Valutazione dell`imputabilità in età adolescenziale
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Valutazione dell`imputabilità in età adolescenziale
CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI MILANO E FONDAZIONE FORENSE DI MILANO IL DIFENSORE NEL PROCESSO PENALE MINORILE Valutazione dell’imputabilità in età adolescenziale Il sistema penale minorile introdotto nel 1988 ha rovesciato la prospettiva con la quale si guarda ai reati dei minorenni. La svolta sostanziale è consistita nel dare all’imputato di minor età un ruolo da protagonista, di partecipazione attiva nel corso del procedimento penale. Il DPR 448/88, che segue le indicazioni delle regole di Pechino del 1985, sembra anticipare la Convenzione di New York del 1989 relativamente alla partecipazione del minore attraverso l’ascolto in ogni procedimento che lo riguardi. La prassi sull’ascolto del minore, che nei procedimenti civili riguardanti i minori si è andata imponendo negli ultimi anni, nel penale minorile era già una realtà alla fine degli anni 80 a conclusione di un lungo cammino nelle elaborazioni delle risposte penali ai soggetti di minor età. La rappresentazione della minor età In ogni epoca, il trattamento sanzionatorio dei minori ha rappresentato lo specchio delle rappresentazioni della minor età. In Italia nell’ordinamento degli anni 30 si parlava di bambini traviati discoli e vagabondi, negli anni 50 ci si riferiva alle irregolarità della condotta e del carattere dei ragazzi che commettevano reati, negli anni 80 si chiede invece di occuparsi della soggettività di ogni ragazzo imputato, per accertarne l’imputabilità e il grado di responsabilità (articolo 9 DPR 448/88). Negli anni 30 la risposta alla concezione del bambino come un soggetto incompleto immaturo e perciò irresponsabile, da “rieducare” nei riformatori e case di rieducazione (dove potevano essere collocati, attraverso i procedimenti amministrativi, anche senza che avessero commesso reati) imposta una giustizia minorile di stampo paternalistico, limitata alla risposta punitiva. Con l’obiettivo di temperare il potere sanzionatorio e la severità dei giudici vengono introdotti istituti di clemenza, di indulgenza nei confronti di minori di età, come il perdono giudiziale (art. 169 c.p. 1930) e l’integrazione nel collegio giudicante della figura del Giudice Onorario (L. 1404/1934 di istituzione dei Tribunale per i minorenni). Con la riforma del 1956, che appare influenzata dalle ricerche sulla psicologia evolutiva del tempo, i minori diventano sostanzialmente soggetti da “curare” psicologicamente, per riparare ai danni che hanno incontrato nel loro percorso evolutivo. Il presupposto è che il fatto stesso di aver commesso un reato rappresenti il segnale di un’anomalia nella crescita. Si strutturano di conseguenza i gabinetti medico-psico-pedagogici. Negli anni 70 l’attenzione si sposta sull’influenza che i processi sociali esercitano sui comportamenti dei soggetti. Con autori come Goffman e Basaglia si promuove la critica e si mostra l’inefficacia delle risposte istituzionali nei confronti della follia e dei comportamenti antisociali. Le istituzioni totali: carcere e manicomio, attuano, infatti, esclusivamente risposte di segregazione dei soggetti. Il DPR dell’88 ha operato una sintesi di queste diverse fasi, riuscendo a comporre insieme trattamento sanzionatorio e cura, annullando una troppo netta distinzione tra pena e cura mentre la detenzione in carcere resta una scelta residuale. Scommettendo sulla possibilità di intervenire educativamente in ogni sua fase il nuovo processo penale minorile sollecita la responsabilità soggettiva, senza trascurare l’influenza del contesto socio-ambientale e le necessità di difesa sociale. Questo punto di arrivo del sistema penale minorile non sembra aver visto un’ulteriore evoluzione nella normativa. Dal 1988 è trascorso un quarto di secolo, il tentativo di varare un Ordinamento penitenziario minorile si è arenato e non è più stato preso in considerazione eppure questa, come molte altre questioni, meriterebbero di essere riviste, anche alla luce dell’esperienza maturata dagli operatori del settore in questi decenni. Nel frattempo la società è andata incontro a epocali trasformazioni culturali, sociali e della famiglia. Il prolungarsi della crisi economica non si limita oggi agli aspetti solo economici, ma coinvolge