La vita comunitaria negli ordini religiosi

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La vita comunitaria negli ordini religiosi
La vita comunitaria negli ordini religiosi
Hans Zollner s.j.
© La Civiltà Cattolica 2006 IV 344-356 - quaderno 3754
L
a vita religiosa si trova a dover affrontare grandi sfide. Questo fatto, oltre a
causare varie crisi, porta i membri degli ordini religiosi, ma anche quelli
della gerarchia ecclesiastica e i cristiani più attenti, a chiedersi quali siano
gli elementi essenziali della vita religiosa e che cosa verrebbe a mancare alla Chiesa,
ma non solo ad essa, se non esistessero gli ordini religiosi. A questo interrogativo si
potrebbe rispondere che verrebbe meno, fra l’altro, la testimonianza di una comunità
di vita e di lavoro che trova la sua unità in Cristo. Un elemento costitutivo essenziale
dell’identità degli ordini religiosi, al loro interno e all’esterno, è infatti la loro vita
comunitaria.
Quanto segue può essere paragonato alle tessere di un mosaico in cui è raffigurato il
quadro generale della vita religiosa degli ordini maschili al giorno d’oggi.1
Tenteremo anzitutto di tracciare le linee fondamentali della visione teologico-pratica
della vita religiosa e di indicare le esigenze che ne derivano per la vita comunitaria.
In un secondo momento sarà necessario mettere in luce, dal punto di vista della
psicologia sociale, determinate tendenze del comportamento di gruppo che si
riscontra negli ordini religiosi maschili. Infine vorremmo trattare alcuni problemi
pratici della vita comunitaria. Naturalmente in questa sede dobbiamo lasciare da
parte alcuni aspetti essenziali, mentre altri dovrebbero essere trattati in maniera più
differenziata. Se però queste pagine fossero in grado di spronare a una riflessione
personale o a un dialogo più vivo all’interno delle comunità, avrebbero senza dubbio
raggiunto il loro scopo.
I vari aspetti della vita comunitaria
Gli Ordini religiosi cattolici incarnano i vari modi in cui si è cercato e si cerca di
vivere la sequela di Cristo nella vita comunitaria. Le grandi correnti di spiritualità
sviluppatesi lungo la storia della Chiesa, che si sono formate per opera degli Ordini
1
Parlando degli ordini religiosi (maschili) in generale e al plurale, si corre certo il rischio di operare
un’indebita semplificazione. Riteniamo però che si possa parlare degli ordini religiosi, se si tiene
presente che alle nostre latitudini una gran parte di essi sta vivendo le stesse esperienze e si trova di
fronte agli stessi problemi. Poiché ci riferiamo agli ordini maschili, usiamo le forme grammaticali
maschili. Non prenderemo in considerazione in modo approfondito le differenze tra comunità
religiose maschili e femminili. Nonostante i fattori specifici relativi al sesso, si possono trarre
conclusioni analoghe anche per le comunità religiose femminili.
religiosi, rendono visibile la ricchezza dei diversi aspetti della vita comunitaria (ad
esempio, azione - contemplazione), ricchezza che non può essere ridotta a uno
schema uniforme e che non potrebbe essere vissuta da un individuo da solo. La
Regola benedettina assegna la giusta misura alla vita di preghiera e di comunità;
l’ispirazione francescana cerca di rendere efficace e fruttuoso l’equilibrio tra
profezia e istituzione; la prospettiva ignaziana tenta una sintesi tra contemplazione e
azione. Così come i Vangeli, le grandi famiglie religiose hanno come unico scopo
quello di testimoniare il messaggio di Gesù sulla misericordia e la bellezza di Dio,
ma sono diverse nel loro «linguaggio» e nelle loro immagini.
Gli Ordini religiosi sono per definitionem comunità. Più precisamente, gli Ordini
religiosi in quanto tali e le loro singole comunità, conventi o abbazie, sono comunità
spirituali che scaturiscono da una forma di vita spirituale — quella della «sequela di
Gesù enunciata nel Vangelo» (Presbyterorum ordinis, n. 2) — e attuano quella
dimensione comunitaria che è costitutiva della vita umana e cristiana. Anche se tra
gli Ordini e le comunità religiose si registrano notevoli differenze nel loro modo di
realizzare la vita comunitaria, e anche se vi sono membri di ordini che vivono soli,
gli ordini nel loro modo di definirsi all’interno e nel modo in cui vengono percepiti
all’esterno sono un insieme di persone che vogliono vivere in comunità secondo
l’esempio di Gesù e secondo il suo Vangelo: poveri, celibi e obbedienti, per il regno
di Dio.
