13-28 aprile- Disincanto e mitologia progr

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13-28 aprile- Disincanto e mitologia progr
Domenica 28 Aprile 2013 – Elena, Maria, Giulia, Sergio, Gianpaolo, Roberto
Disincanto del mondo, demitizzazione, secolarizzazione o
“mitologia programmata”?
E’ la nostra una società post-religiosa oppure si basa anch’essa su un
sostrato religioso, magari nella forma di una nuova religione?
I
La tesi che la secolarizzazione sia il contrassegno della società occidentale nel nostro tempo, sia
insomma lo specifico della modernità, ha conosciuto indubbiamente un notevole successo,
esercitando una vera e propria egemonia culturale, non senza però un qualche contrasto. Nota è la
contrapposizione fra la tesi di Karl Löwith (Significato e fine della storia- 1949) - per la quale la
modernità non è altro che l’escatologia cristiana secolarizzata, e quella di Hans Blumemberg (La
legittimità dell’età moderna 1966) che vede la modernità affermarsi contro il cristianesimo. Su
queste tematiche il dibattito è proseguito anche negli anni successivi. In proposito appare
interessante la discussione sviluppatsi in Francia a cavallo fra gli anni ’80 e ’90 del ‘900.
La concezione che con lo sviluppo delle tecniche e delle procedure democratiche ci si stia
movendo verso una società estranea alla religione, post-religiosa potremmo dire, è sostenuta da
Marcel Gauchet (Vedere Le désenchantement du monde – Une Histoire politique de la religion –
1985 – - Il disincanto del mondo – Una storia politica della religione e l’articolo dello stesso
Dalla teocrazia alla democrazia in Micromega 2/1992).
Scrive, infatti, Gauchet che “L’avvento di un potere democratico nell’Occidente moderno non può
essere compreso altro che nell’ambito di un processo di uscita dalla religione”. Perfino una
società che “al limite…non comprendesse che dei credenti” sarebbe comunque “una società al di
là del religioso”. E ciò perché si è dissolta la concezione di un mondo strettamente fondato sul
proprio passato, sulle proprie origini tramandate dal pensiero mitico elaborato in forme simboliche.
Nelle società religiose, infatti, il potere ha un fondamento meta-sociale e quindi esterno alla
collettività e fuori portata per gli esseri umani chiamati solo ad obbedire alle imposizioni ricevute
dall’alto, la cui memoria viene perennemente rinnovata dal racconto mitico. Si tratta quindi di
un’alienazione di potenza al di fuori della società, nelle divinità di cui parlano le religioni ed i miti,
che viene rappresentata simbolicamente come base dell’ordine sociale allo scopo di legittimare
l’esercizio di potere dei dominanti sui dominati, in modo che quest’ultimi accettino la loro
condizione di inferiorità. “Il religioso è originariamente un modo di istituzione della società, un
tipo di legame fra gli esseri umani attraverso l’ineguaglianza, ineguaglianza di essenza sacrale,
legame attraverso una gerarchia che ripercuote ovunque nel mondo terreno la superiorità ultima
dell’al di là. Gerarchia la cui chiave di volta è costituita dal potere sacro.” “Religione, per
condensare il concetto in una parola, è eteronomia, e il sacro è la figura in cui l’eteronomia si
materializza, si incarna in maniera sensibile”.
