Leopardi lettore di Lucrezio - IISS "Francesco De Sanctis"

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Leopardi lettore di Lucrezio - IISS "Francesco De Sanctis"
IL MALE DI VIVERE: LEOPARDI LETTORE DI LUCREZIO
Premessa
Soltanto negli ultimi decenni, grazie alla filologia classica di scuola psicoanalitica, ci si
è posti il problema del rapporto di Leopardi con Lucrezio. Gli apporti metodologici più
importanti sono venuti dal filologo inglese E. R. Dodds e da quello italiano Luciano
Perelli, autore anche di un bellissimo saggio su Lucrezio poeta dell’angoscia. Sono poi
seguiti accertamenti storico-scientifici sia sui manoscritti di Leopardi sia sulle edizioni
di Lucrezio presenti nella biblioteca paterna. Ora possiamo affermare con buona
certezza che il grande poeta recanatese lesse il De rerum natura, anche se quasi mai nei
suoi scritti, soprattutto nello Zibaldone, cita espressamente l’autore. Alcuni biografi
sostengono persino che il tormentato poema sulla natura sia stato il livre a couchet di
Leopardi. Ma al di là di dettagli biografici, che non sempre scaturiscono da dati
scientifici, in molte composizioni leopardiane si avverte la lettura e l’uso innovativo di
brani lucreziani. Naturalmente, in questa sede si segnaleranno i più evidenti e i più
importanti.
Quando Leopardi cominciò a leggere Lucrezio
Documenta le condizioni della ricezione di Lucrezio nello Stato Pontificio una lettera
del 1813 nella quale il Conte Monaldo Leopardi – forse sollecitato da Giacomo
quindicenne allora impegnato nella stesura della Storia dell’astronomia – chiede per i
figli all’autorità ecclesiastica “il permesso di leggere i libri proibiti”. Permesso prima
concesso in forma ristretta (a discrezione del direttore spirituale), poi con maggiore
libertà di consultazione in seguito alla replica del nobiluomo: “ … mille volte accade di
doverli scorrere [i libri proibiti], e in queste frequenti occasioni non accomoda di
andarsi sempre a ritrovare il confessore”.
Tra i testi interdetti che Giacomo nel 1813 ottiene licenza di leggere figura il De rerum
natura nella traduzione di A. Marchetti, presente nella Biblioteca di Casa Leopardi (sia
in manoscritto sia in volume a stampa) e collocato nello scaffale, appunto, dei libri
messi all’Indice. Monaldo, nel sollecitare la licenza, precisa che i suoi figli già “hanno
fatto gli studi di metafisica e filosofia; e studiano attualmente teologia”, quasi a indicare
che possedevano l’antidoto al veleno di Lucrezio o altri autori “pericolosi”. E poi, per
maggiore sicurezza, Giacomo sarebbe stato invitato dal padre a leggere anche l’AntiLucretius di Polignac presente nella Biblioteca, come suppone Giovanni Pascoli: “Il
padre non doveva lasciargli bere il veleno senza propinargli il controveleno”.
Negli stessi anni Byron, nel Don Giovanni, fa dire a un personaggio che Lucrezio non è
lettura per ragazzini. Dunque, Leopardi incontra Lucrezio a quindici anni, forse prima
(con buona pace del confessore giacché nella biblioteca paterna era all’Indice solo la
traduzione di Marchetti, non anche il testo latino). Infatti l’indicazione “Lucretius (T.
Carus) - De rerum natura” compare tra le annotazioni bibliografiche della Storia
dell’Astronomia (1813). Lucrezio è più volte citato – per gli errori scientifici cui era
soggiaciuto – nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (1815).
Nei Canti Lucrezio, ovviamente, non viene citato. E neppure nelle Operette morali.
