La vita comunitaria negli ordini religiosi
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La vita comunitaria negli ordini religiosi
La vita comunitaria negli ordini religiosi Hans Zollner s.j. © La Civiltà Cattolica 2006 IV 344-356 - quaderno 3754 L a vita religiosa si trova a dover affrontare grandi sfide. Questo fatto, oltre a causare varie crisi, porta i membri degli ordini religiosi, ma anche quelli della gerarchia ecclesiastica e i cristiani più attenti, a chiedersi quali siano gli elementi essenziali della vita religiosa e che cosa verrebbe a mancare alla Chiesa, ma non solo ad essa, se non esistessero gli ordini religiosi. A questo interrogativo si potrebbe rispondere che verrebbe meno, fra l’altro, la testimonianza di una comunità di vita e di lavoro che trova la sua unità in Cristo. Un elemento costitutivo essenziale dell’identità degli ordini religiosi, al loro interno e all’esterno, è infatti la loro vita comunitaria. Quanto segue può essere paragonato alle tessere di un mosaico in cui è raffigurato il quadro generale della vita religiosa degli ordini maschili al giorno d’oggi.1 Tenteremo anzitutto di tracciare le linee fondamentali della visione teologico-pratica della vita religiosa e di indicare le esigenze che ne derivano per la vita comunitaria. In un secondo momento sarà necessario mettere in luce, dal punto di vista della psicologia sociale, determinate tendenze del comportamento di gruppo che si riscontra negli ordini religiosi maschili. Infine vorremmo trattare alcuni problemi pratici della vita comunitaria. Naturalmente in questa sede dobbiamo lasciare da parte alcuni aspetti essenziali, mentre altri dovrebbero essere trattati in maniera più differenziata. Se però queste pagine fossero in grado di spronare a una riflessione personale o a un dialogo più vivo all’interno delle comunità, avrebbero senza dubbio raggiunto il loro scopo. I vari aspetti della vita comunitaria Gli Ordini religiosi cattolici incarnano i vari modi in cui si è cercato e si cerca di vivere la sequela di Cristo nella vita comunitaria. Le grandi correnti di spiritualità sviluppatesi lungo la storia della Chiesa, che si sono formate per opera degli Ordini 1 Parlando degli ordini religiosi (maschili) in generale e al plurale, si corre certo il rischio di operare un’indebita semplificazione. Riteniamo però che si possa parlare degli ordini religiosi, se si tiene presente che alle nostre latitudini una gran parte di essi sta vivendo le stesse esperienze e si trova di fronte agli stessi problemi. Poiché ci riferiamo agli ordini maschili, usiamo le forme grammaticali maschili. Non prenderemo in considerazione in modo approfondito le differenze tra comunità religiose maschili e femminili. Nonostante i fattori specifici relativi al sesso, si possono trarre conclusioni analoghe anche per le comunità religiose femminili. religiosi, rendono visibile la ricchezza dei diversi aspetti della vita comunitaria (ad esempio, azione - contemplazione), ricchezza che non può essere ridotta a uno schema uniforme e che non potrebbe essere vissuta da un individuo da solo. La Regola benedettina assegna la giusta misura alla vita di preghiera e di comunità; l’ispirazione francescana cerca di rendere efficace e fruttuoso l’equilibrio tra profezia e istituzione; la prospettiva ignaziana tenta una sintesi tra contemplazione e azione. Così come i Vangeli, le grandi famiglie religiose hanno come unico scopo quello di testimoniare il messaggio di Gesù sulla misericordia e la bellezza di Dio, ma sono diverse nel loro «linguaggio» e nelle loro immagini. Gli Ordini religiosi sono per definitionem comunità. Più precisamente, gli Ordini religiosi in quanto tali e le loro singole comunità, conventi o abbazie, sono comunità spirituali che scaturiscono da una forma di vita spirituale — quella della «sequela di Gesù enunciata nel Vangelo» (Presbyterorum ordinis, n. 2) — e attuano quella dimensione comunitaria che è costitutiva della vita umana e cristiana. Anche se tra gli Ordini e le comunità religiose si registrano notevoli differenze nel loro modo di realizzare la vita