Tre momenti nel passaggio dal discorso filosofico al

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Tre momenti nel passaggio dal discorso filosofico al
Tre momenti nel passaggio dal discorso filosofico al discorso sociologico della modernità:
Kant, Hegel e Marx
Kant (1724-1804), nella Risposta alla domanda “Che cos’è l’Illuminismo” rivoltagli nel 1784) da
un periodico dell’epoca (il Berlinische Monatsschrift) afferma che l’Illuminismo rappresenta
l’uscita dell’umanità dallo stato di minorità, di cui è essa stessa responsabile. Si è in uno stato di
minorità quando si cerchi o si accetti l’autorità di qualche altro anziché far uso della propria
ragione. Si è in uno stato di minorità, dice Kant, allorché si accetta che un libro ragioni per noi, un
direttore spirituale ci faccia da coscienza, un medico decida la nostra dieta. Per uscire dallo stato di
minorità, occorre impartire a se stessi e proporre agli altri l’audacia di far uso del proprio intelletto.
E’ questo infatti il motto dell’Illuminismo: Sapere aude! (“Abbi il coraggio di usare il tuo proprio
intelletto). In questo senso, l’Illuminismo non rappresenta solo un processo storico che coinvolge
l’individuo, ma anche un dovere. E’ un processo storico che riguarda l’umanità, ma è anche un
dovere che ciascuno deve adempiere. In questo senso, questo processo riguarda sia l’esistenza
politica e sociale degli uomini sia la componente umana degli individui.
Come si può uscire, concretamente, dallo stato di minorità? Kant indica due condizioni: 1) la
distinzione fra ciò che appartiene all’obbedienza e ciò che appartiene invece alla ragione. Kant
capovolge il detto “Ubbidite, non ragionate!” nel detto “Ragionate quanto volete, ma ubbidite!”. In
questo modo, viene distinta la possibilità del ragionare dalla necessità dell’obbedienza (ad esempio:
ragionate sulla fiscalità, ma pagate le tasse); 2) la distinzione fra l’uso pubblico della ragione e l’uso
privato della ragione: la ragione deve essere libera nel suo uso pubblico e sottomessa nel suo uso
privato. Che significa? Che quando ragiono in quanto parte “di una macchina”, come un segmento
della società (se sono un soldato, un funzionario pubblico, un professore, ecc. ecc.), avendo delle
funzioni da svolgere, la ragione deve sottomettersi alle circostanze in cui si esercita una determinata
funzione (non un’ubbidienza cieca, per Kant, ma un’ubbidienza per così dire responsabile e
ragionevole). Quando invece ragiono in quanto membro dell’umanità ragionevole, allora l’uso della
ragione deve essere libero, pubblico e universale. Il luogo in cui si esercita l’uso pubblico della
ragione coincide con quella che noi oggi chiameremmo l’opinione pubblica (infatti questo piccolo
scritto di Kant viene pubblicato su un periodico e rivolto ad un Publikum di lettori - nel senso
“collettività” di lettori - che è in grado di “illuminare se stesso … se solo gli si lascia la libertà di
farlo”.
Hegel (1770-1831) legge il processo che separa la modernità dalle altre età del passato come un
problema filosofico, e anzi come il problema fondamentale della sua filosofia, la quale deve
rispondere all’inquietudine prodotta dal fatto che tutti i modelli (di pensiero, di idee e di schemi di
comportamento) del passato sono stati infranti. E’ per questo che “l’età moderna” ha il compito di
interrogarsi sul proprio tempo. Il principio dell’età moderna è per Hegel la soggettività, ma ecco il
carattere di “crisi” dell’epoca: il mondo moderno si caratterizza come il mondo del progresso, ma
allo stesso tempo come il mondo dello spirito alienato, della “coscienza infelice”.
Che cos’è la soggettività? La risposta di Hegel è: libertà e riflessione; Come si esprime?: attraverso
individualismo, diritto alla critica, autonomia (responsabilità) dell’agire. Gli eventi storici decisivi
per l’affermazione del principio della soggettività sono la Riforma, l’Illuminismo e la Rivoluzione
francese.