Generici e di seconda mano (attinti dal Forcellini), i riferimenti a Lucrezio nello
Zibaldone. Eppure ci sono, tra i due poeti, consonanze temperamentali, artistiche e in
parte – ma meno di quanto generalmente si creda – ideologiche. È “lucreziano” il
titanismo della Ginestra, dove fin dall’epigrafe (“E gli uomini vollero piuttosto le
tenebre che la luce”), è svolto il tema della necessità di abbandonare fole e superstizioni,
riconoscendo la verità della condizione umana. Ai vv. 111-113 della Ginestra (“nobil
natura è quella/ che a sollevar s’ardisce/ gli occhi mortali incontra/ al comun fato”) il
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riecheggiamento di Lucr. I 66 Primus Graius homo mortalis tollere contra/ est oculos
ausus non può essere casuale, data l’audacia della iunctura “occhi mortali/ mortalis …
oculos” rarissima in latino e senza riscontri nella letteratura italiana.
Abbastanza sicuri i raffronti tra “e le seguaci ambasce” (Inno ai Patriarchi, 66) e Lucr.
II 48 curaeque sequaces; e tra “sola nel mondo eterna [la morte]” (Coro di morti del
Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, 1) e Lucr. III … mors aeterna . Meno
certo, perché privo di riscontri formali, l’accostamento tra “Nasce l’uomo a fatica …”
(Canto Notturno 39 ss.) e Lucr. V 222-227 (il bambino nasce piangendo, quasi presago
del destino infelice), che tuttavia ha trovato credito presso la critica, favorendo
l’interpretazione del passo lucreziano alla luce dell’ideologia leopardiana della “natura
matrigna”. Più contenutistiche che formali le consonanze tra “... Or dov’è il suono/ di
quei popoli antichi?/…/ Tutto è pace e silenzio, e tutto posa/ il mondo, e più di lor non
si ragiona” (La sera del del dì di festa, 33 ss.) e Lucr. III 832-842 “E come non
sentiamo dolore del tempo passato, quando da ogni parte i Cartaginesi scendevano in
armi [ ... ] così a noi che non saremo più nulla affatto [ ... ] potrà toccare i sensi”.
Lucreziano in senso lato è l’afflato cosmico dei versi che toccano il tema lirico
meditativo della contemplazione della fragilità umana di fronte all’immensità
dell’universo, alla pluralità dei mondi.
È difficile dire fino a che punto queste affinità non dipendano semplicemente da casuale
sintonia spirituale, da comune vocazione “siderea”, dalla natura filosofica della poesia
di entrambi, dal fatto di attingere a un patrimonio condiviso di topoi, ad esempio il
topos dell’ubi sunt?, nei citati versi della Sera del dì di festa, o del “Naufragio con
spettatore” forse riecheggiato nel finale dell’Infinito. Resta il fatto che i riecheggiamenti
sono per lo più di natura tematica piuttosto che formale. Il ritmo serenamente astrale, la
purezza malinconica del Canto notturno sono quasi estranei alla poesia del De rerum
natura.
Ma, al di là dei riscontri filologici e delle testimonianze documentali, l’affinità
esistenziale leopardiana a Lucrezio (la solitudine di Lucrezio e quella di Leopardi) e
quindi la sua frequente ascendenza alla sua opera, sollecitata anche dalla comune lettura
di Epicuro, si ricavano meglio dai brani che leggeremo.
L’osservazione del cielo infinito
Uno dei temi che più frequentemente affascinano Lucrezio e Leopardi è certamente
l’infinità del cielo di fronte alla quale si misura la pochezza dell’uomo e insieme
l’ardimento della sua mente. L’infinito ritorna spessissimo nelle pagine dello Zibaldone
come in molti componimenti lirici, soprattutto in quello sublime intitolato appunto
L’infinito. Il mistero della vita degli astri e le domande che esso suscita sono
straordinariamente presenti nel Canto notturno e sembrano prendere spunto da un brano
lucreziano. Confrontiamoli:
de rerum natura, 5.1204-1221
nam cum suspicimus magni caelestia mundi
1205 templa super stellisque micantibus aethera fixum,
et venit in mentem solis lunaeque viarum,
tunc aliis oppressa malis in pectora cura
illa quoque expergefactum caput erigere infit,
ne quae forte deum nobis inmensa potestas
1210 sit, vario motu quae candida sidera verset;
temptat enim dubiam mentem rationis egestas,
ecquae nam fuerit mundi genitalis origo,
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et simul ecquae sit finis, quoad moenia mundi
et taciti motus hunc possint ferre laborem,
1215 an divinitus aeterna donata salute
perpetuo possint aevi labentia tractu
inmensi validas aevi contemnere viris.