comunitaria, e anche se vi sono membri di ordini che vivono soli, gli ordini nel loro modo di definirsi all’interno e nel modo in cui vengono percepiti all’esterno sono un insieme di persone che vogliono vivere in comunità secondo l’esempio di Gesù e secondo il suo Vangelo: poveri, celibi e obbedienti, per il regno di Dio. Nel carisma degli ordini confluiscono perciò inscindibilmente comunità e missione. La vita comunitaria testimonia infatti, in maniera visibile e concreta, la volontà salvifica di Dio per ogni uomo e per la comunità (cfr Lumen gentium, n. 47). E d’altra parte ogni attività — per quanto non appariscente o invisibile, come, ad esempio, è la preghiera nelle comunità contemplative a occhi esterni (cfr ivi, n. 46) — è una manifestazione della missione comunitaria degli Ordini religiosi e partecipa all’edificazione del corpo di Cristo, che è la Chiesa (cfr ivi, n. 8). La vita secondo i consigli evangelici, con la preghiera comune e il lavoro, vissuta in una comunità dedita a un’attività apostolica o caritativa oppure in una comunità contemplativa, può essere un segno che la testimonianza della vita cristiana ha in sé un valore intrinsecamente superiore per quanto riguarda il tempo e i contenuti rispetto a ogni prestazione quantitativa. Per questo motivo si è sempre riconosciuta alla vita religiosa una particolare apertura ai movimenti dello Spirito Santo nella Chiesa e perciò una «funzione di segno» per tutta la Chiesa, che consiste nel «rendere visibile Cristo» (cfr ivi, n. 46). Una comunità può sussistere soltanto quando possiede un minimo di unità. Da una parte, questo richiede a ogni suo membro la capacità di adattarsi all’indole degli altri e alle circostanze mutevoli. Ma, d’altro canto, unità non significa qui uniformità. Al contrario, l’unità cristiana si realizza proprio per il fatto che ognuno, con le proprie forze e i propri limiti, può e deve coinvolgere se stesso nella comunità, nella sua vita quotidiana, ma anche nella sua missione e nelle sue finalità. Come già la vita comunitaria, così anche il lavoro in comune testimonia che i cristiani in quanto comunità sono chiamati a collaborare alla santità del popolo di Dio e alla santificazione della creazione (cfr Gaudium et spes, n. 67). La collaborazione tra i membri di un ordine religioso riguarda tanto le questioni interne, ossia i compiti di guida e di organizzazione in una comunità, quanto lo spazio esterno, sia che si tratti di compiti all’interno del convento, sia che si tratti di opere apostoliche. Spesso diversi religiosi lavorano insieme in un’unica opera apostolica o caritativa, oppure — come si verifica per molti Ordini monastici e contemplativi — svolgono insieme lavori manuali (cfr Presbyterorum ordinis, n. 13). In questi ultimi tempi gli Ordini apostolici sono diventati ancor più consapevoli del fatto che alla comunità come tale competono una missione e una responsabilità apostolica. La difficoltà a vivere insieme, che si può osservare oggi nelle famiglie, nelle coppie, nell’amicizia, si fa sentire anche nella vita comunitaria. Il modo concreto in cui viene vissuta la vita comunitaria indica in maniera attendibile quanto ogni membro della comunità sia soddisfatto di se stesso, della sua comunità e della sua vocazione all’interno di quell’Ordine religioso. Una vita comunitaria riuscita può aiutare a vivere meglio una forma di vita celibataria. E questo è stato sicuramente uno dei motivi che hanno dato origine alla vita religiosa. Chi, come Gesù, vive celibe per il regno dei cieli, avverte ugualmente il peso della rinuncia al matrimonio e alla famiglia. Una vita sana e piena di dedizione può riuscire soltanto se non si negano le inclinazioni e i bisogni affettivi e sessuali, ma si cerca di integrarli nell’insieme di un progetto di vita. Richiamarsi vicendevolmente all’esempio di Gesù e al suo zelo per la causa divina, e l’affetto e l’attenzione amichevole verso i fratelli (e le sorelle) sono la condizione umana e spirituale indispensabile perché questa forma di vita acquisti un senso e divenga e rimanga attraente e fruttuosa. Nella misura in cui i