delle attività finanziarie a valori di mercato in tempi di crisi),
nonché dal Forum per la Stabilità Finanziaria e da altri enti nazionali e internazionali interviene per
correggere, più che cambiare, la configurazione esistente e in quanto tale è di natura molto
tecnica. Il G20 – un´entità preminentemente politica – assai difficilmente può entrare nello
specifico delle soluzioni proposte. Il suo avvallo è naturalmente importante per rendere più
spedita e agevole la traduzione dei cambiamenti e delle innovazioni elaborate nelle legislazioni
nazionali (o regionali, nel caso dell´Europa). Ma questo è pressoché tutto.
Mentre questo approccio ha i suoi meriti (soprattutto la rapidità), ci sono molte questioni più
importanti e più generali che non possono essere risolte soltanto in base a criteri tecnici o di mera
efficienza. Si tratta di questioni che richiedono scelte politiche che è impossibile delegare a istanze
tecniche, ma che devono essere prese a livello di G20. Si considerino tre esempi.
I partecipanti al summit del 15 novembre si sono impegnati a "garantire che tutti i mercati
finanziari, i prodotti e i soggetti siano regolati o soggetti a controllo". La grossa questione che si
nasconde dietro questo nebuloso obiettivo è quella di ripensare i criteri con cui fissare i confini
della regolazione prudenziale (l´enfasi sul leverage, per esempio, conduce all´inserimento di
broker-dealer, banche di investimento e gli hedge fund più grandi nel territorio regolamentato). La
traduzione operativa di questa aspirazione è tuttavia deludente: «Le istituzioni a ciò
deputate….dovrebbero intraprendere…un riesame delle finalità della regolazione finanziaria,con
particolare riferimento alle istituzioni, agli strumenti e ai mercati che attualmente sono privi di
regolamentazione». Ci si aspetterebbe che tocchi proprio al G20 raggiungere un consenso su
questa questione, senza dover attendere un documento semi-accademico sulle "finalità della
regolazione finanziaria".
Si consideri poi il trading proprietario e l´attività delle grandi banche più vicina a quella di uno
hedge fund, che hanno avuto un ruolo determinante nell´attuale crisi. La questione qui è capire se
nel caso delle banche di deposito siffatte attività debbano essere proibite o limitate, magari per
mezzo di speciali requisiti di capitale.
Un terzo esempio riguarda il trattamento di istituzioni che, malgrado operino nei principali centri
finanziari, sono legalmente domiciliate in località offshore, poco regolate, per sfruttare un
arbitraggio normativo. Più in generale, ci si potrebbe chiedere se e come sia possibile conciliare
l´esigenza di maggiori informazioni e trasparenza con l´esistenza stessa di giurisdizioni offshore.
Credo proprio che l´unanimità così facilmente e rapidamente raggiunta nella dichiarazione del 15
novembre sarebbe molto più difficile da conseguire discutendo le risposte da dare a simili problemi
e ad altri analoghi. Ma è precisamente questa difficoltà, che nasce dalla natura politica delle
questioni in gioco, a fornire un valore aggiunto a un´organizzazione come quella del G20, nella
quale un accordo politico può essere raggiunto.
In questa fase, quindi, l´obiettivo da perseguire a livello di G20 dovrebbe essere un consenso
condiviso su una sorta di costituzione finanziaria internazionale: un elenco di linee guida sulle
questioni più importanti, che, pur se basate su principi, siano operativamente significative e tali da
tradursi poi – in una fase successiva e diversa – in vere e proprie regole. Un recente rapporto del
Gruppo dei Trenta (un´organizzazione privata), redatto da Paul Volcker, Arminio Fraga Neto e
Tommaso Padoa-Schioppa, fornisce un buon esempio di questo metodo: quattro indicazioni
fondamentali, basate su alcuni principi generali, sono dettagliate in diciotto raccomandazioni più
precise. Naturalmente l´approvazione di linee guida non vincolanti può essere solo una premessa
alla definizione di una vera riforma normativa, coordinata fra giurisdizioni diverse. Si tratta
tuttavia di una premessa indispensabile, per dare una rotta e fissare un parametro di riferimento
in rapporto al quale valutare le politiche di regolamentazione. Un esempio interessante, anche se
limitato, lo si trova in ambito finanziario. L´organizzazione internazionale delle autorità di
vigilanza dei mercati (International Organization of Securities Commissions) adottò nel 1998 un
insieme di "Obiettivi e principi di regolamentazione finanziaria", oggi usati come piattaforma per
una valutazione della legislazione e della regolazione dei paesi membri.
E le istituzioni?
Un accordo su uno statuto internazionale dei principi e degli obiettivi prudenziali e di stabilità non
esaurirebbe certo i compiti del G20. E´ ormai opinione comune che esiste una profonda
contraddizione tra la natura intrinsecamente globale del sistema finanziario e la frammentazione
nazionale della regolazione. In buona sostanza ogni guardacaccia non può superare i confini della
sua tenuta, mentre i cacciatori di frodo possono liberamente spostarsi da una tenuta all´altra a
seconda delle convenienza (spesso allettati da un guardacaccia tollerante, desideroso di far
crescere il numero di visitatori). È vero, esiste una rete complessa di organizzazioni e commissioni
internazionali che si occupano di questioni relative alla regolamentazione. Tuttavia, come ha
osservato Howard Davies, il "sistema", se così possiamo definirlo, è un risultato casuale più che il
prodotto di un progetto intelligente" e si basa su accordi volontari.
I suoi punti deboli si sono dolorosamente palesati nell´attuale crisi: le differenze nei regimi di
regolamentazione tra le varie giurisdizioni hanno contribuito alle cause della crisi, mentre la
mancanza di coordinamento e le differenze nei meccanismi di risoluzione ne hanno aumentato i
costi. Eppure, mentre tutti ammettono che l´attuale situazione è assolutamente insoddisfacente,
non si sono prese iniziative concrete per migliorarla e il dibattito sulle possibili soluzioni non fa che
oscillare tra l´impossibile e l´irrilevante, senza che si prendano in considerazione posizioni
intermedie praticabili.