Nel carisma degli ordini confluiscono perciò inscindibilmente comunità e missione.
La vita comunitaria testimonia infatti, in maniera visibile e concreta, la volontà
salvifica di Dio per ogni uomo e per la comunità (cfr Lumen gentium, n. 47). E
d’altra parte ogni attività — per quanto non appariscente o invisibile, come, ad
esempio, è la preghiera nelle comunità contemplative a occhi esterni (cfr ivi, n. 46)
— è una manifestazione della missione comunitaria degli Ordini religiosi e partecipa
all’edificazione del corpo di Cristo, che è la Chiesa (cfr ivi, n. 8). La vita secondo i
consigli evangelici, con la preghiera comune e il lavoro, vissuta in una comunità
dedita a un’attività apostolica o caritativa oppure in una comunità contemplativa,
può essere un segno che la testimonianza della vita cristiana ha in sé un valore
intrinsecamente superiore per quanto riguarda il tempo e i contenuti rispetto a ogni
prestazione quantitativa. Per questo motivo si è sempre riconosciuta alla vita
religiosa una particolare apertura ai movimenti dello Spirito Santo nella Chiesa e
perciò una «funzione di segno» per tutta la Chiesa, che consiste nel «rendere visibile
Cristo» (cfr ivi, n. 46).
Una comunità può sussistere soltanto quando possiede un minimo di unità. Da una
parte, questo richiede a ogni suo membro la capacità di adattarsi all’indole degli altri
e alle circostanze mutevoli. Ma, d’altro canto, unità non significa qui uniformità. Al
contrario, l’unità cristiana si realizza proprio per il fatto che ognuno, con le proprie
forze e i propri limiti, può e deve coinvolgere se stesso nella comunità, nella sua vita
quotidiana, ma anche nella sua missione e nelle sue finalità. Come già la vita
comunitaria, così anche il lavoro in comune testimonia che i cristiani in quanto
comunità sono chiamati a collaborare alla santità del popolo di Dio e alla
santificazione della creazione (cfr Gaudium et spes, n. 67). La collaborazione tra i
membri di un ordine religioso riguarda tanto le questioni interne, ossia i compiti di
guida e di organizzazione in una comunità, quanto lo spazio esterno, sia che si tratti
di compiti all’interno del convento, sia che si tratti di opere apostoliche. Spesso
diversi religiosi lavorano insieme in un’unica opera apostolica o caritativa, oppure
— come si verifica per molti Ordini monastici e contemplativi — svolgono insieme
lavori manuali (cfr Presbyterorum ordinis, n. 13). In questi ultimi tempi gli Ordini
apostolici sono diventati ancor più consapevoli del fatto che alla comunità come tale
competono una missione e una responsabilità apostolica.
La difficoltà a vivere insieme, che si può osservare oggi nelle famiglie, nelle coppie,
nell’amicizia, si fa sentire anche nella vita comunitaria. Il modo concreto in cui
viene vissuta la vita comunitaria indica in maniera attendibile quanto ogni membro
della comunità sia soddisfatto di se stesso, della sua comunità e della sua vocazione
all’interno di quell’Ordine religioso. Una vita comunitaria riuscita può aiutare a
vivere meglio una forma di vita celibataria. E questo è stato sicuramente uno dei
motivi che hanno dato origine alla vita religiosa. Chi, come Gesù, vive celibe per il
regno dei cieli, avverte ugualmente il peso della rinuncia al matrimonio e alla
famiglia. Una vita sana e piena di dedizione può riuscire soltanto se non si negano le
inclinazioni e i bisogni affettivi e sessuali, ma si cerca di integrarli nell’insieme di
un progetto di vita. Richiamarsi vicendevolmente all’esempio di Gesù e al suo zelo
per la causa divina, e l’affetto e l’attenzione amichevole verso i fratelli (e le sorelle)
sono la condizione umana e spirituale indispensabile perché questa forma di vita
acquisti un senso e divenga e rimanga attraente e fruttuosa. Nella misura in cui i
bisogni sani e normali di sostegno e affetto vengono frustrati, si cercano sempre più
compensazioni, si fugge dalla comunità o si diventa interiormente o esteriormente
duri e acidi.
