Valutazione dell`imputabilità in età adolescenziale

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Valutazione dell`imputabilità in età adolescenziale
CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI MILANO
E FONDAZIONE FORENSE DI MILANO
IL DIFENSORE NEL PROCESSO PENALE MINORILE
Valutazione dell’imputabilità in età adolescenziale
Il sistema penale minorile introdotto nel 1988 ha rovesciato
la prospettiva con la quale si guarda ai reati dei minorenni.
La svolta sostanziale è consistita nel dare all’imputato di
minor età un ruolo da protagonista, di partecipazione attiva
nel corso del procedimento penale.
Il DPR 448/88, che segue le indicazioni delle regole di
Pechino del 1985, sembra anticipare la Convenzione di New
York del 1989 relativamente alla partecipazione del minore
attraverso l’ascolto in ogni procedimento che lo riguardi.
La prassi sull’ascolto del minore, che nei procedimenti civili
riguardanti i minori si è andata imponendo negli ultimi anni,
nel penale minorile era già una realtà alla fine degli anni 80
a conclusione di un lungo cammino nelle elaborazioni delle
risposte penali ai soggetti di minor età.
La rappresentazione della minor età
In ogni epoca, il trattamento sanzionatorio dei minori ha
rappresentato lo specchio delle rappresentazioni della minor
età. In Italia nell’ordinamento degli anni 30 si parlava di
bambini traviati discoli e vagabondi, negli anni 50 ci si
riferiva alle irregolarità della condotta e del carattere
dei ragazzi che commettevano reati, negli anni 80 si chiede
invece di occuparsi della soggettività di ogni ragazzo
imputato, per accertarne l’imputabilità e il grado di
responsabilità (articolo 9 DPR 448/88).
Negli anni 30 la risposta alla concezione del bambino come
un soggetto incompleto immaturo e perciò irresponsabile, da
“rieducare” nei riformatori e case di rieducazione (dove
potevano essere collocati, attraverso i procedimenti
amministrativi, anche senza che avessero commesso reati)
imposta una giustizia minorile di stampo paternalistico,
limitata alla risposta punitiva.
Con l’obiettivo di temperare il potere sanzionatorio e la
severità dei giudici vengono introdotti istituti di clemenza,
di indulgenza nei confronti di minori di età, come il perdono
giudiziale (art. 169 c.p. 1930) e l’integrazione nel collegio
giudicante della figura del Giudice Onorario (L. 1404/1934
di istituzione dei Tribunale per i minorenni).
Con la riforma del 1956, che appare influenzata dalle
ricerche sulla psicologia evolutiva del tempo, i minori
diventano
sostanzialmente
soggetti
da
“curare”
psicologicamente, per riparare ai danni che hanno incontrato
nel loro percorso evolutivo. Il presupposto è che il fatto
stesso di aver commesso un reato rappresenti il segnale di
un’anomalia nella crescita. Si strutturano di conseguenza i
gabinetti medico-psico-pedagogici.
Negli anni 70 l’attenzione si sposta sull’influenza che i
processi sociali esercitano sui comportamenti dei soggetti.
Con autori come Goffman e Basaglia si promuove la critica e
si mostra l’inefficacia delle risposte istituzionali nei
confronti della follia e dei comportamenti antisociali. Le
istituzioni totali: carcere e manicomio, attuano, infatti,
esclusivamente risposte di segregazione dei soggetti.
Il DPR dell’88 ha operato una sintesi di queste diverse fasi,
riuscendo a comporre insieme trattamento sanzionatorio e
cura, annullando una troppo netta distinzione tra pena e
cura mentre la detenzione in carcere resta una scelta
residuale.
Scommettendo
sulla
possibilità
di
intervenire
educativamente in ogni sua fase il nuovo processo penale
minorile sollecita la responsabilità soggettiva, senza
trascurare l’influenza del contesto socio-ambientale e le
necessità di difesa sociale.