Impossibile è la ricorrente proposta di adottare un unico regolamento finanziario globale: codesta
impossibilità nasce non soltanto dalla riluttanza da parte degli stati nazione a rinunciare alla loro
giurisdizione in materia, ma ancor più dalla mancanza – a tutt´oggi – di un comune libro di regole
e, ancor prima, dalle profonde differenze esistenti tra i sistemi legali, che limiterebbero
necessariamente i poteri di un ipotetico regolatore mondiale. Sono invece irrilevanti le esortazioni
a migliorare il coordinamento e la cooperazione tra le autorità di regolazione senza al di fuori di
qualsiasi contesto istituzionale, come avviene nella dichiarazione del G20 (malgrado il
suggerimento di istituire collegi di supervisori per le istituzioni finanziarie transfrontaliere) e nel
rapporto del Gruppo dei Trenta.
Per andare oltre la fase primitiva del coordinamento-cooperazione su base volontaria occorrerebbe
qualche fondamento istituzionale, ma le gelosie nazionali e le controversie territoriali tra regolatori
sono un ostacolo di rilievo all´evoluzione istituzionale nell´ambito della regolamentazione, come
documentato tra l´altro dal testo "Nuove regole e mercati finanziari" di Fabrizio Saccomanni del
19 gennaio 2009. La ricerca di una soluzione intermedia realizzabile tra i due estremi costituiti da
un regolatore unico e un vuoto istituzionale è pertanto un problema politico complesso: ma è
altresì la ragione per la quale questo argomento meriterebbe una posizione di primo piano
nell´agenda del G20.
Due possibili soluzioni vengono in mente, ciascuna con un diverso peso istituzionale. La più
"leggera" è quella offerta dallo IOSCO di cui sopra: un documento condiviso di principi e obiettivi;
un modello per una rete di memorandum di intenti "concernenti la consultazione, la cooperazione
e lo scambio di informazioni"; un ruolo nell´esame e nella valutazione dell´osservanza dei principi
condivisi da parte dei membri. Con un segretariato molto snello, lo IOSCO fornisce una struttura
organizzativa e alcune regole che fungono da utile vincolo per la discrezionalità dei suoi membri.
L´alternativa più pesante è un´organizzazione in stile Organizzazione Mondiale del Commercio
(WTO): guardiano di un preciso insieme di regole basate su accordi vincolanti negoziati tra i
membri dell´organizzazione, con giurisdizione sulla risoluzione delle dispute riguardanti le
presunte violazioni degli accordi; un segretariato pesante alle dipendenze di un potente direttore
generale. In una graduale evoluzione, il primo modello potrebbe approdare al secondo, come è già
accaduto con la transizione dal GATT al WTO. Al fine di evitare ulteriori appendici in un´arena già
molto affollata, l´alquanto nebuloso e vago Forum per la Stabilità Finanziaria potrebbe,
prevedendo una partecipazione più ampia, essere facilmente ristrutturato e trasformato in
un´Organizzazione per la Stabilità Finanziaria.
Meno si sogna una nuova Bretton Woods, tanto meglio. Per il momento siamo lontanissimi da
quello standard. Tuttavia, se questa volta il meeting del G20 durasse più di un giorno solo sarebbe
già un segnale positivo: significherebbe che nel suo ordine del giorno sono finalmente entrate a
far parte questioni importanti e controverse.
Il testo è pubblicato anche sul sito www.voxeu.org
"Per le banche la leva non deve superare 15 volte il capitale"
Parla Micossi: «Per i gruppi troppo grandi per fallire i primi a perdere devono essere
manager e azionisti»
«Se ci fosse l´Europa la partita delle regole si giocherebbe tra Stati Uniti ed Europa, ma l´Europa
è una cacofonia di stati» dice Stefano Micossi, direttore generale dell´Associazione tra le società
per azioni e docente al Collegio Europeo di Bruges. «Quando si parla di mercati finanziari si parla
di Stati Uniti, di Europa e di un´area del Pacifico che mutua le sue regole dagli Stati Uniti. Quindi
l´Europa è uno dei pilastri del sistema, che però non riuscirà ad incidere se non troverà una
coesione al suo interno».
Cosa dovrebbe fare?
«Presentarsi come un sistema finanziario integrato, proporre l´euro come valuta di riserva,
dimostrarsi capace di stabilizzare le economie dei paesi satelliti: adesso stiamo ritirando i capitali
da quei paesi quando invece dovremmo sostenerne le valute e i sistemi bancari. L´Europa
dovrebbe anche emettere eurobond, sia per raccogliere risorse che per offrire opportunità di
investimento agli investitori internazionali. Soprattutto deve presentarsi unita, perché altrimenti
restiamo tanti staterelli con una scarsa capacità di influenzare il risultato».
Quali sono i punti chiave che la partita delle regole deve affrontare?
«Il cuore delle difficoltà nelle quali ci dibattiamo sta negli squilibri macroeconomici. E´ dal 1971,
dalla fine della parità aurea, che viviamo con un sistema monetario internazionale senza
un´ancora, nel quale non c´è freno alla creazione di liquidità internazionale. E non c´è freno
perché non c´è disciplina che valga per i grandi attori, prima di tutto per gli Stati Uniti, con il loro
gigantesco disavanzo, ma anche per i paesi che hanno invece grandi avanzi nelle bilance
commerciali».
Ma chi può disciplinare gli Stati Uniti o la Cina?
«Non è il caso di illudersi sulla possibilità di creare un regolatore sovranazionale, ma forse si può
costruire un coordinamento che eviti o limiti gli squilibri. Non esistono soluzioni miracolose,
bisogna partire da quel che abbiamo. Si deve fare del Fondo Monetario un soggetto capace di
sorvegliare le politiche economiche e monetarie dei vari paesi, compresi quelli grandi, imponendo
le correzioni necessarie per evitare l´accumulo di squilibri sempre crescenti».
Fino ad oggi non lo ha fatto, e con il suo assetto attuale è assai improbabile che possa farlo.
«Naturalmente, oltre ai denti per mordere nella sua attività di sorveglianza, il Fondo dovrebbe
avere le risorse per fungere da prestatore di ultima istanza nelle fasi di turbolenza finanziaria. Ma
prima di tutto, per poter solo cominciare a muoversi in quella dimensione, dovrebbe avere un
assetto proprietario e di governance che tenga conto dei nuovi equilibri del mondo, il che vuol dire
che non può essere più dominato da Stati Uniti ed Europa».