profondamente lo sguardo sui giovani che crescono, sul loro futuro, sulle occasioni - anche educative - che il mondo degli adulti può offrire. Il territorio dei reati sostanzialmente stabile. Dal Primo rapporto sulla giustizia minorili minorile appare, in Italia invece, del 2008 le denunce per reati compiuti da minorenni appaiono stabilizzate intorno a 40.000 all’anno, circa 15.000 non procedono per insussistenze varie, 4.000 sono i proscioglimenti per non luogo a provvedere per irrilevanza del fatto (art. 26 DPR 448/88)); i proscioglimenti per concessione del perdono giudiziario sono circa 3.000, sostanzialmente stabili anche essi; per sospensione del processo per messa alla prova risultano circa 1.200/1.300 proscioglimenti per esito positivo della prova (a fronte di un numero di circa 2.000 MAP seguite dai Servizi della Giustizia minorile). (www.ministerogiustizia) Lo stesso rapporto afferma: “La necessità che il processo abbia di fronte un soggetto maturo in grado di comprendere il significato determina un’altra significativa decurtazione dei procedimenti per soglia d’età e per immaturità”. Imputabilità minorile: età e maturità Questa affermazione ci introduce al tema dell’imputabilità, composta per i minori da due elementi: età e maturità. Il dibattito sull’imputabilità minorile, che non ha mai smesso di suscitare interrogativi, trova le sue radici nei fondamenti culturali e filosofici delle discussioni dell’inizio del novecento, che vedevano contrapposti i fondamenti teorici delle scuole giuridiche classica e positiva e che segnano il passaggio dal codice Zanardelli al codice Rocco. Da sempre al centro dei dibattiti dottrinali, l’imputabilità è unanimemente considerata uno dei nodi principali del diritto penale. Sullo sfondo delle dispute sul libero arbitrio e la responsabilità dell’uomo per i suoi comportamenti, il dibattito sull’imputabilità ha innescato l’incontro tra discorso giuridico e discorso medico-psichiatrico. La fertile ricerca di Foucault ha mostrato tutta la portata e la complessità di questo incontro, che riguarda in modo particolare l’influenza delle scienze umane nel trattamento penale dei minori. Il passaggio dal codice Zanardelli al codice Rocco investe in maniera specifica la questione minorile nel definire l’imputabilità delle persone di minor età secondo due parametri: ⇒ l’età imputabile e ⇒ l’accertamento della capacità del soggetto in età evolutiva di rispondere comportamenti. penalmente per i propri Nel percorso di crescita di un soggetto quando questa capacità di autonomamente, liberamente, autodeterminarsi può considerarsi acquisita? I tentativi di rispondere a questa domanda ci portano in un territorio di pensiero che richiama l’intervento di saperi non solo giuridici, questioni che richiedono il dialogo con altri ambiti specialistici, in particolare con quelli che studiano l‘evoluzione del soggetto nel corso della sua crescita. L’imputabilità minorile risulta dall’articolazione di questi due elementi: età e capacità d’intendere e di volere. (art. 98 cp). L’età imputabile Nei principi generali richiesti dalle Regole minime per l’Amministrazione della giustizia minorile del 29 novembre 1985, definite dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a P e c h i n o , l ’ a r t i c o l o 4 , r i c h i am a n d o i l c o n c e t t o g i à c o n t e n u t o nell’articolo 2, richiede che “qualora il sistema riconosca una soglia della responsabilità penale, tale limite non dovrà essere fissato ad un limite troppo basso, tenuto conto della maturità affettiva, mentale e intellettuale”. Linee guida del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa (17 novembre 2010) al punto B23: L’età minima per l’imputabilità penale non dovrebbe essere troppo bassa e dovrebbe essere determinata dalla legge. Più avanti le Stessi principi richiamati dalle stesse linee guida sollecitano anche l’applicazione di strumenti di mediazione, di diversion o altri modi alternativi di risoluzione delle controversie. Nonostante queste raccomandazioni, condivise dai paesi firmatari, le disposizioni sull’età minima imputabile si collocano tra i 7 anni di India Irlanda Stati Uniti e Sudafrica, e i 18 anni di Belgio Brasile e Messico, ripercorrendo tutta la gamma delle età intermedie. Ci si domanda perciò quali siano i criteri che possono giustificare questa variabilità nella considerazione