Questo punto di arrivo del sistema penale minorile non
sembra aver visto un’ulteriore evoluzione nella normativa.
Dal 1988 è trascorso un quarto di secolo, il tentativo di
varare un Ordinamento penitenziario minorile si è arenato e
non è più stato preso in considerazione eppure questa, come
molte altre questioni, meriterebbero di essere riviste,
anche alla luce dell’esperienza maturata dagli operatori del
settore in questi decenni.
Nel frattempo la società è andata incontro a epocali
trasformazioni culturali, sociali e della famiglia. Il
prolungarsi della crisi economica non si limita oggi agli
aspetti solo economici, ma coinvolge profondamente lo
sguardo sui giovani che crescono, sul loro futuro, sulle
occasioni - anche educative - che il mondo degli adulti può
offrire.
Il
territorio
dei
reati
sostanzialmente stabile.
Dal
Primo
rapporto
sulla
giustizia
minorili
minorile
appare,
in
Italia
invece,
del
2008
le denunce per reati compiuti da
minorenni appaiono stabilizzate intorno a 40.000 all’anno,
circa 15.000 non procedono per insussistenze varie, 4.000
sono i proscioglimenti per non luogo a provvedere per
irrilevanza
del
fatto
(art.
26
DPR
448/88));
i
proscioglimenti per concessione del perdono giudiziario sono
circa 3.000, sostanzialmente stabili anche essi; per
sospensione del processo per messa alla prova risultano
circa 1.200/1.300 proscioglimenti per esito positivo della
prova (a fronte di un numero di circa 2.000 MAP seguite dai
Servizi della Giustizia minorile).
(www.ministerogiustizia)
Lo stesso rapporto afferma:
“La necessità che il processo abbia di fronte un soggetto maturo in
grado di comprendere il significato determina un’altra significativa
decurtazione dei procedimenti per soglia d’età e per immaturità”.
Imputabilità minorile: età e maturità
Questa affermazione ci introduce al tema dell’imputabilità,
composta per i minori da due elementi: età e maturità.
Il dibattito sull’imputabilità minorile, che non ha mai
smesso di suscitare interrogativi, trova le sue radici nei
fondamenti culturali e filosofici delle discussioni dell’inizio
del novecento, che vedevano contrapposti i fondamenti
teorici delle scuole giuridiche classica e positiva e che
segnano il passaggio dal codice Zanardelli al codice Rocco.
Da sempre al centro dei dibattiti dottrinali, l’imputabilità è
unanimemente considerata uno dei nodi principali del diritto
penale.
Sullo sfondo delle dispute sul libero arbitrio e la
responsabilità dell’uomo per i suoi comportamenti, il
dibattito sull’imputabilità ha innescato l’incontro tra
discorso giuridico e discorso medico-psichiatrico. La fertile
ricerca di Foucault ha mostrato tutta la portata e la
complessità di questo incontro, che riguarda in modo
particolare l’influenza delle scienze umane nel trattamento
penale dei minori.
Il passaggio dal codice Zanardelli al codice Rocco investe in
maniera specifica la questione minorile nel definire
l’imputabilità delle persone di minor età secondo due
parametri:
⇒ l’età imputabile e
⇒ l’accertamento della
capacità
del
soggetto
in
età
evolutiva
di
rispondere
comportamenti.
penalmente
per
i
propri
Nel percorso di crescita di un soggetto quando questa
capacità di autonomamente, liberamente, autodeterminarsi
può considerarsi acquisita?
I tentativi di rispondere a questa domanda ci portano in un
territorio di pensiero che richiama l’intervento di saperi
non solo giuridici, questioni che richiedono il dialogo con
altri ambiti specialistici, in particolare con quelli che
studiano l‘evoluzione del soggetto nel corso della sua
crescita.
L’imputabilità minorile risulta dall’articolazione di questi
due elementi: età e capacità d’intendere e di volere. (art.
98 cp).
