Anno 2 Numero 02 - 19.01.2009
Transcript
Anno 2 Numero 02 - 19.01.2009
Anno 2 Numero 02 - 19.01.2009 In nome del figlio Editoriale di Gian Maria Tosatti Se proviamo a rileggere i romanzi di Dostoevskij, dell’uomo che, come affermò Gyorgy Lukacs, calò sull’Europa portandosi dietro il Realismo, troviamo un elemento piuttosto interessante, uno tra i tanti che permettono ancora oggi di usare quell’enorme corpus letterario come una sorta di enciclopedia dell’essere umano. L’elemento in questione è il ruolo che il romanziere dà agli adolescenti. I suoi romanzi pullulano di ragazzi. Sono ovunque, sono una presenza incombente. Luca Ronconi, quando affrontò l’adattamento dei Karamazov decise di aprire il sipario proprio su di loro, sul loro lanciare sassi contro Alësa, a testimoniare quale forza essi rappresentassero, non solo nel romanzo, ma nella cosmogonia dostoevskiana. Essi rappresentano il futuro, il futuro della Russia, che a sua volta, secondo Dostoevskij è la Terra stessa, in quando terra del popolo eletto un po’ come Israele lo è per i narratori biblici. Eppure, in tutti i romanzi dostoevskiani, i ragazzi sono portatori dell’elemento nichilista. Dal giovane Ippolit de L’idiota a Kolija (ma anche Liza) de i Karamazov essi svolgono un ruolo di costante contrappunto rispetto alle passioni degli adulti dimostrando sempre una notevole autorità intellettuale, una saggezza quasi sproporzionata per la loro età. I ragazzi dostoevkijani, pur con le loro dovute differenze, sono portatori di una vera e propria filosofia all’interno del polifonico affresco con cui l’autore russo cattura come nessun altro lo spirito di questo mondo. Nichilisti. Dunque, i depositari del futuro sono anche i portatori di una certa tendenza alla distruzione e all’auto-distruzione, che effettivamente è assai in accordo con i giri del pianeta e col loro scandire la progressione del tempo contraddicendo gli aneliti romantici dei protagonisti adulti. I ragazzi sono la voce, l’incarnazione di questa ineluttabile dissoluzione, di questo sfaldarsi, annullarsi di ogni cosa umana, sono lo stratagemma che il romanziere usa per dare corpo ad un concreto contraddittorio con le forze della bellezza, della grazia e della fede incarnate dal principe Miskin o dagli stessi fratelli Karamazov. Eppure, a guardar bene, non è difficile capire perché la psicologia di quei ragazzi sia tanto sviluppata, la loro autorità tanto sproporzionata rispetto alla loro età. Sono ragazzi cresciuti in fretta, troppo in fretta, fino a diventare dei mostri, fino a non poter mai nascondere il ridicolo che c’è dietro la loro infinita serietà. La causa di questo sviluppo precoce, e qui sta il nodo centrale, il più delle volte è la malattia. Essi sono malati, fisicamente. E’ questo, per lo più, l’elemento che li ha fatti diventare di colpo “adulti”, o meglio che gli ha dato l’autorità per poter parlare con gli adulti. Ma a dire il vero, la malattia è l’elemento da cui si genera la loro stessa anima, la loro stessa filosofia, in una parola il nichilismo. E’ ovvio come anche la malattia sia un espediente letterario che Dostoevskij usa al pari di Ibsen negli Spettri. Essa è il “dono”, l’elemento di cui effettivamente i ragazzi non sono colpevoli. Il dono che arriva da qualche parte del passato, da un’infezione di cui essi non sono responsabili ma ne sono infetti. E’ da questa ingiustizia archetipa - Pasolini ci invita a ricordare come essa sia il meccanismo di tutta la Tragedia antica -, che si genera il nichilismo dei ragazzi, una “filosofia a posteriori” di una catastrofe che tenta di trovare un senso alla catena degli effetti essendo incapace di poter risalire alle cause. Il nichilismo dei giovani dostoevkiani ha una purezza quasi angelica, è tremante ed è attraverso di esso, nel modo in cui vacilla sulle labbra dei suoi giovani e fragili sacerdoti, che l’autore trova la lingua per poter affrontare con lucidità il tema della la paura. Adesso fermiamo un attimo il discorso. E pensiamo effettivamente a ciò che fin ora è stato descritto. Usciamo dalla metafora e torniamo a noi, usciamo da Dostoevskij, dall’Ottocento e cosa ci resta dallo scheletro di questo discorso? Un ritratto contemporaneo estremamente fedele. C’è un’altra “terra promessa”, l’Occidente, su cui s’espande una grande infezione, una dissoluzione in atto, una malattia epidemica che i genitori passano ai figli e che consiste in una sorta di peccato originale che nessun battesimo riesce a lavare. Oggi, i ragazzi ereditano quel peccato non diversamente da come ereditano il “debito pubblico”. Quel peccato è la metaforica “sifilide” ibseniana che ha tarato moralmente la società negli ultimi decenni, compromettendone lo sviluppo. Che differenza passa, infatti, tra la prospettiva crescere in un mondo che non è