praeterea cui non animus formidine divum
contrahitur, cui non correpunt membra pavore,
1220 fulminis horribili cum plaga torrida tellus
contremit et magnum percurrunt murmura caelum?
“Quando infatti solleviamo lo sguardo agli spazi celesti del vasto mondo, e più in alto
all’etere fitto di tremule stelle, e ci ricordiamo delle vie del sole e della luna, allora nel
cuore oppresso da altri mali anche questa angoscia comincia a risvegliarsi, che non ci
sia forse sopra di noi un immenso potere degli dei, che con movimenti vari volga i
luminosi astri. Difetto di raziocinio assilla la mente, dubbiosa se mai ci sia stata
un’origine prima del mondo e, insieme, se ci sia un termine fino a cui le mura del
mondo e i loro silenziosi movimenti possano sopportare questa fatica, o se, dotati per
dono divino di un’esistenza eterna, possano, trascorrendo per l’infinita distesa del
tempo, disprezzare le enormi forze di un’età immensa. E a chi non si stringe il cuore per
timore degli dei, a chi non si agghiacciano le membra per lo spavento, quando al colpo
orrendo del fulmine la terra arsa trema e rintuoni percorrono la vastità del cielo?”
Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
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e quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:
a che tante facelle?
che fa l'aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono?
90 Cosí meco ragiono: e della stanza
smisurata e superba,
e dell'innumerabile famiglia;
poi di tanto adoprar, di tanti moti
d'ogni celeste, ogni terrena cosa,
85 girando senza posa,
per tornar sempre là donde son mosse;
uso alcuno, alcun frutto
indovinar non so. Ma tu per certo,
giovinetta immortal, conosci il tutto.
100 Questo io conosco e sento,
che degli eterni giri,
che dell'esser mio frale,
qualche bene o contento
avrà fors'altri; a me la vita è male.
La ginestra
Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
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Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e su la mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch'a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L'uomo non pur, ma questo
Globo ove l'uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell'uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell'universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Co' tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m'assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Lo Zibaldone
(3171) Niuna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza dell'umano
intelletto, né l'altezza e nobiltà dell'uomo, che il poter l'uomo conoscere e
interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza. Quando egli
considerando la pluralità de' mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo
ch'è minima parte d'uno degli infiniti sistemi che compongono il mondo, e in questa
considerazione stupisce della sua piccolezza, e profondamente sentendola e
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intentamente riguardandola, si confonde quasi col nulla, e perde quasi se stesso nel
pensiero della immensità delle cose, e si trova come smarrito nella vastità
incomprensibile dell'esistenza; allora con questo atto e con questo pensiero egli dà
la maggior prova possibile della sua nobiltà, della forza e della immensa capacità
della sua mente, la quale rinchiusa in sì piccolo e menomo essere, è potuta
pervenire a conoscere e intender cose tanto superiori alla natura di lui, e può
abbracciare e contener (3172) col pensiero questa immensità medesima della
esistenza e delle cose. Certo niuno altro essere pensante su questa terra giunge mai
pure a concepire o immaginare di esser cosa piccola o in se o rispetto all'altre cose,
eziandio ch'ei sia, quanto al corpo, una bilionesima parte dell'uomo, per nulla dire
dell'animo. E veramente quanto gli esseri più son grandi, quale sopra tutti gli esseri
terrestri si è l'uomo, tanto sono più capaci della conoscenza e del sentimento della
propria piccolezza. Onde avviene che questa conoscenza e questo sentimento anche
tra gli uomini sieno infatti tanto maggiori e più vivi, ordinari, continui e pieni,
quanto l'individuo è di maggiore e più alto e più capace intelletto ed ingegno. (12.