dell’età nella quale un minore può, e deve, rispondere dei suoi comportamenti davanti alla legge. L’età in Italia In Italia un salto molto significativo nei confronti della definizione dell’età imputabile per i minori si è verificato nel passaggio tra le disposizioni del codice Zanardelli e il codice Rocco, quando si determina l’innalzamento di essa da 9 a 14 anni. Nei primi decenni dello scorso secolo, tra il 1890 e il 1930, in effetti, avviene una radicale trasformazione nella rappresentazione dell’infanzia che rende conto di questo passaggio. Lo storico dell’infanzia Philippe Airès evoluzione del pensiero sulla minor età: precisa le modalità di questa “Gli studiosi dell’infanzia (non i medici, che erano piuttosto fautori della maniera forte e della costrizione) scoprirono nell’Ottocento che le minacce, le punizioni corporali erano inutili e insegnarono, sulla scia dell’Emile di JeanJacques Rousseau, a seguire le inclinazioni della natura infantile, a non contrastarla, anzi a valersene. Per molto tempo non esercitarono alcuna influenza sugli educatori e sui genitori, convinti della virtù dell’esercitazione e dello sforzo. Essi trionfarono più tardi, grazie alla psicoanalisi e alla sua rapida divulgazione nei primi trent’anni del secolo”. (Philippe Ariès voce “Infanzia” Enciclopedia Einaudi). In quelli anni, i tre saggi di Freud sulla sessualità infantile del 1905 hanno l’effetto di trasformare la prospettiva del pensiero delle scienze umane sull’infanzia e sui processi di crescita . Il radicale rovesciamento che opera la diffusione delle idee psicoanalitiche è dato dall’abbandono di una idea dello sviluppo umano che vedeva nella crescita una continuità lineare, progressiva, cumulativa e continua del bambino attraverso l’adolescenza fino alla maturità. Si tratta del passaggio da una concezione ottocentesca di incompletezza del bambino, a una concezione che riconosce, invece, la strutturazione psichica del soggetto in un doppio inizio della vita sessuale umana, intervallato dalla necessaria sospensione della latenza. Le questioni che occupano la mente del bambino nella prima infanzia e nell’adolescenza, nei due culmini di elaborazione psichica che corrispondono a questi due inizi e rappresentano il fondamento dell’intelligenza e della salute psichica del soggetto, sono le medesime: 1. 2. L’ordine generazionale La differenza sessuale Questi due ordini di questioni sono la risposta alla domanda sulla quale tutti i bambini si attardano: da dove vengono i bambini?. Il lavorio del pensiero infantile e adolescenziale che risulta dai tentativi di elaborare teorie sulla nascita, rappresenta la base della posizione che il bambino sosterrà nel corso della sua crescita. Questa complessità del pensiero nella prima infanzia, dove il soggetto si radica nelle teorie che inventa, ricompare, dopo la latenza, all’inizio dell’adolescenza, quando il soggetto deve necessariamente, nella realtà, assumersi la responsabilità della sua posizione sessuata e perciò della sua stessa crescita. Responsabilità non soltanto verso se stesso, ma anche verso gli altri e verso la comunità alla quale si appartiene. E ciò perché le conseguenze dell’effettiva messa in atto della sessualità trascendono lo spazio individuale. A partire dalla pubertà, la questione di come nascono i bambini riguarda il soggetto come effettiva possibilità di realizzazione, nella realtà, e non soltanto nelle invenzioni della sua fantasia come avveniva nella prima infanzia. Perciò l’uscita dalla dipendenza infantile nell’adolescenza è necessariamente travaglio, lavoro psichico ma anche scoperta di nuove risposte, non continuità con l’infanzia ma discontinuità, una naturale e necessaria crisi nel doppio senso di “rischio e possibilità” legate alla crescita. L’adolescenza rappresenta una possibilità, una nuova chance, un’occasione di revisione della posizione del soggetto che può anche comportare effetti riparativi sulle difficoltà evolutive dell’infanzia eppure, d’altra parte, si acuisce il rischio connesso alla elaborazione di risposte che possono arrestare, bloccare, il cammino evolutivo, come i comportamenti antisociali, tra altri. Queste considerazioni ci permettono di sostenere che il collocare l’inizio dell’età imputabile a quattordici anni – tra i più alti in Europa – in un’età che vede consolidata la necessità da parte del soggetto di sostenere