L’età imputabile
Nei principi generali richiesti dalle Regole minime per
l’Amministrazione della giustizia minorile del 29 novembre
1985, definite dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite
a P e c h i n o , l ’ a r t i c o l o 4 , r i c h i am a n d o i l c o n c e t t o g i à c o n t e n u t o
nell’articolo 2, richiede che “qualora il sistema riconosca una
soglia della responsabilità penale, tale limite non dovrà essere
fissato ad un limite troppo basso, tenuto conto della maturità
affettiva, mentale e intellettuale”.
Linee guida del Comitato dei
Ministri del Consiglio d’Europa (17 novembre 2010) al punto B23:
L’età minima per l’imputabilità penale non dovrebbe essere troppo
bassa e dovrebbe essere determinata dalla legge. Più avanti le
Stessi
principi
richiamati
dalle
stesse linee guida sollecitano anche l’applicazione di strumenti di
mediazione, di diversion o altri modi alternativi di risoluzione delle
controversie.
Nonostante
queste
raccomandazioni,
condivise
dai
paesi
firmatari, le disposizioni sull’età minima imputabile si
collocano tra i 7 anni di India Irlanda Stati Uniti e
Sudafrica, e i 18 anni di Belgio Brasile e Messico,
ripercorrendo tutta la gamma delle età intermedie.
Ci si domanda perciò quali siano i criteri che possono
giustificare questa variabilità nella considerazione dell’età
nella quale un minore può, e deve, rispondere dei suoi
comportamenti davanti alla legge.
L’età in Italia
In Italia un salto molto significativo nei confronti della
definizione dell’età imputabile per i minori si è verificato
nel passaggio tra le disposizioni del codice Zanardelli e il
codice Rocco, quando si determina l’innalzamento di essa da
9 a 14 anni.
Nei primi decenni dello scorso secolo, tra il 1890 e il 1930,
in effetti, avviene una radicale trasformazione nella
rappresentazione dell’infanzia che rende conto di questo
passaggio.
Lo storico dell’infanzia Philippe Airès
evoluzione del pensiero sulla minor età:
precisa
le
modalità
di
questa
“Gli studiosi dell’infanzia (non i medici, che erano piuttosto fautori della
maniera forte e della costrizione) scoprirono nell’Ottocento che le minacce, le
punizioni corporali erano inutili e insegnarono, sulla scia dell’Emile di JeanJacques Rousseau, a seguire le inclinazioni della natura infantile, a non
contrastarla, anzi a valersene. Per molto tempo non esercitarono alcuna
influenza sugli educatori e sui genitori, convinti della virtù dell’esercitazione
e dello sforzo. Essi trionfarono più tardi, grazie alla psicoanalisi e alla sua
rapida divulgazione nei primi trent’anni del secolo”. (Philippe Ariès voce
“Infanzia” Enciclopedia Einaudi).
In quelli anni, i tre saggi di Freud sulla sessualità infantile
del 1905 hanno l’effetto di trasformare la prospettiva del
pensiero delle scienze umane sull’infanzia e sui processi di
crescita .
Il radicale rovesciamento che opera la diffusione delle idee
psicoanalitiche è dato dall’abbandono di una idea dello
sviluppo umano che vedeva nella crescita una continuità
lineare, progressiva, cumulativa e continua del bambino
attraverso l’adolescenza fino alla maturità.
Si tratta del passaggio da una concezione ottocentesca di
incompletezza del bambino, a una concezione che riconosce,
invece, la strutturazione psichica del soggetto in un doppio
inizio
della
vita
sessuale
umana,
intervallato
dalla
necessaria sospensione della latenza.
Le questioni che occupano la mente del bambino nella prima
infanzia e nell’adolescenza, nei due culmini di elaborazione
psichica
che
corrispondono
a
questi
due
inizi
e
rappresentano il fondamento dell’intelligenza e della salute
psichica del soggetto, sono le medesime:
1.
2.