in grado di garantire un futuro ai suoi giovani e quella di crescere come un tisico, come il giovane Ippolit, vedendo nel futuro niente altro che una scorciatoria per la paura? E allora eccoli lì i nostri ragazzi, parlano – anche se nessuno li ascolta – come i ragazzi dostoevskiani, dal piedistallo di una maturità ridicolamente ostentata anzitempo attraverso l’abuso di alcol e droghe pesanti e di un controverso rapporto con il sesso. Nessuna differenza. Tutto era già scritto, è vero, da oltre un secolo. I cataclismi sociali, è vero sono ciclici, ma questo non assolve dalle responsabilità chi li provoca. Non assolve dal dolore che generano. La punizione è anch’essa ineluttabile. I padri, i responsabili di tutto questo, stanno vedendo i figli cadere. A loro toccherà la più terribile tra le pene, seppellire le loro anime. Messaggi dalla crudeltà X(ics) di Motus, dalla periferia dell’occidente al cuore della giovinezza di Giorgina Pilozzi «Noi siamo erbacce, piante vagabonde che muoiono in un posto per rinascere uguali poco dopo» da X (ics) Racconti crudeli della giovinezza di Motus Gli adolescenti sono ovunque ultimamente. Nel migliore dei casi protestano e inondano le strade, per il resto sono appannaggio di dibattiti televisivi e di sondaggi che non fanno altro che ridurli a preoccupanti bulli e a spogliarelliste on-line al costo di una ricarica telefonica. Ma qualcuno invece ha deciso di parlare con loro, di osservarne i riti di passaggio diventati spesso di confine. Di tentare di guardare con i loro occhi. In un paesaggio di frontiera – come del resto di frontiera è sempre stato il suo teatro – si è immerso Motus, in quell’adolescenza che finalmente recupera la sua dimensione di luogo sospeso e crudele da (ri)scoprire e in cui tornare. E questo viaggio comincia nella primavera del 2007 e prende il nome di X (ics) Racconti crudeli della giovinezza, progetto triennale che vedrà nascere quattro spettacoli, un film e vari eventi performativi (tra cui Run e Crac). L’intuizione preziosa del gruppo di Rimini (diretto da Enrico Casagrande e Daniela Nicolò) è la vicinanza interiore tra questo periodo della crescita e le zone residuali del paesaggio urbano, gli interstizi cari a Gilles Clèment come “terzo paesaggio”. Quegli squarci abbandonati e indefiniti, diversi l’uno dall’altro ma identici nella loro attitudine a farsi rifugio meticcio della diversità. Le terrains vagues verranno allora esplorate, coi corpi degli attori e delle attrici – in particolare Silvia Calderoni, straordinaria traghettatrice sui pattini -, con il freddo obiettivo della telecamera che filmerà accelerazioni, soste e incontri. Partono così da casa loro, da quella bassa Romagna e dai suoi centri commerciali, dalle piccole sale prova musicali e dalle colonie abbandonate lungo la statale adriatica che da Ravenna arriva a Cattolica. Qui nasce [X.01 movimento primo], spettacolo d’inaugurazione del progetto che debutta nel 2007 alla Biennale Danza di Venezia, e qui viene girato Ics_Note per un film. Nell’autunno del 2007 il gruppo si sposta nel sud della Francia, a Valence, dove i confini della banlieu magrebina appaiono nitidi e ben distanti dal resto della città, come chiare appaiono le tensioni sommerse. Qui nasce e debutta [X.02 movimento secondo]. Per [X.03 movimento terzo] il gruppo si sposta nella ex DDR, ad Halle Neustadt, una shrinking city spopolatasi dopo la caduta del muro a causa della chiusura delle grandi fabbriche, dove debuttano a giugno del 2008. Infine ad aprile 2009 sarà la volta di Napoli con X(Ics) a Scampia. In scena assistiamo al viaggio nel suo svolgersi e al suo ritorno insieme. Un marciapiede accoglie le vite di questi giovani personaggi, un gradino che li divide dalla metropoli e da tutto quello che gli adulti non capiscono. Diventa un trampolino quel marciapiede, da cui lanciano un ostinato “no” contro un mondo che non sa proporgli altro che di sopravvivere, un no scandito dai loro incontri, dalla loro musica, dai loro movimenti riottosi e schivi . Lo schermo alle loro spalle – enorme proietta paesaggi mutilati dalle cattedrali del consumo, aree post-industriali che attraversate da queste giovani figure che vagano diventano posturbane, e l’ordinario diventa così lacerante da offrirsi allo spettatore nudo, come per la prima volta. I corpi che vivono la scena sono gli stessi che tracciano i propri passi nei luoghi che vediamo scorrere nelle immagini sullo sfondo e quei fotogrammi si trasformano prepotentemente in tutto quello con cui non sono scesi a patti, in quell’inarrestabile desiderio di vita che è l’adolescenza. In X.03 appaiono testi di sms sullo schermo, molti rispondono ad un volantino che Silvia (Calderoni n.d.r.) ha distribuito ovunque X(ics) sia passata - perfino all’ingresso dei teatri dove