bisogni sani e normali di sostegno e affetto vengono frustrati, si cercano sempre più compensazioni, si fugge dalla comunità o si diventa interiormente o esteriormente duri e acidi. Quello che abbiamo detto finora su alcuni aspetti fondamentali della vita all’interno di un Ordine religioso, è sufficiente a far capire che le persone che vivono insieme come gruppo in una comunità religiosa formano la comunità a seconda del modo in cui configurano le loro relazioni reciproche. Riferendosi a quanto afferma Paul Watzlawick si potrebbe dire così: in una comunità religiosa non si può non comunicare. In altre parole: a seconda di come mi comporto nei confronti dei singoli membri della comunità e della comunità nel suo insieme — con un atteggiamento attivo e costruttivo, passivo, aggressivo, ansioso, esigente, creativo, attento alle altrui necessità ecc. —, contribuirò a dare un certo volto alla mia comunità. La nostra personalità interagisce costantemente con quella degli altri membri della comunità: le comunità spirituali non sono immuni dalle dinamiche che operano in ogni gruppo. E ogni comunità comunica alle altre comunità dello stesso suo Ordine religioso, come pure a quelle del suo ambiente ecclesiale e sociale, l’immagine di sé che ha maturato: rifugio in cui è garantita la stabilità, luogo di ritiro nel silenzio, spazio di accoglienza per i poveri e i sofferenti, campo di sperimentazione. Benché le relazioni interpersonali non siano l’unico fondamento della vita religiosa, e neppure il più rilevante, è però importante osservare attentamente le dinamiche di gruppo che si sviluppano nelle comunità religiose. Esse infatti possono influire in maniera positiva o negativa sull’evoluzione dell’individuo e del gruppo nel raggiungere il proprio fine, che nel nostro caso consiste nel realizzare una vita comunitaria e testimoniare l’amore di Dio verso gli uomini. Nel prossimo paragrafo sarà dunque importante dare uno sguardo alla vita comunitaria dalla prospettiva della psicologia sociale. I diversi aspetti della vita religiosa secondo la psicologia sociale La psicologia sociale, di gruppo e di famiglia, in tutte le sue varianti sistemiche, suppone fondamentalmente che ogni persona viva sempre e soprattutto in un ambito di relazioni sociali e vada capita soltanto in questi termini. Le relazioni interpersonali, siano esse formali o informali, di lavoro o di amicizia, sono sempre e inevitabilmente condizionate da dinamiche psichiche, per cui i singoli membri e il gruppo nel suo insieme sono sempre in interazione tra loro. Non si può pertanto prendere in considerazione la singola persona in se stessa, ma soltanto nel suo contesto, soprattutto nei modelli relazionali che adotta. Da un lato, bisogna chiedersi quindi quale sia il ruolo reale e/o simbolico che un’esperienza di gruppo assume nei confronti dei singoli membri. Dall’altro, lo sviluppo della singola persona condiziona la configurazione interna del gruppo. È dunque importante interrogarsi anzitutto sulle interazioni reciproche che caratterizzano il rapporto circolare e ineliminabile «individuo-gruppo». Anche la configurazione esteriore della Chiesa, nei suoi aspetti organizzativi e strutturali, nel cammino del suo pellegrinaggio terreno è soggetta alle leggi della psicologia sociale.2 Allo stesso modo, la vita comunitaria all’interno di un Ordine religioso non può sottrarsi alla normale realtà della convivenza umana. Perciò è meglio porsi decisamente di fronte a tale realtà, piuttosto che trascurarla o negarla. Se i membri di una comunità fossero in grado di vedere i lati negativi e distruttivi della loro dinamica di gruppo,3 potrebbero intervenire più adeguatamente contro questi sviluppi, anziché lasciarsi dominare da essi. Se i membri di un Ordine religioso imparassero a percepire e ad esprimere più chiaramente le forze positive di coesione in se stessi e nell’insieme della comunità, si libererebbero più forze per la realizzazione attiva della vita comunitaria. Sarebbe eccessivo voler dare in questa sede una descrizione esaustiva della vita comunitaria negli Ordini religiosi sotto il profilo