A livello microeconomico quali sono le aree principali che dovranno essere affrontate da una
nuova regolamentazione?
«Sono essenzialmente tre: la regolazione degli intermediari, la regolazione dei titoli e dei mercati
e il sistema degli incentivi per management e azionisti».
Partiamo dagli intermediari.
«L´impianto base della regolamentazione così come era stata immaginata non è in sé sbagliato.
E´ un sistema costruito per obiettivi: la trasparenza e l´integrità dei mercati affidati a un
regolatore; a un altro soggetto la regolamentazione prudenziale. Quest´ultima dovrebbe essere
riservata alle banche che sarebbero esposte sia alle regole sulla trasparenza che a quelle
prudenziali. Per gli altri soggetti invece, dagli hedge fund ai private equity, non c´è motivo di
applicare regolamentazioni prudenziali ma bisogna sottoporli ad efficaci regole di trasparenza».
Quali?
«La pubblicità dei bilanci e del grado di indebitamento, perché dove hanno messo i soldi e quanti
debiti hanno è il minimo che si possa chiedere».
Per le banche invece, quando parla di regole prudenziali intende requisiti di capitale?
«I requisiti di capitale sono il perno delle regolamentazioni prudenziali. L´esperienza di questi
mesi ci ha insegnato in proposito parecchie cose: la prima è che i requisiti di capitale ponderati
per la rischiosità degli attivi non funzionano, il requisito di capitale deve essere fissato in relazione
alle attività totali di ciascuna banca e deve essere stabilito in modo da consentire una leva che
non superi 12-15 volte il capitale; poi si dovrebbero prevedere requisiti aggiuntivi di capitale a
fronte di attività più rischiose come l´assunzione in proprio di posizioni in derivati. La seconda
cosa che abbiamo imparato è che è fondamentale che nessuno imbrogli, niente più partite o
passività implicite fuori bilancio, i requisiti di capitale si devono applicare in relazione a tutti,
assolutamente tutti i rischi della banca».
L´altro capitolo sono i titoli: derivati, titoli strutturati, credit default swaps, tutte cose che non
sono regolate e che vengono trattate fuori dai mercati regolamentati. Come si affronta questo
problema?
«L´obiettivo è di rendere tutti questi prodotti più standardizzati e trasparenti. Il modo per
raggiungerlo è creare un sistema di incentivi e disincentivi che sospinga le transazioni in questi
strumenti a passare attraverso delle piattaforme di clearing, cioè verso mercati organizzati. Non si
tratta di imporre, ma di penalizzare chi scambia questi prodotti fuori dai mercati organizzati, ad
esempio rendendo più severi i requisiti di capitale ai finanziatori. In questo modo si favorirebbe
una standardizzazione e semplificazione dei prodotti finanziari, divenuti oggi così complicati che
spesso oggi neanche i risk manager delle banche sono in grado di capire, e si riuscirebbe a non
perdere i benefici delle cartolarizzazioni e dei derivati».
Infine ci sono gli incentivi ai manager, che hanno sollevato nell´opinione pubblica mondiale uno
sdegno assai vicino al disgusto.
«Lì c´è un colossale problema di azzardo morale. In questi anni la situazione è stata la seguente:
se esce testa vincono gli azionisti e i manager, se esce croce paga lo stato, ovvero i contribuenti.
Un sistema folle che spingeva intermediari e investitori a prendere rischi eccessivi. Per correggere
questo sistema bisogna che gli incentivi riflettano in modo bilanciato i guadagni così come le
perdite possibili e qualche soluzione l´ha ben indicata proprio Lloyd Blankfein, il numero uno di
Goldman Sachs, che della materia se ne intende, in un suo intervento recente sul Financial Times:
nella retribuzione di gestori e broker il premio di risultato deve essere molto più in azioni che in
contanti e, soprattutto, deve essere vincolato fino alla conclusione delle operazioni e delle
strategie. Il secondo passaggio indispensabile è che per le istituzioni troppo grandi per essere
lasciate fallire, deve essere chiaro che in caso di perdite gli azionisti e i manager saranno i primi a
perdere tutto, e che anche gli obbligazionisti non possono sempre attendersi di essere pienamente
rimborsati. Questa deve diventare una regola ferrea e deve essere fatta rispettare».
Basta tutto ciò a farci dormire, in futuro, sogni tranquilli?
«Ci vuole un´altra cosa, ci vuole una sorveglianza macro-sistemica sui mercati finanziari. Non
basta tenere sotto controllo le banche una per una per una, ci vuole qualcuno che sorvegli
sull´equilibrio complessivo del sistema, e questo qualcuno secondo me non può essere che la
banca centrale, la quale deve vegliare sulla stabilità complessiva. In sintesi ci vuole un organo per
ogni macro-area che regoli e sorvegli sulla trasparenza dei prodotti e dei mercati, un organo che
abbia la responsabilità della sorveglianza prudenziale sulle banche e un terzo soggetto che
garantisca la sorveglianza sulla stabilità complessiva del sistema».
Ma oggi abbiamo una vigilanza paese per paese.
«Dobbiamo progressivamente andare oltre, anzittutto in Europa, senza immaginare salti
improvvisi. Dobbiamo costruire un processo che per cominciare affidi a un soggetto che abbia una
giurisdizione sovranazionale la sorveglianza prudenziale e sistemica sulle grandi banche con
operazioni significative su più mercati. Per l´Europa si tratterebbe di sottoporre ad una
sorveglianza europea una ventina di gruppi bancari. Le banche nazionali e locali possono restare
sotto il controllo nazionale, ma per quelle più grandi questo non basta più».