Quello che abbiamo detto finora su alcuni aspetti fondamentali della vita all’interno
di un Ordine religioso, è sufficiente a far capire che le persone che vivono insieme
come gruppo in una comunità religiosa formano la comunità a seconda del modo in
cui configurano le loro relazioni reciproche. Riferendosi a quanto afferma Paul
Watzlawick si potrebbe dire così: in una comunità religiosa non si può non
comunicare. In altre parole: a seconda di come mi comporto nei confronti dei singoli
membri della comunità e della comunità nel suo insieme — con un atteggiamento
attivo e costruttivo, passivo, aggressivo, ansioso, esigente, creativo, attento alle
altrui necessità ecc. —, contribuirò a dare un certo volto alla mia comunità. La
nostra personalità interagisce costantemente con quella degli altri membri della
comunità: le comunità spirituali non sono immuni dalle dinamiche che operano in
ogni gruppo. E ogni comunità comunica alle altre comunità dello stesso suo Ordine
religioso, come pure a quelle del suo ambiente ecclesiale e sociale, l’immagine di sé
che ha maturato: rifugio in cui è garantita la stabilità, luogo di ritiro nel silenzio,
spazio di accoglienza per i poveri e i sofferenti, campo di sperimentazione. Benché
le relazioni interpersonali non siano l’unico fondamento della vita religiosa, e
neppure il più rilevante, è però importante osservare attentamente le dinamiche di
gruppo che si sviluppano nelle comunità religiose. Esse infatti possono influire in
maniera positiva o negativa sull’evoluzione dell’individuo e del gruppo nel
raggiungere il proprio fine, che nel nostro caso consiste nel realizzare una vita
comunitaria e testimoniare l’amore di Dio verso gli uomini. Nel prossimo paragrafo
sarà dunque importante dare uno sguardo alla vita comunitaria dalla prospettiva
della psicologia sociale.
I diversi aspetti della vita religiosa secondo la psicologia sociale
La psicologia sociale, di gruppo e di famiglia, in tutte le sue varianti sistemiche,
suppone fondamentalmente che ogni persona viva sempre e soprattutto in un ambito
di relazioni sociali e vada capita soltanto in questi termini. Le relazioni
interpersonali, siano esse formali o informali, di lavoro o di amicizia, sono sempre e
inevitabilmente condizionate da dinamiche psichiche, per cui i singoli membri e il
gruppo nel suo insieme sono sempre in interazione tra loro. Non si può pertanto
prendere in considerazione la singola persona in se stessa, ma soltanto nel suo
contesto, soprattutto nei modelli relazionali che adotta. Da un lato, bisogna chiedersi
quindi quale sia il ruolo reale e/o simbolico che un’esperienza di gruppo assume nei
confronti dei singoli membri. Dall’altro, lo sviluppo della singola persona
condiziona la configurazione interna del gruppo. È dunque importante interrogarsi
anzitutto sulle interazioni reciproche che caratterizzano il rapporto circolare e
ineliminabile «individuo-gruppo». Anche la configurazione esteriore della Chiesa,
nei suoi aspetti organizzativi e strutturali, nel cammino del suo pellegrinaggio
terreno è soggetta alle leggi della psicologia sociale.2 Allo stesso modo, la vita
comunitaria all’interno di un Ordine religioso non può sottrarsi alla normale realtà
della convivenza umana. Perciò è meglio porsi decisamente di fronte a tale realtà,
piuttosto che trascurarla o negarla. Se i membri di una comunità fossero in grado di
vedere i lati negativi e distruttivi della loro dinamica di gruppo,3 potrebbero
intervenire più adeguatamente contro questi sviluppi, anziché lasciarsi dominare da
essi. Se i membri di un Ordine religioso imparassero a percepire e ad esprimere più
chiaramente le forze positive di coesione in se stessi e nell’insieme della comunità,
si libererebbero più forze per la realizzazione attiva della vita comunitaria. Sarebbe
eccessivo voler dare in questa sede una descrizione esaustiva della vita comunitaria
negli Ordini religiosi sotto il profilo della psicologia sociale. Tenendo presente la
complessa rete di relazioni tra società, comunità religiosa e ogni membro di un
Ordine, possiamo tuttavia proporre alcune semplici riflessioni su quali siano i fattori
psicologici che possono aiutare a rendere sana, fruttuosa e significativa la scelta del
modo di vivere e lavorare insieme che caratterizza la vita religiosa. Questo paragrafo
si propone dunque di richiamare l’attenzione soltanto su alcuni elementi della
concezione e della vita di una comunità, che possono influenzare in modo rilevante
la capacità di realizzare una comunità di vita e di lavoro.