della psicologia sociale. Tenendo presente la complessa rete di relazioni tra società, comunità religiosa e ogni membro di un Ordine, possiamo tuttavia proporre alcune semplici riflessioni su quali siano i fattori psicologici che possono aiutare a rendere sana, fruttuosa e significativa la scelta del modo di vivere e lavorare insieme che caratterizza la vita religiosa. Questo paragrafo si propone dunque di richiamare l’attenzione soltanto su alcuni elementi della concezione e della vita di una comunità, che possono influenzare in modo rilevante la capacità di realizzare una comunità di vita e di lavoro. Interazione reciproca tra individuo e comunità Una comunità si compone di singoli membri. D’altro canto, il gruppo, nella sua totalità, determina la vita dell’individuo in diversi modi e sotto diversi aspetti. La vita comunitaria comporta che ci si influenzi a vicenda, che si impari l’uno dall’altro, che si dia e si riceva, che si viva nelle tensioni o le si eviti. La maniera in cui ognuno configura le relazioni condiziona il processo costante dei mutamenti del proprio modo di vivere e comprendere se stessi. I modelli odierni della salute psichica danno grande rilievo al fatto che le variabili biologiche, psicologiche e sociali sono strettamente collegate tra loro. Gli influssi di natura biologica (ad esempio, il temperamento individuale), i fattori psicologici (ad esempio, lo sviluppo della capacità di confidarsi con gli altri) e l’ambiente circostante (ad esempio, la 2 Cfr V. Turner, «Pilgrimage and Communitas», in Studia Missionalia 23 (1974) 305-327. Sulla psicologia e la psicoterapia di gruppo cfr I. D. Yalom - M. Leszcz, The Theory and Practice of Group Psychotherapy, New York, Basic Book, 2005. 3 convivenza sana o disturbata tra i membri di una comunità) nel loro intreccio inscindibile determinano la possibilità di vivere in sufficiente pace con se stessi e con il proprio ambiente. Le singole persone si influenzano a vicenda nei loro processi evolutivi e perciò è importante osservare se e come nelle loro relazioni assumono un atteggiamento di dominio o di sottomissione e conformismo, di dipendenza o di distanza. La capacità di modellare la vita comunitaria su un adeguato equilibrio tra vicinanza e distanza è un fattore decisivo per stabilire se i singoli membri e la comunità nel suo insieme stanno crescendo, ristagnando o regredendo. D’altra parte, una comunità nel suo insieme è importante per il singolo, poiché egli può aver modo di vedere se è accolto, se e come viene aiutato, se e come egli stesso trova sufficiente spazio e considerazione con le sue posizioni, le sue proposte e le sue necessità. Il vivere insieme in una comunità presuppone che i singoli membri abbiano raggiunto un minimo di maturità personale, perché si possa ottenere qualche frutto. Il singolo membro e il gruppo hanno bisogno di tempi, spazi e relazioni che non siano conflittuali.4 Se una persona o una comunità sono costantemente impegnati a ricercare una pace interiore ed esteriore, non riescono ad andare oltre se stessi, essere aperte agli altri e adempiere la propria missione. Perciò ogni membro del gruppo e il gruppo nel suo insieme devono avere una certa fiducia in se stessi, per poter acquisire quella tolleranza alle frustrazioni che permette di gestire delusioni, crisi o conflitti, nel e per il gruppo stesso. Se non si possiede una sufficiente stima di sé, subentrano le soddisfazioni compensative e la fuga (ad esempio, nelle relazioni, nel carico di lavoro o nell’abuso di alcool, di nicotina o di internet) oppure atteggiamenti aggressivi, attivi o passivi (ad esempio, un lamento continuo o accuse risentite, imprecazioni contro i superiori o un ostinato ripiegamento su se stessi). Relazione o lavoro? La vita comunitaria costituisce oggi una delle motivazioni più frequenti che spingono a entrare in un Ordine religioso. È bene perciò che gli Ordini religiosi riflettano sulla loro idea di che cosa sia o debba essere una comunità. Il desiderio di realizzare una più intensa comunità non è del tutto slegato dall’evoluzione che si sta verificando in