I mass-media arabi: linguaggi, poteri e ambizioni

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I mass-media arabi: linguaggi, poteri e ambizioni
approfondimenti
I mass-media arabi:
linguaggi, poteri
e ambizioni
Paolo Carelli
Dottore di ricerca in Culture della comunicazione,
Università Cattolica di Milano, <[email protected]>
I mass-media hanno giocato, a partire dalla metà del secolo
scorso, un ruolo fondamentale nella Regione araba, contribuendo a formarne l’identità transnazionale. La storia dello
sviluppo della radio e della televisione, che rimane il mezzo
di comunicazione prevalente nel mondo arabo, aiuta a comprendere le dinamiche di un’area complessa, dove politica,
comunicazione e pubblico si intrecciano in modalità diverse.
L’
ondata di rivolgimenti sociali che negli ultimi anni ha interessato diverse nazioni del mondo arabo ha messo in evidenza il ruolo dei media e della comunicazione, il loro rapporto
con il potere autoritario e il relativo funzionamento all’interno di
società ancora distanti da compiuti processi di democratizzazione.
I mezzi d’informazione sono stati in grado di influenzare, favorire, talvolta rallentare, eventi che hanno modificato in maniera
dirompente il quadro politico e istituzionale di un’intera area
del mondo.
Per comprendere a fondo il ruolo della comunicazione nel
mondo arabo, è necessario tracciare alcune coordinate storiche e
ricostruire l’evoluzione dei media in relazione ai contesti sociali e
culturali all’interno dei quali si sono sviluppati, evidenziando come specifiche differenze e peculiarità nazionali abbiano di fatto
influenzato le diverse tradizioni giornalistiche che si sono formate
nei singoli Paesi. L’articolo affronta, da un lato, il rapporto tra i
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Aggiornamenti Sociali novembre 2014 (738-748)
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mass-media e la costruzione del cosiddetto “panarabismo”, sogno e
progetto di un’unica voce omogenea del mondo arabo che ha caratterizzato le ambizioni di diversi Paesi e leader politici, ripercorrendo
i differenti modelli d’informazione che si sono sedimentati nelle singole nazioni e le tappe salienti dei tentativi di realizzazione di mezzi
di comunicazione transnazionali; dall’altro, ci soffermeremo sulle
emittenti, i generi e i temi distintivi del sistema televisivo arabo, con
particolare attenzione all’esperienza paradigmatica di Al Jazeera, alle
nuove frontiere della fiction e della serialità e dei loro rapporti con
il potere politico.
1. I media e il “panarabismo”
a) I diversi modelli d’informazione
Secondo la classica suddivisione operata dallo studioso statunitense di mass-media nei Paesi arabi William Rugh (2004), è
possibile individuare almeno quattro differenti modelli che hanno
contraddistinto il sistema dell’informazione del mondo arabo nel
periodo post-coloniale, costruiti sulla base di alcuni criteri generali
d’osservazione che interessano la questione della proprietà dei mezzi,
la cultura professionale degli operatori, gli orientamenti culturali
sottesi, i generi prevalenti: il modello “della mobilitazione”, quello
“della fedeltà”, quello “della transizione” e, infine, il modello “della
diversità”.
– Il modello della mobilitazione è stato adottato da quei Paesi
in cui regimi militari si sono imposti al potere attraverso la forza
e con metodi violenti. Si tratta di quei casi dove il rovesciamento
dell’ordine precedente è avvenuto per mano di partiti rivoluzionari
i quali si sono serviti della stampa – e più in generale dei mezzi di
comunicazione di massa disponibili – per attivare la popolazione
e per orientare il consenso a supporto delle riforme proposte. Per
quanto riguarda l’elemento della proprietà, il regime è detentore
unico delle testate e si registra un forte legame di giornalisti e operatori dell’informazione con il partito unico al potere. Rientrano
in questo modello la Siria, il Sudan, la Libia durante il regime di
Gheddafi e l’Iraq sotto la dittatura di Saddam Hussein fino alla sua
deposizione nel 2003.