Nelle società moderne, al contrario, con la formazione dello Stato, il fondamento del potere è
trasportato dall’al di là all’al di qua, e immesso all’interno della formazione sociale stessa, senza
riferimento ad alcuna dipendenza da una realtà esterna superiore. Questo non vuol dire che anche
nel mondo moderno non sia presente la frattura fra dominanti e dominati. Solo che ora essa deve
essere giustificata con argomenti logici, razionali, senza alcun richiamo a simboli mitici, giacché il
mondo è stato disincantato, cioè depurato delle incrostazioni mitico-sacrali che bloccavano
qualsiasi apertura al cambiamento. Così “Questa radicale trasformazione fa passare la
legittimazione del legame collettivo dall’extra-sociale a l’intra-sociale, dal passato fondatore
all’avvenire indeterminato, dalla ragione teologica all’ideologia“. Per questo, uscendo dalla
teocrazia, le società moderne si sono sviluppate gradatamente con l’attivazione di una forte pratica
di critica sociale e politica, orientandosi così verso la democrazia, cioè verso la legittimazione
popolare dell’esercizio del potere. Certo non è scomparso il pericolo che “risiede nell’insidioso
operare di un ultimo residuo di forme sacrali all’interno delle democrazie”. Comunque, per
concludere, il dato rilevante di connotazione della società moderna consiste nella fine della
religione nel ruolo di strutturare lo spazio sociale. Si può dire, allora, che “La società moderna non
è una società senza religione, è una società che si è costituita nelle sue articolazioni principali con
la metabolizzazione della funzione religiosa”. Comunque “Mondo terreno e aldilà cessano di
costituire insieme uno stesso essere…. Questo mondo e l’altro mondo cessano, se si vuole, di
formare in ultima istanza un solo mondo… Questo mondo costituisce in se stesso una realtà. E’
chiuso in se stesso. Dio è del tutto altrove ”.
Anche i monoteismi mantengono questa esteriorità del fondamento collettivo della società, però
non la collocano più fuori dal tempo, nel mito delle origini e della sacralità della natura, ma in un
Dio interamente separato dal mondo. Si instaura così una separazione nuova fra naturale e
soprannaturale, fra il mondo umano e quello di Dio, aprendo quindi la possibilità di un rapporto
nuovo fra l’essere umano e la natura, disincantata, demitizzata, desacralizzata. Con la ritirata di
Dio il mondo da realtà donata, come era, diviene una realtà da costruire, e quindi si apre all’essere
umano sia sul piano della conoscenza che su quello dell’azione pratica. Comunque anche con i
monoteismi il mondo rimane magico, per cui “la sfera visibile continua ad essere abitata da
potenze invisibili” ed “affollata di sacralità”. In conclusione, di per sé stesso, il monoteismo non è
sufficiente a produrre il disincanto del mondo. E’ il cristianesimo con l’Incarnazione che apre
questa prospettiva. “Se Dio si fa uomo per rivolgersi agli uomini,…invece di parlare loro
direttamente per bocca di un profeta, vuol dire per un verso che egli appartiene radicalmente ad
un luogo distinto dalla sfera degli uomini, e per l’altro, che questa sfera è dotata di una
consistenza che la chiude relativamente su se stessa. Una consistenza tale che colui che vi penetra,
anche se si tratta di Dio, deve adottarne le regole”.
Certamente la Chiesa ha usato l’Incarnazione per riunire gerarchicamente l’al di qua con l’al di là,
proponendosi come mediatrice assoluta. Ma questa mediazione fra il sacro ed il profano, fra il
cielo e la terra, si presenta altamente problematica in rapporto al fatto che la mediazione storica
realizzatasi una volta per tutte è quella di Cristo. In conseguenza di ciò “Non è l’Incarnazione che
genera il moto del secolo, è il moto del secolo che risveglierà il fondamentale contenuto
dell’Incarnazione consentendole di agire”, nel senso di riconoscere validità all’autonomia degli
esseri umani.
Gauchet non ignora il ritorno del religioso, ma lo vede come effetto del crollo delle grandi
speranze racchiuse nel sogno di un futuro radioso, di una società migliore di quella presente. Di
conseguenza “Nel fondo del cosiddetto ritorno del religioso vi è soprattutto la riappropriazione
identitaria del passato in sostituzione di un futuro che sfugge ”
La tesi contrapposta alla precedente è sostenuta da due politologi – M.D.Pierrot e G.Rist ed un
antropologo – F.Sabelli – nello scritto La Mythologie programmée- L’économie des croyances
dans la société noderne (La mitologia programmata – L’economia delle credenze nella società
moderna.