tutta la società; esso rispecchia invece una tendenza che si muove in senso contrario al crescente individualismo e alla ricerca urgente di identità che vi è collegata. In un mondo in cui i confini e la stabilità dell’Io diventano sempre più problematici, si va alla ricerca di uno spazio in cui rifugiarsi e nel quale ci si trovi e ci si ritrovi continuamente.5 Il passaggio dalla società (oggettiva) alla comunità (soggettiva), con un accento particolare a una reciproca trasparenza emotiva promette sostegno e orientamento nel cammino difficile del diventare se stessi. In questo modo la comunità corre il rischio di essere strumentalizzata, in quanto l’incontro con gli altri diventa in ultima analisi soltanto un mezzo che dovrebbe facilitare il proprio sviluppo. Inoltre si dimentica spesso che ogni processo di gruppo mette in crisi l’identità dei singoli membri e può condurre a reazioni regressive nelle 4 Nel senso che ognuno deve godere di una certa tranquillità e di una certa soddisfazione verso se stesso, il suo lavoro e coloro con cui vive. 5 Cfr R. Sennett, «Destructive Gemeinschaft», in K. BACH (ed.), In Search for Community: Encounter Groups and Social Change, Washington D.C., Westview Press for the American Association for the Advancement of Science, 1978, 43 s. relazioni e nel modo di rapportarsi con i propri sentimenti e le proprie idee. E infine, una comunità non è mai in grado di dare una risposta alle domande più profonde di una persona. Pertanto, ogni membro di una comunità deve chiedersi chiaramente che cosa si aspetti dalla comunità, e quest’ultima deve giungere a definire in seno a se stessa che cosa sia e che cosa possa essere. Per poter valutare adeguatamente il modo in cui ognuno intende tacitamente se stesso all’interno del gruppo, bisognerebbe prestare attenzione alle metafore che i membri adoperano quando vogliono esprimere nel gruppo i propri sentimenti e le proprie osservazioni. A questo riguardo può essere di aiuto la distinzione tra due diverse finalità a cui tende l’orientamento di gruppo, ossia l’orientamento di inclinazione (liking group) o orientamento verso le relazioni e l’orientamento verso i compiti comuni (working group). Le due tipologie derivano da due diverse categorie di gruppi: la prima è quella in cui il gruppo è rivolto maggiormente verso l’interno e si occupa di questioni concernenti le relazioni e il potere; la seconda riguarda un gruppo che (almeno in apparenza) ha risolto le questioni relative alle relazioni e alle competenze e si dedica ai suoi compiti interni ed esterni. Queste due polarità formeranno sempre un’unità carica di tensione, se una comunità religiosa non vuole diventare un gruppo raggomitolato o un ammasso casuale di individualisti egoisti. In una comunità religiosa, di qualunque tipo sia, questi due orientamenti non devono essere separati tra loro, anche se a ciascuno di essi verrà dato un peso diverso. Autonomia e legami Uno dei problemi più difficili da affrontare, nello sviluppo di ogni gruppo, riguarda il rapporto dei singoli membri e del gruppo come tale con l’intimità e l’autorità. Non appena le cose non sono o non funzionano come dovrebbero, si criticano subito i responsabili o si sollecitano riforme strutturali. Ovviamente è più facile sottrarsi alle proprie responsabilità che non imparare a convivere con i propri limiti e gli errori degli altri. E in questo senso capita spesso che le critiche rivolte agli altri derivino dalle proprie insufficienze.6 Soprattutto nelle grandi comunità ciò induce a lasciare agli altri la responsabilità di tutto quello che riguarda la vita comunitaria e a rifugiarsi in una sorta di mentalità da albergo. Se invece la vita comunitaria deve portare i suoi frutti all’interno e all’esterno, bisogna assicurare la propria cooperazione e la propria corresponsabilità. In ogni comunità è necessario che ognuno adempia con piena responsabilità i compiti che gli sono assegnati. 7 Inoltre, ogni membro dovrebbe sentirsi in giusta misura responsabile verso gli altri. 