– Il modello della fedeltà si è diffuso in Stati guidati da emiri
per i quali i principali interessi consistono nel mantenimento della
stabilità e dello status quo. Nella maggior parte dei casi, le testate non appartengono direttamente agli apparati governativi, ma a
personalità o a facoltosi gruppi privati e vicini e contigui al potere.
Sono ammessi e circolano regolarmente anche media d’opposizione
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i quali, tuttavia, non svolgono una vera e propria attività di controllo e di critica come nella tradizione del giornalismo watch-dog
(“cane da guardia” del potere), limitandosi a una copertura di generi
d’intrattenimento. L’assenza di una cultura professionale orientata
a indipendenza e imparzialità, unita a una censura e a un sistema
legislativo restrittivo e repressivo nei confronti dei media, ha prodotto quel meccanismo di fedeltà al potere da parte della stampa con
cui Rugh identifica questo secondo gruppo. Alcuni esempi di Paesi
dove si registra tale modello d’informazione sono l’Arabia Saudita
e i piccoli emirati e sultanati come l’Oman, il Bahrein, il Qatar, gli
Emirati Arabi Uniti.
– Il modello della transizione si fonda sulla commistione tra il
controllo esercitato dal potere politico e una relativa libertà d’espressione e autonomia dei media. Tuttavia i sistemi mediatici appartenenti a questo modello presentano un elevato grado di adattamento,
aggiornamento e capacità di costante evoluzione e mutamento. La
proprietà dei mezzi d’informazione è riconducibile sia al Governo
(le TV di Stato) sia alle forze politiche e a gruppi industriali privati;
ciò garantisce l’esistenza di una pluralità di voci e di orientamenti
politico-culturali, sebbene le leggi di settore siano sempre state particolarmente restrittive. Alcuni Paesi storicamente rientranti sotto
questo modello sono l’Egitto, la Tunisia, la Giordania, l’Algeria. I
rivolgimenti sociali che hanno interessato alcuni di questi territori
negli ultimi anni hanno modificato ulteriormente la natura di tali
sistemi mediatici confermandone, non a caso, la definizione di media in transizione.
– Il modello della diversità rappresenta un’alternativa radicale
rispetto a quelli ora illustrati: la scarsa libertà e autonomia consentite agli operatori dell’informazione nella gran parte dei Paesi arabi
hanno portato diversi professionisti del settore a spostarsi verso quelle
che Augusto Valeriani, esperto di sociologia dei processi culturali e
comunicativi (2005), ha chiamato «oasi di libertà», spazi in cui si è
sviluppato un sistema dell’informazione ampiamente slegato e relativamente poco influenzato dal potere politico e religioso. L’esempio
più efficace di questo modello è quello del Libano, almeno fino alla
guerra civile del 1975: sin dagli anni ’50, infatti, si era radicato un
sistema democratico e pluralista che aveva consentito a questo Paese
di rimanere pressoché estraneo ai conflitti che avrebbero insanguinato
l’area nel corso dei decenni successivi e, soprattutto, di diventare un
punto di riferimento per esuli e dissidenti politici i quali contribuirono al fermento culturale ed editoriale che caratterizzò il Paese. Anche
in Kuwait si è sviluppato un sistema dei media libero, aperto e democratico: fino all’invasione dell’Iraq e allo scoppio della prima Guerra
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del Golfo nel 1990, il piccolo emirato mediorientale si era ritagliato
uno spazio di primo piano nel panorama mediale dell’intera regione
grazie all’esplosione di un sistema della stampa diversificato e particolarmente attento agli aspetti commerciali. È qui che, nel corso degli
anni ’80, ha avuto grande diffusione il quotidiano Al Watan, punto di
riferimento per l’intera area del Golfo (cfr Valeriani 2005, 23).
