Leopardi lettore di Lucrezio - IISS "Francesco De Sanctis"
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Leopardi lettore di Lucrezio - IISS "Francesco De Sanctis"
IL MALE DI VIVERE: LEOPARDI LETTORE DI LUCREZIO Premessa Soltanto negli ultimi decenni, grazie alla filologia classica di scuola psicoanalitica, ci si è posti il problema del rapporto di Leopardi con Lucrezio. Gli apporti metodologici più importanti sono venuti dal filologo inglese E. R. Dodds e da quello italiano Luciano Perelli, autore anche di un bellissimo saggio su Lucrezio poeta dell’angoscia. Sono poi seguiti accertamenti storico-scientifici sia sui manoscritti di Leopardi sia sulle edizioni di Lucrezio presenti nella biblioteca paterna. Ora possiamo affermare con buona certezza che il grande poeta recanatese lesse il De rerum natura, anche se quasi mai nei suoi scritti, soprattutto nello Zibaldone, cita espressamente l’autore. Alcuni biografi sostengono persino che il tormentato poema sulla natura sia stato il livre a couchet di Leopardi. Ma al di là di dettagli biografici, che non sempre scaturiscono da dati scientifici, in molte composizioni leopardiane si avverte la lettura e l’uso innovativo di brani lucreziani. Naturalmente, in questa sede si segnaleranno i più evidenti e i più importanti. Quando Leopardi cominciò a leggere Lucrezio Documenta le condizioni della ricezione di Lucrezio nello Stato Pontificio una lettera del 1813 nella quale il Conte Monaldo Leopardi – forse sollecitato da Giacomo quindicenne allora impegnato nella stesura della Storia dell’astronomia – chiede per i figli all’autorità ecclesiastica “il permesso di leggere i libri proibiti”. Permesso prima concesso in forma ristretta (a discrezione del direttore spirituale), poi con maggiore libertà di consultazione in seguito alla replica del nobiluomo: “ … mille volte accade di doverli scorrere [i libri proibiti], e in queste frequenti occasioni non accomoda di andarsi sempre a ritrovare il confessore”. Tra i testi interdetti che Giacomo nel 1813 ottiene licenza di leggere figura il De rerum natura nella traduzione di A. Marchetti, presente nella Biblioteca di Casa Leopardi (sia in manoscritto sia in volume a stampa) e collocato nello scaffale, appunto, dei libri messi all’Indice. Monaldo, nel sollecitare la licenza, precisa che i suoi figli già “hanno fatto gli studi di metafisica e filosofia; e studiano attualmente teologia”, quasi a indicare che possedevano l’antidoto al veleno di Lucrezio o altri autori “pericolosi”. E poi, per maggiore sicurezza, Giacomo sarebbe stato invitato dal padre a leggere anche l’AntiLucretius di Polignac presente nella Biblioteca, come suppone Giovanni Pascoli: “Il padre non doveva lasciargli bere il veleno senza propinargli il controveleno”. Negli stessi anni Byron, nel Don Giovanni, fa dire a un personaggio che Lucrezio non è lettura per ragazzini. Dunque, Leopardi incontra Lucrezio a quindici anni, forse prima (con buona pace del confessore giacché nella biblioteca paterna era all’Indice solo la traduzione di Marchetti, non anche il testo latino). Infatti l’indicazione “Lucretius (T. Carus) - De rerum natura” compare tra le annotazioni bibliografiche della Storia dell’Astronomia (1813). Lucrezio è più volte citato – per gli errori scientifici cui era soggiaciuto – nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (1815). Nei Canti Lucrezio, ovviamente, non viene citato. E neppure nelle Operette morali. Generici e di seconda mano (attinti dal Forcellini), i riferimenti a Lucrezio nello Zibaldone. Eppure ci sono, tra i due poeti, consonanze temperamentali, artistiche e in parte – ma meno di quanto generalmente si creda – ideologiche. È “lucreziano” il titanismo della Ginestra, dove fin dall’epigrafe (“E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce”), è svolto il tema della necessità