Interazione reciproca tra individuo e comunità
Una comunità si compone di singoli membri. D’altro canto, il gruppo, nella sua
totalità, determina la vita dell’individuo in diversi modi e sotto diversi aspetti. La
vita comunitaria comporta che ci si influenzi a vicenda, che si impari l’uno
dall’altro, che si dia e si riceva, che si viva nelle tensioni o le si eviti. La maniera in
cui ognuno configura le relazioni condiziona il processo costante dei mutamenti del
proprio modo di vivere e comprendere se stessi. I modelli odierni della salute
psichica danno grande rilievo al fatto che le variabili biologiche, psicologiche e
sociali sono strettamente collegate tra loro. Gli influssi di natura biologica (ad
esempio, il temperamento individuale), i fattori psicologici (ad esempio, lo sviluppo
della capacità di confidarsi con gli altri) e l’ambiente circostante (ad esempio, la
2
Cfr V. Turner, «Pilgrimage and Communitas», in Studia Missionalia 23 (1974) 305-327.
Sulla psicologia e la psicoterapia di gruppo cfr I. D. Yalom - M. Leszcz, The Theory and Practice of
Group Psychotherapy, New York, Basic Book, 2005.
3
convivenza sana o disturbata tra i membri di una comunità) nel loro intreccio
inscindibile determinano la possibilità di vivere in sufficiente pace con se stessi e
con il proprio ambiente.
Le singole persone si influenzano a vicenda nei loro processi evolutivi e perciò è
importante osservare se e come nelle loro relazioni assumono un atteggiamento di
dominio o di sottomissione e conformismo, di dipendenza o di distanza. La capacità
di modellare la vita comunitaria su un adeguato equilibrio tra vicinanza e distanza è
un fattore decisivo per stabilire se i singoli membri e la comunità nel suo insieme
stanno crescendo, ristagnando o regredendo. D’altra parte, una comunità nel suo
insieme è importante per il singolo, poiché egli può aver modo di vedere se è
accolto, se e come viene aiutato, se e come egli stesso trova sufficiente spazio e
considerazione con le sue posizioni, le sue proposte e le sue necessità. Il vivere
insieme in una comunità presuppone che i singoli membri abbiano raggiunto un
minimo di maturità personale, perché si possa ottenere qualche frutto. Il singolo
membro e il gruppo hanno bisogno di tempi, spazi e relazioni che non siano
conflittuali.4 Se una persona o una comunità sono costantemente impegnati a
ricercare una pace interiore ed esteriore, non riescono ad andare oltre se stessi,
essere aperte agli altri e adempiere la propria missione. Perciò ogni membro del
gruppo e il gruppo nel suo insieme devono avere una certa fiducia in se stessi, per
poter acquisire quella tolleranza alle frustrazioni che permette di gestire delusioni,
crisi o conflitti, nel e per il gruppo stesso. Se non si possiede una sufficiente stima di
sé, subentrano le soddisfazioni compensative e la fuga (ad esempio, nelle relazioni,
nel carico di lavoro o nell’abuso di alcool, di nicotina o di internet) oppure
atteggiamenti aggressivi, attivi o passivi (ad esempio, un lamento continuo o accuse
risentite, imprecazioni contro i superiori o un ostinato ripiegamento su se stessi).
Relazione o lavoro?