b) Una vocazione transnazionale
Un elemento caratterizzante dei media arabi è la loro vocazione
transnazionale, cioè la propensione a pensarsi naturalmente in un’ottica che trascende i confini nazionali e a porsi come strumenti di
rappresentazione di una composita area regionale. L’intero sistema
della comunicazione del mondo arabo si è fondato su questa tendenza a sviluppare percorsi che fossero in grado di unire comunità differenti accomunate dall’appartenenza geografica e culturale, oltre che, in taluni casi, linguistica, storica e religiosa. Tra i
leader politici che per primi intuirono e rafforzarono la dimensione
sovranazionale del mondo arabo, vi è sicuramente Gamal Abdel Nasser, presidente egiziano dal 1956 al 1970; in lui albergava la convinzione che l’Egitto potesse e dovesse svolgere una funzione di guida
per l’intera regione, esercitando influenza politica ed economica sulle
nazioni confinanti e limitrofe. A supporto di questo progetto, Nasser
tentò di sfruttare i mezzi di comunicazione esistenti, concentrando
i suoi sforzi e le sue attenzioni soprattutto sul mondo della radio,
che aveva fatto il suo ingresso nella regione araba già nei decenni
precedenti, grazie all’iniziativa di Governi occidentali intenzionati
a espandere l’esercizio della propria influenza sull’area. Nel 1938,
infatti, il servizio pubblico britannico aveva iniziato le trasmissioni
di BBC Arabic Service, mentre a partire dal 1950 veniva trasmesso
Voice of America, con lo scopo di esercitare un’azione di controllo
mediatico dell’area a supporto della propria politica espansionistica.
c) Dalla radio alla televisione
Nasser intuì le potenzialità della radio come strumento per un’azione politica e culturale di visione regionale e transnazionale e per
il contrasto alle mire imperialiste dell’Occidente nei confronti del
mondo arabo (cfr Valeriani 2005, 35). La radio doveva svolgere
funzioni essenzialmente di propaganda, sostenendo il potere
politico nel perseguimento del panarabismo; il presidente egiziano cercò di sfruttare, in questo senso, le potenzialità di Voice of the
Arabs (Sawt al Arab), un’emittente radiofonica creata qualche anno
prima della sua ascesa al potere, che ebbe un ruolo decisivo (e contraddittorio) nella copertura della Guerra dei sei giorni del 1967. L’eI mass-media arabi: linguaggi, poteri e ambizioni
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sperienza di Voice of the Arabs può considerarsi paradigmatica del
rapporto tra sistema dei media e sistema politico nel mondo arabo;
in primo luogo perché la sua funzione non consisteva tanto nell’informare, ma nel supportare un progetto politico, da cui emerge evidente il richiamo ad alcuni dei modelli mediatici descritti all’inizio
di questo articolo. In secondo luogo, il network concepiva un ampio
ricorso alla retorica in una chiave di accrescimento della sacralità del
leader, attraverso linguaggi che troveranno piena compiutezza con lo
sviluppo della televisione. Infine, l’esperienza di Voice of the Arabs
s’inseriva nella tradizione sovranazionale dello sviluppo dei media
arabi, realizzando prodotti mediali rivolti a un pubblico regionale e
non solamente circoscritto entro i confini nazionali.
Con l’avvento della televisione, i tentativi di costituire un’organizzazione mediale pienamente ancorata a una dimensione sovranazionale divennero sempre più intensi e strutturati: già negli
anni ’60 fu creata l’ASBU (Arab State Broadcast Union), il primo
network radiotelevisivo “regionale”, che oggi conta decine di emittenti affiliate, sia pubbliche sia private e provenienti non solo dai Paesi
arabi. Due nazioni hanno giocato un ruolo predominante nel favorire
aggregazioni mediali su una scala non legata esclusivamente ai confini
amministrativi: Egitto e Arabia Saudita. Per diversi decenni, almeno
fino agli anni ’90, i due Paesi si sono contesi la leadership della comunicazione nel mondo arabo, nella prospettiva di esercitare un’influenza politica, culturale ed economica sull’intera area (Chiba 2012).