Agosto. dì di S. Chiara. 1823.)
All’ammirazione per i grandiosi fenomeni cosmici si mescola lo sgomento, ed è
contenuta in germe la domanda angosciosa circa la possibilità di sussistenza del
grandioso e delicato congegno del cosmo. E poi sorgono nell’animo l’ironia e il
sarcasmo verso coloro che pensano di trovare il sistema per risolvere il mistero. E con
essi la coscienza della consapevolezza in qualche modo pacificatrice della
inconsistenza dell’uomo rispetto all’universo.
La storia che muore
de rerum natura, 3.832-843
et vel ut ante acto nihil tempore sensimus aegri,
ad confligendum venientibus undique Poenis,
omnia cum belli trepido concussa tumultu
835 horrida contremuere sub altis aetheris auris,
in dubioque fuere utrorum ad regna cadendum
omnibus humanis esset terraque marique,
sic, ubi non erimus, cum corporis atque animai
discidium fuerit, quibus e sumus uniter apti,
840 scilicet haud nobis quicquam, qui non erimus tum,
accidere omnino poterit sensumque movere,
non si terra mari miscebitur et mare caelo.
“E come nel tempo passato non provammo dolore, allorché i Cartaginesi accorrevano in
guerra da ogni parte ogni cosa scossa dal trepido tumulto della guerra inorridita tremò
sotto le alte correnti dell’etere, e fu in dubbio sotto il regno di quale popolo dovesse
cadere per terra e per mare il genere umano; così quando noi non ci saremo più, quando
si divideranno il corpo e l’anima, della cui unità siamo composti, sicuramente a noi, che
non ci saremo più, nulla ci potrà accadere che commuova i sensi, nemmeno se la terra si
confonderà col mare e il mare con il cielo.”
La sera del dì di festa
A pensar come tutto al mondo passa,
30 E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
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Il dì festivo, ed al festivo il giorno
Volgar succede, e se ne porta il tempo
Ogni umano accidente. Or dov’è il suono
Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido
35 De’ nostri avi famosi, e il grande impero
Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio
Che n’andò per la terra e l’oceano?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
Il mondo, e più di lor non si ragiona.
Nell’immensità del tempo si spegne il grido e il tumulto delle età passate, i drammi
giganteschi della storia e tutti gli eventi umani sono assurdamente rimpiccioliti in tale
prospettiva, e in un mondo dove tutto si vanifica nel silenzio e nel nulla l’uomo rimane
solo con la sua angoscia.
Cosa è il progresso
de rerum natura, 2.1090-1104
1090 Quae bene cognita si teneas, natura videtur
libera continuo, dominis privata superbis,
ipsa sua per se sponte omnia dis agere expers.
nam pro sancta deum tranquilla pectora pace
quae placidum degunt aevom vitamque serenam,
1095 quis regere immensi summam, quis habere profundi
indu manu validas potis est moderanter habenas,
quis pariter caelos omnis convertere et omnis
ignibus aetheriis terras suffire feracis,
omnibus inve locis esse omni tempore praesto,
1100 nubibus ut tenebras faciat caelique serena
concutiat sonitu, tum fulmina mittat et aedis
saepe suas disturbet et in deserta recedens
saeviat exercens telum, quod saepe nocentes
praeterit exanimatque indignos inque merentes?