Gli autori riprendono la concezione di un sociologo francese Durkheim esposta in un’opera rimasta
famosa – Le forme elementari della vita religiosa – pubblicata nel 1912. Vi si sostiene che la
religione può esistere al di fuori di ogni istituzione specializzata, al di fuori di ogni riconoscimento
formale di una divinità o di una pluralità di dei. La religione esprime la società, nel senso di
assicurarne la coerenza e la stabilità, in quanto diffonde fra i suoi membri i medesimi valori di
fondo, i medesimi pregiudizi e la medesima tradizione, portandoli a condividere comportamenti
che rendono possibile la loro convivenza, in modo da permettere la coesione sociale. Si tratta,
quindi, di un insieme di credenze comuni ad una determinata collettività. Di conseguenza, ogni
società è governata da credenze largamente condivise, che sarebbe pericoloso rimettere in
questione, ed è in questo senso che si può considerare religiosa. Pertanto, non esistono religioni
senza società, ma neppure società senza religioni. Anche una società di atei, che senz’altro non
crede in Dio, ma non per questo sarebbe senza religione e credenze. In sostanza, il fenomeno
religioso non consiste in verità accettate a titolo individuale, ma in una rappresentazione collettiva
che si impone a tutti come se essa provenisse dall’esterno e che serve a sigillare l’unità del gruppo.
Ciò che determina le pratiche sociali non è allora il contenuto di ciò che si crede, bensì il fatto
stesso di credere.
Anche la nostra società non sfugge a questa regola. Vi sussistono infatti credenze sociali,
nonostante l’incredulità individuale, tanto che si possono inquadrare come forme religiose anche la
laicità e la secolarizzazione. Pertanto il disincanto del mondo e la demitizzazione non sono che
apparenti, in quanto ciò che non è riconosciuto come religioso è nondimeno vissuto come tale.
Basti pensare ai fondamenti della modernità: l’individualismo, la razionalità calcolatrice ed
utilitaristica, la produzione e la crescita economica, il dominio sulla natura e via dicendo.
A questo punto gli autori presentano una serie di credenze, non riconosciute ufficialmente come
tali, e di pratiche connesse, definite come insieme “mitologia programmata”. “La mitologia
programmata è un sistema di credenze socialmente condivise, collettivamente costruite
dall’immaginario sociale, utilizzando i materiali forniti dalla storia (navetta spaziale, programma
televisivo, evento politico, diritti dell’uomo ,una pubblicità, una scoperta scientifica, ecc.) che
permette di rendere socialmente accettabili le pratiche moderne e di presentarle in funzione di un
avvenire posto come legittimo e necessario”. Essa agisce sul piano esistenziale, nel senso di
restituire all’individuo una parte del senso di cui è stato privato dalla demitizzazione e dalla
desacralizzazione compiuta dagli intellettuali a partire dall’Illuminismo. I suoi principali gestori
sono lo Stato ed il capitale.
A questo punto gli autori prendono ad analizzare una serie di queste credenze e delle pratiche che
vi sono connesse.
Una consiste nel passaggio dalla ragione alla razionalità basata su una logica utilitaristica come
rapporto fra mezzi e fini in senso economico. Il suo centro è l’impresa che, oltre a produrre merci,
crea una credenza mitologica, presentando il sistema economico come espressione di una verità
sulla natura umana, e quindi ponendosi come fabbrica della cultura quotidiana e laboratorio di
sperimentazione culturale. Anche la “carta di credito” funziona come forza identitaria, che apre al
mondo della ricchezza senza denaro e senza limitazioni di spesa. Entrando in questo mondo di
opulenza generalizzata “voi non sarete mai soli” recita una pubblicità dell’American Express. A
sua volta la “bioetica” è giudicata come uno strumento di sacralizzazione crescente delle
biotecnologie, nel senso di avallare il programma di dominio sul vivente, in un contesto dove dalla
scienza si tende a passare alla tecnoscienza. Anche molte cerimonie moderne, legate a feste laiche,
recuperano strutture mitologiche antiche in modo da rendere credibili nuovi valori e indiscutibile la
riorganizzazione delle pratiche. Le stesse “Esposizioni internazionali” esaltano la potenza
economica del mondo industriale, diventando fucina di desideri collettivi, laboratori della società
di consumo. Le “Dichiarazione dei diritti”, hanno anch’esse un carattere religioso, compresa quella
del 1948. Essendo sistematicamente violata essa vale come principio morale o semplice
raccomandazione, col carattere di promessa, di utopia, di mito, caso mai come programma da
realizzare.