va in scena - c’è scritto: «mi sto cercando. Se anche tu ti sei perso lascia un messaggio». E quando in uno scambio di sms alla domanda «Ke fai?» qualcuno risponde con le parole del Malcolm di Purdy (ma usando le tipiche abbreviazioni da sms) «forse sto aspettando ;) temo d nn avere niente di meglio da fare», si ha la sensazione che la panchina vuota che è in scena e che dà le spalle al pubblico sia un punto d’affaccio sul reale, irrimediabilmente senza soccorso. Il panorama diventa un grido, una vertigine su quel groviglio di instancabile vitalità e malinconia che è l’adolescenza, compresa quella che ci portiamo dentro al di là delle barriere anagrafiche. Diventa chiaro quanto ancora preme in ognuno quell’attimo che sembrava lontano ma che è qui, marchiato sulla pelle. In scena convivono l’adolescenza e la sua metafora, quello che in noi è stato e tutto quello che non vorremo mai vederci addosso. La scoperta della solitudine scolpisce in noi la stessa ostinazione che farà poi sentire soli, come racconta la straordinaria immagine di Silvia che, nella seconda parte dello spettacolo, quando lo schermo cade e non rimane che un interno a due piani, senza esitazione, scende le scale al contrario, accovacciata a quattro zampe. E non si può uscire da X(ics) senza capire che il solo problema tra la società e gli adolescenti, tra noi e loro è che «non ci siamo parlati» e che gli unici a non avercela fatta siamo stati noi. E gli sguardi degli attori in scena diventano quegli stessi sguardi che non abbiamo incontrato perché troppo presi a comprare. Immediatamente la diversità dei tratti dei loro volti, il fatto che alcuni di loro siano veramente degli adolescenti che Motus ha incontrato nei ghetti creati in tutta Europa – non ultima in Italia - da un liberismo violento e onnivoro, diventa una scelta che ricadrà irreversibilmente sul teatro di domani. La maturità del progetto X(ics) non sta solo nella sua straordinarietà artistica. X(ics) è un momento politico del nostro teatro, è una ribellione contro il pensiero comune capace di generare altra ribellione, sempre nuova, come il racconto della propria crudele giovinezza che fa dalla panchina, di spalle, alla fine di ogni X.03, un’anziana donna ogni volta diversa, incontrata nella città dove lo spettacolo è in scena. Motus riesce ancora una volta a vivere nel presente, presagisce che il disagio giovanile va indagato, che gli adolescenti hanno molto altro da dire fino al punto di diventare, di lì a poco, con l’Onda anomala, il fenomeno più dirompente che questo paese non vedesse da anni. Quando sei adolescente sai benissimo dove non vuoi stare, e anche se sei costretto a starci diventi abile nella fuga. Continui a scrivere lettere da luoghi fitti di desiderio in cui non sei mai stato e hai chiaro in testa da dove non le scriverai mai. Motus tutto questo non l’ha mai dimenticato. A teatro: Bologna, Arena del Sole. X (ics) Racconti crudeli della giovinezza >> Halle/ Neustadt. Dal 6 al 7 febbraio. A teatro: Bologna, Laboratori DMS - Università di Bologna. Crac. Lunedì 9 febbraio. I due volti della diversità Una lezione di cinema il “Lasciami entrare” di Tomas Alfredson di Federico Pontiggia «Un ragazzo, Oskar, la cui esistenza è stata resa un inferno dalle intimidazioni e dalla vita in una casa caotica, un dodicenne in cerca di riscossa. È soprattutto una storia d’amore. Di come l’amore di Eli liberi Oskar, lo porti a guardare a se stesso sotto una luce diversa: non come il ragazzo terrorizzato, la vittima. Di come gli dia il coraggio di alzare la testa per il proprio bene. Eli è però un vampiro, un vero vampiro che vive di sangue». Dopo che lo sdentato e anemico Twilight ha impazzato (sic) in tutto il mondo, altri vampiri, questa volta bambini e indie, affondano i canini: finalmente. E' Let the Right One In, l'horror romantico dello svedese Tomas Alfredson, nelle nostre sale con il titolo - meno significativo Lasciami entrare. Tratto dal bestseller (Marsilio, 2007) di John Ajvide Lindqvist, autore anche della sceneggiatura e della citazione in testa, è stato presentato in anteprima italiana fuori concorso al Torino Film Festival, dopo aver rastrellato premi in una quindicina di kermesse internazionali – tra cui quello del pubblico al Tribeca - e un milione e mezzo di dollari al botteghino Usa, risultato non disprezzabile per un film low-budget e senza megafoni promozionali. Se Hollywood si è già assicurata i diritti del libro per il remake che verrà girato - non è una buona notizia - dal regista di Cloverfield, Matt Reeves, l'originale di Alfredson è ambientato nell'inverno del 1982, in un sobborgo di Stoccolma, Blackeberg, dove il dodicenne Oskar (Kare Hedebrant, straordinario), vittima inerme del bullismo di alcuni compagni di scuola, fa amicizia - per la