Andrea Cortellessa, Alfabeta2

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Andrea Cortellessa, Alfabeta2
alfabeta2
Mensile
di intervento
culturale
Novembre 2012
Numero 24 – Anno III
euro 5,00
24
Il primo mensile
con un supplemento quotidiano
IPERREALISMI politica e reality
IPERCORPI paralimpiadi e postumano
IPERGIOCHI un’addiction di massa
IPERTV documentari e serial
Roberto Barni
LA PAZIENZA DI OCCUPY - GIÙ LE MANI DALLA 180 - TRAGEDIA GRECA
POESIA FRANCIA - DESIGN IN CUCINA - RIPOLITICIZZARE LA DECRESCITA
ILIBRI
: 4 PAGINE DI RECENSIONI
SUPPLEMENTO SPECIALE ALFACAGE – IL GRANDE EVERSORE
alfabeta2.24
iLIBRI
Carlo Emilio Gadda
Quer pasticciaccio brutto
de via Merulana
letto da Fabrizio Gifuni
Emons Audiolibri, cd mp3, 13h 34’, € 18.90
«Colleghi di alta statura» definì una volta, Gianfranco Contini,
Gadda e Joyce. Ma – al di là della considerazione, inconfutabile,
della rispettiva altezza entro le letterature che hanno avuto la ventura di fregiarsi di simili campioni – una quantità di voci critiche
illustri hanno tentato di definire tale superiore colleganza (a partire da Contini stesso: che li accomunava nella cifra d’un «manierismo espressionistico» capace di mostruosamente miscelare «elementi linguistici disparati, maneggiati con estrema sapienza, volta
a rendere, con effetti di grottesco enorme […], il caos d’una cultura e d’un mondo in crisi»).
Un vettore di ricerca comune va senz’altro indicato nella componente orale: nella colossale partitura vocale (e ovviamente plurivoca, oltre che plurilinguistica; e insomma, epica) cui i due autori
giungono col rispettivo opus ultimum, Finnegans Wake e Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Forse proprio in quanto memore del terrore esaltato che i frammenti del Work in progress avevano fatto serpeggiare negli anni Venti e Trenta, nel 1957 all’apparire del Pasticciaccio – e dell’impegnativo paragone – il sempre
cauteloso Gadda si schermì, nei confronti degli «esperimenti intellettualistici e disperati» del collega.
Ma se è vero che il Pasticciaccio rappresenta un vero e proprio salto
di piano, rispetto a quanto lo precede, è proprio per la smagliante quanto frastornante messa in scena dell’oralità, e anzi della vocabilità, della parola narrativa: un universo tutto verbale, nel
quale ogni evento sulla pagina figura riportato, pronunciato a
voce alta, tutto viene insomma «cinguettato» dai tanti merli canterini che affollano la strada del titolo – «questi che vien fatto di
chiamare gli indigeni», come scrisse Manganelli. E se è vero, come
ha mostrato Gabriele Frasca nel grande saggio archeologico sulla
narrativa occidentale come messa in scena della voce (La lettera
che muore, Meltemi 2005), che proprio quello di Joyce è l’esempio di «testo che non si rassegna alla pagina» ma tende a una dimensione acustica e grammofonata (Ulisse grammofono s’intitolò
nel 1984 una conferenza di Jacques Derrida, in Italia pubblicata
dal melangolo nel 2004: alludendo al monologo del grammofono, appunto, nel capitolo «Circe» di Ulysses), è proprio qui che
andrà ricercata la radice più fonda della colleganza in questione.
Sta di fatto che non a caso nel 1929, a Cambridge, Joyce volle registrare una propria lettura del capitolo finneganiano «Anna Livia
Plurabelle» (ora ascoltabile anche su You
Tube), mentre per il Pasticciaccio ci
dobbiamo affidare a interpreti secondi, che abbiano più o meno
approfondito la testualità di
Gadda. E chi vi si è dedicato senza ri-
sparmio, negli ultimi anni, è stato senz’altro Fabrizio Gifuni: già
strepitoso interprete (per la regia del compianto Giuseppe Bertolucci) dell’Ingegner Gadda va alla guerra – remix intelligentissimo
del Giornale di guerra e di prigionia e di Eros e Priapo (nel dvd minimum fax Gadda e Pasolini: antibiografia di una nazione) – che
ora realizza l’incredibile pièce de résistance della lettura integrale
del Pasticciaccio.
Il risultato è non meno che straordinario: senza mai cedere alla
foga demoniaca della precedente prova gaddiana, ma anzi scegliendo una lettura lenta e ruminante – quasi a voler misurare carnalmente lo spessore di ogni singola parola – Gifuni fa riverberare ogni
minima screziatura tonale, ogni ispessimento fonico del testo; ne
pantografa ogni crescendo, ne cesella plasticamente ogni clausola.
E (seguendo in qualche modo la strada già indicata da Luca Ronconi, con la storica riduzione teatrale del 1996) evidenzia magistralmente il «poliglottismo interno» (come Contini chiamava
quello di Joyce) che – come in Joyce e più che in Joyce – fa del Pasticciaccio il luogo unico della «dissipazione della voce narrativa»
(Stefano Agosti): quella per cui il narratore sin dal titolo (Quer…
de…) incista nella diegesi i dialetti iperbolicamente convocati dalla
mimesi dei discorsi diretti. All’intero, rutilante «sogno del carabiniere» dell’ottavo capitolo, per esempio, Gifuni imprime dunque
la cadenza piemontese del brigadiere Pestalozzi, e quando s’imbatte in una locuzione romanesca è costretto a dar vita a uno straordinario impasto fonico dei due dialetti. Per questa via si giunge all’urlo burino e lancinante dell’Assunta, a quella conclusione «No,
sor dottò, no, no, nun so’ stata io!» che – me ne rendo conto solo
ora, con un brivido – risponde perfettamente, come in uno specchio oscuro, allo «Yes I said yes I will Yes» di Molly Bloom.