Il sogno del “panarabismo” passò anche attraverso la sperimentazione di tecnologie particolarmente innovative come quella che nel
1978 diede vita ad ArabVision, un sistema di condivisione delle informazioni che, tuttavia, si scontrò proprio con «la difficoltà di proporre un’informazione sulla base di valori arabi» (Valeriani 2005,
40) e con il timore dei Governi e dei regimi verso una circolazione
di notizie non più controllabile.
Con lo scoppio della prima Guerra del Golfo, nel 1990-1991,
la prima epopea dell’informazione panaraba subisce una drastica
battuta d’arresto: la copertura mediatica del conflitto è ampiamente
garantita da network globali, come la CNN, che producono nel pubblico arabo la percezione di uno scarto notevole in termini di professionalità e imparzialità, smascherando i limiti dei media panarabi e
abituando progressivamente gli spettatori a un tipo d’informazione
modellata su canoni tipicamente occidentali (Kennedy 1993).
d) Un mercato regionale
La crescita di mezzi di comunicazione disancorati rispetto alla
cornice nazionale, ma pensati e organizzati in chiave transnazionale,
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ha contribuito a strutturare un vero e proprio mercato panarabo dei
media, divenuto sempre più influente nelle dinamiche politiche e
commerciali a livello globale. L’americano Jon B. Alterman, esperto in questioni mediorientali (1999), ha indagato questo mercato
regionale evidenziandone i tratti più significativi e le ragioni che
lo rendono particolarmente interessante e centrale all’interno del
panorama mediatico mondiale. In primo luogo, sostiene l’autore,
l’esplosione di media commerciali, avvenuta a partire dagli anni ’90, ha contribuito a indebolire l’informazione tradizionale
orientata prevalentemente a soddisfare le esigenze dei Governi, dei
regimi o delle élite religiose e finanziarie dei diversi Paesi; il ricorso a generi come le news o l’intrattenimento ha avuto il pregio di
ampliare il pubblico e creare forme di ricezione attiva. In secondo
luogo, si tratta di mercati realmente regionali, nel senso che spesso
gli stessi prodotti e programmi vengono distribuiti e possono essere
fruiti in tutta l’area rafforzando il legame tra le diverse comunità.
Infine, l’esistenza di emittenti sovranazionali su base regionale
ha dato origine a macchine organizzative regionali consentendo
l’emergere di un’informazione quanto più possibile indipendente e imparziale, poiché sganciata da vincoli statuali e costantemente alla ricerca di un pubblico che trascenda i confini nazionali.
2. Emittenti, generi, temi
a) Al Jazeera, la voce del mondo arabo
Intorno alla metà degli anni ’90, il sistema arabo dei media è
pronto per sperimentare il lancio di un canale satellitare transnazionale in grado di diventare la voce dell’intera regione nel mondo
politico e informativo globale. La svolta ha origine in Qatar, grazie
all’ambizione dell’emiro Sheikh Hamad bin Khalifa Al Thani, salito al potere nel 1995; nel febbraio dell’anno successivo, Al Thani
abolisce per decreto il Ministero dell’Informazione (l’organo di controllo e di censura sui media e i contenuti informativi) e promuove
la nascita di un canale satellitare indipendente, sancendo di fatto
l’atto di creazione ufficiale di Al Jazeera. In quegli anni, la rivalità mediatica tra Egitto e Arabia Saudita si era trasferita alle
televisioni satellitari; il settore era imperniato sulla competizione tra l’Egyptian Space Channel, che trasmetteva dal 1990 rivolto
principalmente agli egiziani sparsi nel mondo e più in generale con
l’intenzione di diffondere i valori della cultura nazionale in tutta
la regione, e almeno tre grandi network riconducibili a proprietà
saudite con sedi e centri di trasmissione situati in Europa: MBC
(Middle East Broadcasting) con base a Londra dal 1991, Orbit, con
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sede a Roma dal 1994, e ART (Arab Radio and Television), lanciato sempre nel 1994 ad Avezzano, in Abruzzo. Sarà proprio Orbit
ad aprire involontariamente la strada all’ascesa incontrastata di Al
Jazeera: all’inizio del 1996, infatti, un accordo siglato pochi mesi
prima tra il canale saudita e la divisione araba del servizio pubblico
britannico (BBC Arabic Tv Division) naufragò, facendo fallire il
primo tentativo di realizzazione di una TV panaraba interamente
all news orientata a valori e modelli produttivi e professionali tipicamente occidentali. In quel vuoto, s’inserì il progetto dell’emiro del
Qatar: la nascente Al Jazeera divenne rifugio per oltre un centinaio
di giornalisti e professionisti formatisi alla scuola della BBC e rimasti senza lavoro (cfr Della Ratta 2005, 121).