In quale ambito si esprime il principio della soggettività?: 1) nella scienza, poiché il metodo
scientifico consente di liberare la conoscenza della natura dalle forze “misteriose”; 2) nella morale,
poiché il riconoscimento della libertà soggettiva degli individui (il diritto dell’individuo di decidere
cosa fare) è in armonia con le leggi universali; 3) nell’arte, poiché il Romanticismo esprime
contenuti e forme determinate dall’interiorità; 4) nella vita religiosa, in seguito alla Riforma; 5)
nello Stato, in seguito alle rivoluzioni politiche; 6) nella società, in seguito alla rivoluzione
industriale.
La modificazione della componente umana dell’individuo, una vera e propria mutazione
antropologica, prodotta dalla modernità viene allora letta sia da Kant che da Hegel come un
processo di accrescimento di individuazione che produce un saldo positivo sotto almeno tre
caratterizzazioni: a) più “individuo” (un individuo che si caratterizza per essere più autenticamente
se stesso); b) più “autonomo” (nelle scelte, nel ragionamento, nell’esercizio dei doveri); c) più
differenziato (rispetto agli altri). Ma questo processo si accompagna a fenomeni di ordine
economico, politico, sociale, culturale che vanno sotto il nome di modernizzazione. I processi di
modernizzazione comportano conseguenze per l’individuo in quanto forma di esistenza e possono
essere letti anche nel loro risvolto negativo. E’ questa la tesi della fine dell’individuo, resa celebre
da alcuni lavori di Marx, ma anticipata, già alla metà del 1700, da Rousseau (1712-1778).
Quest’ultimo, interrogandosi sugli effetti che l’ordine sociale ha sull’individuo, individua due
conseguenze prodotte dall’influenza “corruttrice” della società: la competizione e l’inautenticità. La
prima, che si esprime come competizione per il potere, per la proprietà, per la posizione nella
società, comporta apparire diversi da ciò che si è, con la conseguenza di separare l’aspetto emotivo
e l’azione pubblica. Per essere competitivi occorre essere inautentici, per mantenere le posizioni (di
potere, di proprietà, ecc. ecc.) l’individuo tenderà ad abbracciare opinioni socialmente condivise,
con la conseguenza di trasformarsi in vuota esteriorità, in una copia o degli altri o di ciò che la
società vuole che sia, sviluppando così una forma di dipendenza dalle opinioni prevalenti e dalle
mode del momento.
Il passaggio decisivo dai discorsi culturali o filosofici a quello sociologico della modernità avviene
con Marx (1818-1883). Il concetto di alienazione, che riprende da Hegel modificandolo
sostanzialmente, esprime una esperienza di separazione imposta dalla società moderna capitalistica
ai suoi membri, e si compone di più facce: a) espropriazione della vita, perché non si è padroni delle
proprie azioni dentro il processo produttivo; b) mortificazione di capacità, perché impedisce la
possibilità dell’autorealizzazione attraverso la possibilità di esprimere i propri talenti; c) assenza di
autonomia, perché l’individuo viene privato del controllo sugli esiti dell’azione; d) separazione dai
prodotti del proprio lavoro.
Prima di illustrare il modo in cui Marx affronta il tema della modernità e le conseguenze della
modernizzazione, è importante sottolineare che per Marx la storia è storia dell’alienazione umana.
In questo senso, il concetto di alienazione prende forma all’interno di una specifica concezione
della storia e della sua conoscenza che può essere sinteticamente espressa in quattro punti
principali:
1. un’analisi delle possibilità di una conoscenza storica – idealismo, vale a dire un sistema di
pensiero entro il quale si afferma l’identità fra pensiero e realtà
2. un modo attraverso cui conoscere la storia – storicismo, vale a dire una concezione della
conoscenza storica che difende l’autonomia di tale conoscenza sia dal determinismo delle
scienze naturali sia dalle speculazioni della metafisica. Inoltre, e più importante, in Marx,
così come in Hegel, l’impostazione storicista serve per concepire il processo storico come
caratterizzato da un disegno, una direzione, una struttura nomologica
3. un esito (o un contenuto) profetico di tale conoscenza storica (l’inevitabile crollo del
capitalismo e il sorgere di una società socialista)
4. un’analisi della storia come processo di alienazione, vale a dire separazione.