La vita comunitaria costituisce oggi una delle motivazioni più frequenti che
spingono a entrare in un Ordine religioso. È bene perciò che gli Ordini religiosi
riflettano sulla loro idea di che cosa sia o debba essere una comunità. Il desiderio di
realizzare una più intensa comunità non è del tutto slegato dall’evoluzione che si sta
verificando in tutta la società; esso rispecchia invece una tendenza che si muove in
senso contrario al crescente individualismo e alla ricerca urgente di identità che vi è
collegata. In un mondo in cui i confini e la stabilità dell’Io diventano sempre più
problematici, si va alla ricerca di uno spazio in cui rifugiarsi e nel quale ci si trovi e
ci si ritrovi continuamente.5 Il passaggio dalla società (oggettiva) alla comunità
(soggettiva), con un accento particolare a una reciproca trasparenza emotiva
promette sostegno e orientamento nel cammino difficile del diventare se stessi. In
questo modo la comunità corre il rischio di essere strumentalizzata, in quanto
l’incontro con gli altri diventa in ultima analisi soltanto un mezzo che dovrebbe
facilitare il proprio sviluppo. Inoltre si dimentica spesso che ogni processo di gruppo
mette in crisi l’identità dei singoli membri e può condurre a reazioni regressive nelle
4
Nel senso che ognuno deve godere di una certa tranquillità e di una certa soddisfazione verso se
stesso, il suo lavoro e coloro con cui vive.
5
Cfr R. Sennett, «Destructive Gemeinschaft», in K. BACH (ed.), In Search for Community:
Encounter Groups and Social Change, Washington D.C., Westview Press for the American
Association for the Advancement of Science, 1978, 43 s.
relazioni e nel modo di rapportarsi con i propri sentimenti e le proprie idee. E infine,
una comunità non è mai in grado di dare una risposta alle domande più profonde di
una persona. Pertanto, ogni membro di una comunità deve chiedersi chiaramente che
cosa si aspetti dalla comunità, e quest’ultima deve giungere a definire in seno a se
stessa che cosa sia e che cosa possa essere. Per poter valutare adeguatamente il
modo in cui ognuno intende tacitamente se stesso all’interno del gruppo,
bisognerebbe prestare attenzione alle metafore che i membri adoperano quando
vogliono esprimere nel gruppo i propri sentimenti e le proprie osservazioni.
A questo riguardo può essere di aiuto la distinzione tra due diverse finalità a cui
tende l’orientamento di gruppo, ossia l’orientamento di inclinazione (liking group) o
orientamento verso le relazioni e l’orientamento verso i compiti comuni (working
group). Le due tipologie derivano da due diverse categorie di gruppi: la prima è
quella in cui il gruppo è rivolto maggiormente verso l’interno e si occupa di
questioni concernenti le relazioni e il potere; la seconda riguarda un gruppo che
(almeno in apparenza) ha risolto le questioni relative alle relazioni e alle competenze
e si dedica ai suoi compiti interni ed esterni. Queste due polarità formeranno sempre
un’unità carica di tensione, se una comunità religiosa non vuole diventare un gruppo
raggomitolato o un ammasso casuale di individualisti egoisti. In una comunità
religiosa, di qualunque tipo sia, questi due orientamenti non devono essere separati
tra loro, anche se a ciascuno di essi verrà dato un peso diverso.
Autonomia e legami
Uno dei problemi più difficili da affrontare, nello sviluppo di ogni gruppo, riguarda
il rapporto dei singoli membri e del gruppo come tale con l’intimità e l’autorità. Non
appena le cose non sono o non funzionano come dovrebbero, si criticano subito i
responsabili o si sollecitano riforme strutturali. Ovviamente è più facile sottrarsi alle
proprie responsabilità che non imparare a convivere con i propri limiti e gli errori
degli altri. E in questo senso capita spesso che le critiche rivolte agli altri derivino
dalle proprie insufficienze.6 Soprattutto nelle grandi comunità ciò induce a lasciare
agli altri la responsabilità di tutto quello che riguarda la vita comunitaria e a
rifugiarsi in una sorta di mentalità da albergo. Se invece la vita comunitaria deve
portare i suoi frutti all’interno e all’esterno, bisogna assicurare la propria
cooperazione e la propria corresponsabilità. In ogni comunità è necessario che
ognuno adempia con piena responsabilità i compiti che gli sono assegnati. 7 Inoltre,
ogni membro dovrebbe sentirsi in giusta misura responsabile verso gli altri.