prima volta, parrebbe - con la nuova vicina di casa, Eli (Lina Leandersson, stupenda), occhioni azzurri, capelli corvini e anche lei dodicenne, ma da molto tempo... Dopo alcuni "fatti di sangue", Oskar scoprirà che Eli è un vampiro, senza che questo ponga fine alla loro storia d'amore, anzi. «Malgrado lo sfondo deprimente di una Svezia plumbea, le aspre condizioni sociali, il bullismo e la violenza sanguinaria - ha detto Alfredson - ho sentito il libro di Lindqvist come una romantica storia d'amore. Vi trovo le stesse dinamiche di sfondi scuri in contrasto con primi piani luminosi che sono presenti nei romanzi di Charles Dickens». Caratteristiche che ritornano con fedeltà e sincerità nel film, dove l'efferatezza del regime alimentare di Eli e la depressione socioambientale della Svezia prima anni '80 vengono contrastati dall'idillio tra la baby-vampira e il piccolo Oskar. Una storia, la loro, ben più sentita, sofferta, sanguinaria e in definitiva "autentica" di quella emo-patinata dei cugini adolescenti Bella ed Edward di Twilight: crepuscolare e romantico, horror e teen-movie insieme, Lasciami entrare dà al classico genere vampiresco nuova linfa, pardon, sangue, regalandoci sequenze da antologia del low-budget, come quella finale in piscina. Ma non siamo solo di fronte a un grande piccolo film, Lasciami entrare rappresenta una delle declinazioni cinematografiche più originali, ovvero, “laterali” del bullismo, che negli ultimi anni è stato oggetto di opere “dedicate” ma didascaliche - Alpha Dog di Cassavetes del 2007 o approssimazioni insulse: gli italiani Un gioco da ragazze e AlbaKiara, entrambi del 2008. Viceversa, Let the Right One In retrodata il contesto sociale (1982), fa una scelta geografica marginale (Svezia), sceglie di ancorarsi a un sottogenere fortunato e codificato (il vampiremovie), ma da questa prospettiva particolare, se non poeticamente angusta, riesce a mettere a fuoco il disagio giovanile come pochi altri. Oskar è il capro espiatorio, abbandonato sull’isola che non c’è (la famiglia) e alla disperata, ma sommessa, ricerca di un legame, un’amicizia per tirare il respiro, quello che i compagni di scuola non gli concedono. Nella glaciale “zona notte” svedese, la sua nuvoletta di fiato attirerà un’altra creatura, agli antipodi, ma ugualmente misfit: la vampira Eli, solo apparentemente coetanea. Sarà lei a “salvare” Oskar, non con un’azione fisica, che pure sarà fondamentale, ma con un intervento psicologico: aiutare il ragazzino ad affrancarsi dalla paura e confrontarsi a viso aperto con i suoi aguzzini. Si tratta di uno scambio, di un patto di sangue, che solo la fiducia può catalizzare: «Posso entrare? Lasciami entrare, per favore» - «Entra». Solo aprendosi all’altro, quello giusto (the right one), si può trovare un antidoto su scala al bullismo, che proprio nel rifiuto e nell’ignoranza dell’altro attecchisce. Se per Eli il percorso passa dal considerare Oskar non più oggetto, ovvero preda potenziale, ma soggetto di dialogo e condivisione, per l’umano Oskar, viceversa, il vampiro continua, come letteratura vuole, a essere oggetto di fascinazione, ma questa lascia progressivamente spazio all’amore, alla fuoriuscita da sé verso una terra di mezzo, dove incontrarsi per ritrovarsi nuovo, ovvero indomito. Comune a entrambi, la scelta, la necessità di scegliere: discriminare tra oggetto e soggetto, tenendo in bocca i canini, per Eli; “farsi vampiro” per Oskar, che nell’exemplum della vicina troverà le coordinate della liberazione. Gli servirà ancora il soccorso di Eli, ma nella piscina dell’ultima scena il sangue si mischierà all’acqua per un inedito battesimo: di libertà. Sarò più bianca della neve Storia di eroina e di antieroine in “Mitigare (il buio fuori)” di Francesca Sangalli di Attilio Scarpellini Un manifesto con Dracula che addenta il collo della Statua della Libertà, imprimendo su di esso due vistosi buchi sanguinanti; poco più in là, una ragazza sdraiata sul letto alza le braccia, segnate da altri buchi di un rosso livido, e lancia verso l’obiettivo uno sguardo puro, quasi cristallino, ma completamente vacuo, a cui solo le labbra semiaperte conferiscono un’espressione di disperata ottusità. Sentire tutto per non sentire più niente. E’ una delle immagini – e non la più cruda – che la fotografa americana Jessica Dimmock ha scattato al nono piano di un palazzo di Brooklyn interamente occupato da tossicodipendenti. Francesca Sangalli nella presentazione del suo Mitigare (il buio fuori), progetto di spettacolo segnalato all’ultima edizione del premio Tuttoteatro.com Dante Cappelletti*, le definisce “intense e intime”. Ma perché ci sia intimità, segreto, deve esserci un fuori da cui ritagliare il suo spazio (e con il quale l’intimo, il privato è in costante dialettica), perché