I Gli avevano dato uno dei tavoli migliori. La pre

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I Gli avevano dato uno dei tavoli migliori. La pre
I
Gli avevano dato uno dei tavoli migliori. La prenotazione era stata fatta poco prima di Natale, ormai
cinque mesi fa. Certo era un habitué di quel locale,
ma quella sera in programma non c’era un concerto, ma l’evento dell’anno: George Benson live era
un appuntamento al quale non poteva mancare.
Era il 20 dicembre, faceva freddo, ma la corsa
agli ultimi acquisti natalizi gli aveva imposto di
attardarsi davanti alle vetrine dei negozi in cerca
di qualcosa di originale per sua madre. Poi, quasi
come un miraggio, tra le mille luci delle luminarie,
il rumore delle auto e dei tram, ecco quel manifesto
attaccato a una pensilina di via Torino. Il 17 maggio, a Milano, ovviamente al Blue Note, ci sarebbe
stato il concerto di George Benson. Per chi ama il
jazz basta questo. Doveva avere quei biglietti! Ci
vollero solo poche ore passate al pc per capire che
era già tutto esaurito. Dovette aspettare il 24 per
scoprire che il suo sogno si sarebbe realizzato. Federica, sua moglie. Li aveva presi lei i biglietti. Ci
sarebbero andati insieme. Avrebbero festeggiato così
i loro dieci anni di matrimonio.
Marco Ferrari era un uomo un po’ duro, o forse
voleva apparire così. In realtà, non lo era affatto e,
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quella sera, in un attimo, aveva capito quanto fosse
speciale la donna che aveva sposato. Non era per il
regalo. Aveva reso reale un sogno. Lo aveva capito.
Senza che lui le dicesse nulla.
Da quel giorno erano passati cinque mesi. Federica però quella sera non c’era. Una riunione,
una videoconferenza con gli Stati Uniti. “Amore,
mi dispiace, non sai quanto. Non posso non andare. A lavoro sai che aria tira. È troppo importante.
Ti prego, perdonami.” Gli aveva detto così. Marco, stranamente, non c’era rimasto male più di tanto. Era come se se lo aspettasse. Ormai era più di
un anno che la ragazza dolce, affettuosa e sempre
presente che aveva sposato, aveva lasciato il posto
alla donna in carriera. Spietata sul lavoro, distante
a casa, algida nel letto. Lui la capiva, per l’amor del
cielo. Il suo lavoro nelle forze dell’ordine lo assorbiva molto. I turni di notte, i Natali passati dietro
una scrivania o, peggio ancora, a pedinare qualche
stronzo, gli imponevano di capire ogni cosa. Ed era
così, ma ogni volta che lei non c’era una strana sensazione di vuoto lo coglieva impreparato. “Federica, stasera no. È il nostro anniversario, il concerto
di Benson...” Le sue parole sembravano cadere nel
nulla. Lei era già uscita.
Al ritorno dal lavoro aveva sperato di trovarla a
casa. Magari era uno scherzo, oppure si era liberata
ed era pronta, in tacchi e longuette nera, per uscire
con lui. Invece non era così. La casa era vuota. Erano già le 19 e, in meno di un’ora, doveva farsi una
doccia, cambiarsi e andare in via Borsieri. Da corso
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San Gottardo, dove abitava, ci avrebbe messo una
mezz’ora o poco meno. Già, perché aveva deciso di
andarci al Blue Note. Sì, ci sarebbe andato. Avrebbe cenato e si sarebbe goduto il suo concerto.