L’ordine generazionale
La differenza sessuale
Questi due ordini di questioni sono la risposta alla domanda
sulla quale tutti i bambini si attardano: da dove vengono i
bambini?.
Il lavorio del pensiero infantile e adolescenziale che risulta
dai tentativi di elaborare teorie sulla nascita, rappresenta
la base della posizione che il bambino sosterrà nel corso
della sua crescita.
Questa complessità del pensiero nella prima infanzia, dove
il soggetto si radica nelle teorie che inventa, ricompare,
dopo la latenza, all’inizio dell’adolescenza, quando il
soggetto deve necessariamente, nella realtà, assumersi la
responsabilità della sua posizione sessuata e perciò della
sua stessa crescita.
Responsabilità non soltanto verso se stesso, ma anche verso
gli altri e verso la comunità alla quale si appartiene. E ciò
perché le conseguenze dell’effettiva messa in atto della
sessualità trascendono lo spazio individuale.
A partire dalla pubertà, la questione di come nascono i
bambini riguarda il soggetto come effettiva possibilità di
realizzazione, nella realtà, e non soltanto nelle invenzioni
della sua fantasia come avveniva nella prima infanzia.
Perciò l’uscita dalla dipendenza infantile nell’adolescenza è
necessariamente travaglio, lavoro psichico ma anche
scoperta di nuove risposte, non continuità con l’infanzia ma
discontinuità, una naturale e necessaria crisi nel doppio
senso di “rischio e possibilità” legate alla crescita.
L’adolescenza rappresenta una possibilità, una nuova chance,
un’occasione di revisione della posizione del soggetto che
può anche comportare effetti riparativi sulle difficoltà
evolutive dell’infanzia eppure, d’altra parte, si acuisce il
rischio connesso alla elaborazione di risposte che possono
arrestare,
bloccare,
il
cammino
evolutivo,
come
i
comportamenti antisociali, tra altri.
Queste considerazioni ci permettono di sostenere che il
collocare l’inizio dell’età imputabile a quattordici anni – tra
i più alti in Europa – in un’età che vede consolidata la
necessità da parte del soggetto di sostenere i processi
ineluttabili della crescita che in lui si compiono, appare
coerente con la richiesta di assumersi le responsabilità di
tutte le sue azioni.
Se l’adolescente è posto in questo momento di fronte
all’esigenza di rispondere della sua capacità riproduttiva,
che riguarda non soltanto la sua individualità ma è anche
deputata alla preservazione della specie, è allora coerente
chiederli conto di tutti i suoi comportamenti, non solo verso
sé stesso ma anche rispetto all’altro e alla comunità dove
cresce.
L a c ap ac i t à d ’ i n t e n d e r e e d i v o l e r e d e i m i n o r i
I confini dell’imputabilità dei minori sono definiti dall’art.
98 c.p. del 1930, che non si limita a stabilire l’età
dell’imputabilità, ma vincola l’età anagrafica alla valutazione
della capacità d’intendere e di volere.
“E’ imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il
fatto aveva compiuto i quattordici anni ma non ancora i
diciotto, se aveva capacità d’intendere e di volere”
La sola età – dice la norma – non è sufficiente a
determinare la capacità d’intendere e di volere, tra i 14 e i
18 anni la presume soltanto, lasciando indefinito il
parametro di riferimento della responsabilità: è da essere
collocato nella capacità del 14enne oppure del 18enne?
Negli anni 80 il dibattito si è incentrato su questi temi.
Il “se” sta ad indicare un dubbio che va risolto, non una presunzione
che può essere superata. Stando alle regole del linguaggio italiano,
l’intera frase così come formulata è un invito a partire nell’indagine
dall’ipotesi dell’incapacità del soggetto in esame. (Paolo Vercellone,
Bambini, ragazzi e giudici, Franco Angeli, Milano, 2007)
Il dibattito degli anni 80 si concludeva considerando, nella
maggior parte dei casi, la necessità di prendere come metro
della valutazione dell’imputabilità il parametro della
maturità del diciottenne “normale”.