ci sia un uomo che orgogliosamente, gelosamente si rifugia e si separa in quello spazio, deve esserci da qualche parte una città che glielo permette, che ne accoglie l’intimità: il mondo documentato dalla Dimmock, invece, è una colata di nuda vita, uno spazio concentrazionario che annullando i propri confini con il mondo, annichilisce qualunque intimità: tutto è drasticamente, crudelmente esposto, nella degradazione dei suoi corpi tatuati, scarificati dalle siringhe, come in un lager. Se c’è una differenza cruciale tra queste immagini e quella articolata dalla Sangalli nel suo testo (e negli studi scenici presentati a Roma, prima al Kollatino Underground per la semifinale – 22 e 23 novembre - poi nella finale del premio al Teatro India – 20 e 21 dicembre) è nel tentativo di Mitigare di rappresentare non tanto l’inferno, quanto la precarietà della sua soglia. Soglia anzitutto generazionale: il nine floor della Dimmock è un cimitero degli elefanti dove il buco, vecchia bestia interclassista, unisce e confonde le generazioni; le tre protagoniste della pièce della Sangalli sono delle adolescenti che intraprendono il cammino della dipendenza da eroina, per le quali lo sballo è già un mondo, ma non ancora tutto il mondo. Lo stesso filo sentimentale che le lega all’infanzia non è ancora stato completamente reciso, se per una di esse (la più borghese) la brown sugar mantiene il colore, e l’innocenza edonistica, dello sciroppo d’acero sui dolci della mamma. Mitigare, anzi, è la registrazione amplificata degli slittamenti progressivi dal piacere alla dipendenza di una droga che nella sua apparenza residuale (l’eroina non è stata soppiantata dalla coca e dagli acidi), soft (non ci si limita ad iniettarla, la si fuma o la si sniffa), nonché nella sua presunzione postmodernistica di rappresentare una pratica controllata, continua a nascondere lo stesso trucco, lo stesso “miserabile miracolo” delle droghe totalitarie degli anni ’70: l’assuefazione nel circolo vizioso che anestetizzando il dolore riduce il piacere a un intervallo sempre più sottile tra “dose e astinenza”, fin quando la vita, come scrive la Sangalli, «diventa fatta di parentesi». Si mitiga fino all’anestesia definitiva («non sente nulla quando è fatta, prova dolore solo un attimo, quando è nella parentesi prima dell’astinenza»), finché il buio di fuori non risorge dentro e dall’eccesso di presenza del mondo si trapassa nella sua schiacciante mancanza. Il tratto sconcertante di Mitigare è di restituire una parabola chiusa, sempre la stessa in qualche modo – la tossicità, e la sua noia senza fine – ma attraverso l’imponderabilità di un’esperienza che è come un cono a cui il déjà vu delle generazioni, passando dall’incanto al disincanto, ha tolto il rocchetto: melliflua e senza tragedia, divenuta addirittura oggetto di citazioni derisorie (come quella di Trainspotting o di Noi i ragazzi dello zoo di Berlino, divenuto film di culto delle neodrogate), banalizzata (come tutto il resto, dal razzismo a berlusconi, con la minuscola), l’eroina del piccolo sballo adolescenziale mantiene intatta la sua potenza di contagio e quella capacità di fotografare il mondo rovesciandone, senza cambiarle di una virgola, tutte le relazioni. L’eroina è un negativo del mondo cosi com’è. «Le dipendenze – dice una delle tre diciassettenni – nascono per avere qualcosa a cui pensare che non sia il senso di una vita che appassisce, il dolore, gli affetti che vengono a mancare e alla fine la morte che te lo mette in culo». Le dipendenze nascono per non pensare, sono la faccia mortifera e entropica di una società del consumo e dell’intrattenimento: il passo più lungo della gamba di un desiderio che non misura più economicamente i suoi confini, spingendosi… “al di là del principio di piacere”. Nell’era del suo nichilismo trionfante, l’eroina era considerata lo strumento estremo di un rifiuto dell’esistente: attraverso di essa un piccolo esercito di giovani verificò – prima ancora e assai più che con il terrorismo – l’orizzonte più remoto e tragico della propria hybris: quanto a “velocità di liberazione”, quella del viaggio in vena era incomparabile anche rispetto al più insofferente dei millenarismi rivoluzionari. Nell’epoca in cui il flash è uno “schizzo” frugale e quasi senza pretese, deposto dal suo prestigio creativo per diventare pratica di un consumismo routinario che inebria ma consente di restare “precisi” (“sparpagliati” come “i granelli di zucchero da scaldare”, ma non dissolti), una retorica minimalista prende il sopravvento sul mito, e di nuovo permette all’irreale di fotografare il reale a testa in giù. Sulla scena di Mitigare a drogarsi sono sempre gli altri, i “robbosi”, e la distanza dalla derelizione dei veri tossici è segnata dalle tre protagoniste con