Anche “l’amore per l’umanità” ha il carattere del mito religioso. Con la crisi della socialità a
gestione statale ha preso spazio e riconoscimento la carità individuale. Campione di ciò è la figura
di Madre Teresa di Calcutta, scoperta e costruita programmaticamente come mito allo scopo di
rendere accettabile il ripristino di pratiche sociali risalenti ad un lontano passato, di soffocare ogni
critica sull’efficacia di questa forma di carità e, soprattutto, di non rimettere in discussione i
meccanismi che generano la povertà. Sul piano strettamente ecclesiastico, essa rappresenta una
teologia preconciliare, strettamente legata al principio gerarchico ed alle posizioni vaticane in
materia di sessualità e dei mezzi anticoncezionali artificiali. Infine l’ultimo mito preso in
considerazione è quello della solidarietà Nord-Sud. Essa è presentata come una sorte di religione di
salvezza per i popoli del terzo mondo sottomessi a forze malefiche (la povertà, il basso sviluppo
economico), la crescita delle differenze in termini di Pil con i paesi ricchi, la mentalità irrazionale,
l’analfabetismo ecc. In base alla “credenza” nello sviluppo economico di tipo occidentale,
presentato come irreversibile ed ineluttabile, lo scopo è quello di immetterli in quel processo
economico, incentrato sulla concorrenza che assicurerebbe il loro progresso. In sostanza, il mito
dell’universalismo e dell’umanitarismo dissimulano, magari anche in maniera non consapevole, il
progetto di diffondere le forme economiche tipiche dell’Occidente capitalista e quindi i suoi
interessi. Se ciò fosse dichiarato apertamente non sarebbe accettabile, ma lo diviene perché la sua
legittimità è basata su una credenza condivisa.
Per concludere, gli autori ribadiscono che, nonostante le apparenze, la nostra società “moderna o
“post-moderna” è una società che ha tradizione come tutte le altre, e le figure della “mitologia
programmata” sopra illustrate mostrano i nostri riti, le nostre cerimonie, i nostri feticci, i nostri
personaggi sacri che, oggi come una volta, suscitano adesione, rinforzano il consenso, esercitano la
loro obbligatorietà, sono performativi, benché talvolta incontrino resistenze. Il paradosso è che una
società che pretende distaccarsi da ogni religione, deve ricorrervi incessantemente per imporre la
legittimità del suo programma.
II
Nel presente panorama filosofico italiano e non solo, sta occupando un rilievo notevole la
discussione sul rapporto fra la religione cristiana ed il capitalismo. Il tema era già stato al centro
della riflessione di Max Weber , secondo il quale il calvinismo aveva fornito il contributo decisivo
allo sviluppo dello spirito capitalistico dei paesi anglosassoni e dell’Olanda (Vedere L’etica
protestante e lo spirito del capitalismo- 1904/5). Altri storici e sociologi si sono poi confrontati col
problema, ridimensionando però la radicalità della tesi weberiana.