di abbandonare fole e superstizioni, riconoscendo la verità della condizione umana. Ai vv. 111-113 della Ginestra (“nobil natura è quella/ che a sollevar s’ardisce/ gli occhi mortali incontra/ al comun fato”) il 1 riecheggiamento di Lucr. I 66 Primus Graius homo mortalis tollere contra/ est oculos ausus non può essere casuale, data l’audacia della iunctura “occhi mortali/ mortalis … oculos” rarissima in latino e senza riscontri nella letteratura italiana. Abbastanza sicuri i raffronti tra “e le seguaci ambasce” (Inno ai Patriarchi, 66) e Lucr. II 48 curaeque sequaces; e tra “sola nel mondo eterna [la morte]” (Coro di morti del Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, 1) e Lucr. III … mors aeterna . Meno certo, perché privo di riscontri formali, l’accostamento tra “Nasce l’uomo a fatica …” (Canto Notturno 39 ss.) e Lucr. V 222-227 (il bambino nasce piangendo, quasi presago del destino infelice), che tuttavia ha trovato credito presso la critica, favorendo l’interpretazione del passo lucreziano alla luce dell’ideologia leopardiana della “natura matrigna”. Più contenutistiche che formali le consonanze tra “... Or dov’è il suono/ di quei popoli antichi?/…/ Tutto è pace e silenzio, e tutto posa/ il mondo, e più di lor non si ragiona” (La sera del del dì di festa, 33 ss.) e Lucr. III 832-842 “E come non sentiamo dolore del tempo passato, quando da ogni parte i Cartaginesi scendevano in armi [ ... ] così a noi che non saremo più nulla affatto [ ... ] potrà toccare i sensi”. Lucreziano in senso lato è l’afflato cosmico dei versi che toccano il tema lirico meditativo della contemplazione della fragilità umana di fronte all’immensità dell’universo, alla pluralità dei mondi. È difficile dire fino a che punto queste affinità non dipendano semplicemente da casuale sintonia spirituale, da comune vocazione “siderea”, dalla natura filosofica della poesia di entrambi, dal fatto di attingere a un patrimonio condiviso di topoi, ad esempio il topos dell’ubi sunt?, nei citati versi della Sera del dì di festa, o del “Naufragio con spettatore” forse riecheggiato nel finale dell’Infinito. Resta il fatto che i riecheggiamenti sono per lo più di natura tematica piuttosto che formale. Il ritmo serenamente astrale, la purezza malinconica del Canto notturno sono quasi estranei alla poesia del De rerum natura. Ma, al di là dei riscontri filologici e delle testimonianze documentali, l’affinità esistenziale leopardiana a Lucrezio (la solitudine di Lucrezio e quella di Leopardi) e quindi la sua frequente ascendenza alla sua opera, sollecitata anche dalla comune lettura di Epicuro, si ricavano meglio dai brani che leggeremo. L’osservazione del cielo infinito Uno dei temi che più frequentemente affascinano Lucrezio e Leopardi è certamente l’infinità del cielo di fronte alla quale si misura la pochezza dell’uomo e insieme l’ardimento della sua mente. L’infinito ritorna spessissimo nelle pagine dello Zibaldone come in molti componimenti lirici, soprattutto in quello sublime intitolato appunto L’infinito. Il mistero della vita degli astri e le domande che esso suscita sono straordinariamente presenti nel Canto notturno e sembrano prendere spunto da un brano lucreziano. Confrontiamoli: de rerum natura, 5.1204-1221 nam cum suspicimus magni caelestia mundi 1205 templa super stellisque micantibus aethera fixum, et venit in mentem solis lunaeque viarum, tunc aliis oppressa malis in pectora cura illa quoque expergefactum caput erigere infit, ne quae forte deum nobis inmensa potestas 1210 sit, vario motu quae candida sidera verset; temptat enim dubiam mentem rationis egestas, ecquae nam fuerit mundi genitalis origo, 2 et simul ecquae sit finis, quoad moenia mundi et taciti motus hunc possint ferre laborem, 1215 an divinitus aeterna donata salute perpetuo possint aevi labentia tractu inmensi validas aevi