Tra i fattori che determinarono il successo di Al Jazeera vi
erano senza dubbio una struttura organizzativa e una strategia
commerciale orientate verso caratteristiche occidentali; lo slogan
che accompagnò la nascita dell’emittente recitava: «The opinion and
the other opinion» (L’opinione e l’altra opinione), rivelando una ricerca
di valori quali l’imparzialità e l’obiettività che la ponevano al centro
dei meccanismi competitivi e culturali dei grandi network occidentali
e transnazionali. In questo senso, il pieno accreditamento globale di
Al Jazeera si compì pochi anni dopo: alla fine degli anni ’90, infatti, il
canale ottenne un notevole successo di pubblico grazie alla copertura
giornalistica di eventi come l’operazione militare Desert Fox (1998)
degli Stati Uniti e del Regno Unito in Iraq e la cosiddetta “seconda
intifada”, che segnò una ripresa della rivolta della popolazione palestinese contro il governo israeliano (2000). La tempestività e l’obiettività
dell’informazione garantite rappresentarono un punto di svolta sia per
il successo dell’emittente, sia per la crescita complessiva della qualità
della comunicazione mediale dell’intero mondo arabo.
b) Al Arabiya e la concorrenza
Un ulteriore momento di rottura nell’evoluzione del sistema mediatico del mondo arabo si verificò nel 2003 con la nascita dell’emittente televisiva Al Arabiya: il progetto prese piede grazie all’iniziativa
di un gruppo di facoltosi investitori provenienti da differenti Paesi
della regione accomunati da un’avversione nei confronti di Al Jazeera.
Il progetto editoriale e culturale di Al Arabiya, infatti, consisteva
principalmente nel replicare e contenere le critiche che Al Jazeera
riservava stabilmente ai regimi arabi. Con l’acquisizione di giornalisti, operatori e professionisti formatisi proprio alla scuola di Al Jazeera, la nuova emittente intendeva spostare la contesa sul terreno della
concorrenza e della qualità del prodotto secondo canoni tipicamente
occidentali: la logica della competizione entrava dunque in maniera
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dirompente e stabile all’interno del mondo arabo trasformando, di
fatto, la stessa cultura professionale e i valori dell’informazione tradizionalmente radicati nelle società della regione. Strutturare un sistema
intorno alla logica concorrenziale aveva in primo luogo l’obiettivo di
innalzare la qualità della proposta e la capacità critica del pubblico,
oltre che di favorire un pluralismo degli orientamenti politici e culturali; proprio a partire dall’inizio del primo decennio del Duemila,
in effetti, l’offerta televisiva del palinsesto arabo subì una profonda
trasformazione, facendo registrare un incremento della TV d’intrattenimento, articolata in una varietà di generi – dai quiz alla musica,
dallo sport alle soap opera – distanti dai contenuti delle origini.
Oggi, l’universo Al Jazeera è sempre più complesso e composito a dimostrazione di come la lezione della globalizzazione
abbia attecchito e sia stata pienamente compresa all’interno del
mondo arabo. Nel corso degli ultimi anni, il network nato nel piccolo Stato del Qatar si è espanso organizzativamente, linguisticamente e
tematicamente, dando vita a decine di canali sparsi in tutto il mondo:
nel 2003, nasce Al Jazeera Sports (ora beIN Sports Arabia, con derivazioni in Francia, Russia, Indonesia, Nord America), seguito da Al
Jazeera Children Channel (minori) e Al Jazeera Mubasher (argomenti
politici e istituzionali), mentre dal 2011 è attivo Al Jazeera Balkans
(trasmette da Sarajevo in serbo, croato e bosniaco), dal 2013 Al Jazeera America, e nel 2014 stanno nascendo Al Jazeera Türk (Turchia e
Paesi limitrofi) e Al Jazeera Kiswahili (Africa Orientale).