6 Cfr J. Vanier, Community and Growth, London, Dartman, Longman and Todd, 1979. Cfr inoltre M. F. Ettin, «From Identifiable Patient to Identifiable Group. The Alchemy of the Group as a Whole», in International Journal of Group Psychotherapy 50 (2000) 137-162. 7 Per I. D. Yalom - M. Leszcz, The Theory and Practice of Group Psychotherapy, cit., un gruppo si evolve se è in grado di superare tutto ciò che ostacola la comunicazione, ossia nella misura in cui i membri riescono a condividere un orientamento comune e a realizzare un certo equilibrio tra intimità e accettazione dell’autorità. A seconda delle varie strutture della personalità, vi sono quindi membri «dipendenti» o «indipendenti», oppure «sovra-personali» o «contro-personali». Da un punto di vista psicodinamico non è lo stile della personalità in se stesso, ma il grado di rigidità dei «ruoli» che vi sono collegati ciò che indica se un membro è «pertinente» o «non pertinente». Coloro che si rivelano «non pertinenti» di fronte ai problemi di una determinata fase sono quelli che spingono il gruppo verso una nuova fase. Diciamo espressamente «in giusta misura», perché su questo punto c’è tendenzialmente una differenza fondamentale nel clima interno delle comunità femminili e maschili. Mentre nelle comunità femminili prevale spesso un eccessivo controllo sociale — e ogni sorella, proprio quasi in senso letterale, non può fare un passo senza essere osservata o regolamentata —, le comunità maschili sono caratterizzate per lo più da rapporti distanziati dei singoli membri tra loro e da una più ampia autonomia. In altre parole, con una certa esagerazione e ricorrendo a un’immagine: nelle comunità femminili c’è soltanto una grande stanza — tutte sanno tutto su ognuna —, mentre le comunità maschili sono formate da tanti piccoli castelli, il cui accesso è possibile a seconda che si abbassi o si alzi il ponte levatoio. Ma ambedue le realtà possono essere definite alla stessa maniera come situazioni di carenza (scarcity) caratterizzata da un eccesso di dipendenza e da enormi e inadeguati bisogni.8 Nel primo caso la carenza riguarda lo spazio necessario, nel secondo si tratta di mancanza di volontà e di insufficiente capacità a intessere fiduciose relazioni vincolanti. Una comunità e i suoi membri possono sottrarsi a queste situazioni se riescono a sviluppare una fiducia vicendevole, un’attenzione discreta, un orientamento comune nei compiti da affrontare oppure — detto in altre parole — momenti di sufficiente (auto)sicurezza (security). A questi problemi e a queste tensioni non può sfuggire nessuna comunità ecclesiale. La questione è di vedere come si affrontano e si risolvono i conflitti che sorgono al suo interno. Nel risolverli assumono un ruolo rilevante la maturità e le motivazioni che animano il gruppo e i singoli membri. Una delle questioni più importanti, in questo ambito, riguarda la motivazione che giustifica lo stare insieme: che cosa ci unisce in questa comunità? Senza dubbio interferiscono qui motivi religiosi, sociali, sociologici e psicologici. Un’autentica vita comunitaria dipende fondamentalmente dalla maturità dei membri del gruppo e, soprattutto, da ciò che ci si attende dal gruppo. A questo riguardo, sono aumentati negli ultimi decenni il desiderio e le esigenze di una vita comunitaria. Ma ciò non significa affatto che vi sia una maggiore attitudine alla vita comunitaria e quindi anche una spiccata tendenza a impegnarsi per la comunità. D’altro lato, gli ordini religiosi fanno fatica a integrare in se stessi giovani candidati o giovani membri. Per dirlo in maniera provocatoria: molte comunità religiose sono troppo strette e allo stesso tempo troppo fiacche per i membri giovani. Troppo fiacche, in quanto danno per scontate una maturità di fede e di preghiera, e un’attitudine alla vita comunitaria corrispondenti ai valori dei decenni precedenti, senza tener conto che oggi potrebbero non essercene più i presupposti. Troppo strette, perché gli ordini religiosi non considerano che i giovani, nei vari settori della vita pratica, hanno sviluppato diverse capacità individuali e hanno altre aspettative riguardo alla formazione, ai compiti e alla vita comunitaria all’interno dell’Ordine. Per le comunità religiose varrà la pena dunque di investire nella formazione dei formatori. 