contemnere viris. praeterea cui non animus formidine divum contrahitur, cui non correpunt membra pavore, 1220 fulminis horribili cum plaga torrida tellus contremit et magnum percurrunt murmura caelum? “Quando infatti solleviamo lo sguardo agli spazi celesti del vasto mondo, e più in alto all’etere fitto di tremule stelle, e ci ricordiamo delle vie del sole e della luna, allora nel cuore oppresso da altri mali anche questa angoscia comincia a risvegliarsi, che non ci sia forse sopra di noi un immenso potere degli dei, che con movimenti vari volga i luminosi astri. Difetto di raziocinio assilla la mente, dubbiosa se mai ci sia stata un’origine prima del mondo e, insieme, se ci sia un termine fino a cui le mura del mondo e i loro silenziosi movimenti possano sopportare questa fatica, o se, dotati per dono divino di un’esistenza eterna, possano, trascorrendo per l’infinita distesa del tempo, disprezzare le enormi forze di un’età immensa. E a chi non si stringe il cuore per timore degli dei, a chi non si agghiacciano le membra per lo spavento, quando al colpo orrendo del fulmine la terra arsa trema e rintuoni percorrono la vastità del cielo?” Canto notturno di un pastore errante dell’Asia 84 e quando miro in cielo arder le stelle; dico fra me pensando: a che tante facelle? che fa l'aria infinita, e quel profondo infinito seren? che vuol dir questa solitudine immensa? ed io che sono? 90 Cosí meco ragiono: e della stanza smisurata e superba, e dell'innumerabile famiglia; poi di tanto adoprar, di tanti moti d'ogni celeste, ogni terrena cosa, 85 girando senza posa, per tornar sempre là donde son mosse; uso alcuno, alcun frutto indovinar non so. Ma tu per certo, giovinetta immortal, conosci il tutto. 100 Questo io conosco e sento, che degli eterni giri, che dell'esser mio frale, qualche bene o contento avrà fors'altri; a me la vita è male. La ginestra Sovente in queste rive, Che, desolate, a bruno 3 160 165 170 175 180 185 190 195 200 Veste il flutto indurato, e par che ondeggi, Seggo la notte; e su la mesta landa In purissimo azzurro Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle, Cui di lontan fa specchio Il mare, e tutto di scintille in giro Per lo vòto seren brillare il mondo. E poi che gli occhi a quelle luci appunto, Ch'a lor sembrano un punto, E sono immense, in guisa Che un punto a petto a lor son terra e mare Veracemente; a cui L'uomo non pur, ma questo Globo ove l'uomo è nulla, Sconosciuto è del tutto; e quando miro Quegli ancor più senz'alcun fin remoti Nodi quasi di stelle, Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo E non la terra sol, ma tutte in uno, Del numero infinite e della mole, Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle O sono ignote, o così paion come Essi alla terra, un punto Di luce nebulosa; al pensier mio Che sembri allora, o prole Dell'uomo? E rimembrando Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte, Che te signora e fine Credi tu data al Tutto, e quante volte Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro Granel di sabbia, il qual di terra ha nome, Per tua cagion, dell'universe cose Scender gli autori, e conversar sovente Co' tuoi piacevolmente, e che i derisi Sogni rinnovellando, ai saggi insulta Fin la presente età, che in conoscenza Ed in civil costume Sembra tutte avanzar; qual moto allora, Mortal prole infelice, o qual pensiero Verso te finalmente il cor m'assale? Non so se il riso o la pietà prevale. Lo Zibaldone (3171) Niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell'umano intelletto, né l'altezza e nobiltà dell'uomo, che il poter l'uomo conoscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza. Quando egli considerando la pluralità de' mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo ch'è minima parte d'uno degli infiniti sistemi che compongono il mondo, e in questa considerazione