c) La fiction nel mondo arabo
Nel suo libro Arab Television Today, l’esperta di comunicazione
e media arabi britannica Naomi Sakr (2007) sottolineava come uno
dei punti di forza del mercato dei media arabi, che avrebbe aperto notevoli prospettive di crescita, era rappresentato dal fatto che
quella vasta zona del mondo condividesse una sola lingua capace
di connettere le differenti nazioni e culture presenti. In particolare, l’unificazione linguistica consentiva un potenziale allargamento
del mercato che in nessun’altra area del pianeta di tali dimensioni,
ad eccezione degli Stati Uniti e – almeno in parte – dell’America
Latina, poteva dispiegarsi in maniera così ampia; l’autrice dimostrava, inoltre, quanto la combinazione tra l’ingresso delle logiche
competitive e le dimensioni del mercato fosse in grado di «stimolare la creatività locale nella programmazione di intrattenimento
arabo» (Sakr 2007, 111). Tale consapevolezza spinse investitori e
produttori a puntare sulla creazione di format panarabi, seppure in gran parte frutto dell’influenza occidentale, come talent
e reality-show; la diffusione della digitalizzazione, poi, ha fatto il
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resto moltiplicando canali tematici dedicati a temi specifici e rivolti
a target sempre più omogeneamente definiti.
Recentemente ha attirato l’attenzione degli studiosi di media arabi un nuovo oggetto d’analisi, che ha registrato un grande successo:
le cosiddette musalsalat, ovvero fiction, soap opera e narrazioni seriali, che per la maggior parte sono mandate in onda durante il periodo
del Ramadan e hanno una durata di trenta giorni, pari al tempo in
cui si consuma il momento di preghiera più importante della religione musulmana; in particolare, vengono trasmesse nell’orario del cosiddetto post-iftar, ovvero al termine del pasto quotidiano di rottura
del digiuno che si consuma al tramonto, corrispondente di fatto alla
fascia televisiva del prime-time. Quello del rapporto tra fiction e
religione è un fenomeno che s’inserisce nella tradizione televisiva
di nazioni che, più e prima di altre, hanno sperimentato periodi
di laicità e modernizzazione; già negli anni ’80, ad esempio, sulle
TV egiziane si trasmetteva la soap opera Al-Aylah (La famiglia), una
critica dell’Islam radicale e dell’estremismo religioso, lascito inequivocabile dell’ideologia laica propagata nel Paese durante il periodo
nasseriano. L’Egitto rimane il principale produttore di fiction, anche
se durante il periodo del governo dei Fratelli Musulmani di Mohamed Morsi (deposto il 3 luglio 2013) il loro numero è calato drasticamente; oggi commedie e melodrammi, esportati anche sui principali
canali satellitari del mondo arabo, hanno soppiantato sia le fiction
celebrative della primavera del 2011 che quelle più marcatamente
anti-religiose e anti-conservatrici. Del resto, la serialità televisiva ha
sempre rappresentato un terreno fertile dentro cui i regimi del
mondo arabo tracciavano i confini della discussione pubblica su
temi sensibili come il sesso, la religione e il terrorismo, che non
trovavano spazio nelle news e nell’informazione; quindi, le fiction
riflettono molto più di altri prodotti mediali i mutamenti delle società arabe e la loro percezione presso l’opinione pubblica.
In questo senso, una conferma arriva osservando l’evoluzione
della fiction televisiva in una nazione come la Siria, che rappresenta
il secondo produttore di opere e racconti appartenenti al genere.