i processi ineluttabili della crescita che in lui si compiono, appare coerente con la richiesta di assumersi le responsabilità di tutte le sue azioni. Se l’adolescente è posto in questo momento di fronte all’esigenza di rispondere della sua capacità riproduttiva, che riguarda non soltanto la sua individualità ma è anche deputata alla preservazione della specie, è allora coerente chiederli conto di tutti i suoi comportamenti, non solo verso sé stesso ma anche rispetto all’altro e alla comunità dove cresce. L a c ap ac i t à d ’ i n t e n d e r e e d i v o l e r e d e i m i n o r i I confini dell’imputabilità dei minori sono definiti dall’art. 98 c.p. del 1930, che non si limita a stabilire l’età dell’imputabilità, ma vincola l’età anagrafica alla valutazione della capacità d’intendere e di volere. “E’ imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto aveva compiuto i quattordici anni ma non ancora i diciotto, se aveva capacità d’intendere e di volere” La sola età – dice la norma – non è sufficiente a determinare la capacità d’intendere e di volere, tra i 14 e i 18 anni la presume soltanto, lasciando indefinito il parametro di riferimento della responsabilità: è da essere collocato nella capacità del 14enne oppure del 18enne? Negli anni 80 il dibattito si è incentrato su questi temi. Il “se” sta ad indicare un dubbio che va risolto, non una presunzione che può essere superata. Stando alle regole del linguaggio italiano, l’intera frase così come formulata è un invito a partire nell’indagine dall’ipotesi dell’incapacità del soggetto in esame. (Paolo Vercellone, Bambini, ragazzi e giudici, Franco Angeli, Milano, 2007) Il dibattito degli anni 80 si concludeva considerando, nella maggior parte dei casi, la necessità di prendere come metro della valutazione dell’imputabilità il parametro della maturità del diciottenne “normale”. Tra 14 e 18 diviene quindi approfonditamente la sussistenza sufficiente, caso per caso. necessario valutare di una responsabilità In questo modo l’età finisce per rappresentare una cornice entro la quale viene comunque richiesto ogni volta, in ogni caso, un lavoro di valutazione del cammino evolutivo del soggetto. La congiunzione ipotetica “se” capace d’intendere e di volere condiziona il dato anagrafico, subordinandolo alla presenza di una sufficiente maturità psicologica e sociale, e alla partecipazione di altri saperi nel procedere al suo accertamento. A c c e r t a m e n t i s u l l a p e r so n a l i t à d e l m i n o r e n n e L’accertamento della maturità della persona di minor età presuppone la necessità, in ogni caso, di considerare la personalità del minore che ha commesso un reato. Le considerazioni sulla personalità non sono una novità del nuovo processo penale minorile del 1988, già il codice Zanardelli nel 1890 prevedeva che nel trattamento penale dei minori “fosse tenuta presente, in caso di giudizio, la personalità del piccolo imputato”. La Circolare guardasigilli Orlando 1908, qualche anno dopo, chiedeva di: “non limitarsi all’accertamento del fatto delittuoso nella sua pura materialità ma….di individuare tutte quelle notizie che possono dare un criterio esatto delle cause dirette o indirette, prossime o remote, per le quali egli giunse alla violazione delittuosa della legge”. Quale la differenza con l’attuale norma? La differenza sostanziale è data dall’abbandono della ricerca delle cause, e con esse di tutte le teorie che cercano di individuare nell’individuo o nella società le cause che portano il soggetto alla commissione di un reato, a favore di una ricognizione delle risorse presenti, nell’assetto psichico evolutivo di ogni soggetto e nel suo contesto. Tra cause endogene ed esogene, tra cause individuali e cause sociali, tra psicopatologia e sociopatia, per tutto il corso del 900 si è cercato di arrivare ad una comprensione del comportamento deviante che ha fornito per lo più modelli descrittivi e non esplicativi, che non hanno superato dubbi e aporie sulla responsabilità dei comportamenti di un individuo. Arriviamo così al DPR 448/88. L’Italia diventa uno dei primi paesi a introdurre un processo penale minorile che accoglie le ricerche delle scienze umane sulla crescita adolescenziale e, sino ad oggi, forse quello che meglio ha individuato strumenti adeguati e introdotto ampie e flessibili misure per renderlo effettivamente applicabile, pur con