(m.p.)
la scheda
Il documento cui fa riferimento Luigi Spaventa nel suo articolo è il rapporto "Financial Reform-A
framework for Financial Stability" del gennaio 2009. L´ha redatto il gruppo di lavoro presieduto da
Paul Volcker e con Tommaso Padoa-Schioppa e Arminio Fraga Neto come vicepresidenti, istituito
dal Gruppo dei Trenta nel luglio 2008. Il rapporto è focalizzato soprattutto sui modi in cui il
sistema finanziario globale dovrebbe essere organizzato una volta che la crisi attuale sia passata,
dando quindi per assunte le misure straordinarie di cui si discute e il loro finale successo, per
arrivare ad un ragionevole e accettabile grado di stabilità ed evitare che si ripetano situazioni
come l´attuale. Il documento insiste sull´importanza di migliorare la governance, la gestione dei
rischi, le politiche regolatorie, le pratiche e gli standard contabili. Esorta a migliorare le
trasparenza, e a riformare la struttura delle "regole di prudenza", accentuando quindi il ruolo di
controllo delle banche centrali e omogeneizzandolo meglio con quello di "prestatori di ultima
istanza". Il tutto per creare una rete di sicurezza nell´ambito di un miglior coordinamento
istituzionale.
Imprese strangolate dai debiti Le banche studiano chi salvare
Istituite delle task force all´interno degli istituti di credito per trovare delle soluzioni
ADRIANO BONAFEDE
Nelle grandi banche italiane c´è di questi tempi un gran via vai di persone. Funzionari di diverso
grado e provenienza s´incontrano per gestire un´attività completamente nuova: come affrontare
la crisi in atto. Uno tsunami come questo - al tempo stesso economico e finanziario - non s´era
mai visto almeno da sessant´anni a questa parte. Nessuno sa come andrà a finire e quando finirà,
ma nel frattempo occorre vedere cosa fare con le imprese che cominciano a mostrare difficoltà sul
lato del credito. Così nascono all´interno degli istituti delle task force dedicate a questo problema.
E l´impressione, girando fra le banche, è che nel 2009 quest´attività porterà via molto tempo e
molte risorse. Non soltanto: queste task force vedranno via via accrescere il proprio potere e la
propria importanza. Perché nei prossimi mesi decideranno chi può essere salvato e chi invece
deve affondare. Una cosa, infatti, è certa: un aumento dei fallimenti delle imprese che non
potranno rispettare le scadenze sul debito è già messo nel conto ed è già inserito nelle previsioni
delle banche. «Il dilemma per gli istituti di credito - spiega Ignazio Rocco di Torrepadula, partner
di Boston Consulting Group per il settore bancario - è quello di salvare più imprese possibili senza
però mettere a rischio il denaro dei depositanti. Le banche non hanno alcun interesse a ‘ritirare´ il
credito, come si legge spesso, perché in questo caso l´azienda fallirebbe. La verità, dunque, è che
gli istituti giudicheranno caso per caso: cercheranno di salvare più imprese possibile ma
ovviamente non sempre ciò sarà fattibile».
Unicredit ha già formato la sua ‘commissione d´esame´ per le imprese in difficoltà. Si tratta di un
centinaio di persone, in prevalenza commerciali, ma con l´integrazione di esperti in
ristrutturazioni aziendali che fanno capo al credit risk officer Sergio Sorrentino. L´obiettivo è
quello di esaminare le situazioni di difficoltà aziendali cercando di essere propositivi nei confronti
delle imprese, a cui si daranno ‘consigli´ per parare il colpo della recessione e rimettersi in
carreggiata dove necessario. L´azione di salvataggio e ristrutturazione - assicurano a Unicredit sarà svolta in stretto contatto con il management delle imprese.
L´indicatore aziendale sotto osservazione è la capacità di rimborsare il credito. Sotto questo
aspetto, dopo il caso It Holding di Tonino Perna, sono molte le società quotate che presentano un
rapporto critico tra debito e Ebitda. Le prime a segnalare il peggioramento di questo rapporto, e
quindi la minore affidabilità delle emissioni obbligazionarie delle aziende, sono le società di rating.
La settimana scorsa, ad esempio, Moody´s ha fatto un downgrade del rating sul debito Safilo da
B1 a B2 e ha avvertito che il rating potrebbe essere ancora rivisto al ribasso. Sempre in Borsa, un
debito relativamente elevato in percentuale dell´Ebitda lo hanno fra gli altri anche Seat, Tiscali,
Pirelli Re e Camfin.
La via della ristrutturazione del debito, con un allungamento e una ridefinizione delle scadenze, è
la principale via d´uscita in questi casi. ma non sempre, come dimostra proprio il caso It Holding,
questa via è praticabile. Non ci sono poi soltanto le grandi imprese quotate, verso cui le banche si
dimostrano sempre particolarmente attente. Il tessuto produttivo italiano è fatto soprattutto di
distretti e di piccole e medie imprese. Ed è soprattutto in questo magma che è difficile fare
previsioni: «La verità - dice Gregorio De Felice, capo economista di Intesa Sanpaolo - è che
l´industria italiana, che adesso soffre per la recessione, sta anche vivendo un momento di grande
trasformazione. Ci sono imprese che sono andate molto bene nel 2006, 2007 e 2008 grazie a una
strategia vincente fatta di innovazione, internazionalizzazione e marchi di qualità. E ci sono invece
imprese che sono rimaste nel loro business tradizionale. E non stiamo parlando di settori diversi:
all´interno dello stesso comparto ci sono aziende forti e aziende deboli». È probabile che non tutte
saranno in grado di salvarsi, soprattutto se le difficoltà economiche si protrarranno.
Una profonda incertezza regna dunque sovrana. Per le banche si tratta di vedere quanto a lungo
le imprese potranno resistere, ed eventualmente ne salveranno alcune e ne lasceranno affondare
altre. Vista dalla parte delle imprese, la questione sembra diversa: «Certamente - dice Andrea
Moltrasio, vicepresidente di Confindustria per l´Europa - la difficoltà di accesso al credito da parte
delle imprese è documentata a tutti i livelli. Il rallentamento dell´economia a partire da ottobre ha
messo in crisi la domanda di credito perché i tassi di fatto sono saliti. Il credit crunch c´è, non c´è
dubbio».