Alle 19.30 era pronto. Non si era fatto la barba,
non era poi così lunga. Un po’ incolta, leggermente
brizzolata. In ufficio, Francesca, la sua collega, gli
diceva che lo rendeva più “uomo vissuto”. Un paio
di jeans, Levis 501, un po’ da ragazzotto ‒ avrebbe detto qualcuno ‒ ma a lui piacevano. Amava il
tessuto di quei jeans, sentirlo sulla pelle. Gli stavano bene. Hogan bianche e una camicia gialla della
Ralph Lauren. Sopra, il suo amato chiodo. Non faceva freddo in realtà, ma aveva deciso di andarci in
moto. Avrebbe così evitato il problema di parcheggiare all’Isola. Il chiodo ci voleva, soprattutto al
ritorno quando la temperatura si sarebbe fatta sicuramente più fredda. Prima di uscire aveva lasciato
a Federica un biglietto, due versi: “Rubi la musica,
lucri sul mio umore”. Amava scrivere poesie. Scriveva di getto. Trovava meraviglioso quando riusciva, in poche parole, a esprimere un’emozione. Era
la magia della poesia. A Federica ne aveva scritte un
milione. Questa non lo era. Volutamente solo due
versi, incompleta, come si sentiva lui quella sera.
Il sole stava per lasciare il passo alla notte. Fuori si stava bene. Nonostante lo smog, la puzza e il
grigiore, Marco, mentre sfrecciava per le vie del
centro, riusciva a percepire l’anima di quella città
dai mille volti e dalle tante sfumature. Gli uomini
in giacca e cravatta che rientravano a casa dopo una
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giornata a lavoro. Alcuni di loro forse li conosceva,
li aveva seguiti, magari erano stati oggetto di qualche indagine passata. Il cielo era azzurro, era stata
una giornata di sole: di quelle belle, serene, pulite,
quelle che segnano l’inizio vero della primavera.
Sulla Est, tornando a casa poco prima, si vedevano le montagne di Como. Milano a quell’ora era
bella. Il ritmo frenetico del giorno lasciava spazio
a quello più informale e rilassato della sera. Percepiva l’odore della primavera mischiarsi con quello
dell’asfalto e dei suoi pneumatici. Andare in moto
lo faceva sentire vivo. In sella alla sua Yamaha
avrebbe potuto conquistare il mondo.
“Buonasera, dottor Ferrari, come sta?”
“Bene, grazie, Sergio. Ho prenotato un tavolo per
la cena.”
“Sapevo che stasera non sarebbe potuto mancare. Benson a Milano è un evento imperdibile. Controllo subito. Vitali per due. Aspetta la sua gentile
signora o vuole accomodarsi?”
“No, Sergio, ceno da solo stasera. Federica è stata costretta a rimanere in ufficio. Sai com’è lei con
il lavoro. Io però il concerto non me lo perdo.”
“Certo, dottore, la faccio accomodare subito.”
Gli aveva dato proprio un bel tavolo, di fronte al
palco. Nonostante conoscesse Sergio da una vita,
lui si ostinava a dargli del Lei. Al Blue Note era di
casa, ma Sergio continuava a mantenere una certa
dose di rispetto, di reverenza... forse per via del suo
lavoro. Si era sentito stupido. Aveva, per l’ennesima volta, giustificato sua moglie e aveva risposto
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in maniera sicura “impegni di lavoro”. In realtà,
scuse ce ne erano poche. Era il loro anniversario.
I biglietti per quel concerto li aveva presi lei. E lei
non c’era.
Non aveva molto appetito, mancava un’ora all’inizio dello spettacolo. Il locale imponeva di cenare
prima dell’inizio della musica per rispetto degli artisti. Era corretto. Il menù prevedeva pochi piatti,
raffinati e ben cucinati. Non si andava lì per mangiare, ma per abbinare sapori particolari a pioggia
di note. Lui sapeva già cosa prendere. Sempre la
stessa cosa: burratina di Andria con pomodorini
datterini e fragole macerate all’aceto balsamico. Da
bere un bicchiere di vino rosso, fermo.
Federica gli aveva mandato un messaggio, poco
prima che lo spettacolo iniziasse: “Buon concerto,
amore mio. Io ne ho ancora per un bel po’”.