Tra
14
e
18
diviene
quindi
approfonditamente la sussistenza
sufficiente, caso per caso.
necessario
valutare
di una responsabilità
In questo modo l’età finisce per rappresentare una cornice
entro la quale viene comunque richiesto ogni volta, in ogni
caso, un lavoro di valutazione del cammino evolutivo del
soggetto.
La congiunzione ipotetica “se” capace d’intendere e di
volere condiziona il dato anagrafico, subordinandolo alla
presenza di una sufficiente maturità psicologica e sociale,
e alla partecipazione di altri saperi nel procedere al suo
accertamento.
A c c e r t a m e n t i s u l l a p e r so n a l i t à d e l m i n o r e n n e
L’accertamento della maturità della persona di minor età
presuppone la necessità, in ogni caso, di considerare la
personalità del minore che ha commesso un reato.
Le considerazioni sulla personalità non sono una novità del
nuovo processo penale minorile del 1988, già il codice
Zanardelli nel 1890 prevedeva che nel trattamento penale
dei minori “fosse tenuta presente, in caso di giudizio, la
personalità del piccolo imputato”.
La Circolare guardasigilli Orlando 1908, qualche anno dopo, chiedeva
di: “non limitarsi all’accertamento del fatto delittuoso nella sua
pura materialità ma….di individuare tutte quelle notizie che possono
dare un criterio esatto delle cause dirette o indirette, prossime o
remote, per le quali egli giunse alla violazione delittuosa della
legge”.
Quale la differenza con l’attuale norma?
La differenza sostanziale è data dall’abbandono della
ricerca delle cause, e con esse di tutte le teorie che
cercano di individuare nell’individuo o nella società le cause
che portano il soggetto alla commissione di un reato, a
favore
di
una
ricognizione
delle
risorse
presenti,
nell’assetto psichico evolutivo di ogni soggetto e nel suo
contesto.
Tra cause endogene ed esogene, tra cause individuali e
cause sociali, tra psicopatologia e sociopatia, per tutto il
corso del 900 si è cercato di arrivare ad una comprensione
del comportamento deviante che ha fornito per lo più
modelli descrittivi e non esplicativi, che non hanno superato
dubbi e aporie sulla responsabilità dei comportamenti di un
individuo.
Arriviamo così al DPR 448/88. L’Italia diventa uno dei primi
paesi a introdurre un processo penale minorile che accoglie
le
ricerche
delle
scienze
umane
sulla
crescita
adolescenziale e, sino ad oggi, forse quello che meglio ha
individuato strumenti adeguati e introdotto ampie e
flessibili misure per renderlo effettivamente applicabile,
pur con aspetti che meriterebbero una revisione.
Il nodo centrale del pensiero che sorregge il DPR è la
centralità del soggetto in ogni fase del processo e
l’attenzione alla personalità del minore imputato, e del suo
contesto, attenzione che implica la necessità di elaborare
una risposta penale specifica per ogni soggetto che
comprenda sempre una valenza educativa.
La valutazione della maturità
La centralità dell’analisi della personalità presuppone che il
minore possa anche essere considerato non imputabile per
immaturità, perché non ha raggiunto quelle caratteristiche
che lo rendono pienamente responsabile. Combinato disposto
art. 98 cp e art. 9 DPR 448/88.
Art. 9 Accertamenti sulla personalità del minorenne
1.
Il pubblico ministero ed il giudice acquisiscono elementi circa
le condizioni e le risorse personali, familiari sociali ed
ambientali del minorenne al fine di accertarne l’imputabilità ed
il grado di responsabilità, valutare la rilevanza sociale del
fatto nonché disporre le adeguate misure penali ed adottare
gli eventuali procedimenti civili.