Il pensiero di Marx si fonda su una sintesi creativa della filosofia idealistica tedesca di derivazione
hegeliana, della teoria politica francese e dell’economia classica inglese. In questo senso, possono
distinguersi tre fasi principali del pensiero di Marx:
1. La fase giovanile, caratterizzata per il forte legame con i temi della filosofia di Hegel e,
soprattutto, con i temi dell’hegelismo cosiddetto di sinistra, formato da giovani studiosi –
come appunto Marx, Feuerbach e Ruge soprattutto – che si differenziavano dai vecchi
hegeliani di destra per dissensi di natura politica e religiosa piuttosto che filosofica.
Il senso generale dell’operazione che Marx intraprende in questa prima fase è quello di ribaltare
la concezione hegeliana che aveva ridotto il mondo a filosofia; Marx, nel ribaltare questa
posizione, produce una riduzione altrettanto completa della filosofia a mondo. In questa fase che racchiude soprattutto gli scritti fino al 1844, pubblicati sulla Deutsch-Französische
Jahrbücher e che comprendono i saggi Sulla questione ebraica, l’Introduzione alla critica della
filosofia del diritto di Hegel e i Manoscritti economico-filosofici – Marx si confronta con Hegel
attraverso uno scritto di Feuerbach, L’essenza del Cristianesimo.
In questo libro, Feuerbach tenta di capovolgere l’idealismo hegeliano sostenendo che il punto di
partenza per lo studio dell’umanità deve essere l’uomo reale che agisce nel mondo reale. Il
reale, l’essere e l’esistenza precedono per Feuerbach il pensiero, laddove invece Hegel
interpretava il reale come un’emanazione del divino, facendo precedere la realtà dal divino e
concependo la storia dell’umanità come il prodotto dell’alienazione di Dio da se stesso. Marx
utilizza Feuerbach al fine di capovolgere la filosofia di Hegel mantenendo quella prospettiva
storica che era centrale nel pensiero hegeliano e che Feuerbach aveva smarrito.
In questo senso, già a partire dallo studio in cui critica la filosofia del diritto di Hegel, Marx va
alla ricerca del vero soggetto della storia, vale a dire l’individuo che vive e agisce nel mondo
reale. Non è a partire dall’ideale che è possibile derivare il mondo reale ma, al contrario, l’ideale
– sia esso lo Stato o la Religione – altro non è che il risultato storicamente determinato del reale.
La critica di Marx all’idealismo hegeliano, comincia dalla constatazione che la critica della
religione, in quanto presupposto di qualsivoglia critica del mondo reale, è un compito già
esaurito dopo che è stata svelata la funzione della religione che, in quanto prodotto dello stato,
rappresenta una “coscienza capovolta del mondo”.
“Il compito della storia – scrive a questo proposito Marx -, una volta scomparso l’al di là della
verità, consiste quindi nello stabilire la verità dell’al di qua. Compito della filosofia, che è al
servizio della storia, è lo smascheramento, dopo che la figura sacra dell’estraniazione dell’uomo
è già stata smascherata, dell’autoestraniazione dell’uomo nelle figure non-sacre. La critica del
cielo si trasforma quindi nella critica della terra, la critica della religione nella critica del diritto,
la critica della teologia nella critica della politica”
In questo modo, Marx spezza l’equilibrio del pensiero esistenziale, esemplificato dall’equilibrio
fra “vita ed opinioni” a cui Hegel aveva mantenuto fede per tutta la sua vita, distinguendo tre
specie di relazioni fra questi due termini:
“Alcuni fra gli uomini posseggono una vita e non hanno nessuna opinione; altri hanno soltanto
opinioni e mancano di vita; infine vi sono quelli che posseggono entrambe, vita ed opinioni. I
più rari sono gli ultimi, poi vengono i primi, e i più comuni sono come al solito quelli di
mezzo”.
Marx si rivolge così alla politica, trovando nel proletariato quella universalità che Hegel aveva
trovato negli ideali incarnati nello stato razionale. Sul proletariato, emblema dell’”ingiustizia di
per sé, assoluta” si riversa secondo Marx tutta l’irrazionalità della società moderna; la sua
emancipazione significa per ciò l’emancipazione della società nel suo complesso. E’ con questo
spirito che Marx intraprende lo studio dell’economia politica classica. Nei Manoscritti
economico-filosofici, in cui si occuperà del fenomeno dell’alienazione, Marx indirizzerà agli
economisti classici due critiche:
1. non è vero che le condizioni di produzione che caratterizzano il capitalismo siano
valide in assoluto, ma sono il risultato di un processo storico, essendo il capitalismo
una modo di produzione storicamente determinato;
2. i rapporti “puramente” economici non possono essere studiati in astratto: il capitale,
le merci, i prezzi, di cui parlano gli economisti classici non sono indipendenti
rispetto alla mediazione umana. Ogni fenomeno economico è sempre un fenomeno
sociale, perché qualsiasi tipo di economia presuppone sempre un determinato tipo di
società.