Andrea Cortellessa
Christian Raimo
Il peso della grazia
Einaudi, pp. 455, € 21
Ho letto il romanzo di Raimo forse senza capirlo. Dicono che è un
romanzo sull’amore. Certo, come negarlo; ma l’amore è la forma
occasionale della realtà che, per quanto la riguarda, sta altrove. E
Raimo in questo romanzo si mette sulle sue tracce e la trova dove
non c’è. Se ponete attenzione scoprite che tutti i momenti realistici del romanzo sono pretestuosi e difficilmente credibili: l’incontro
del protagonista con Fiora in un pronto soccorso (dove si discute
di Omero, Monet e Borges); la scusa della restituzione della tessere di sanità perché il flirt possa avanzare e diventare amore; l’incidente capitato a Fiora in Africa (è accusata di avere travolto con il
suv un bambino) per giustificare (quando scopre di essere incinta)
l’improvviso fuga dal protagonista disperato; e, massimo dei massimi, il ritrovamento di Fiora attraverso il riconoscimento della
targa della sua auto, che l’innamorato orami sfinito girovagando a
caso per la città legge nel camioncino che lo ha superato e ora lo
precede. E ne potrei indicare molti altre, pretestuosità e menzogne,
sicuro di non essere contraddetto.
È su questo fragile supporto di eventi che poggia, facendoli crollare (togliendogli significato), la realtà
(chiamiamolo pure il vero contenuto)
del romanzo. La realtà del
romanzo è la
Disegni di Roberto Barni
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distrazione del protagonista. È un giovane fisico precario impegnato in una ricerca che lui per primo avverte improbabile: misurare la velocità delle fiamme turbolente (le prime analisi le azzarda in un laboratorio in Finlandia dove per un mese intero non
può uscire di casa perché il mondo intero è sepolto dalla neve). È
lui stesso a dire: «è come se cercassi un liquido di tipo asciutto».
Invitato a un incontro di selezione alla ricerca di un posto di lavoro più stabile, l’argomento che sceglie (e sul quale sarà giudicato) è il fallimento, affascinato dalla voragine che si apre sotto coloro che falliscono, in cui (pur smarrendosi) sperimentano tensioni ignote.
Vaga per i quartieri e le strade della città, senza meta: «mi piace
[...] fare turismo umano, osservare le facce delle persone». In qualsiasi situazione si trovi o qualsiasi cosa stia per fare avverte l’urgenza di allontanarsene e pensare ad altro. È continuamente distratto, spinto da uno scavallamento ininterrotto verso ciò che in quel
momento non è utile e non c’è. Infinitamente disponibile si incontra (e li aiuta) i barboni della città (in particolare i poveri polacchi sempre ubriachi) e a un certo punto, già avanti negli anni,
si fa cristiano; anche perché (io sospetto soprattutto perché) «il
cristianesimo è una religione che cerca di convincerti soprattutto
del contrario di quello che pensi. Che dice le cose brutte sono
belle. Che i morti non sono morti. Che richiede di amare gli ingrati e i malvagi». E di questo la sua esperienza gli dà continue
prove: anche per lui realtà non è mai lì dove è, ma sempre al di là
delle occasioni quotidiane nelle quali si scontra e scortica: «Io non
sarei felice se non potessi perdere le cose».
Questo personaggio è il più (direi il tutto) del romanzo, impaginato in una storia d’amore con una donna per parte sua stramba
(è una nomadelfina), che tuttavia funge da sponda per aprire agli
occhi del lettore la figura del personaggio centrale. Del continuo
dilatarsi e traboccare, come una bottiglia di liquido effervescente,
siamo stati spettatori (anche ammirati). A questo punto il problema per l’autore era riuscire a gestire una struttura narrativa capace di tenere dritta in piedi questa supermagmatica materia. E qui
ho qualche dubbio che ci sia riuscito: il romanzo si sfarina, tende
ad affondare dentro se stesso, perde vita (pure beneficiando degli
sforzi della suspence) e procura al lettore più di un momento di
noia. Frantumandosi ai margini rischia di diventare una macchia
(come una turgida goccia di inchiostro male asciugata).
Angelo Guglielmi
Francesco Targhetta
Perciò veniamo bene nelle fotografie
Isbn, pp. 248, € 15
Innanzitutto il genere (al di là dell’indicazione paratestuale): romanzo in versi, poema in prosa, epica del quotidiano, epopea
dell’eroe precario? Denotativamente: 248 pagine di versi irregolari (con atteso predominio dell’endecasillabo) che però costituiscono solo il primo motivo, e il più superficiale, di interesse del
libro di Targhetta. Non è solo la perizia metrica, difatti, la sua
cifra, ma una virtù poetica intrinseca, erede tanto della consapevolezza primonovecentesca delle piccole cose quanto della poetica del fatto vero delle seconde avanguardie, o forse oltrepassante
l’una e l’altra.
Il protagonista (l’io-lirico-narrante) è un precario scolastico e universitario, e dei due mondi restituisce con fedeltà fotografica (ma
anche con vero coraggio, considerando le cortesie obbligatorie nell’ambiente e le gerarchie insormontabili) la folle sopravvivenza, entro
un orizzonte comples-