L’articolo
9
consente
di
vincolare
la
valutazione
dell’imputabilità alla responsabilità e alla rilevanza
sociale del fatto, ancorando il processo evolutivo, e la
responsabilità che ne deriva, anche all‘appartenenza del
soggetto che cresce alla sua comunità di appartenenza.
Si superano, in parte, con questa impostazione, le aporie
che le idee di maturità e di normalità hanno sempre
riproposto, e si vincola il comportamento individuale alla
responsabilità dei propri atti, anche in relazione alla
comunità in cui si va crescendo.
In questa cornice, l’articolo 9 costituisce il sostegno agli
strumenti specifici che il DPR andrà a comporre, spostando
l’accento dalle cause dei comportamenti antisociali alla
comprensione delle peculiarità del pensiero adolescenziale.
Questo approccio non è sovrapponibile ad una diagnosi
psicologica, che apparirebbe insufficiente a formulare il
pensiero articolato e complesso che la norma prevede.
E’ stata introdotta, nell’88, la possibilità di comprendere il
senso dell’atto deviante, delle azioni spesso insensate degli
adolescenti, in relazione alle peculiarità del pensiero
adolescenziale, non tanto per diminuirne la responsabilità (o
applicare misure paternalistiche o protettive tutele
materne), quanto per sostenere e accompagnare il lavoro
della crescita, individuando gli eventuali blocchi, gli arresti
che spesso determinano i comportamenti antisociali.
La scelta psichica che il lavoro della crescita comporta è
anzitutto quella di sostenere l’angoscia che i processi
evolutivi accentuano, di lavorarla perché il soggetto possa
trovare modalità sostenibili di costruire il suo spazio in
relazione agli altri.
Il reato, come altri comportamenti agiti dell’adolescenza,
comporta invece un tentativo di evitamento dell’angoscia,
una sorta di scorciatoia che porta ad annullare la
sofferenza che inevitabilmente il lavorio della crescita
comporta.
Comprendere il senso dell’atto deviante non significa perciò
indagare il significato profondo, simbolico, inconscio, di un
gesto, di un comportamento, sebbene in alcuni casi l’azione
sprigioni un senso che rende leggibile in esso una
determinata configurazione psichica.
I contorni indeterminati che l’indagine sulla maturità
assume nella normativa, permettono di articolare la
variegata gamma di peculiarità e circostanze del minore
sottoposto a procedimento penale, così come del contesto
entro il quale il fatto/reato si colloca.
A giudizio della Suprema Corte, “per riconoscere l’immoralità di
alcuni fatti - omicidio, stupro, rapina- è sufficiente invero uno
sviluppo
individuale
anche
limitato
poiché
tali
fatti
si
contrappongono alle regole elementari di condotta morale e sono
immediatamente ripugnanti”.
Nel considerare la maturità, infatti, non basta la sola
comprensione del disvalore del gesto antisociale. La
maturità
non
rappresenta,
nel
processo
evolutivo,
un’acquisizione netta e definitiva che si conquista una volta
per tutte, ma si tratta di una capacità la cui padronanza
procede in maniera progressiva e varia in funzione delle
circostanze.
Le disposizioni del DPR permettono di muoversi nel
territorio della complessità dei processi della crescita,
senza riduttivismi.
La normale anormalità degli adolescenti
Queste considerazioni ci portano a collocare il territorio
dei comportamenti antisociali all’interno delle dinamiche
evolutive specifiche che mostrano la normale anormalità
degli adolescenti, già individuata dagli studi di Anna Freud a
metà dello scorso secolo.
Le ricerche neuropsicologiche più recenti rafforzano la tesi
di una non completa maturità psicologica degli adolescenti
L’accento è posto sull’immaturità del lobo frontale del
cervello,
deputato
alle
“funzioni
esecutive”,
che
comprendono processi cognitivi superiori, quali la capacità
di prendere decisioni e iniziative, di problem solving, di
astrazione e flessibilità. (W.J.Freeman (1999) Come pensa il cervello
Einaudi, Torino, 2000.)