Per il futuro Moltrasio non è pessimista: «I tassi dovrebbero diminuire e l´indebitamento delle
imprese potrebbe tornare sotto controllo. In questo scenario c´è soltanto un ‘ma´: se i ricavi delle
imprese continueranno a mantenersi troppo bassi (e a gennaio le vendite di tutti i settori sono
cadute tra il 20 e il 40 per cento) non si sa cosa accadrà. Per questo motivo sono importanti i
programmi di stimolo da parte dei governi. Il nostro si è dimostrato finora troppo prudente. È
comprensibile, visto l´alto livello di deficit e debito pubblico. Ma io dico che se qualcuno affoga
non aspetto che si salvi da solo o che qualcun altro lo salvi, mi butto subito magari rischiando la
mia stessa vita. Dopo, potrebbe essere troppo tardi».
La vera preoccupazione è per l´economia reale. Le banche, è vero, sperimenteranno quest´anno
un aumento delle sofferenze che impatterà pesantemente sugli utili, ma non avranno ripercussioni
gravi. «Rispetto alle crisi precedenti - dicono all´Abi - le banche sono messe meglio. Nel 2005, ad
esempio, il rapporto tra sofferenze e impieghi era al 5,7 per cento. Oggi siamo all´1,1. Un
aumento nel 2009 sarà fisiologico». Considerando solo il credito corporate, il Bcg stima che nel
2008 il rapporto tra sofferenze più crediti problematici e quelli totali sia stato al 5 per cento e che
salirà al 7 nel 2009, «con 14 miliardi di potenziali perdite - dice Ignazio Rocco - che entreranno
nel conto economico».
Gioco d´azzardo una lobby che va sul sicuro
DI ALBERTO STATERA
Furio Pasqualucci, procuratore generale della Corte dei Conti, dev´essere un uomo frustrato. La
settimana scorsa, tra le tante truffe perpetrate a danno alle pubbliche risorse ha segnalato quella
che dovrebbe far riavere all´erario dai gestori concessionari dei videogiochi un risarcimento fiscale
tra i 70 e 90 miliardi (diconsi miliardi) di euro. Quanti punti di pil? Quante manovre finanziarie?
Quante social card o milioni di ore di cassa integrazione per la gioia del ministro Tremonti? Ma il
dottor Pasqualucci sa che probabilmente questa montagna di denaro lo Stato non la rivedrà mai. E
sa anche il perché. Perché in questo paese le lobby sono più potenti dello Stato. E la lobby del
gioco d´azzardo è un kombinat d´acciaio praticamente inattaccabile.
La storia viene da lontano. Da quando nel 2004 le slot machine divennero legali nei bar e nei locali
pubblici d´Italia. Le società concessionarie dovevano versare una parte dell´incasso delle giocate
in tasse. Ma la metà delle macchinette non fu in realtà mai collegata telematicamente ai Monopoli
di Stato, si presume con qualche autorevole complicità burocratica nell´Agenzia del ministero
delle Finanze. Per cui la metà del business sfuggì al fisco, con una fregatura allo Stato biscazziere
valutata, per l´appunto, tra i 70 e 90 miliardi.
Adesso tutto giace, chissà per quanto, in Corte di Cassazione e le società concessionarie, pur
dovendo pagare uno stuolo di avvocati, brindano, data la cospicuità della posta in gioco congelata.
Brinda più di tutti gli altri concessionari la Atlantis World, multinazionale offshore basata ai
Caraibi, che copre circa il 30% del mercato, rappresentata legalmente in Italia da Amedeo
Laboccetta. Questo Laboccetta è un personaggio romanzesco che meriterebbe un serial televisivo
di quelli guardie e ladri. Deputato di An, appena indagato a Napoli per falso e turbativa d´asta
nell´inchiesta sul sistema Romeo della Global Service, finì in galera già nel 1993 coinvolto nella
vecchia Tangentopoli napoletana. E´ lui che qualche anno fa fece immortalare il leader di An
Gianfranco Fini, suo ospite a pesca nel mare di Saint Marteen, di fronte al Beach Palace, uno dei
casinò colà gestiti dalla Atlantis World del suo amico Francesco Corallo.
Figlio di Gaetano, detto Tanino, antico latitante catanese legato al boss di Cosa Nostra Nitto
Santapaola, Francesco è considerato il piccolo sovrano dell´isola caraibica: case da gioco,
alberghi, giornali. Le colpe dei padri per fortuna non ricadono sui figli e Francesco Corallo, a
quanto risulta, è incensurato. Ma la sua biografia ha qualche piccolo neo. Nel 1999 in Bolivia il suo
nome fu fatto in relazione alla scoperta di casinò clandestini e a un traffico di droga. Ma non fu
neanche mai processato. Anni prima, quando il padre Tanino fu protagonista dello scandalo di
Sanremo, il tentativo di mettere le mani sulla casa da gioco pagando tangenti a politici Dc e Psi
che costò anche la prigione all´ex sindaco di Imperia e oggi ministro delle Attività produttive
Claudio Scajola, lui aveva soltanto 22 anni. E a tutt´oggi non c´è alcuna conferma del rapporto
della Drug Enforcement Agency che lo voleva in «elevata posizione» nel clan mafioso Santapaola.
In elevata posizione qui in Italia è invece l´onorevole legale rappresentante di Atlantis World.
Amico personale della terza carica della repubblica e di alcuni altri dignitari di An, Laboccetta fa
parte della commissione Bilancio della Camera. Ma nel novembre scorso è stato nominato anche
membro della «Commissione parlamentare di inchiesta sulla mafia e le altre associazioni criminali
anche straniere».
Un «fenomeno», per l´appunto, l´onorevole Laboccetta. Se ne faccia una ragione il dottor
Pasqualucci, procuratore generale cui va la nostra solidarietà, alla disperata rincorsa dei suoi
miliardi evasi.
a.staterarepubblica.it
I guai di Biasi e le manovre su Unicredit
il personaggio/ Perché il presidente della Fondazione Cariverona si è tirato indietro
dalla ricapitalizzazione di Piazza Cordusio. Uno schiaffo a Profumo e a Tremonti
GIOVANNI PONS
Paolo Biasi, riverito numero uno della Fondazione CariVerona, ne ha combinata un´altra delle sue.