6
Cfr J. Vanier, Community and Growth, London, Dartman, Longman and Todd, 1979. Cfr inoltre M.
F. Ettin, «From Identifiable Patient to Identifiable Group. The Alchemy of the Group as a Whole», in
International Journal of Group Psychotherapy 50 (2000) 137-162.
7
Per I. D. Yalom - M. Leszcz, The Theory and Practice of Group Psychotherapy, cit., un gruppo si
evolve se è in grado di superare tutto ciò che ostacola la comunicazione, ossia nella misura in cui i
membri riescono a condividere un orientamento comune e a realizzare un certo equilibrio tra intimità
e accettazione dell’autorità. A seconda delle varie strutture della personalità, vi sono quindi membri
«dipendenti» o «indipendenti», oppure «sovra-personali» o «contro-personali». Da un punto di vista
psicodinamico non è lo stile della personalità in se stesso, ma il grado di rigidità dei «ruoli» che vi
sono collegati ciò che indica se un membro è «pertinente» o «non pertinente». Coloro che si rivelano
«non pertinenti» di fronte ai problemi di una determinata fase sono quelli che spingono il gruppo
verso una nuova fase.
Diciamo espressamente «in giusta misura», perché su questo punto c’è
tendenzialmente una differenza fondamentale nel clima interno delle comunità
femminili e maschili. Mentre nelle comunità femminili prevale spesso un eccessivo
controllo sociale — e ogni sorella, proprio quasi in senso letterale, non può fare un
passo senza essere osservata o regolamentata —, le comunità maschili sono
caratterizzate per lo più da rapporti distanziati dei singoli membri tra loro e da una
più ampia autonomia. In altre parole, con una certa esagerazione e ricorrendo a
un’immagine: nelle comunità femminili c’è soltanto una grande stanza — tutte
sanno tutto su ognuna —, mentre le comunità maschili sono formate da tanti piccoli
castelli, il cui accesso è possibile a seconda che si abbassi o si alzi il ponte levatoio.
Ma ambedue le realtà possono essere definite alla stessa maniera come situazioni di
carenza (scarcity) caratterizzata da un eccesso di dipendenza e da enormi e
inadeguati bisogni.8 Nel primo caso la carenza riguarda lo spazio necessario, nel
secondo si tratta di mancanza di volontà e di insufficiente capacità a intessere
fiduciose relazioni vincolanti. Una comunità e i suoi membri possono sottrarsi a
queste situazioni se riescono a sviluppare una fiducia vicendevole, un’attenzione
discreta, un orientamento comune nei compiti da affrontare oppure — detto in altre
parole — momenti di sufficiente (auto)sicurezza (security).
A questi problemi e a queste tensioni non può sfuggire nessuna comunità ecclesiale.
La questione è di vedere come si affrontano e si risolvono i conflitti che sorgono al
suo interno. Nel risolverli assumono un ruolo rilevante la maturità e le motivazioni
che animano il gruppo e i singoli membri. Una delle questioni più importanti, in
questo ambito, riguarda la motivazione che giustifica lo stare insieme: che cosa ci
unisce in questa comunità? Senza dubbio interferiscono qui motivi religiosi, sociali,
sociologici e psicologici. Un’autentica vita comunitaria dipende fondamentalmente
dalla maturità dei membri del gruppo e, soprattutto, da ciò che ci si attende dal
gruppo. A questo riguardo, sono aumentati negli ultimi decenni il desiderio e le
esigenze di una vita comunitaria. Ma ciò non significa affatto che vi sia una
maggiore attitudine alla vita comunitaria e quindi anche una spiccata tendenza a
impegnarsi per la comunità. D’altro lato, gli ordini religiosi fanno fatica a integrare
in se stessi giovani candidati o giovani membri. Per dirlo in maniera provocatoria:
molte comunità religiose sono troppo strette e allo stesso tempo troppo fiacche per i
membri giovani. Troppo fiacche, in quanto danno per scontate una maturità di fede e
di preghiera, e un’attitudine alla vita comunitaria corrispondenti ai valori dei decenni
precedenti, senza tener conto che oggi potrebbero non essercene più i presupposti.