Sicuramente, si sarebbe gustato ogni nota di
sax, ogni suono di chitarra. Peggio per lei. Quando le luci si abbassarono, Marco aveva il cuore a
mille. Sembrava un bambino. Suo padre gli faceva
ascoltare musica jazz da quando era nato. Si rendeva conto che stare lì lo rendeva oltremodo felice. E poi, quella canzone, Give me the night. Lo
faceva impazzire. “Whenever dark has fallen, you
know the spirit of the party”. Ferrari si sentiva così.
Il buio era sceso e lui sentiva lo spirito della festa.
Tutto ciò meritava un whisky, rigorosamente di torba, pieno, intenso.
Era passata poco più di mezz’ora quando aveva sentito vibrare il cellulare nei jeans. Non aveva
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risposto subito. “Adesso no... che palle! Chi è che
rompe a quest’ora?!”. Il cellulare però non smetteva. Non era il suo, quello privato, ma quello del lavoro. Ormai aveva imparato ad averne due. Uno, il
suo, spesso era spento, soprattutto se era a casa con
Federica. L’altro, al contrario, era sempre acceso.
Una sorta di cordone ombelicale mai tagliato che lo
univa all’ufficio. Lo odiava. Alla telefonata senza
risposta della sua collega seguiva un sms: “Marco,
devi venire in ufficio subito. È successo un casino.
Roba che scotta. Sono qui. Ti aspetto”. Ecco, il giusto epilogo a una serata iniziata di merda che non
poteva che finire con l’ennesimo caso gravissimo
che solo lui avrebbe potuto risolvere. Non capiva
perché con tutti gli agenti in servizio dovessero
chiamare proprio lui. Sapeva di dover andare. Non
ne aveva voglia. Persino le sedie di legno del Blue
Note sembravano più invitanti e accoglienti del suo
ufficio. Uscì dal locale, guardò un attimo ancora
verso il palco. Continuavano a suonare.
Quando arrivò alla centrale di via Fatebenefratelli era quasi mezzanotte. Mentre saliva le scale
che lo portavano alla sede della sala operativa, do­
ve Francesca lo stava aspettando, ripensava alla sua
serata, a Benson, a Federica che chissà dov’era. For­
se avrebbe dovuto avvisarla, ma era meglio capire
prima di cosa si trattava.
Francesca stava bevendo una tazza di caffè nero,
forte. Così capì che sarebbe stata una notte lunga e
difficile. Seduta alla scrivania, trafficava con il pc,
sommersa da mille carte. C’erano agenti ovunque,
c’era casino. Troppo per quell’ora.
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“Eccomi, dottoressa Meraldi, dimmi che hai un
buon motivo per avermi strappato al miglior concerto jazz al quale abbia mai assistito per farmi correre qui, in piena notte, e in un giorno di ferie.”
“Mi spiace per il tuo concerto, ma c’è bisogno
di te.”
Francesca lavorava in coppia con lui da quasi un
anno. Era giovane, trent’anni, neolaureata in criminologia politica. Aveva deciso di entrare nelle forze
dell’ordine e, ovviamente, il reparto non poteva che
essere quello della Digos. Era bella. Di una bellezza naturale, quasi un po’ selvaggia. Era evidente
che era stata tirata giù dal letto anche lei. Indossava
un paio di jeans chiari, una maglietta leggermente
scollata che faceva intravedere il solco dei suoi seni
e la sua pelle bianca. I capelli, biondi, erano legati
in una coda alta, probabilmente non aveva avuto
il tempo di pettinarsi. Il viso struccato, pieno di
lentiggini; gli occhi grandi, azzurri. Era comunque
sensuale. Tra loro due non c’era mai stato più che
una buona affinità sul lavoro; forse, iniziavano ora
a essere amici. Marco però, la trovava terribilmente
attraente. Nella sua semplicità era come se sprigionasse sesso da ogni poro della pelle.
“Hai presente Ortolina?”
“Sì certo, l’ho seguito per sei mesi per mezza
Lombardia. Mi sono sparato manifestazioni, convegni, banchetti... lui e il suo Partito del Nord.”
“Credo che non lo dovrai più seguire. Gli hanno
sparato due ore fa. Sotto casa. È morto.”
“Cazzo!”
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