stupisce della sua piccolezza, e profondamente sentendola e 4 intentamente riguardandola, si confonde quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel pensiero della immensità delle cose, e si trova come smarrito nella vastità incomprensibile dell'esistenza; allora con questo atto e con questo pensiero egli dà la maggior prova possibile della sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua mente, la quale rinchiusa in sì piccolo e menomo essere, è potuta pervenire a conoscere e intender cose tanto superiori alla natura di lui, e può abbracciare e contener (3172) col pensiero questa immensità medesima della esistenza e delle cose. Certo niuno altro essere pensante su questa terra giunge mai pure a concepire o immaginare di esser cosa piccola o in se o rispetto all'altre cose, eziandio ch'ei sia, quanto al corpo, una bilionesima parte dell'uomo, per nulla dire dell'animo. E veramente quanto gli esseri più son grandi, quale sopra tutti gli esseri terrestri si è l'uomo, tanto sono più capaci della conoscenza e del sentimento della propria piccolezza. Onde avviene che questa conoscenza e questo sentimento anche tra gli uomini sieno infatti tanto maggiori e più vivi, ordinari, continui e pieni, quanto l'individuo è di maggiore e più alto e più capace intelletto ed ingegno. (12. Agosto. dì di S. Chiara. 1823.) All’ammirazione per i grandiosi fenomeni cosmici si mescola lo sgomento, ed è contenuta in germe la domanda angosciosa circa la possibilità di sussistenza del grandioso e delicato congegno del cosmo. E poi sorgono nell’animo l’ironia e il sarcasmo verso coloro che pensano di trovare il sistema per risolvere il mistero. E con essi la coscienza della consapevolezza in qualche modo pacificatrice della inconsistenza dell’uomo rispetto all’universo. La storia che muore de rerum natura, 3.832-843 et vel ut ante acto nihil tempore sensimus aegri, ad confligendum venientibus undique Poenis, omnia cum belli trepido concussa tumultu 835 horrida contremuere sub altis aetheris auris, in dubioque fuere utrorum ad regna cadendum omnibus humanis esset terraque marique, sic, ubi non erimus, cum corporis atque animai discidium fuerit, quibus e sumus uniter apti, 840 scilicet haud nobis quicquam, qui non erimus tum, accidere omnino poterit sensumque movere, non si terra mari miscebitur et mare caelo. “E come nel tempo passato non provammo dolore, allorché i Cartaginesi accorrevano in guerra da ogni parte ogni cosa scossa dal trepido tumulto della guerra inorridita tremò sotto le alte correnti dell’etere, e fu in dubbio sotto il regno di quale popolo dovesse cadere per terra e per mare il genere umano; così quando noi non ci saremo più, quando si divideranno il corpo e l’anima, della cui unità siamo composti, sicuramente a noi, che non ci saremo più, nulla ci potrà accadere che commuova i sensi, nemmeno se la terra si confonderà col mare e il mare con il cielo.” La sera del dì di festa A pensar come tutto al mondo passa, 30 E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito 5 Il dì festivo, ed al festivo il giorno Volgar succede, e se ne porta il tempo Ogni umano accidente. Or dov’è il suono Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido 35 De’ nostri avi famosi, e il grande impero Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio Che n’andò per la terra e l’oceano? Tutto è pace e silenzio, e tutto posa Il mondo, e più di lor non si ragiona. Nell’immensità del tempo si spegne il grido e il tumulto delle età passate, i drammi giganteschi della storia e tutti gli eventi umani sono assurdamente rimpiccioliti in tale prospettiva, e in un mondo dove tutto si vanifica nel silenzio e nel nulla l’uomo rimane solo con la sua angoscia. Cosa è il progresso de rerum natura, 2.1090-1104 1090 Quae bene cognita si teneas, natura videtur libera continuo, dominis privata