Troppo strette, perché gli ordini religiosi non considerano che i giovani, nei vari
settori della vita pratica, hanno sviluppato diverse capacità individuali e hanno altre
aspettative riguardo alla formazione, ai compiti e alla vita comunitaria all’interno
dell’Ordine. Per le comunità religiose varrà la pena dunque di investire nella
formazione dei formatori.
8
Cfr J. E. Gedo - A. Goldberg, Models of the Mind. A Psychoanalytic Theory, Chicago, University
Press, 1973, 37-59, i quali parlano di quattro momenti o gradi intermedi della crescita individuale,
che possono essere trasferiti anche ai gruppi: soddisfacimento dei bisogni fondamentali, percezione
solida di se stessi, frustrazione ottimale delle attese irraggiungibili e interpretazione di tutto il
processo.
Un «examen particular»9 sulla vita comunitaria negli ordini apostolici. Quanto
abbiamo detto finora su un piano generale, dobbiamo applicarlo ora alla vita
comunitaria concreta degli ordini apostolici maschili. Quel che segue, e che riguarda
in particolare l’ordinamento comunitario e la comunicazione nelle comunità
religiose, va inteso come «elogio del possibile»: piccoli e fattibili passi per costruire
la comunità sono più importanti e più utili di discussioni interminabili su situazioni
ideali, che finiscono spesso con frustrazione e rinuncia.
Le due facce della vita comunitaria
In una comunità religiosa cristiana la polarità tra l’unità e la molteplicità si
rispecchia nelle espressioni «essere un cuore solo e un’anima sola» e «missione
apostolica». Per gli ordini apostolici è particolarmente importante l’equilibrio tra
l’unità interna e l’ardente impegno apostolico. Spesso i problemi irrisolti della
propria identità, del giusto rapporto tra vicinanza e distanza nelle relazioni, e una
scarsa capacità di sopportare le tensioni e di risolvere positivamente i conflitti, sono
ciò che rende difficile ai membri di una comunità religiosa realizzare un giusto e
adeguato equilibrio in questa tensione permanente.
«Essere un cuor solo e un’anima sola» in una comunità, e trovare in essa amici nel
Signore, è una delle esperienze più belle che si possano fare nel corso della vita
trascorsa in un Ordine religioso. Più importante ancora di una particolare vicinanza
emotiva è al riguardo, da un lato, l’unità, il più delle volte inespressa, nella comune
radice spirituale della spiritualità dell’Ordine, la comune patria spirituale. Dall’altro,
questa forma di amicizia è caratterizzata da una grande disponibilità ad andare
incontro alle richieste o alle necessità dei confratelli. I membri di un Ordine
religioso non si scelgono la comunità in cui vivere e coloro con cui in essa debbano
vivere. Questo può rendere talvolta difficile la vita comunitaria, ma racchiude anche
la possibilità che il cammino della vita comune verso una «amicizia nel Signore» sia
più genuino e arricchente di quanto lo sarebbe se si stesse semplicemente assieme
con coloro con i quali ci si trova, per così dire, sulla stessa lunghezza d’onda.
L’altro polo della vita e della natura delle comunità religiose attive consiste nel fatto
che si dedicano alla missione apostolica. In questi ultimi decenni sono senza dubbio
aumentate le esigenze e le aspettative nei confronti della vita comunitaria negli
Ordini religiosi. Ma questo non significa che i membri più giovani possiedano una
maggiore attitudine alla vita comunitaria e quindi anche una più accentuata tendenza
a impegnarsi per la comunità, là dove non ci si può aspettare un «guadagno»
personale. Soltanto in questi ultimi tempi si è presa maggiore coscienza che non solo
al singolo membro di un Ordine, ma anche a ogni comunità come tale compete una
missione e una responsabilità apostolica. Coloro che gravitano attorno a una
comunità percepiscono molto bene se e come i confratelli affrontano assieme la loro
vita quotidiana e i loro compiti oppure se vivono e lavorano come individui isolati.
9
Ignazio di Loyola negli Esercizi spirituali (nn. 24-31) chiama l’«esame particolare e quotidiano» un
esame di coscienza che prende in considerazione un determinato settore della propria vita, che
l’esercitante ha riconosciuto particolarmente difficile.