Con la decisione a sorpresa di sfilarsi all´ultimo minuto dalla sottoscrizione del bond legato
all´aumento di capitale Unicredit, si è attirato le ire di gran parte del mondo finanziario che ruota
intorno alla banca di Piazza Cordusio e anche del governo e delle istituzioni. Non male per un
ingegnere-industriale di Verona che in passato veniva definito il Cuccia del Nord Est, o "la sfinge",
per il suo acume associato a un´innata riservatezza e al culto mai nascosto per le Assicurazioni
Generali. Dal suo entourage la mossa viene tratteggiata alla stregua di una conferma del carattere
indipendente dell´uomo, mai prevedibile né scontato, ancora una volta messo di fronte a una
scelta difficile. Tuttavia le modalità con cui si è sfilato hanno lasciato a bocca aperta anche gli
osservatori più benevoli: l´impegno della Fondazione CariVerona a sottoscrivere 500 milioni di
bond era maturato a ottobre, al momento del delicato annuncio dell´aumento di capitale, e poi
era stato confermato nel prospetto informativo pubblicato il 31 dicembre 2008. L´inversione a ‘U´
è arrivata solo venerdì 5 febbraio, improvvisa, adducendo motivazioni tecniche insorte nel
frattempo, un aspetto che sarà oggetto di verifica con i legali delle parti.
Inoltre Biasi non si è accontentato di stupire i suoi colleghi azionisti, ha fatto di più. Ha aggiunto al
danno la beffa: ha acquistato sul mercato al prezzo di 1,3 euro circa l´1% di azioni Unicredit
salendo così al 6% e lasciando le Fondazioni di Torino e Modena a scannarsi sul bond che prevede
la conversione a 3,08 euro. Se tutti gli azionisti forti avessero ragionato in questo modo il bond
legato all´aumento sarebbe andato in fumo. In più, fino a giovedì 5, Biasi è rimasto coperto nelle
sue decisioni, aspettando che Torino e Modena versassero l´anticipo richiesto nelle casse di
Mediobanca e adducendo il suo ritardo al mancato arrivo dell´autorizzazione da parte del Tesoro.
Un atteggiamento che ha fatto infuriare anche il ministro Giulio Tremonti il quale, con un
comunicato di fuoco, ha stanato in pochi minuti il giochetto di Biasi.
Con il superministro dell´Economia la reciproca antipatia va avanti almeno dal 2003. Cioè da
quando Biasi, protagonista con la Fondazione CariVerona della scalata vincente alle Generali
condotta in primo luogo dall´Unicredit e supportata dal sistema bancario che ruotava intorno al
governatore Antonio Fazio, cercò per questa via di conquistare la vicepresidenza del Leone di
Trieste. I banchieri che lo conoscono riferiscono che per Biasi le Generali sono quasi
un´ossessione, di quelle che contagiano un po´ tutti gli esseri viventi a una certa età. Ma il blitz
gli fu negato proprio da Tremonti che a quel tempo cercava di spuntare le unghie ai vertici delle
Fondazioni, a suo parere più impegnati a conquistare potere nelle banche che a spargere opere di
bene nel territorio di riferimento. Si era nel 2003 e la trama dell´ingegnere veronese per arrivare
in cima alle Generali era partita almeno due anni prima, nella fatidica primavera 2001, quando da
esponente del comitato nomine di Mediobanca sostenne Vincenzo Maranghi e Francesco Cingano
nella clamorosa cacciata di Alfonso Desiata dalla presidenza del Leone per far posto
all´amministratore delegato Gianfranco Gutty, guarda caso l´uomo che oggi rappresenta
CariVerona nel cda di Unicredit.
Fu una mossa azzardata, che sollevò le ire della Banca d´Italia (che si astenne in assemblea, fatto
altrettanto clamoroso), e dei banchieri più vicini a Desiata come Giovanni Bazoli, che già allora
giudicava pericolosi i movimenti al vertice di uno dei principali azionisti della neonata Intesa-Bci.
In quel frangente la sfinge Biasi aprì le porte della CariVerona per presentare i risultati e per
godersi la temporanea vittoria in barba alle critiche. «Siamo già scesi in Unicredit sotto il livello
previsto - disse con tono fermo e mente lucida ai giornalisti accorsi per l´occasione - e non è
scritto da nessuna parte che le Fondazioni non possono avere partecipazioni in altre banche o
assicurazioni. Oggi abbiamo una liquidità di 350 miliardi (di lire) che abbiamo il dovere di
investire, non in aziende industriali, ma in banche e assicurazioni sì».
Era l´inizio del millennio e l´economia, pur sotto i colpi della bolla Internet che si stava
sgonfiando, continuava a crescere. Le aziende della famiglia Biasi, fondate dall´ingegner Leopoldo
nel 1938, attive nella produzione di caldaie e radiatori e poi estese anche alla realizzazione di
materiale rotabile ferroviario e di articoli in gomma, nonché con rilevanti interessi nel settore
agricolo e alimentare, fatturavano circa 500 miliardi di lire. Ora la congiuntura si è messa al
peggio e il gruppo Biasi ha dovuto affrontare un piano di ristrutturazione messo a punto dalla
società di consulenza Alix Partners a fronte del quale ha ottenuto da Unicredit una linea di credito
da circa 20 milioni di euro. La banca di Piazza Cordusio sostiene da diversi anni le aziende di Biasi
in una sorta di conflitto di interessi potenziale che per il momento non è mai venuto al pettine.
Fatto sta che nel 2007 il fatturato consolidato del gruppo Biasi è sceso a 156 milioni di euro con
una perdita di esercizio cresciuta a 14 milioni da 1,4 milioni del 2006.
La ristrutturazione del gruppo, riferiscono fonti ben informate, è stata fatta prestando particolare
attenzione al territorio. Nel senso che Biasi ha evitato di chiudere alcuni stabilimenti seppur in
perdita per non rovinarsi l´immagine di imprenditore che mantiene intatti i posti di lavoro. Una
scelta obbligata poiché l´obbiettivo è quello di conquistare la conferma ai vertici della CariVerona
nell´ottobre 2010, una nomina sulla quale inciderà non poco la politica locale e in particolare il
sindaco di Verona che è uno dei principali azionisti della Cassa. Il legame con il territorio e la
permanenza al vertice della Fondazione è quello che ha inciso anche nel recente strappo in
Unicredit. Non a caso il sindaco di Verona Tosi è stato uno dei pochi ad aver commentato
positivamente la non sottoscrizione del bond Unicredit, scelta che permette di dirottare quelle
risorse al territorio in una fase dell´economia particolarmente delicata.