superbis, ipsa sua per se sponte omnia dis agere expers. nam pro sancta deum tranquilla pectora pace quae placidum degunt aevom vitamque serenam, 1095 quis regere immensi summam, quis habere profundi indu manu validas potis est moderanter habenas, quis pariter caelos omnis convertere et omnis ignibus aetheriis terras suffire feracis, omnibus inve locis esse omni tempore praesto, 1100 nubibus ut tenebras faciat caelique serena concutiat sonitu, tum fulmina mittat et aedis saepe suas disturbet et in deserta recedens saeviat exercens telum, quod saepe nocentes praeterit exanimatque indignos inque merentes? “Se tu conservi nella memoria, dopo averle ben comprese, queste verità, la natura ti appare subito libera e priva di superbi padroni, e in grado di compiere tutto da sé sola spontaneamente senza gli dei. Infatti, per il sacro cuore degli dei, che in pace tranquilla trascorrono placido il tempo e serena la vita, chi può reggere l’enorme peso dell’immensità, chi tenere nella mano e governare le redini possenti dell’infinito, chi far muovere sincronicamente tutti i cieli e con i fuochi eterei far evaporare le terre feraci, e in ogni luogo essere sempre pronto ad addensare con le nubi le tenebre e scuotere con il tuono gli spazi sereni del cielo, e poi inviare fulmini e spesso distruggere i propri templi, e appartandosi nei deserti sfuriare forzando la folgore, che il più delle volte trascura i colpevoli e toglie la vita agli immeritevoli innocenti?” La ginestra Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi 35 I danni altrui commiserando, al cielo 6 40 45 50 55 60 65 70 75 80 85 Di dolcissimo odor mandi un profumo, Che il deserto consola. A queste piagge Venga colui che d'esaltar con lode Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto È il gener nostro in cura All'amante natura. E la possanza Qui con giusta misura Anco estimar potrà dell'uman seme, Cui la dura nutrice, ov'ei men teme, Con lieve moto in un momento annulla In parte, e può con moti Poco men lievi ancor subitamente Annichilare in tutto. Dipinte in queste rive Son dell'umana gente Le magnifiche sorti e progressive. Qui mira e qui ti specchia, Secol superbo e sciocco, Che il calle insino allora Dal risorto pensier segnato innanti Abbandonasti, e volti addietro i passi, Del ritornar ti vanti, E procedere il chiami. Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti, Di cui lor sorte rea padre ti fece, Vanno adulando, ancora Ch'a ludibrio talora T'abbian fra sé. Non io Con tal vergogna scenderò sotterra; Ma il disprezzo piuttosto che si serra Di te nel petto mio, Mostrato avrò quanto si possa aperto: Ben ch'io sappia che obblio Preme chi troppo all'età propria increbbe. Di questo mal, che teco Mi fia comune, assai finor mi rido. Libertà vai sognando, e servo a un tempo Vuoi di novo il pensiero, Sol per cui risorgemmo Della barbarie in parte, e per cui solo Si cresce in civiltà, che sola in meglio Guida i pubblici fati. Così ti spiacque il vero Dell'aspra sorte e del depresso loco Che natura ci diè. Per questo il tergo Vigliaccamente rivolgesti al lume Che il fe' palese: e, fuggitivo, appelli Vil chi lui segue, e solo Magnanimo colui Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle, Fin sopra gli astri il mortal grado estolle. 7 La concezione del progresso diffusa nella cultura laica degli inizi dell’800 è fortemente contestata dal Leopardi, che considera progresso quanto contribuisce a migliorare la condizione esistenziale dell’uomo, e non già le scoperte scientifiche e tecniche, che in nulla modificano la sua difficoltà di vivere. Una visione più o meno analoga Leopardi riscontrava in Lucrezio: il progresso ha portato con sé, proprio perché non ispirato alla saggezza laica e umana della filosofia, anche una profonda degenerazione morale, ha aperto all’aggressività istintuale dell’uomo solo la via