“Se tu conservi nella memoria, dopo averle ben comprese, queste verità, la natura ti
appare subito libera e priva di superbi padroni, e in grado di compiere tutto da sé sola
spontaneamente senza gli dei. Infatti, per il sacro cuore degli dei, che in pace tranquilla
trascorrono placido il tempo e serena la vita, chi può reggere l’enorme peso
dell’immensità, chi tenere nella mano e governare le redini possenti dell’infinito, chi far
muovere sincronicamente tutti i cieli e con i fuochi eterei far evaporare le terre feraci, e
in ogni luogo essere sempre pronto ad addensare con le nubi le tenebre e scuotere con il
tuono gli spazi sereni del cielo, e poi inviare fulmini e spesso distruggere i propri
templi, e appartandosi nei deserti sfuriare forzando la folgore, che il più delle volte
trascura i colpevoli e toglie la vita agli immeritevoli innocenti?”
La ginestra
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
35 I danni altrui commiserando, al cielo
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Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d'esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
È il gener nostro in cura
All'amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell'uman seme,
Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell'umana gente
Le magnifiche sorti e progressive.
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch'a ludibrio talora
T'abbian fra sé. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch'io sappia che obblio
Preme chi troppo all'età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell'aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fe' palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
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La concezione del progresso diffusa nella cultura laica degli inizi dell’800 è fortemente
contestata dal Leopardi, che considera progresso quanto contribuisce a migliorare la
condizione esistenziale dell’uomo, e non già le scoperte scientifiche e tecniche, che in
nulla modificano la sua difficoltà di vivere. Una visione più o meno analoga Leopardi
riscontrava in Lucrezio: il progresso ha portato con sé, proprio perché non ispirato alla
saggezza laica e umana della filosofia, anche una profonda degenerazione morale, ha
aperto all’aggressività istintuale dell’uomo solo la via del perfezionamento tecnico e, di
conseguenza, la capacità di perpetrare atrocità sempre maggiori.
L’inermità della scienza
de rerum natura, 6.1179-1182
mussabat tacito medicina timore,
1180 quippe patentia cum totiens ardentia morbis
lumina versarent oculorum expertia somno.
multaque praeterea mortis tum signa dabantur:
“La medicina balbettava per muto timore, perché sbarrate e ardenti per la malattia
volgevano continuamente le luci degli occhi privi di sonno. E molti altri segni di morte
allora apparivano…”
La ginestra
Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell'alma generoso ed alto,
Non chiama sé né stima
90 Ricco d'or né gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma sé di forza e di tesor mendico
95 Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
100 Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
105 Non pur quest'orbe, promettendo in terra
A popoli che un'onda
Di mar commosso, un fiato
D'aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
110 A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
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Che a sollevar s'ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
115 Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
120 Fraterne, ancor più gravi
D'ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l'uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che de' mortali
125 Madre è di parto e di voler matrigna.
La vis abdita schiaccia l’uomo e rende vana la sua scienza; l’ombra del mistero pesa
sulla crudeltà della natura, e imperscrutabili sono le cause del suo agire. La
conoscenza razionale induce a una visione tragica dell’impossibilità di fronteggiare i
misteri.
Il difficile rapporto con la natura
de rerum natura, 5.195-199
195 Quod <si> iam rerum ignorem primordia quae sint,
hoc tamen ex ipsis caeli rationibus ausim
confirmare aliisque ex rebus reddere multis,
nequaquam nobis divinitus esse paratam
naturam rerum: tanta stat praedita culpa.
“Ma se anche ignorassi quali sono i principi delle cose, questo però non avrei difficoltà
ad affermare in base alle stesse vicende del cielo e sostenere in ragione di molte altre
cose, che non certo per noi dal volere divino è stata formata la natura del mondo: di
tanto male è ingombra.”
de rerum natura, 5.1233-1235
usque adeo res humanas vis abdita quaedam
opterit et pulchros fascis saevasque secures
1235 proculcare ac ludibrio sibi habere videtur.
“Tanto è vero che una forza ignota calpesta le umane cose e sembra atterrare e schernire
i nobili fasci e le spietate scuri.”
Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
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O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d'affanno
Quasi libera vai;
Ch'ogni stento, ogni danno,
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Ogni estremo timor subito scordi;
Ma piú perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
Tu se’ queta e contenta;
E gran parte dell'anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
E un fastidio m'ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge
Sí che, sedendo, piú che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ho fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
- Dimmi: perché giacendo
A bell'agio, ozioso,
S'appaga ogni animale;
Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale? Forse s'avess'io l'ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Piú felice sarei, dolce mia greggia,
Piú felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
E’ funesto a chi nasce il dí natale.
Dialogo della Natura e di un Islandese
Natura
Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che
nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre
ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro che alla felicità degli uomini o all’infelicità.
Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me
n’avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi
benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo
quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse
di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.
La natura è colpevole nei riguardi dell’uomo secondo il giudizio soggettivo dell’uomo
stesso, che giudica secondo il metro del proprio vantaggio; in realtà la natura non ha
obbligo alcuno verso l’uomo, e non può essere rea di colpe oggettive, ma all’uomo
appare colpevole di negligenza, per non avergli fornito un ambiente e una costituzione
fisica idonei a garantirgli un’esistenza sicura.
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Il destino dell’uomo
de rerum natura, 5.222-227
tum porro puer, ut saevis proiectus ab undis
navita, nudus humi iacet infans indigus omni
vitali auxilio, cum primum in luminis oras
225 nixibus ex alvo matris natura profudit,
vagituque locum lugubri complet, ut aequumst
cui tantum in vita restet transire malorum.
“E il bambino, come un naufrago buttato a riva dalle onde infuriate, giace nudo in terra
privo di parola, bisognoso di ogni aiuto vitale, non appena sulle spiagge della luce con
dolorosi sforzi natura l’ha gettato fuor dal ventre della madre, e di un lugubre vagito
riempie lo spazio, com’è giusto che faccia chi nella vita dovrà affrontare tanti mali.”
Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
Nasce l'uomo a fatica,
40 Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell'esser nato.
45 Poi che crescendo viene,
L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell'umano stato:
50 Altro ufficio piú grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
Perché reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
Perché da noi si dura?
A se stesso
Al gener nostro il fato
Non donò che il morire. Omai disprezza
Te, la natura, il brutto
15 Poter che, ascoso, a comun danno impera,
E l'infinita vanità del tutto.
Ponendo a confronto la sublime grandiosità e l’infinita forza della natura con la
meschinità e la debolezza dell’uomo, la condizione umana ne esce disprezzata, mentre
vengono irrise la superbia e l’ignoranza delle umane genti. Accanto al disprezzo e
all’amaro sarcasmo verso l’uomo che non avverte la propria miseria e la propria follia
sussistono la commiserazione e la pietà per la condizione umana e il suo terribile
destino, oppressi come sono dalla terribilità e dall’ostilità della natura. Ma gli uomini,
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invece di unirsi e solidarizzare contro il comune nemico, sono fra loro ostili e rendono
ancor più tragico il loro destino.
Leopardi ricorda varie volte nello "Zibaldone" il suo proposito di scrivere una "Lettera
ad un giovane del XX secolo". Egli non la compose mai nella sua interezza, eppure ne
disseminò qua e là nella sua opera tutti gli argomenti di cui intendeva trattare. L'analisi
dei vari punti dello "Zibaldone" riesce a portare sul tappeto alcuni aspetti della
meditazione leopardiana poco noti o sottaciuti, come il discorso sulla perfettibilità
dell'uomo su cui il poeta avanza dubbi ancor oggi non dissipati, se pensiamo a quanto
dello sviluppo tecnologico si sia ottenuto senza un reale progresso umano e sociale. Ed
il suggerimento del poeta che l'autentica ambizione, per quanto chimerica, del genere
umano debba essere la felicità, non la perfezione, è quanto mai attuale.
Romualdo Marandino
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