Maurizio Serra ITALIA E FRANCIA Pochi popoli sono stati

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Maurizio Serra ITALIA E FRANCIA Pochi popoli sono stati
Maurizio Serra
ITALIA E FRANCIA
Pochi popoli sono stati intimamente legati
dalla storia, la cultura, il gusto e l’arte di
vivere quanto i francesi e gli italiani. Eppure, da un intreccio così stretto, così vitale,
sono nati alcuni tenaci malintesi, che si
rinnovano nel corso dei secoli e delle generazioni. A partire dai cronisti che seguirono, agli albori del Rinascimento, la discesa
di Carlo VIII e di Francesco I, fino ai valorosi difensori dei meriti civili e letterari di
Cesare Battisti – le cui file, in verità, si sono un po’ assottigliate –, ognuno in Francia
sembra avere la propria Italia d’elezione, e
voler respingere o ignorare tutte le altre,
con maggiore o minore sdegno o condiscendenza.
Sono consapevole di esagerare, per il gusto della discussione, e me ne scuso in anticipo con il lettore. Ma si direbbe che la
Penisola rimanga, per molti intellettuali
francesi, pur così fieri della loro eredità
cartesiana, una questione di cuore piuttosto che di ragione: e il cuore, si sa, è un
organo esclusivo, spesso eccessivo. La
stessa cosa accade inevitabilmente al di là
delle Alpi e questo conferisce alla “cugi-
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nanza” italo-francese un sapore del tutto
particolare, direi speziato, senza forse equivalenti nella famiglia dei popoli europei.
Un esempio fra mille: verso il 1810, disgustato dalla sorte poco gloriosa che gli riservava l’armata imperiale, Paul-Louis Courier
cerca conforto nei classici greci, che collaziona in tutte le biblioteche e gli archivi
d’Italia. La fortuna gli è propizia a giudicare dalle sue lettere di quell’epoca, che sono
da annoverare fra le più belle nella letteratura di viaggio in Francia, e le sole felici di
quell’anima tormentata: da nord a sud dello Stivale, tutto lo incanta, lo attira, lo seduce. Non accetta dai suoi corrispondenti
la minima critica che tocchi quella terra
meravigliosa, quel popolo circonfuso di tutte le virtù. Ma un giorno, questo PaoloLuigi, fiorentino antesignano dell’Arrigo
Beyle milanese, rovescia inavvertitamente
un calamaio sul manoscritto che sta ricopiando nella Biblioteca Laurenziana. Ne
segue un alterco con il personale, che, esasperato, chiama la polizia. In un batter
d’occhio è la fine dell’amore di un tempo:
l’umiliazione grida vendetta. Da un momento all’altro il tono della corrispondenza
volge all’invettiva, alla fobia pre-céliniana.
Il Paese di ogni felicità, nel quale Courier
non rimetterà mai più piede, diventa
l’antro di tutti i vizi. La razza è ladra, corrotta e mentitrice. Se avesse aggiunto che
il bibliotecario fiorentino che l’ha denun-
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ciato sputava fuoco e beveva il sangue dei
neonati, sembrerebbe quasi di essere di
fronte al ritratto di Silvio Berlusconi, disegnato da una certa stampa parigina, (spesso, d’altronde, d’importazione romana o
milanese).
Altro esempio, scelto questa volta fra i
miei compatrioti: Malaparte, francofilo entusiasta fin dal liceo, al punto che morirà
quarant’anni più tardi per le lesioni ai
polmoni causate dai gas tedeschi sulla
Marna – ritorna a Parigi dopo la seconda
guerra mondiale. Si aspetta di esservi festeggiato come l’aedo della riconciliazione
franco-italiana dopo l’assurdo conflitto del
1940…che all’epoca, detto per inciso, non
aveva minimamente denunciato, pur dedicandogli un racconto magnifico: Il sole è
cieco. Si sente oltraggiato da chi osa sollevare dubbi sulla primazia del suo impegno
antifascista. Cresce contro di lui la campagna di opinione, ed ecco la violenta rottura
acre, dantesca, di cui testimonia il Diario di
uno straniero a Parigi, dove la scelta del
termine “straniero” dice tutto. Addio Saint
German-des-Près, girone di tutte le decadenze europee, ben presto sarai pattugliato
dall’Armata Rossa! Viva gli Stati Uniti, verso i quali si volgono, allora, le sue speranze, con l’eccezione di un ultimo colpo di
fulmine per la Cina di Mao prima della
morte precoce.