aspetti che meriterebbero una revisione. Il nodo centrale del pensiero che sorregge il DPR è la centralità del soggetto in ogni fase del processo e l’attenzione alla personalità del minore imputato, e del suo contesto, attenzione che implica la necessità di elaborare una risposta penale specifica per ogni soggetto che comprenda sempre una valenza educativa. La valutazione della maturità La centralità dell’analisi della personalità presuppone che il minore possa anche essere considerato non imputabile per immaturità, perché non ha raggiunto quelle caratteristiche che lo rendono pienamente responsabile. Combinato disposto art. 98 cp e art. 9 DPR 448/88. Art. 9 Accertamenti sulla personalità del minorenne 1. Il pubblico ministero ed il giudice acquisiscono elementi circa le condizioni e le risorse personali, familiari sociali ed ambientali del minorenne al fine di accertarne l’imputabilità ed il grado di responsabilità, valutare la rilevanza sociale del fatto nonché disporre le adeguate misure penali ed adottare gli eventuali procedimenti civili. L’articolo 9 consente di vincolare la valutazione dell’imputabilità alla responsabilità e alla rilevanza sociale del fatto, ancorando il processo evolutivo, e la responsabilità che ne deriva, anche all‘appartenenza del soggetto che cresce alla sua comunità di appartenenza. Si superano, in parte, con questa impostazione, le aporie che le idee di maturità e di normalità hanno sempre riproposto, e si vincola il comportamento individuale alla responsabilità dei propri atti, anche in relazione alla comunità in cui si va crescendo. In questa cornice, l’articolo 9 costituisce il sostegno agli strumenti specifici che il DPR andrà a comporre, spostando l’accento dalle cause dei comportamenti antisociali alla comprensione delle peculiarità del pensiero adolescenziale. Questo approccio non è sovrapponibile ad una diagnosi psicologica, che apparirebbe insufficiente a formulare il pensiero articolato e complesso che la norma prevede. E’ stata introdotta, nell’88, la possibilità di comprendere il senso dell’atto deviante, delle azioni spesso insensate degli adolescenti, in relazione alle peculiarità del pensiero adolescenziale, non tanto per diminuirne la responsabilità (o applicare misure paternalistiche o protettive tutele materne), quanto per sostenere e accompagnare il lavoro della crescita, individuando gli eventuali blocchi, gli arresti che spesso determinano i comportamenti antisociali. La scelta psichica che il lavoro della crescita comporta è anzitutto quella di sostenere l’angoscia che i processi evolutivi accentuano, di lavorarla perché il soggetto possa trovare modalità sostenibili di costruire il suo spazio in relazione agli altri. Il reato, come altri comportamenti agiti dell’adolescenza, comporta invece un tentativo di evitamento dell’angoscia, una sorta di scorciatoia che porta ad annullare la sofferenza che inevitabilmente il lavorio della crescita comporta. Comprendere il senso dell’atto deviante non significa perciò indagare il significato profondo, simbolico, inconscio, di un gesto, di un comportamento, sebbene in alcuni casi l’azione sprigioni un senso che rende leggibile in esso una determinata configurazione psichica. I contorni indeterminati che l’indagine sulla maturità assume nella normativa, permettono di articolare la variegata gamma di peculiarità e circostanze del minore sottoposto a procedimento penale, così come del contesto entro il quale il fatto/reato si colloca. A giudizio della Suprema Corte, “per riconoscere l’immoralità di alcuni fatti - omicidio, stupro, rapina- è sufficiente invero uno sviluppo individuale anche limitato poiché tali fatti si contrappongono alle regole elementari di condotta morale e sono immediatamente ripugnanti”. Nel considerare la maturità, infatti, non basta la sola comprensione del disvalore del gesto antisociale. La maturità non rappresenta, nel processo evolutivo, un’acquisizione netta e definitiva che si conquista una volta per tutte, ma si tratta di una capacità la cui padronanza procede in maniera progressiva e varia in funzione delle circostanze. Le disposizioni del DPR permettono di muoversi nel territorio della complessità dei processi della crescita, senza riduttivismi. La normale anormalità degli adolescenti Queste considerazioni ci portano a collocare il territorio dei comportamenti antisociali