8 Cfr J. E. Gedo - A. Goldberg, Models of the Mind. A Psychoanalytic Theory, Chicago, University Press, 1973, 37-59, i quali parlano di quattro momenti o gradi intermedi della crescita individuale, che possono essere trasferiti anche ai gruppi: soddisfacimento dei bisogni fondamentali, percezione solida di se stessi, frustrazione ottimale delle attese irraggiungibili e interpretazione di tutto il processo. Un «examen particular»9 sulla vita comunitaria negli ordini apostolici. Quanto abbiamo detto finora su un piano generale, dobbiamo applicarlo ora alla vita comunitaria concreta degli ordini apostolici maschili. Quel che segue, e che riguarda in particolare l’ordinamento comunitario e la comunicazione nelle comunità religiose, va inteso come «elogio del possibile»: piccoli e fattibili passi per costruire la comunità sono più importanti e più utili di discussioni interminabili su situazioni ideali, che finiscono spesso con frustrazione e rinuncia. Le due facce della vita comunitaria In una comunità religiosa cristiana la polarità tra l’unità e la molteplicità si rispecchia nelle espressioni «essere un cuore solo e un’anima sola» e «missione apostolica». Per gli ordini apostolici è particolarmente importante l’equilibrio tra l’unità interna e l’ardente impegno apostolico. Spesso i problemi irrisolti della propria identità, del giusto rapporto tra vicinanza e distanza nelle relazioni, e una scarsa capacità di sopportare le tensioni e di risolvere positivamente i conflitti, sono ciò che rende difficile ai membri di una comunità religiosa realizzare un giusto e adeguato equilibrio in questa tensione permanente. «Essere un cuor solo e un’anima sola» in una comunità, e trovare in essa amici nel Signore, è una delle esperienze più belle che si possano fare nel corso della vita trascorsa in un Ordine religioso. Più importante ancora di una particolare vicinanza emotiva è al riguardo, da un lato, l’unità, il più delle volte inespressa, nella comune radice spirituale della spiritualità dell’Ordine, la comune patria spirituale. Dall’altro, questa forma di amicizia è caratterizzata da una grande disponibilità ad andare incontro alle richieste o alle necessità dei confratelli. I membri di un Ordine religioso non si scelgono la comunità in cui vivere e coloro con cui in essa debbano vivere. Questo può rendere talvolta difficile la vita comunitaria, ma racchiude anche la possibilità che il cammino della vita comune verso una «amicizia nel Signore» sia più genuino e arricchente di quanto lo sarebbe se si stesse semplicemente assieme con coloro con i quali ci si trova, per così dire, sulla stessa lunghezza d’onda. L’altro polo della vita e della natura delle comunità religiose attive consiste nel fatto che si dedicano alla missione apostolica. In questi ultimi decenni sono senza dubbio aumentate le esigenze e le aspettative nei confronti della vita comunitaria negli Ordini religiosi. Ma questo non significa che i membri più giovani possiedano una maggiore attitudine alla vita comunitaria e quindi anche una più accentuata tendenza a impegnarsi per la comunità, là dove non ci si può aspettare un «guadagno» personale. Soltanto in questi ultimi tempi si è presa maggiore coscienza che non solo al singolo membro di un Ordine, ma anche a ogni comunità come tale compete una missione e una responsabilità apostolica. Coloro che gravitano attorno a una comunità percepiscono molto bene se e come i confratelli affrontano assieme la loro vita quotidiana e i loro compiti oppure se vivono e lavorano come individui isolati. 