Come sottolinea la studiosa Donatella Della Ratta (2014a), la narrazione televisiva seriale è uno degli strumenti culturali maggiormente utilizzato dal regime di Bashar al Assad nella formazione
ed educazione della popolazione; le fiction siriane affrontano temi
come l’estremismo, il dialogo interreligioso, la libertà della donna e
altri argomenti certamente di non facile trattazione all’interno del
mondo arabo. Una di queste, Ma malakat Aymanukum (tradotta
in italiano Tre donne e trasmessa per un certo periodo sulla rete
satellitare Babel), affronta nodi spinosi come la libertà sessuale e l’e746
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mancipazione femminile in contrasto con l’aderenza ai principi della
religione islamica. Tuttavia, proprio il conflitto siriano e la guerra
civile scatenata nel Paese da parte del regime di Assad hanno avuto
effetti profondi sulla produzione e distribuzione delle fiction arabe;
mentre alcuni registi hanno deciso di rimanere in patria girando
prodotti che affrontano gli avvenimenti degli ultimi anni con titoli
emblematici come Taht sama’a al-Watan (Sotto il cielo della nazione)
o Sa na’ud ba’ada qalil (Torniamo fra poco), l’emigrazione di artisti,
sceneggiatori e produttori verso altri Paesi ha contribuito a gettare
le basi per la riorganizzazione del mercato televisivo arabo. Alcuni
dei successi dell’ultima stagione di musalsalat andate in onda durante il periodo del Ramadan, come per esempio Al-Ikhwah (Fratelli)
o Halawat al-ruh (La dolcezza dell’anima), sono il risultato della
collaborazione produttiva e autoriale di professionisti provenienti
da Egitto, Siria, Libano, Paesi dell’Africa settentrionale e altre zone
della regione; questa inedita «alleanza panaraba di mercato [rappresenta] il vero trend del Ramadan 2014» (Della Ratta 2014b) e dimostra di poter competere sul mercato mediatico e geopolitico con
Paesi come Iran e Turchia, entrambi con una notevole tradizione di
produzione seriale alle spalle.
3. Un panorama composito
Secondo i dati riportati dall’Arab Station Broadcasting Union,
alla fine del 2010 esistevano 470 network televisivi arabi, di cui 26
di proprietà statale o governativa e 444 di natura privata, per un
totale di 733 canali (124 governativi e 609 commerciali, di carattere sia generalista che specializzato). Si tratta di un’esplosione che
nell’ultimo anno ha fatto registrare un ulteriore incremento, con
una preferenza per la TV via satellite, che rappresenta il vero carattere distintivo dei consumi televisivi nel mondo arabo. Daniela Conte,
esperta in sistemi politici (2013), ha sottolineato – riportando stime
del Fondo Monetario Internazionale – come il mercato dei media
panarabo sia compatto intorno a tre soli Paesi: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto, che da soli raccolgono circa il
70% degli interi investimenti pubblicitari; inoltre, l’81% di questo
traffico è rivolto alle TV satellitari panarabe (guardate dal 90% del
pubblico televisivo complessivo), lasciando poco o nulla alle piccole emittenti via etere che trasmettono su base nazionale e locale.
Tuttavia, siamo in presenza di un mercato molto frammentato, che
riduce notevolmente le possibilità di ottenere investimenti, insieme
ad alcuni divieti editoriali frutto delle motivazioni politiche e ideologiche che spesso sono alla base di alcune emittenti nate con intenti
esclusivamente religiosi e di contrasto alla laicizzazione dei costumi.
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risorse
L’analisi dell’evoluzione del sistema dei media nel contesto panarabo ha messo in luce la centralità della televisione, che rimane
il mezzo principale in cui si giocano sia le contese di carattere
politico per il dominio dell’intera regione, sia i cambiamenti
culturali che stanno accompagnando le società arabe.
Con l’incremento quasi parallelo – seppure con dimensioni diverse – delle televisioni satellitari (soprattutto di carattere tematico)
da un lato, e del web dall’altro, sarà interessante in futuro osservare
le interazioni tra i diversi mezzi, sia in termini di consumo e produzione di contenuti, sia nelle modalità differenti con cui le TV governative controllate dai regimi e i network globali si approcceranno
alle più recenti forme di comunicazione e mobilitazione on line.