Il problema ha ritrovato attualità di fronte alle condizioni sociali e culturali nelle quali si trova oggi
la nostra società, che vedono trionfare un vero e proprio totalitarismo economicistico, con
l’economia (mercati finanziari, investitori ecc.) che sottrae ai singoli ed alle comunità il controllo
del proprio destino. In altre parole, al posto di un Dio trascendente come regolatore dall’alto della
vita individuale e collettiva, troviamo la pervasività totalizzante del mercato capitalistico, innalzato
a condizione naturale ed a-storica, quindi necessaria ed immutabile, di fronte al quale si dichiara
impossibile qualsiasi prospettiva di cambiamento e di governo democratico. Di nuovo quindi un
potere trascendente, incontrollato ed incontrollabile
Non desta perciò meraviglia se un frammento giovanile di Walter Benjamin, scritto nel 1921, torna
oggi al centro di una riflessione che trova nel pensiero di alcuni filosofi italiani un interessante
sviluppo. Fra gli altri, due nomi spiccano per importanza: quello di Giorgio Agamben (Vedere il
libro Il Regno e la Gloria- Per una genealogia teologica dell’economia e del governo – Boringhieri
2009) e Elettra Stimilli (Vedere il libro Il debito del vivente – Ascesi e capitalismo – ed. Quodlibet
2011).
Benjamin assegna a questo suo scritto il significativo titolo di Capitalismo come religione e scrive:
“Nel capitalismo si deve vedere una religione, vale a dire che il capitalismo serve essenzialmente
all’appagamento di quelle stesse preoccupazioni, di quelle pene ed inquietudini a cui un tempo
davano risposta le cosiddette religioni…Il capitalismo è una pura religione cultuale, forse la più
estrema che sia mai esistita. In essa tutto ha significato solo in immediata relazione al culto, non
conosce una specifica dogmatica, una teologia…A questa concrezione del culto è connesso un
secondo tratto del capitalismo: la durata permanente del culto…”
Dopo avere indicato altre caratteristiche della religione capitalistica e avere annotato che “Il tipo di
pensiero religioso capitalistico si trova magnificamente espresso nella filosofia di Nietsche”,
Benjamin conclude: “Il capitalismo – come va dimostrato, non solo rispetto al calvinismo, ma
anche riguardo alle altre tendenze cristiane ortodosse – in Occidente si è sviluppato
parassitariamente sul cristianesimo, in modo tale che alla fine nell’essenziale la sua storia è quella
del suo parassita, il capitalismo”.
Questo parallelismo fra cristianesimo e capitalismo costituisce una rilevante novità anche rispetto a
Marx. Sebbene quest’ultimo abbia stabilito connessioni fra cristianesimo e modo di produzione
capitalistico, tuttavia la religione rimane ancora per lui quella tradizionale: “La religione è il gemito
dell’oppresso, il sentimento di un mondo senza cuore, e insieme lo spirito di una condizione priva
di spiritualità. Essa è l’oppio del popolo” (Introduzione alla Critica della filosofia del diritto di
Hegel). In sostanza la religione trova la sua ragion d’essere proprio nell’oppressione, nella
mancanza di umanità e di spiritualità che contrassegna il capitalismo. Non sembra quindi presente
in Marx l’idea che questo capitalismo disumano possa svolgere la stessa funzione sociale della
religione
A commento dello scritto di Benjamin, Stimilli scrive: “La tesi di Benjamin, secondo cui il
capitalismo è la religione del nostro tempo, appare...in qualche modo realizzata. Pensare al
capitalismo come all’ultima forma di religione può forse aiutare a comprendere anche il
dirompente ritorno del religioso, a cui si è assistito negli ultimi anni. Nuove istanze religiose sono
emerse all’interno del mondo cosiddetto ‘moderno’, coinvolgendo direttamente gli assetti politici
internazionali e attirando prepotentemente l’attenzione dell’opinione pubblica. Ma una risposta
convincente al problema del rinnovato dominio dell’ambito religioso sul piano pubblico della
politica non è stata ancora veramente data. Che tale ritorno sia connesso al perpetuarsi di una
guerra, che invece di essere originata da un conflitto di civiltà, sia, in realtà, piuttosto alimentata
da un vero e proprio scontro economico planetario, sembra solo una conferma della profetica
intuizione di Benjamin. Una prospettiva che voglia confrontarsi in maniera radicale con tale
questione, non può lasciare nell’ombra quanto il paradigma della secolarizzazione, di fatto, si sia
rivelato sempre più inadeguato per una lettura del presente e come sia apparso del tutto riduttivo
nei confronti di un fenomeno prepotentemente emergente come quello religioso ”.