attenzione maniacale: passo dopo passo, parola per parola, ci si accusa a vicenda di essere quel che si sta diventando («Devo smettere. Se no divento come quelle due, fanno schifo davvero») e nel frattempo si colma il divario tra chi controlla il piacere e chi ne è ormai controllato, finché non resta alcuno spazio in cui arretrare – neanche nel ricordo che continuamente squarcia il testo della Sangalli – tra sé e la roba, totalità inalterata persino dal suo disincanto, miserabile e grandiosa ad un tempo, perché, come sempre, immagine perfetta della debolezza ( e della ontologica menzogna) del mondo che circonda i suoi consumatori. Così, nel teatro dell’eroina è solo il segno del disagio a cambiare: le identità esplose di Mitigare, a differenza di quelle degli anni ’70, non sono tanto soggetti di un rifiuto radicale spinto fino all’autodistruzione, quanto oggetti di un abbandono, figlie di una crisi di sentimenti, di uno strappo della sensibilità che affonda le sue radici nell’unico Eden che sono ancora in grado di concepire, quello dell’infanzia. La casa borghese a cui Martina, la narratrice, sogna di ritornare, ma sulla cui soglia viene respinta con un rovesciamento della parabola del figliol prodigo, non è quella del Padre – eclissatosi al tempo del suo mitico assassinio e da allora introvabile, se non come feticcio animato da un ventriloquio autoritario – ma quella di una Madre formale e inospitale che scaccia la figlia, terrorizzata dal suo piercing. «-Marti non farti vedere – Mamma, ma è solo un piercing… - Amore? – è la voce di mio padre da una stanza. E mia madre senza trattenersi mi richiude la porta prima che arrivi.» Al lato opposto di una madre senza corpo c’è il senso di inadeguatezza adolescenziale di un corpo che attraverso le ondate di calore della droga sente il tempo arrotolarsi su se stesso e rivive il sogno virginale del suo essere senza bisogni, senza organi, senza dolore. Un corpo che, straniato dal tocco gelido del disamore, programma la propria sparizione. «Vorrei non avere più bisogno di niente. Diventare pura, vergine, senza bisogni senza fame non voglio più alcool non più pisciare, cagare, scopare. Non voglio che nessuno possa più toccarmi.» (Non toccate il mio corpo: le ultime parole di Antonin Artaud). *L’autore di questo testo è membro della giuria del premio diretto da Mariateresa Surianello che nella sua ultima edizione ha segnalato il progetto di Francesca Sangalli assieme a Storia di un teatro delle Sirene del Teatro del Lido di Ostia. Presieduta da Gianfranco Capitta e composta da Roberto Canziani, Massimo Marino, Renato Nicolini, Laura Novelli, Mariateresa Surianello, la giuria ha assegnato il Premio Tuttoteatro.com alle arti sceniche Dante Cappelletti 2008 al progetto di spettacolo Sul confine di Gabriele Di Luca e Massimiliano Setti. In equilibrio su un filo tra indifferenza e alienazione I Gogmagog portano in scena uno “Straniero” che parla la lingua di Camus pensando ad Abdul Guibre e alla Columbine di Luigi Coluccio E’ un esistenzialismo carico di pulsioni e soluzioni quello di Albert Camus. Letterariamente paradossale ma umanamente corretto. Non a caso, lo stesso scrittore franco-algerino rifiutò sempre l’etichetta di “pessimista”; e, non a caso, la compagnia toscana Gogmagog sembra partire proprio da questa rivendicazione personalletteraria per il suo Fino all’omicidio, lavoro tratto da Lo straniero - l’epocale romanzo camusiano apparso nel bel mezzo della Seconda Guerra Mondiale - e andato in scena all’ombra d e l l ’ o t t o c e n t e s c o C a s t e l l o Pa s q u i n i d i Castiglioncello. Se il referente letterario è di prima grandezza, lo stesso si può dire della produzione: Gogmagog fa parte, assieme alle compagnie Teatro Persona ed EmmeA’teatro e attraverso il progetto Sensi e dissensi – Laboratori teatrali toscani presentato dal Festival di Armunia in collaborazione con Krypton/Teatro Studio, dei vincitori del bando dell’ETI Nuove creatività, rivolto al sostegno di dieci proposte “artistiche innovative” a livello nazionale nel circuito degli Stabili, delle residenze e dei festival. Un progetto, dunque, su cui gravavano aspettative rilevanti, del tutto sciolte in questo primo studio che ci dona un corposo e gustoso assaggio del senso, e del significato, di questa operazione – tanto che la retorica domanda che accompagna studi, prove aperte, prime, ci sembra venir capovolta: come continuare a creare, in un meccanismo che ci appare già fecondo, interessante, risolto così com’è? Eppure il dato di partenza, per quanto celato, per quanto occultato da letture, esegesi e storiografie miopi, c’è ed è ben presente nella sua abissale e lucente inesorabilità. Il romanzo di Camus si chiude rompendo un cerchio, donando al languido Meursault - e, di ironica