Alcuni segnali si sono avuti proprio in occasione degli avvenimenti
delle cosiddette “primavere arabe”, come ad esempio in Tunisia, dove il rapporto tra vecchi e nuovi media si è caricato di complessità e
ambiguità; se da un lato – ha osservato puntualmente il giornalista
Colin Delany (2011) – emittenti come Al Jazeera hanno rilanciato
in maniera massiccia i video “postati” sulle piattaforme web da parte di attivisti e manifestanti, sganciando la protesta dalla sua dimensione più prettamente generazionale e raggiungendo un pubblico più
vasto ed eterogeneo, dall’altro il regime di Ben Ali ha utilizzato le
TV di Stato come strumento per depotenziare le rivolte, dando vita
a una competizione tutta televisiva avente per terreno di contesa le
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I
l ricorso al dileggio umoristico nei confronti del potere e delle autorità non è una pratica nuova nel mondo arabo, ma la
tradizione della fumettistica e della satira ha vissuto una vera
e propria fase di rinascita nel corso dei rivolgimenti sociali che
hanno interessato gran parte dei Paesi arabi negli ultimi anni:
l’uso dell’umorismo come strumento di indebolimento dei regimi
al potere rappresenta un fenomeno «politicamente secondario
ma sociologicamente e antropologicamente significativo» (B. DE
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arabo contemporaneo», in Diacronie. Studi di storia contemporanea, 11 [2012] 3, <www.studistorici.com/2012/10/29/depoli_numero_11/>). Il contagio rivoluzionario che ha scatenato e
accelerato il processo delle rivolte ha avuto nell’ironia collettiva
un detonatore importante, mentre la circolazione di video, immagini e vignette sulle diverse piattaforme digitali ha contribuito
ad alimentare il dissenso nei confronti del potere costituito. L’incontro tra la scuola umoristica e satirica araba e i social network
ha moltiplicato il flusso dei messaggi e rafforzato la conflittualità
rispetto al potere, generando un forte inasprimento delle misure
repressive, in particolare in Siria o Tunisia. Inoltre, un’analisi più
approfondita dei linguaggi e degli effetti che hanno caratterizzato l’esplosione di vignette satiriche sulle piattaforme web mette
in evidenza almeno due fenomeni correlati; da un lato, come
testimoniato da una pagina Facebook che ha fatto registrare un
notevole successo (Comic4Syria), un forte ricorso a simboli e
icone della cultura popolare e di massa occidentale (ad esempio
vignette che denunciano l’abbraccio tra il dittatore siriano Assad
e il presidente russo Vladimir Putin ritratti nelle locandine di film
come Via col vento o Titanic); dall’altro l’incapacità dei media tradizionali di cogliere la portata critica della satira e delle vignette,
in quanto fenomeno giovanile, dinamico e digitale.
La saldatura tra creatività umoristica e social network ha svolto
anche una funzione di mobilitazione contro le repressioni attuate dai Governi verso alcuni autori e disegnatori; la nascita di
network digitali di artisti e vignettisti ha contribuito a rafforzare
le capacità e le possibilità di negoziazione con i regimi e offerto
visibilità e solidarietà ad alcuni casi eclatanti di censura. Ricordiamo il progetto «100 dessins pour Jabeur», un sito attraverso
il quale artisti di tutto il mondo arabo hanno chiesto la liberazione del collega Jabeur el Mejri detenuto dal marzo 2012
(ottenuta il 19 febbraio 2014), mettendo a disposizione della
rete le proprie opere di denuncia nei confronti dei regimi; oppure il caso più sfortunato di Akram Raslan, vignettista siriano
oppositore di Assad arrestato nell’ottobre 2012 e giustiziato un
anno dopo, per la liberazione del quale fu creata una pagina
Facebook (Freedom for the Syrian caricaturist | Akram Raslan)
con messaggi e disegni di artisti di tutto il mondo.
Paolo Carelli
scheda / media
Il potere della satira
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