Una conseguenza di tutto ciò è che gli oggetti materiali prodotti sono considerati allo stesso livello
del lavoratore stesso, trasformando il lavoratore in una merce. Il fenomeno dell’alienazione sorge
allorché il soggetto produttivo perde il controllo sui prodotti del suo lavoro. L’oggettivazione, che
caratterizza qualsiasi processo lavorativo in quanto trasferisce forza-lavoro nell’oggetto da essa
creato, viene così a coincidere con l’alienazione. Oltre che perdere il controllo sui prodotti del suo
lavoro, il lavoratore è alienato anche all’interno della stessa attività produttiva, trasformandosi il
lavoro in un mezzo rivolto ad un fine piuttosto che essere un fine in se stesso.
Se ogni rapporto economico è anche un rapporto sociale, il lavoro così caratterizzato (quindi:
alienato) avrà delle implicazioni sociali. Questo vuol dire, ad esempio, che i rapporti umani saranno
subordinati ai movimenti del mercato, che il ruolo che il denaro riveste nelle relazioni umane
crescerà, e così via. Il lavoro alienato degrada l’attività produttiva alla sua semplice funzione di
adattamento alla natura, separando così l’essere umano dalla sua vera natura, da ciò che lo
differenzia dalla specie.
Alcuni temi di questa prima fase del pensiero di Marx si ritroveranno anche nelle sue opere mature:
a) l’idea, hegeliana, dell’autocreazione dell’uomo; b) il concetto di alienazione; c) la teoria dello
stato come emanazione di “una coscienza capovolta” e il suo necessario superamento; d) una
impostazione di tipo storico-sociologica piuttosto che filosofica nell’analisi dei fenomeni legati al
lavoro, alla politica e alla cultura; e) l’idea che l’analisi delle possibilità di trasformazione nella
storia non possa essere disgiunta da un programma di azione che consenta concretamente di
realizzare tali trasformazioni.
Il distacco dall’hegelismo di sinistra apre la strada alla cosiddetta concezione materialistica della
storia. Quest’ultima viene articolata a partire da alcune critiche che Marx svolge nei confronti del
materialismo di Feuerbach: a) la sua impostazione è astorica, in quanto concepisce l’uomo come
preesistente alla società, smarrendo la possibilità di inserire l’individuo che analizza all’interno di
una determinata forma di società; b) il suo materialismo è di natura filosofica, in quanto non
considera le idee come semplici riflessi della realtà materiale, ignorando le modificazioni del
mondo prodotte dall’azione umana; c) il suo materialismo è di natura contemplativa o passiva,
avendo dimenticato il rapporto dialettico fra il soggetto – vale a dire l’uomo nella società – e
l’oggetto, ossia il mondo materiale, che gli uomini cercano di sottomettere ai loro scopi,
trasformando in continuazione i loro scopi e creando così nuovi bisogni; d) la sua critica della
religione parte dal presupposto che sia possibile scoprire un nucleo “terreno” della religione, a
partire dal quale si sviluppa la “mondanità”; per Marx si tratta di percorrere la direzione inversa,
vale a dire un’analisi storica dei rapporti materiali di vita, delle miserie, delle sofferenze e delle
contraddizioni di questo mondo che rendono possibile e necessaria la religione; e) spostandosi sul
terreno degli “uomini” così come essi sono sotto determinate e specifiche condizioni storiche,
sociali ed economiche (in una parola: materiali), non si tratta per Marx di “umanizzare” la religione,
così come sostenuto da Feuerbach, ma di operare affinché sia superato uno stato di fatto che
produce da sé, naturalmente, la religione; f) si tratta, così, di combattere non più gli dei ma gli idoli.