Parlare l’uno con l’altro, vivere l’uno con l’altro
La riuscita della vita comunitaria — e in questo si misura anche la capacità di
comunicazione — dipende sostanzialmente dal fatto e dal modo con cui si parla
insieme dei problemi che vanno sorgendo, a tempo giusto e in forma adeguata. E ciò
riguarda sia le comunicazioni e le riunioni sia le tensioni e i conflitti. Naturalmente
costa energia e tempo parlare con la/e persona/e interessata/e. Ma il guadagno in
fiducia, che si ricava da una comunicazione aperta e sincera, ripaga tale fatica. Al
contrario, evitare la comunicazione, nascondere le informazioni o parlare di
questioni e di problemi interni con gente di fuori arreca danno al clima interno di
una comunità. Questo significa per tutti, e non solo per i superiori, che si devono
dare informazioni con tutta l’ampiezza possibile e con tutta la discrezione necessaria
sulle vicende e sulle valutazioni importanti, e che si deve parlare con quel
confratello o quei confratelli con i quali è necessario chiarire le questioni o i
conflitti. I superiori devono badare a che i modi in cui si prendono le decisioni e le
strutture della comunicazione siano chiari; che, ad esempio, i consiglieri del
superiore vengano coinvolti in determinate deliberazioni e che ci si accordi bene sul
quando e sul come si devono rendere note le decisioni. Un aspetto scabroso della
discrezione è costituito dai «segreti di famiglia» nella comunità, ad esempio quando
si sa che un confratello è alcoldipendente: tutti lo sanno, ma per vergogna e per
incertezza nessuno ha il coraggio di affrontare la questione nel modo dovuto.
Un mezzo indispensabile per rafforzare la comunicazione e l’unità di una comunità è
l’ordinamento comunitario. Perché questo ordinamento possa risultare efficace,
bisogna che se ne discuta nella comunità e che venga accettato da essa. Si potranno
avere sempre eccezioni, non si riuscirà a coinvolgere i confratelli che di fronte a
tutto ciò che è comunitario si immergono nel fondo come un sommergibile. Ma una
comunità cresce insieme soltanto se si sente impegnata su un qualcosa che è stato
concordato da tutti, e se ciò su cui ci si è accordati può venire anche richiesto con
forza dal superiore in caso di necessità. E in questo vige la «legge della gradualità»:
è meglio accordarsi sui passi successivi che effettivamente si possono effettuare che
non proporsi ideali grandiosi, ma non realisti.
Per quanto concerne i tempi comuni, si possono distinguere gli ambiti seguenti:
celebrazioni liturgiche, tempi di preghiera; serate comunitarie, che hanno luogo
regolarmente e a cui si dà un’impronta spirituale e/o informale; giornate comunitarie
annuali, nelle quali si riflette sulla vita comunitaria; esercizi spirituali in comune;
vacanze in comune di un gruppo ristretto della comunità o altre attività nel tempo
libero; pasti in comune. Un allestimento gradevole degli ambienti comunitari facilita
gli incontri comuni informali. È importante che i membri della comunità possano
sviluppare o conservare il senso che tutti sono responsabili della buona riuscita della
comunità. Questo significa anche assumersi volontariamente compiti sussidiari,
avere il coraggio di prendere iniziative e prestare attenzione alle piccole cose della
vita quotidiana (ad esempio, riordinare e ripulire quello che si è utilizzato).
Riprendendo una famosa formulazione della 32a Congregazione generale dei gesuiti
(cfr Decreto I, 2, 1), si potrebbero definire le comunità religiose come «comunità di
peccatori, ma chiamati ad essere compagni di Gesù» e compagni gli uni degli altri.
La concezione odierna della vita comunitaria lascia all’individuo e alla comunità
una notevole libertà creativa, ma richiede anche alcune cose precise: attenzione a sé
e agli altri, disponibilità a condividere i compiti e le responsabilità e la capacità di
spaziare su ampi orizzonti. Una comunità perfetta non ci sarà mai. Vi sono molti
ostacoli individuali e comunitari sul cammino verso la «piena maturità di Cristo»
(cfr Ef 4,13), alla quale siamo chiamati anche come comunità. Ma vale la pena
individuare bene quali siano le risorse umane e spirituali e svilupparle nella e per la
comunità, perché i membri di un ordine religioso possano vivere meglio la loro
missione come «amici nel Signore».