all’interno delle dinamiche evolutive specifiche che mostrano la normale anormalità degli adolescenti, già individuata dagli studi di Anna Freud a metà dello scorso secolo. Le ricerche neuropsicologiche più recenti rafforzano la tesi di una non completa maturità psicologica degli adolescenti L’accento è posto sull’immaturità del lobo frontale del cervello, deputato alle “funzioni esecutive”, che comprendono processi cognitivi superiori, quali la capacità di prendere decisioni e iniziative, di problem solving, di astrazione e flessibilità. (W.J.Freeman (1999) Come pensa il cervello Einaudi, Torino, 2000.) E’ difficile infatti stabilire, nei diversi casi, se gli agiti adolescenziali siano il frutto di un ritardo tipico dello sviluppo oppure se rappresentino l’esito di un disturbo psicopatologico, se si tratti di una grave immaturità evolutiva oppure di un disturbo di personalità. Su questo presupposto le varie associazioni psichiatriche americane hanno infatti chiesto l’abolizione della pena di morte per gli autori di reato minori dei diciotto anni. La Suprema Corte ha deciso nel 2005 di riconoscere la normale immaturità dell’adolescente accogliendo i risultati delle ricerche più recenti. L’accertamento della maturità dovrebbe perciò predominare su quello della psicopatologia, anche per la difficoltà di rilevare disturbi della personalità in una fase della vita in cui la personalità è ancora in formazione. Non è perciò previsto che venga disposta perizia sulla capacità d’intendere e di volere del minore, tranne nei casi che indicano la presenza di una condizione patologica, ma che si proceda piuttosto ad una valutazione articolata e integrata psicologica, sociale ed educativa. La prevalenza minorile dell’obiettivo educativo del processo Per concludere, bisogna considerare che la risposta penale non è l’unica possibilità educativa di intervenire sui comportamenti illeciti dei minori. Le competenze del Tribunale dei minorenni, permettono di attuare un’integrazione dei provvedimenti a sostegno della crescita, componendo gli spazi di intervento negli ambiti civile penale e amministrativo. E, nonostante queste possibilità, appare sempre meno frequente oggi, rispetto ai decenni passati, il ricorso al proscioglimento per immaturità. Le indicazioni di ormai numerose sentenze di Cassazione che chiedono che risulti comunque che il giudice abbia specificamente indugiato nell’esame della personalità del minore al fine di accertarne la capacità di intendere e di volere intesa la prima come maturità intellettiva e la seconda come capacità di autodeterminazione, rapportandole al disvalore etico-sociale della condotta in esame (Sez. 1 sent. 10002 del 26/09/1991 rf. 188594) …si richiede al giudice di merito un’adeguata motivazione sull’accertamento, in concreto, di detta capacità intesa come attitudine del soggetto ad avere la consapevolezza del disvalore sociale dell’atto e delle relative conseguenze e a determinare liberamente la sua condotta in relazione ad esso (Sez. 5 sent 00534 del 22/01/1993 rv. 192750) appaiono spesso disattese. La motivazione dell’imputabilità viene molte volte ricondotta alla sola natura dei fatti, nonostante ancor prima del nuovo processo minorile fosse stato ampliato il punto di vista della valutazione…la capacità d’intendere e di volere non può essere presunta dalla natura dei reati ascritti al minore o dal comportamento post factum dello stesso (Sez. 3 sent. 01407 del 9/02/1985 rv. 167829). L’obiettivo educativo del processo minorile prevede, inoltre, che, in ogni caso, sia spiegata al minore la motivazione della pronuncia del collegio nei suoi confronti, che rappresenta la risposta più adeguata che questo ha elaborato per sostenere ed accompagnare il percorso evolutivo di quel soggetto in particolare, includendo la possibilità, in molti casi, di costituire l’occasione di avviare un vero recupero del suo cammino evolutivo. Un eventuale proscioglimento per immaturità, se accompagnato dalla restituzione di un pensiero fondato sulla necessità di non intralciare i percorsi di crescita, e sostenuto da interventi dei servizi territoriali e dalla famiglia stessa, possono adeguatamente rispondere alle considerazioni sulle peculiarità del pensiero adolescenziale, ormai ampiamente assimilate nelle disposizioni in materia di trattamento penale per i soggetti di minor età. Maria Cristina Calle