Nel mondo moderno, secondo l’analisi che Marx comincerà a sviluppare dell’economia politica,
questi idoli coincidono con il carattere feticistico delle merci, vale a dire la forma di merce assunta
da tutti gli oggetti del mondo moderno – compreso l’uomo. Si tratta, adesso, di abbattere la
supremazia delle “cose” sull’uomo che le produce, non più la forza religiosa superiore all’uomo; g)
la capacità di creazione di miti è molto più forte nel mondo moderno che non nell’epoca cosiddetta
mitica dell’umanità. Come scrive Marx in una lettera del 27 luglio 1871 a Kugelmann, “si è sinora
creduto che la creazione cristiana di miti sia stata possibile soltanto nell’epoca dell’Impero romano,
poiché non era stata ancora scoperta la stampa. E’ vero proprio l’inverso. La stampa quotidiana e il
telefono, che in un attimo trasmettono in tutta la terra le loro invenzioni, fabbricano più miti in un
giorno che non potessero esserne costruiti un tempo in un secolo”.
Queste idee saranno riprese con maggiore forza ne L’ideologia tedesca, laddove Marx, insieme con
Engels, sosterrà con nettezza che: a) le idee sono il prodotto del cervello umano, il quale si trova in
un rapporto continuo con il mondo materiale conoscibile; b) la coscienza umana è condizionata dal
rapporto fra il soggetto e l’oggetto, vale a dire che il mondo (o la società) plasmano gli individui i
quali, con la loro azione, li plasmano a loro volta; c) la storia altro non è che un processo in cui i
bisogni vengono creati e ricreati senza soluzione di continuità; d) essendo l’uomo in origine un
essere totalmente comunitario, il processo di individualizzazione è un prodotto storico, legato ad
una specifica divisione del lavoro, la cui complessità è connessa alla produzione di beni il cui
numero è di gran lunga superiore a quanti ne servirebbero per soddisfare i bisogni fondamentali; e)
questa eccedenza comporta lo scambio dei prodotti, il quale determina la progressiva
individualizzazione dell’uomo; f) questo processo si attua nella storia, non può essere studiato
pertanto in astratto; g) l’attività produttiva è alla base della società sia in senso storico che in senso
logico; h) ciascun individuo, nelle sue azioni quotidiane, riproduce la società, e questo garantisce
sia la stabilità della società che il suo continuo mutamento; i) l’autocreazione dell’uomo implica un
processo di sviluppo sociale. Gli uomini non producono singolarmente ma in quanto membri di un
determinato tipo di società. Questo significa che ciascun tipo di società si fonda su un determinato
insieme di rapporti di produzione; l) i rapporti di produzione che implicano una specializzazione
nella divisione del lavoro sono la base per la costituzione delle classi, le quali sono determinate
dal rapporto che si stabilisce fra gruppi di individui e la proprietà dei mezzi di produzione; m) le
classi rappresentano un anello di congiunzione fra i rapporti di produzione e il resto della società. I
rapporti di classe sono il veicolo principale da cui dipende la distribuzione e l’organizzazione
del potere politico.
E’ con Il capitale che Marx si occupa più specificamente della dinamica della produzione tipica
della società moderna (o borghese), che definisce capitalismo. E’ questa la parte conclusiva del
lavoro intellettuale di Marx, alla quale continuerà a lavorare fino alla morte. Il capitalismo è, per
Marx, un sistema di produzione di merci, vale a dire un sistema di produzione orientato allo
scambio piuttosto che al semplice soddisfacimento di un bisogno. Ogni merce presenta sia un
aspetto legato al soddisfacimento di un bisogno – che Marx chiama valore d’uso – che un aspetto
orientato allo scambio – il suo valore di scambio. La sua determinazione, a differenza della
determinazione del valore d’uso, avviene allorché un prodotto è scambiato con un altro prodotto.
Acquistando valore solo in relazione alle altre merci, il valore di scambio implica necessariamente
un mercato di scambio, vale a dire un rapporto economico determinato.
La nozione di valore è applicabile ad un oggetto/merce solo nella misura in cui per la sua
produzione è stata utilizzata forza-lavoro umana: è questa la cosiddetta teoria del valore-lavoro, che
Marx riprende dagli economisti classici. La quantità di lavoro “oggettivata” ne determina il valore.