E’ difficile infatti stabilire, nei diversi casi, se gli agiti
adolescenziali siano il frutto di un ritardo tipico dello
sviluppo oppure se rappresentino l’esito di un disturbo
psicopatologico, se si tratti di una grave immaturità
evolutiva oppure di un disturbo di personalità.
Su questo presupposto le varie associazioni psichiatriche
americane hanno infatti chiesto l’abolizione della pena di
morte per gli autori di reato minori dei diciotto anni. La
Suprema Corte ha deciso nel 2005 di riconoscere la normale
immaturità dell’adolescente accogliendo i risultati delle
ricerche più recenti.
L’accertamento della maturità dovrebbe perciò predominare
su quello della psicopatologia, anche per la difficoltà di
rilevare disturbi della personalità in una fase della vita in
cui la personalità è ancora in formazione.
Non è perciò previsto che venga disposta perizia sulla
capacità d’intendere e di volere del minore, tranne nei casi
che indicano la presenza di una condizione patologica, ma
che si proceda piuttosto ad una valutazione articolata e
integrata psicologica, sociale ed educativa.
La
prevalenza
minorile
dell’obiettivo
educativo
del
processo
Per concludere, bisogna considerare che la risposta penale
non è l’unica possibilità educativa di intervenire sui
comportamenti illeciti dei minori. Le competenze del
Tribunale
dei
minorenni,
permettono
di
attuare
un’integrazione dei provvedimenti a sostegno della crescita,
componendo gli spazi di intervento negli ambiti civile penale
e amministrativo.
E, nonostante queste possibilità, appare sempre meno
frequente oggi, rispetto ai decenni passati, il ricorso al
proscioglimento per immaturità.
Le indicazioni di ormai numerose sentenze di Cassazione che
chiedono che risulti comunque che il giudice abbia specificamente
indugiato nell’esame della personalità del minore al fine di
accertarne la capacità di intendere e di volere intesa la prima come
maturità
intellettiva
e
la
seconda
come
capacità
di
autodeterminazione, rapportandole al disvalore etico-sociale della
condotta in esame (Sez. 1 sent. 10002 del 26/09/1991 rf. 188594)
…si
richiede al giudice di merito un’adeguata motivazione
sull’accertamento, in concreto, di detta capacità intesa come
attitudine del soggetto ad avere la consapevolezza del disvalore
sociale dell’atto e delle relative conseguenze e a determinare
liberamente la sua condotta in relazione ad esso (Sez. 5 sent 00534
del 22/01/1993 rv. 192750) appaiono spesso disattese.
La motivazione dell’imputabilità viene molte volte ricondotta
alla sola natura dei fatti, nonostante ancor prima del nuovo
processo minorile fosse stato ampliato il punto di vista
della valutazione…la capacità d’intendere e di volere non può
essere presunta dalla natura dei reati ascritti al minore o dal
comportamento post factum dello stesso (Sez. 3 sent. 01407 del
9/02/1985 rv. 167829).
L’obiettivo educativo del processo minorile prevede, inoltre,
che, in ogni caso, sia spiegata al minore la motivazione della
pronuncia del collegio nei suoi confronti, che rappresenta la
risposta più adeguata che questo ha elaborato per
sostenere ed accompagnare il percorso evolutivo di quel
soggetto in particolare, includendo la possibilità, in molti
casi, di costituire l’occasione di avviare un vero recupero
del suo cammino evolutivo.
Un
eventuale
proscioglimento
per
immaturità,
se
accompagnato dalla restituzione di un pensiero fondato sulla
necessità di non intralciare i percorsi di crescita, e
sostenuto da interventi dei servizi territoriali e dalla
famiglia stessa, possono adeguatamente rispondere alle
considerazioni sulle peculiarità del pensiero adolescenziale,
ormai ampiamente assimilate nelle disposizioni in materia di
trattamento penale per i soggetti di minor età.
Maria Cristina Calle