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Casi estremi? Forse isolati? Tutt’altro.
Dovremmo sorriderne? Sì e no.
In ogni caso questa situazione merita di
essere analizzata da vicino, per quanto sia
possibile farlo in poche righe. Certo i francesi amano “adorano” l’Italia, cosa che mi
viene ripetuta gentilmente ogni volta che il
mio accento rivela le mie origini. Ma conoscono davvero gli italiani? E, inversamente,
cosa sanno veramente gli italiani dei loro
cugini, sempre più distanti? In due o tre
decenni, la diffusione della lingua e della
letteratura francese nella Penisola è
drammaticamente precipitata: penso di
appartenere all’ultima generazione di miei
compatrioti che scoprivano i libri francesi e
italiani allineati fianco a fianco nella biblioteca di famiglia. L’italiano è invece molto di
moda in Francia, ma più per l’arte di vivere
che per merito delle belle lettere. Se si traducono i contemporanei (talvolta a casaccio) non si sa quasi niente degli autori
classici. Non sono un ammiratore fanatico
della biblioteca della Pléiade, su cui nutro
talvolta non poche riserve; ma a giudicare
da questo Pantheon delle letterature mondiali, si direbbe che tra Dante e Pirandello
l’Italia non abbia prodotto alcunché: anzi
no, Casanova, ma scriveva in francese.
Cresciuto in mezzo alle due culture, mi sono spesso interrogato su questa emotività
dei rapporti italo-francesi, nei quali si an-
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nida come un complesso di pubertà mai
superata. Sfortunatamente gli intellettuali
ai due lati delle Alpi hanno contribuito
troppo spesso a mantenere malintesi e luoghi comuni – abbelliti di omaggi scontati
alla “Bella Italia” o alla “Doulce France” –
invece che combatterli.
La storia, certo, ha fatto la sua parte, e
non sempre per il meglio. Noi italiani rimproveriamo, più o meno inconsciamente, ai
francesi di aver costruito la forza e la grandezza della loro nazione su una materia
umana largamente italiana, da Mazzarino
a Buonaparte. Invidiamo loro il senso dello
Stato, che ci è mancato, fino a un’unità
tardiva, a tratti problematica, che resta
nondimeno l’eredità più importante che la
Patria dei Lumi e della Rivoluzione ci abbia
tramandato. E quanto senso dello Stato
abbiamo
guadagnato
nei
centocinquant’anni trascorsi da allora, è un interrogativo – o una sfida – di ogni giorno. A loro volta, i francesi più colti ci rimproverano
ancora, più o meno “sottovoce” a seconda
delle circostanze e degli interlocutori, di
essere stati debitori del loro aiuto nel realizzare il nostro Risorgimento – al di là delle
mire di Napoleone III – e di averli abbandonati subito dopo, nel 1870-1871, al momento della guerra con la Prussia. Ma se si
legge la corrispondenza di Costantino Nigra, il Beau Chevalier inviato a Parigi da
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Cavour per forgiare l’alleanza franco-sarda,
che vi rimase come ambasciatore fino al
1876, si percepisce il distacco fra l’amore
per la Francia del Secondo Impero, alla
quale egli doveva la sua carriera e la sua
fortuna personale, e la convinzione che il
nuovo e fragile Regno d’Italia non potesse
impegnarsi in un conflitto il cui esito non
lasciava dubbi ai suoi occhi. Si sa, ahimè,
che il cuore dei diplomatici non sempre
batte all’unisono con gli altri…
L’ingratitudine rinnovò l’immagine del
tradimento,
vecchio
fantasma
italofrancese fin dall’epoca di Maria de’ Medici e
del suo favorito Concini, Maresciallo
d’Ancre. È nel 1871 che nasce veramente
la leggenda funesta della “pugnalata alla
schiena” che diventerà una costante
dell’italofobia di una frazione crescente
dell’opinione pubblica francese, malgrado
gli sforzi di Camille Barrère, stabilitosi a
Palazzo Farnese per un quarto di secolo, e
dei suoi discepoli: Leon
Noël, Jules Laroche, François Charles
Roux. L’italofobia conobbe una tregua al