Dato che il valore di scambio non può essere derivato dal valore d’uso di una merce (ad es. il grano
e il ferro) e poiché una data quantità di una merce può essere scambiata con una data quantità di
un’altra merce, allora vuol dire che esiste una qualche caratteristica del lavoro che, potendo essere
espressa in termini quantitativi, consente la determinazione del valore di scambio. A questo
proposito, Marx introduce il concetto di lavoro astratto generale, vale a dire la quantità di tempo
spesa da un qualsiasi lavoratore nella produzione di una merce. Questa quantità di tempo fra
riferimento al tempo socialmente necessario per la produzione di una merce in una situazione di
normali condizioni del ciclo produttivo e del livello medio di abilità e intensità del lavoro, non al
tempo che un lavoratore specifico impiega per la produzione di una merce.
Il lavoro astratto rappresenta la base del valore di scambio, mentre il lavoro utile lo è del valore
d’uso. Dato che il lavoro astratto è relativo solo alla produzione di merci, e dato che la sua esistenza
dipende dalle caratteristiche specifiche del capitalismo, il lavoro astratto si configura come una
categoria storica.
Al fine di sgomberare il campo da tutti i fenomeni che nascondono la logica di funzionamento del
moderno capitalismo, Marx immagina sia una fase di equilibrio fra domanda e offerta sia un tipo
di capitalista che compra forza lavoro e vende merci ai loro valori reali. Questo dà luogo ad un
paradosso: se il capitalista “deve comperare le merci al loro valore, le deve vendere al loro valore,
eppure alla fine del processo deve trarne più valore di quanto ne abbia immesso”, qual è la fonte del
profitto? Per Marx, la fonte del profitto è data dal plusvalore, il quale deriva dallo scarto fra il
tempo di lavoro necessario per produrre l’equivalente del valore della forza-lavoro e la produzione
complessiva della forza-lavoro in una determinata unità di tempo: “la parte del capitale convertita in
forza-lavoro cambia il proprio valore nel processo di produzione. Riproduce il proprio equivalente e
inoltre produce un’eccedenza, il plusvalore, che a sua volta può variare, può essere più grande o più
piccolo”. Questa parte del capitale è chiamata da Marx capitale variabile.
Questo rapporto fra il lavoro necessario e il plus-lavoro viene chiamato da Marx saggio del
plusvalore o saggio di sfruttamento; esso ha un fondamento sociale, in quanto la determinazione
del tempo di lavoro necessario a produrre forza-lavoro rimanda alle specifiche condizioni materiali
di una determinata società. Marx distingue fra il capitale costante e il capitale variabile. Il capitale
costante è “quella parte del capitale che si converte in mezzi di produzione, cioè in materia prima,
materiali ausiliari e mezzi di lavoro … e non cambia la propria grandezza di valore nel processo di
produzione”. Il rapporto fra capitale costante e capitale variabile costituisce la composizione
organica del capitale. Mentre il saggio del plusvalore è dato dal rapporto fra plusvalore e capitale
variabile, il saggio del profitto dipende dalla composizione organica del capitale: minore è il
rapporto fra capitale costante e capitale variabile, maggiore è il saggio del profitto. Fra il saggio del
plusvalore e quello del profitto si crea una situazione paradossale: più cresce la concorrenza fra i
capitalisti – in termini di innovazione tecnologica, ossia di investimenti di capitale costante, più
decresce il saggio del profitto. E’ questa, per Marx, una contraddizione interna al capitale, che
definisce “legge della caduta tendenziale del saggio del profitto”.
Per ovviare a questo paradosso, i capitalisti hanno tre possibilità: a) aumentare la produttività e/o
l’intensità del lavoro; b) ridurre i costi del lavoro; c) ridurre i costi delle materie prime attraverso
l’espansione coloniale. Tutti e tre questi rimedi sono per Marx dei palliativi, destinati a crollare nel
lungo periodo. Da questa situazione, caratterizzata sia da un conflitto fra operai e capitalisti, sia da
un progressivo impoverimento della forza-lavoro, deriva l’inevitabile crollo del sistema
capitalistico. E’ questo l’aspetto profetico cui giunge l’opera di Marx, la quale, nel tentativo di
cogliere le leggi necessario e inevitabili dello sviluppo storico, prospetta una vera e propria fine
dello sviluppo storico allorché la storia raggiunge il suo culmine (per Marx la società senza classi).