e triste triangolazione, a noi tutti - una soluzione: l’indifferenza dell’universo nei confronti dell’essere umano. Ma un termine così pregnante – indifferenza -, ci fa assegnare una determinazione, un attributo, una sostanza quasi “esistenzialista” al creato – del resto, sostituire “universo” con “Dio” è sbagliato filologicamente nei riguardi di Camus e ci fa tornare allo stesso, infimo e deplorevole, errore: Dio è così simile all’uomo... Per l’ateo scrittore nemico (?) di Sartre l’alfa privativa presente davanti al greco “teo” è la misura, e il setaccio, di ogni cosa: una privazione che non è solo, e meramente, creazionistica, ma umana prima di tutto. Alla natura – naturalmente vergata con una muta e risoluta minuscola - e alle sue forze primigene ed immobili va ascritta ogni cosa presente nell’esistente. E la coscienza assoluta attorno questo definitivo horror vacui acquisita da Meursault alla fine del romanzo è l’unica soluzione, per quanto effimera ed inutile possa apparire, che si offre alla vita dell’uomo. E i Gogmagog sembrano offrire uno sguardo simile sull’opera di Camus, seppur diametralmente opposta. La madre muore e Meursault fuma e si rifiuta di vedere la bara. I vecchi ospiti-reclusi dell’ospizio si accalcano per una tragicomica scena funebre in cui inseguendo il giaciglio-feticcio sperano di esorcizzare, attraverso la visione di una di “loro”, l’avvicinarsi della propria fine. E Meursault li ferma strozzandoli, scaraventandoli via, sopraffacendo quei gusci vuoti oramai regrediti a pura e lenta e strozzata gestualità o a sonorità mute e rauche. Le altre scene che compongono questo affresco sviluppato su un’orizzontalità degli eventi e del senso attraversano la vicenda del protagonista de Lo straniero con elegante e calibratissima efficacia: le luci di Marco Falai accarezzano ed accompagnano le figure-maschere di Salamano, Thomas Perez, Marie – interpretate dai vari Tommaso Taddei, Simone Faloppa, Cristina Abati, Alessandra Comanducci - e, soprattutto, il Meursault di Carlo Salvador – attore e regista -, dal fisico imponente e dall’indolente camminata, in uno scarto fisico ed attoriale di forte impatto. L’orizzontalità prima accennata, come in Camus, viene però squadernata e capovolta in due doppie visioni che partendo da un dato puramente estetico arrivano al nucleo etico, esistenziale, che pulsa sotto le ceneri. Prima appaiono dei corpi che attraversano in modo concitato e violento uno spazio illuminato da folgoranti neon; poi, ed infine, un maestoso ed osceno essere, una figura che ha sul capo una maschera costellata di pietre che riflettono incessantemente la luce – figura che finirà per essere uccisa da Meursault stesso... Il ribaltamento, la truffa, è compiuta. Laddove Camus imprime una soluzione materialista, naturale, alla vicenda, i Gogmagog offrono uno sguardo all’uomo e alle sue pulsioni, affezioni, e perché no? -, creazioni. L’imponente figura reclama a sé tutto ciò, librandosi come richiamo vitale ed oscuro, straniero, di un’Algeri, di un’Africa primordiale di cui era inevitabilmente figlio Camus e per la quale Maurseault ha perso (?) la vita. L’indifferenza cosmica, finale, del romanzo portava ad un’alienazione naturale dalle strutture, dalle leggi, dai tabù della società – e, in ultima analisi, dall’uomo. Alienazione che oggi viene declinata in massacri e stragi compiuti da solitari e silenziosi studenti o da commercianti che spaccano la testa a ladri di cioccolatini, tutti privi, paradossalmente, delle capacità di pensiero di Maurseault. Che in Camus equivalgono alla consapevolezza dell’uccisione di uno straniero arabo per mano di un altro straniero, azione priva di peso in un mondo privo di peso. E che nel lavoro dei Gogmagog diviene la malìa di un berbero djinn, demone del giorno che agisce protetto dalla luce e dal Sole, in un vortice estetico e vitale che trova il suo epilogo nell’umano, troppo umano, omicidio. E poi, di nuovo, buio. crudezza, sia lo Scorsese di Taxi Driver che il Van Sant di Drugstore Cowboy affermano di aver tratto ispirazione. Seguono le serie Teen-Age Lust e The Perfect Childhood e il debutto alla regia con Kids (1995), insignito dell’Independent Spirit Awards. Nato come progetto fotografico, Kids diventa sceneggiatura grazie all’allora diciannovenne Harmony Korine (Gummo) e si caratterizza per una ricerca visiva “di strada”, che abusa di macchina a spalla e si ricollega più o meno apertamente al manifesto del Dogma. Il film - che ha lanciato attori quali Chloë Sevigny, Rosario Dawson e Justin Pierce e si caratterizza per interpreti presi dalla strada -, è stato tacciato di amoralità per aver rappresentato una banda di giovani teen-ager di New York dediti al bere, alla droga e al sesso occasionale non protetto. Il risultato è una brutale