momento della Grande Guerra, per ricominciare in bellezza subito dopo, sotto il
segretario generale onnipotente del Quai
d’Orsay, Philippe Barthelot: interrogandosi
sull’italofobia di Berthelot, Leon Noël ne
trasse la conclusione che “ce l’avevano con
gli italiani perché abitavano quella terra di
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sogno”. Un’espressione azzeccata, che si
potrebbe applicare anche a molti altri casi,
secondo la logica per cui alla base di ogni
complesso di superiorità ce n’è uno di inferiorità. Quanto al suo successore, Alexis
Léger – noto alle Muse come Saint-John
Perse – egli farà del suo meglio per gettare
Mussolini, che preferiva di gran lunga i
francesi ai tedeschi, fra le braccia di Hitler
dopo il fallimento del fronte di Stresa e la
guerra d’Etiopia. E quando, all’indomani di
Monaco, la Terza Repubblica agonizzante
riprenderà in considerazione la carta italiana inviando a Roma André-François
Poncet, costui si troverà confrontarsi con
una missione ormai impossibile. La cecità
del Duce precipiterà l’Italia in una guerra
assurda e criminale. Ancora una volta, e
tragicamente, le passioni avranno la meglio
sulla ragione.
Questa volubilità dei rapporti italofrancesi, che spesso assume le tinte della
schermaglia amorosa, rinvia inevitabilmente all’evoluzione, assai diversa, delle due
nazioni. Tutta la storia francese tende, in
una progressione possente, dal Medio Evo
all’età contemporanea, verso la costruzione
dello Stato come condizione determinante
della potenza e della diffusione dell’identità
nazionale. Come avrebbe fatto altrimenti
un fautore della sovranità nazionale della
tempra del generale De Gaulle, ad allinear-
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si al principio della costruzione europea?
L’unità italiana ha seguito, nel XIX e nel
XX secolo, lo stesso principio centralizzatore, napoleonico, ma con risultati in buona
parte insufficienti, perché il nuovo Stato
non disponeva di un apparato amministrativo all’altezza delle sue ambizioni.
L’opzione federalista fu abbandonata, sacrificando la ricchissima storia comunale e
feudale del Paese con lo scopo “fatta l’Italia
(di) fare gli italiani” secondo la massima di
un altro padre della Patria, Massimo
D’Azeglio. Questa visione si ritrova perfettamente in Cuore (1886): breviario di virtù
civili per adulti e bambini creato dal suo
autore, l’ex ufficiale piemontese Edmondo
De Amicis, ricalcando l’Alfonse Daudet dei
Contes du Lundi. La Grande Guerra, poi il
fascismo e la nuova guerra mondiale, misero a nudo la fragilità del sistema. Il Ventennio non si chiuse solo con una guerra
perduta, ma con una spaventosa guerra civile di diciotto mesi combattuta nel centronord del Paese, fino alla definitiva caduta
del fascismo, che lasciò lacerazioni profonde nel tessuto nazionale. È una pagina che
i francesi, fatta eccezione per qualche specialista, ignorano quasi completamente, e
me ne sono accorto nelle recensioni e nei
dibattiti intorno alla mia biografia di Malaparte. È certo un loro diritto ignorare la
questione; lo è un po’ meno ostinarsi a ve-
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dere nel fascismo la “commedia dell’arte”,
per non dire la farsa.
Il compromesso costituzionale alla base
della Repubblica post-fascista instaurò un
equilibrio spinto alla paralisi fra i tre poteri, che ha garantito per cinquant’anni il
mantenimento della democrazia, spesso a
costo del suo buon funzionamento. Questa
fase di ricostruzione e di pacificazione era
probabilmente necessaria ma è, ormai, alle
nostre spalle. Si tratta adesso di passare
allo stadio consensuale della riforma profonda dello Stato in tutti i suoi ingranaggi,
rivitalizzando la componente a lungo trascurata del federalismo, cosa su cui, a parole, tutti o quasi i partiti attuali si dicono
d’accordo. E ciò che non cessa mai di ricordare, il Presidente della Repubblica
Giorgio Napolitano.