Tuttavia, seppur con un occhio al territorio e alla propria poltrona, Biasi anche nell´ultima partita
ha cercato di far valere il suo potere di primo azionista di Unicredit in funzione del suo amore di
sempre, le Generali. In seguito a una speculazione di mercato che è andata nel verso sbagliato, la
fondazione scaligera si è trovata nel dicembre 2008 azionista al 5% di Mediobanca. Probabilmente
non l´unica speculazione andata male, dice qualcuno che conosce da vicino l´attività di trading
degli uomini di Biasi. Fatto sta che all´inizio del nuovo anno a Biasi viene in mente di promuovere
la fusione tra Unicredit e Mediobanca, un´unione che vedrebbe Verona svettare tra i primi
azionisti in virtù della presenza pesante in entrambi gli istituti e un trampolino di lancio personale
verso le sfere più alte di Trieste alla prossima occasione. Inoltre l´operazione avrebbe permesso a
Biasi di non sborsare un euro per la ricapitalizzazione di piazza Cordusio in quanto il gruppo che
ne sarebbe nato avrebbe goduto della solidità necessaria.
L´idea del matrimonio è stata accarezzata da qualcuno in piazzetta Cuccia ma non ha avuto
alcuna presa né su Profumo né sugli altri azionisti forti dei due agglomerati, a partire dal plotone
dei soci francesi guidati da Vincent Bollorè. E così Biasi è tornato alla carica puntando almeno a
sostituire il presidente di Unicredit avendo individuato in Guido Rossi l´uomo giusto per restituire
lo smalto perduto alla banca di Profumo. Ma la nomina di Rossi sarebbe stata letta dal mercato
come una sorta di commissariamento dell´amministratore delegato e lo stesso giurista,
saggiamente, ha ritenuto opportuno declinare la proposta anche se il suo nome aveva già trovato
il consenso dello stesso Profumo e di altri soci forti della banca.
È a questo punto, senza la fusione e senza un presidente di propria nomina, con 500 milioni da
versare pronta cassa, che è maturato lo strappo di Biasi. Che oltre ad aver irritato Tremonti e il
governatore della Banca d´Italia Mario Draghi, ha avuto l´effetto di inimicarsi anche il governo e i
soci libici entrati in autunno con il 5% del capitale. Di fronte alla possibilità che il lunedì 9 febbraio
il titolo Unicredit subisse un ulteriore tracollo in Borsa per la non trascurabile defezione del primo
azionista di fronte a un fondamentale aumento di capitale, il governo italiano ha chiesto ai libici di
intervenire. E gli uomini di Gheddafi si sono in un certo modo trovati costretti a versare altri 250
milioni di euro per il bond dopo averne garantiti già 440 milioni nella prima fase di sottoscrizione.
Dopo i tanti strappi ora Biasi è passato alla fase della ricucitura. Il suo emissario Gutty nell´ultimo
cda ha votato a favore della riconferma di Dieter Rampl e di Profumo al vertice dell´istituto e fa
sapere che non ha alcuna intenzione di presentare una lista di minoranza all´assemblea di aprile.
Ma questa rischia di essere una mossa inevitabile se la lista di maggioranza, compilata a questo
punto dalle Fondazioni di Torino e Modena e dai libici non terranno in dovuto conto le aspettative
di governance degli azionisti di Verona. Proprio quell´assemblea potrebbe essere la sede per
sancire la vittoria di Fabrizio Palenzona, storico antagonista di Biasi nel mondo delle fondazioni e
soprattutto nel controllo di Unicredit, quale azionista pivot all´interno del primo gruppo bancario
del paese. Sempre che la strategia di Profumo nella gestione della banca si riveli adeguata ai
tempi di crisi nei mesi a venire.
L´artefice dell´unità del credito veneto
la biografia
Settant´anni, cattolico, Paolo Biasi non nasce banchiere, ma imprenditore. Proviene, infatti, da
una famiglia di industriali che si occupa da tre generazioni di termomeccanica ed elettronica ma
ha anche partecipazioni nel settore immobiliare ed editoriale. Riservato, radicato nel mondo
cattolico veronese, ha sempre smentito la sua appartenenza all´Opus Dei.
Il suo cursus honorum ha avuto inizio con la vicepresidenza della Banca Cattolica del Veneto a
metà degli anni ´80.
Poi divenne vicepresidente del Mediocredito delle Venezie fino a che, nel 1992, fu chiamato a
dirigere la Fondazione Cassa di Verona di cui è attualmente presidente.
Paolo Biasi si è affermato nell´ambiente bancario per aver unito le Casse venete e poi per averle
spinte al matrimonio con la Cassa di Risparmio di Torino.
Quindi ha guidato il polo verso le nozze con il Credito Italiano diventando il socio più forte
all´interno di Unicredito (la Fondazione della Cassa di Verona possiede infatti il 6,08 per cento di
Unicredito).
www.lastampa.it
Nazionalizzare le banche per socializzare le perdite?
L'unica certezza è che non sta funzionando. Obama firma il più grande pacchetto di stimolo
all'economia della storia (è accaduto ieri) e i mercati crollano. Sì, magari è colpa dell'Europa
dell'Est e del report di Moody's sulle banche esposte in quei mercati, magari è anche un po' colpa
del President's Day che ha semplicemente posticipato le perdite di Wall Street. Però è da ricordare
che quando Tim Geithner (segretario Usa del Tesoro) ha annunciato il piano per salvare le banche
le borse hanno reagito alla stessa maniera: un bagno di sangue dei titoli azionari. Sarà stata
l'incertezza sul tema fondamentale della bad bank, la chiamata improbabile di privati nell'"affare"
degli asset tossici, ma di certo è andata male.