opera cinematografica senza lieto fine né morale, ma diventata di culto. L’odore acre dell’adolescenza Le visioni disturbanti di Larry Clark, reporter embedded nei coflitti giovanili. di Nunzia Garoffolo Larry Clark è ossessivo e imprescindibile. E’ l’artista che più di ogni altro ha usato il tema dell’adolescenza come una cartina di tornasole della società americana, ritraendo la vita, la gioventù, la solitudine e la disperazione degli adolescenti americani. Ma è pure un fotografo che ha profondamente influenzato la ricerca contemporanea sul linguaggio visivo, trasformando insopprimibili necessità documentaristiche in scomode narrazioni da fruire al cinema o in un museo. E se ieri Cat Stevens, sulle suggestive note di Father and son cantava la disperazione adolescenziale che nasce dall’incomunicabilità con i genitori, Clark con la sua macchina fotografica e con la cinepresa, ha fatto altrettanto. Spingendosi oltre. Avvalendosi di una tecnica fotografica collocata a metà strada tra un servizio di moda on the road e una serie di istantanee, ha disegnato coraggiosamente il vuoto morale di un degrado incredibilmente sensuale. E mentre il colore si faceva più saturo, il significato svaniva. Perché per lui «tutti gli adolescenti hanno una vita segreta ed è sempre più oscura di ciò che pensano i loro genitori». La sua intenzione è «di mostrare il modo in cui i ragazzi vedono la vita, poiché vivono il momento senza pensare a qualcosa che va oltre l’attimo», ed è questo che ha voluto catturare. Ma voleva, soprattutto, che «lo spettatore si sentisse come se fosse là con loro, a fumare erba e fare sesso». Anche lui è stato un adolescente traviato da un rapporto conflittuale con il padre, che ha accusato di «averlo ignorato e non averlo mai amato», e dagli eccessi di una vita da “fuorilegge”, governata da sesso, metaanfetamine e alcool, che ha raccontato nella sua prima opera: Tulsa (1971). Va detto che da questa serie di foto di austera monocromia e calibrata Perché Clark fa tutto ciò? Come egli stesso afferma: «molti pensano che sia un pervertito perché filmo e fotografo ragazzini, ma guardo solo all’opera, a situazioni reali e alla vita reale. Non è il sensazionalismo a spingermi a fare ciò che faccio». Tuttavia, in Ken Park, il suo film più controverso (2002), ha inserito una scena in cui un giovane ragazzo si abbandona a un atto di autoerotismo che lo induce all’asfi ssia. L’elemento di shock non riguarda il soggetto in sé, ma la modalità in cui è ritratto. La sua cinepresa tende ad indugiare sui corpi dei giovani protagonisti, spesso appena vestiti e illuminati da colori saturi. Ma paradossalmente, come risulta dai suoi lavori successivi, i teen-ager non sono poi così pericolosi. Così è in Los Angeles 2003-2006, che documenta i quattro anni trascorsi da Clark con i giovani ispanici del quartiere di Compton, nell’area centro-sud di Los Angeles. Il risultato è una dettagliata iconografia dell’adolescenza in perenne movimento: lo slang, i dress-code, i tagli di capelli. È l’antropologia di un giovane colta in tutta la profondità dei suoi strati più superficiali. Gli stessi soggetti li ritroveremo in Wassup Rockers (2006). Ma cosa pensavano questi ragazzi di questo tipo attempato che cammina e chiacchiera come uno di loro? Inizialmente sospettosi, lo avevano poi accettato. E ciò perché Clark è “un tipo cool”, nonostante dimostri pienamente i suoi sessantacinque anni. E anche se i suoi abiti, t-shirt e pantaloni hip-hop, lo fanno sembrare lo skater più anziano del pianeta, riluce, immutata, la sua adolescenza spirituale. E riguarda proprio l’abbigliamento “giovane”, l’ultima impresa in cui si è lanciato l’artista, che ha prodotto per Fuct, il brand inglese di abbigliamento per skater, la serie di t-shirt Larry Clark × Fuct. La sua ultima fatica cinematografica è Destricted (2006) - che vede alla regia, tra gli altri, Marina Abramović, Matthew Barney, Sam Taylor-Wood -, il cui focus è il corpo quale luogo di convergenza di desideri e tensioni contemporanee. In Destricted, Clark propone un documentario da molti salutato come il suo capolavoro: Impaled. Trentotto minuti di interviste fatte dall’artista a ragazzi tra i 19 e i 23 anni, al fine di capire in che misura la pornografia condizioni o meno la loro sessualità. In mostra: Lucca, Fondazione Ragghianti. Fino al 31 gennaio. Faces. Ritratti nella Fotografia del XX ° Secolo. la differenza settimanale di cultura on-line su www.differenza.org direttore responsabile Gian Maria Tosatti in redazione Graziano Graziani, Attilio Scarpellini, Mariateresa Surianello. La rivista è finanziata nell'ambito del progetto Scenari Indipendenti, promosso dalla Provincia di Roma in collaborazione con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e la Regione Lazio.