Nondimeno, l’idea di un’identità italiana
soffocata dallo Stato “padrone”, torna regolarmente a galla nelle manifestazioni di
una vecchia malattia nazionale – il qualunquismo – che cambia di nome e di forma ma non di sostanza: la pretesa rivolta
dei cittadini “qualunque” contro lo Stato
oppressore e liberticida. Ritornelli antirisorgimentali, come quelli del “buon governo” di Leopoldo o Maria Teresa, o del
saccheggio, da parte degli “invasori” garibaldini e piemontesi, del felice e prospero
Regno di Napoli, hanno il sapore consola-
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torio di tutte le nostalgie, e in genere non
reggono a un’analisi storica un po’ accurata. La vera posta in gioco, per l’Italia come
per tutti i paesi membri dell’Unione Europea, consiste oggi nell’andare avanti nella
post-nazionalità che non nel regredire nel
mito delle “piccole patrie”. Né la nostalgia
né il localismo sono in grado di rispondere
alle immense sfide demografiche, economiche, monetarie e strategiche del nostro
tempo. Credere un po’ di più all’euro e ai
sacrifici che impone, e rifugiarsi un po’
meno nelle filastrocche dei tempi in cui
Berta filava e Pierrette allait traire sa vache,
serve a far crescere un’opinione pubblica.
E l’opinione pubblica italiana, giovani
compresi, ha molto bisogno di crescere.
Nell’illustre corteo che annovera Du Bellay, Montaigne, Montesquieu, il Presidente
de Brosses, Chateaubriand, Dumas, Suarès, Valéry, Larbaud e tanti altri, senza
dimenticare Goldoni e Casanova - lo scrittore che sembra aver plasmato una volta
per tutte l’immagine dell’Italia agli occhi
dei francesi è Stendhal naturalmente. Come dimenticare tutto ciò che egli sparge a
piene mani quando si accosta all’Italia: lo
sbocciare dei sensi e dello spirito che conobbe, passando da una corte a un teatro,
e da una conquista all’altra? L’immagine di
un Paese spensierato, carnale, dedito alla
felicità ma poco affidabile e fondamental-
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mente incapace di concepire un grande destino nazionale…L’ombra di Stendhal ha
impedito, e impedisce tuttora, in Francia,
di apprezzare gli altri modelli italiani
dell’epoca: gli abissi metafisici di un poeta
filosofo come Leopardi, più citato che letto,
o l’opera dei nostri grandi romanzieri del
XIX secolo – Manzoni, Nievo, De Roberto,
Verga, - a lungo trascurata perché non
corrispondeva all’immagine della felicità
“all’italiana”, e cioè “alla stendhaliana”.
Prova ne sia la sufficienza con cui JeanFrançois Revel, nel suo (troppo) noto libello, Pour l’Italie, liquida i Promessi Sposi, un
capolavoro che trova lettori attenti in Russia, Germania, perfino Inghilterra, ma che
non è mai veramente penetrato in Francia.
E tuttavia oggi il pubblico francese venera
– anche al di là del suo talento, che fu
grande – uno scrittore come Pasolini, nutrito di Ottocento italiano e totalmente estraneo al “beylismo”.
Francesi e italiani non hanno solo una
comune vocazione europea, ma un interesse convergente a perseguire insieme il
cammino dell’integrazione, come avvenne
nei momenti più riusciti della loro collaborazione bilaterale e comunitaria. Gli italiani
ci guadagnerebbero in sobrietà, ordine, efficacia; i francesi ci perderebbero un po’ di
quel romanticismo politico, che spinge an-
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cora non pochi di loro a preferire aver torto
con Sartre, piuttosto che ragione con Aron.
Maurizio Serra (1955) è attualmente ambasciatore
per l’Italia presso l’ONU a Ginevra.
Saggista autorevole ha scritto testi fondamentali
sulla cultura europea.
La sua ultima fatica per Grasset in Francia è dedicata a Italo Svevo.
Lo scritto è apparso in «Nuova storia contemporanea» XV (2011), n.4
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