Ora gli stati, sempre più confusi di fronte a una situazione che sembra ingovernabile (e anche un
po' ingovernata) decidono di tirare fuori la carta comunista: nazionalizziamo le banche. Lo ha
appena detto persino Alan Greenspan (che forse farebbe meglio a tacere) lo ha detto anche
Angela Merkel: che ha varato ieri una nuova legge che permetterà al Governo di inglobare Hypo
Real Estate. La strada è già, d'altra parte, ampiamente battuta da Gordon Brown e anche da un
paese sull'orlo del fallimento (dopo anni di crescita brillante) come l'Irlanda. Ieri l'Unione europea
ha, infatti, approvato la nazionalizzazione della Anglo Irish Bank: una banca che aveva già
ricevuto un finanziamento d'emergenza da 1,5 miliardi di euro da parte del Governo di Dublino.
Attenzione, però, perché oggi ancor più di ieri tutti dicono che bisogna agire assieme e fanno poi
l'esatto opposto. Oggi la Commissione Ue ha avviato procedure per deficit eccessivo contro la
Francia e la Spagna (e contro altri paesi fra cui anche l'Irlanda e la vicina Grecia), ma di fatto non
ha scosso più di tanto i mercati. Basta pensare, in merito alla compattezza e alle regole Ue che
ancora non si è neanche capito se, nel caso in cui fallisca un paese dell'Eurozona, gli altri lo
debbano salvare o meno... L'Unione europea insomma non è mai apparsa fragile come oggi.
Ognuno vara manovre protezionistiche e di tutela delle proprie posizioni: Francia, Gran Bretagna,
Germania, Stati Uniti (forse sì, forse no) giocano da soli dicendo di essere una squadra e intanto il
conto della crisi ha già percorso gli oceani e tocca il Brasile, la Cina, la Russia, l'India (ricordate i
Bric?) e i paesi dell'Est fino a tornare qui. La bad bank non si capisce neanche più se si farà mai,
anche perché forse non esiste nessuno in grado di sostenerla. Le banche non possono fallire
perché si rischia un fantomatico rischio sistemico (ma perché adesso le cose vanno bene?).
Rimangono le aziende e le famiglie. Sì forse alla fine, la soluzione inconfessata dei padroni del
mondo è questa: sono le famiglie che devono fallire ed, eventualmente le aziende.
Le società hanno ricevuto in effetti qualche aiutino (negli Stati Uniti all'economia reale tutta intera
sono stati dedicati circa 787 miliardi di dollari contro i circa 2.000 previsti per le banche. Negli
States GM e Chrysler chiedono 21,6 miliardi di dollari in più per non fallire: finora hanno già avuto
17,4 miliardi di dollari e quindi si capisce che la situazione appare davvero difficile. Il loro
fallimento potrebbe però costare a Washington fino a 124 miliardi di dollari in spese sociali e affini
per cui anche una spesa di 21,6 miliardi potrebbe essere un affare. In Europa Daimler ieri ha
dichiarato 1,5 miliardi di euro di perdite e tutti sanno che il mercato dell'auto del Vecchio
Continente è in pesante affanno. Oltretutto il comparto auto è solo un emblema dell'economia
reale globale che perde un po' dappertutto senza sosta.
Sempre in Europa la situazione non appare migliore degli Stati Uniti: gli interventi in favore delle
banche sono spesso doppi o tripli di quelli in favore delle imprese o delle famiglie. Il paradosso è
che nonostante questi aiuti le banche continuano a stringere i cordoni con le aziende e le famiglie.
Il paradosso è che le banche sono responsabili di questa crisi e alla fine stanno facendo pagare
(con coerenza suicida) all'economia reale il conto dei propri errori.
Una terrificante stima degli asset potenzialmente tossici delle banche europee li valuta in circa 18
mila miliardi di euro (è una stima che sarebbe circolata in un documento della Commissione Ue
non pubblicato ma discusso dai ministri dell'Economia e citato da Milano Finanza qualche giorno
fa). Probabilmente nel mondo questi asset sono più che doppi. A dirla tutta è un conto troppo
salato per chiunque. Ora nazionalizzando le banche socializzeremo le perdite. Forse (ma è un
forse importante) è necessario. Si potrebbe almeno farla fallire qualcuna di queste banche visto
che sono loro che hanno creato questo disastro? (GD)
www.opinione.it
CONTRO LA CRISI PECHINO PENSA A UNA SVALUTAZIONE
La Cina muove sullo Yuan
La Cina corre ai ripari contro la crisi e pensa di agire sui cambi per risollevare il principale motore
dell’economia nazionale: l’export. Un alto responsabile governativo, Zhang Xiaoqiang, vicepresidente della Commissione nazionale per lo sviluppo e le riforme, non ha infatti escluso un
indebolimento del yuan rispetto al dollaro nel contesto attuale di crisi economica. “Il renminbi
(valuta del popolo, altro nome del yuan) ha raggiunto un livello giusto e sostenibile. E non c’è
alcuna pressione perché si rafforzi”. Tuttavia, ha sottolineato, “quest’anno la nostra economia si
indebolirà e la disoccupazione aumenterà. Il renminbi potrebbe quindi correggere fina a
raggiungere 6,95-7 contro il dollaro”. Si tratterebbe, in sostanza, di una svalutazione attorno al
2,5% rispetto ai valori attualmente registrati dalla valuta cinese (in area 6,83). La svolta di
Pechino, che arriverebbe dopo che in gennaio le esportazioni cinesi hanno accusato il terzo
pesante ribasso mensile consecutivo (-17,5% tendenziale), tradisce l’emergenza economica
vissuta dal Paese. Appena nel luglio 2005, sotto la pressione dei partner commerciali che
giudicavano le esportazioni cinesi troppo favorite dalla sottovalutazione del yuan, le autorità cinesi
avevano proceduto a rivalutare la loro valuta (del 2,1% rispetto al dollaro) e a sganciarla dal
cambio fisso (8,11 yuan per un biglietto verde). Da allora la divisa cinese si è apprezzata
gradualmente, senza scossoni, guidata dal sempre rigido controllo delle autorità di Pechino.
Tuttavia, di fronte alla crisi che ha fatto crollare l’export, gli imprenditori locali e qualche
economista ufficiale hanno chiedono una svalutazione della divisa cinese. Un’operazione, questa,
che non sarebbe ben digerita dai partner commerciali, soprattutto dalla nuova Amministrazione
Usa.
Sebastiano Dolci