9 Ignazio di Loyola negli Esercizi spirituali (nn. 24-31) chiama l’«esame particolare e quotidiano» un esame di coscienza che prende in considerazione un determinato settore della propria vita, che l’esercitante ha riconosciuto particolarmente difficile. Parlare l’uno con l’altro, vivere l’uno con l’altro La riuscita della vita comunitaria — e in questo si misura anche la capacità di comunicazione — dipende sostanzialmente dal fatto e dal modo con cui si parla insieme dei problemi che vanno sorgendo, a tempo giusto e in forma adeguata. E ciò riguarda sia le comunicazioni e le riunioni sia le tensioni e i conflitti. Naturalmente costa energia e tempo parlare con la/e persona/e interessata/e. Ma il guadagno in fiducia, che si ricava da una comunicazione aperta e sincera, ripaga tale fatica. Al contrario, evitare la comunicazione, nascondere le informazioni o parlare di questioni e di problemi interni con gente di fuori arreca danno al clima interno di una comunità. Questo significa per tutti, e non solo per i superiori, che si devono dare informazioni con tutta l’ampiezza possibile e con tutta la discrezione necessaria sulle vicende e sulle valutazioni importanti, e che si deve parlare con quel confratello o quei confratelli con i quali è necessario chiarire le questioni o i conflitti. I superiori devono badare a che i modi in cui si prendono le decisioni e le strutture della comunicazione siano chiari; che, ad esempio, i consiglieri del superiore vengano coinvolti in determinate deliberazioni e che ci si accordi bene sul quando e sul come si devono rendere note le decisioni. Un aspetto scabroso della discrezione è costituito dai «segreti di famiglia» nella comunità, ad esempio quando si sa che un confratello è alcoldipendente: tutti lo sanno, ma per vergogna e per incertezza nessuno ha il coraggio di affrontare la questione nel modo dovuto. Un mezzo indispensabile per rafforzare la comunicazione e l’unità di una comunità è l’ordinamento comunitario. Perché questo ordinamento possa risultare efficace, bisogna che se ne discuta nella comunità e che venga accettato da essa. Si potranno avere sempre eccezioni, non si riuscirà a coinvolgere i confratelli che di fronte a tutto ciò che è comunitario si immergono nel fondo come un sommergibile. Ma una comunità cresce insieme soltanto se si sente impegnata su un qualcosa che è stato concordato da tutti, e se ciò su cui ci si è accordati può venire anche richiesto con forza dal superiore in caso di necessità. E in questo vige la «legge della gradualità»: è meglio accordarsi sui passi successivi che effettivamente si possono effettuare che non proporsi ideali grandiosi, ma non realisti. Per quanto concerne i tempi comuni, si possono distinguere gli ambiti seguenti: celebrazioni liturgiche, tempi di preghiera; serate comunitarie, che hanno luogo regolarmente e a cui si dà un’impronta spirituale e/o informale; giornate comunitarie annuali, nelle quali si riflette sulla vita comunitaria; esercizi spirituali in comune; vacanze in comune di un gruppo ristretto della comunità o altre attività nel tempo libero; pasti in comune. Un allestimento gradevole degli ambienti comunitari facilita gli incontri comuni informali. È importante che i membri della comunità possano sviluppare o conservare il senso che tutti sono responsabili della buona riuscita della comunità. Questo significa anche assumersi volontariamente compiti sussidiari, avere il coraggio di prendere iniziative e prestare attenzione alle piccole cose della vita quotidiana (ad esempio, riordinare e ripulire quello che si è utilizzato). Riprendendo una famosa formulazione della 32a Congregazione generale dei gesuiti (cfr Decreto I, 2, 1), si potrebbero definire le comunità religiose come «comunità di peccatori, ma chiamati ad essere compagni di Gesù» e compagni gli uni degli altri. La concezione odierna della vita comunitaria lascia all’individuo e alla comunità una notevole libertà creativa, ma richiede anche alcune cose precise: attenzione a sé e agli altri, disponibilità a condividere i compiti e le responsabilità e la capacità di spaziare su ampi orizzonti. Una comunità perfetta non ci sarà mai. Vi sono molti ostacoli individuali e comunitari sul cammino verso la «piena maturità di Cristo» (cfr Ef 4,13), alla quale siamo chiamati anche come comunità. Ma vale la pena individuare bene quali siano le risorse umane e spirituali e svilupparle nella e per la comunità, perché i membri di un ordine religioso possano vivere meglio la loro missione come «amici nel Signore».