del perfezionamento tecnico e, di conseguenza, la capacità di perpetrare atrocità sempre maggiori. L’inermità della scienza de rerum natura, 6.1179-1182 mussabat tacito medicina timore, 1180 quippe patentia cum totiens ardentia morbis lumina versarent oculorum expertia somno. multaque praeterea mortis tum signa dabantur: “La medicina balbettava per muto timore, perché sbarrate e ardenti per la malattia volgevano continuamente le luci degli occhi privi di sonno. E molti altri segni di morte allora apparivano…” La ginestra Uom di povero stato e membra inferme Che sia dell'alma generoso ed alto, Non chiama sé né stima 90 Ricco d'or né gagliardo, E di splendida vita o di valente Persona infra la gente Non fa risibil mostra; Ma sé di forza e di tesor mendico 95 Lascia parer senza vergogna, e noma Parlando, apertamente, e di sue cose Fa stima al vero uguale. Magnanimo animale Non credo io già, ma stolto, 100 Quel che nato a perir, nutrito in pene, Dice, a goder son fatto, E di fetido orgoglio Empie le carte, eccelsi fati e nove Felicità, quali il ciel tutto ignora, 105 Non pur quest'orbe, promettendo in terra A popoli che un'onda Di mar commosso, un fiato D'aura maligna, un sotterraneo crollo Distrugge sì, che avanza 110 A gran pena di lor la rimembranza. Nobil natura è quella 8 Che a sollevar s'ardisce Gli occhi mortali incontra Al comun fato, e che con franca lingua, 115 Nulla al ver detraendo, Confessa il mal che ci fu dato in sorte, E il basso stato e frale; Quella che grande e forte Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire 120 Fraterne, ancor più gravi D'ogni altro danno, accresce Alle miserie sue, l'uomo incolpando Del suo dolor, ma dà la colpa a quella Che veramente è rea, che de' mortali 125 Madre è di parto e di voler matrigna. La vis abdita schiaccia l’uomo e rende vana la sua scienza; l’ombra del mistero pesa sulla crudeltà della natura, e imperscrutabili sono le cause del suo agire. La conoscenza razionale induce a una visione tragica dell’impossibilità di fronteggiare i misteri. Il difficile rapporto con la natura de rerum natura, 5.195-199 195 Quod <si> iam rerum ignorem primordia quae sint, hoc tamen ex ipsis caeli rationibus ausim confirmare aliisque ex rebus reddere multis, nequaquam nobis divinitus esse paratam naturam rerum: tanta stat praedita culpa. “Ma se anche ignorassi quali sono i principi delle cose, questo però non avrei difficoltà ad affermare in base alle stesse vicende del cielo e sostenere in ragione di molte altre cose, che non certo per noi dal volere divino è stata formata la natura del mondo: di tanto male è ingombra.” de rerum natura, 5.1233-1235 usque adeo res humanas vis abdita quaedam opterit et pulchros fascis saevasque secures 1235 proculcare ac ludibrio sibi habere videtur. “Tanto è vero che una forza ignota calpesta le umane cose e sembra atterrare e schernire i nobili fasci e le spietate scuri.” Canto notturno di un pastore errante dell’Asia 105 110 O greggia mia che posi, oh te beata, Che la miseria tua, credo, non sai! Quanta invidia ti porto! Non sol perché d'affanno Quasi libera vai; Ch'ogni stento, ogni danno, 9 115 120 125 130 135 140 Ogni estremo timor subito scordi; Ma piú perché giammai tedio non provi. Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe, Tu se’ queta e contenta; E gran parte dell'anno Senza noia consumi in quello stato. Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra, E un fastidio m'ingombra La mente, ed uno spron quasi mi punge Sí che, sedendo, piú che mai son lunge Da trovar pace o loco. E pur nulla non bramo, E non ho fino a qui cagion di pianto. Quel che tu goda o quanto, Non so già dir; ma fortunata sei. Ed io godo ancor poco, O greggia mia, né di ciò sol mi lagno. Se tu parlar sapessi, io chiederei: - Dimmi: perché giacendo A bell'agio, ozioso, S'appaga ogni animale; Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale? Forse s'avess'io l'ale Da volar su le nubi, E noverar le stelle ad una ad una, O come il tuono errar di giogo in giogo, Piú felice sarei, dolce mia greggia, Piú felice sarei, candida luna. O forse erra dal vero, Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero: Forse in qual forma, in quale Stato che sia, dentro covile o cuna, E’ funesto a chi nasce il dí natale. Dialogo della Natura e di un Islandese Natura Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro che alla felicità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei. La natura è colpevole nei riguardi dell’uomo secondo il giudizio soggettivo dell’uomo stesso, che giudica secondo il metro del proprio vantaggio; in realtà la natura non ha obbligo alcuno verso l’uomo, e non può essere rea di colpe oggettive, ma all’uomo appare colpevole di negligenza, per non avergli fornito un ambiente e una costituzione fisica idonei a garantirgli un’esistenza sicura. 10 Il destino dell’uomo de rerum natura, 5.222-227 tum porro puer, ut saevis proiectus ab undis navita, nudus humi iacet infans indigus omni vitali auxilio, cum primum in luminis oras 225 nixibus ex alvo matris natura profudit, vagituque locum lugubri complet, ut aequumst cui tantum in vita restet transire malorum. “E il bambino, come un naufrago buttato a riva dalle onde infuriate, giace nudo in terra privo di parola, bisognoso di ogni aiuto vitale, non appena sulle spiagge della luce con dolorosi sforzi natura l’ha gettato fuor dal ventre della madre, e di un lugubre vagito riempie lo spazio, com’è giusto che faccia chi nella vita dovrà affrontare tanti mali.” Canto notturno di un pastore errante dell’Asia Nasce l'uomo a fatica, 40 Ed è rischio di morte il nascimento. Prova pena e tormento Per prima cosa; e in sul principio stesso La madre e il genitore Il prende a consolar dell'esser nato. 45 Poi che crescendo viene, L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre Con atti e con parole Studiasi fargli core, E consolarlo dell'umano stato: 50 Altro ufficio piú grato Non si fa da parenti alla lor prole. Ma perché dare al sole, Perché reggere in vita Chi poi di quella consolar convenga? Se la vita è sventura, Perché da noi si dura? A se stesso Al gener nostro il fato Non donò che il morire. Omai disprezza Te, la natura, il brutto 15 Poter che, ascoso, a comun danno impera, E l'infinita vanità del tutto. Ponendo a confronto la sublime grandiosità e l’infinita forza della natura con la meschinità e la debolezza dell’uomo, la condizione umana ne esce disprezzata, mentre vengono irrise la superbia e l’ignoranza delle umane genti. Accanto al disprezzo e all’amaro sarcasmo verso l’uomo che non avverte la propria miseria e la propria follia sussistono la commiserazione e la pietà per la condizione umana e il suo terribile destino, oppressi come sono dalla terribilità e dall’ostilità della natura. Ma gli uomini, 11 invece di unirsi e solidarizzare contro il comune nemico, sono fra loro ostili e rendono ancor più tragico il loro destino. Leopardi ricorda varie volte nello "Zibaldone" il suo proposito di scrivere una "Lettera ad un giovane del XX secolo". Egli non la compose mai nella sua interezza, eppure ne disseminò qua e là nella sua opera tutti gli argomenti di cui intendeva trattare. L'analisi dei vari punti dello "Zibaldone" riesce a portare sul tappeto alcuni aspetti della meditazione leopardiana poco noti o sottaciuti, come il discorso sulla perfettibilità dell'uomo su cui il poeta avanza dubbi ancor oggi non dissipati, se pensiamo a quanto dello sviluppo tecnologico si sia ottenuto senza un reale progresso umano e sociale. Ed il suggerimento del poeta che l'autentica ambizione, per quanto chimerica, del genere umano debba essere la felicità, non la perfezione, è quanto mai attuale. Romualdo Marandino 12