Anno 2 Numero 02 - 19.01.2009

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Anno 2 Numero 02 - 19.01.2009
Anno 2 Numero 02 - 19.01.2009
In nome del figlio
Editoriale
di Gian Maria Tosatti
Se proviamo a rileggere i romanzi di Dostoevskij,
dell’uomo che, come affermò Gyorgy Lukacs, calò
sull’Europa portandosi dietro il Realismo,
troviamo un elemento piuttosto interessante, uno
tra i tanti che permettono ancora oggi di usare
quell’enorme corpus letterario come una sorta di
enciclopedia dell’essere umano. L’elemento in
questione è il ruolo che il romanziere dà agli
adolescenti. I suoi romanzi pullulano di ragazzi.
Sono ovunque, sono una presenza incombente.
Luca Ronconi, quando affrontò l’adattamento dei
Karamazov decise di aprire il sipario proprio su di
loro, sul loro lanciare sassi contro Alësa, a
testimoniare quale forza essi rappresentassero,
non solo nel romanzo, ma nella cosmogonia
dostoevskiana. Essi rappresentano il futuro, il
futuro della Russia, che a sua volta, secondo
Dostoevskij è la Terra stessa, in quando terra del
popolo eletto un po’ come Israele lo è per i
narratori biblici. Eppure, in tutti i romanzi
dostoevskiani, i ragazzi sono portatori
dell’elemento nichilista. Dal giovane Ippolit de
L’idiota a Kolija (ma anche Liza) de i Karamazov
essi svolgono un ruolo di costante contrappunto
rispetto alle passioni degli adulti dimostrando
sempre una notevole autorità intellettuale, una
saggezza quasi sproporzionata per la loro età. I
ragazzi dostoevkijani, pur con le loro dovute
differenze, sono portatori di una vera e propria
filosofia all’interno del polifonico affresco con cui
l’autore russo cattura come nessun altro lo spirito
di questo mondo.
Nichilisti. Dunque, i depositari del futuro sono
anche i portatori di una certa tendenza alla
distruzione e all’auto-distruzione, che
effettivamente è assai in accordo con i giri del
pianeta e col loro scandire la progressione del
tempo contraddicendo gli aneliti romantici dei
protagonisti adulti. I ragazzi sono la voce,
l’incarnazione di questa ineluttabile dissoluzione,
di questo sfaldarsi, annullarsi di ogni cosa umana,
sono lo stratagemma che il romanziere usa per
dare corpo ad un concreto contraddittorio con le
forze della bellezza, della grazia e della fede
incarnate dal principe Miskin o dagli stessi fratelli
Karamazov. Eppure, a guardar bene, non è
difficile capire perché la psicologia di quei ragazzi
sia tanto sviluppata, la loro autorità tanto
sproporzionata rispetto alla loro età. Sono ragazzi
cresciuti in fretta, troppo in fretta, fino a
diventare dei mostri, fino a non poter mai
nascondere il ridicolo che c’è dietro la loro
infinita serietà. La causa di questo sviluppo
precoce, e qui sta il nodo centrale, il più delle
volte è la malattia. Essi sono malati, fisicamente.
E’ questo, per lo più, l’elemento che li ha fatti
diventare di colpo “adulti”, o meglio che gli ha
dato l’autorità per poter parlare con gli adulti.
Ma a dire il vero, la malattia è l’elemento da cui
si genera la loro stessa anima, la loro stessa
filosofia, in una parola il nichilismo.
E’ ovvio come anche la malattia sia un espediente
letterario che Dostoevskij usa al pari di Ibsen
negli Spettri. Essa è il “dono”, l’elemento di cui
effettivamente i ragazzi non sono colpevoli. Il
dono che arriva da qualche parte del passato, da
un’infezione di cui essi non sono responsabili ma
ne sono infetti. E’ da questa ingiustizia archetipa
- Pasolini ci invita a ricordare come essa sia il
meccanismo di tutta la Tragedia antica -, che si
genera il nichilismo dei ragazzi, una “filosofia a
posteriori” di una catastrofe che tenta di trovare
un senso alla catena degli effetti essendo
incapace di poter risalire alle cause. Il nichilismo
dei giovani dostoevkiani ha una purezza quasi
angelica, è tremante ed è attraverso di esso, nel
modo in cui vacilla sulle labbra dei suoi giovani e
fragili sacerdoti, che l’autore trova la lingua per
poter affrontare con lucidità il tema della la
paura.
Adesso fermiamo un attimo il discorso. E
pensiamo effettivamente a ciò che fin ora è stato
descritto. Usciamo dalla metafora e torniamo a
noi, usciamo da Dostoevskij, dall’Ottocento e
cosa ci resta dallo scheletro di questo discorso?
Un ritratto contemporaneo estremamente fedele.
C’è un’altra “terra promessa”, l’Occidente, su cui
s’espande una grande infezione, una dissoluzione
in atto, una malattia epidemica che i genitori
passano ai figli e che consiste in una sorta di
peccato originale che nessun battesimo riesce a
lavare. Oggi, i ragazzi ereditano quel peccato non
diversamente da come ereditano il “debito
pubblico”. Quel peccato è la metaforica “sifilide”
ibseniana che ha tarato moralmente la società
negli ultimi decenni, compromettendone lo
sviluppo. Che differenza passa, infatti, tra la
prospettiva crescere in un mondo che non è in
grado di garantire un futuro ai suoi giovani e
quella di crescere come un tisico, come il giovane
Ippolit, vedendo nel futuro niente altro che una
scorciatoria per la paura? E allora eccoli lì i nostri
ragazzi, parlano – anche se nessuno li ascolta –
come i ragazzi dostoevskiani, dal piedistallo di
una maturità ridicolamente ostentata anzitempo
attraverso l’abuso di alcol e droghe pesanti e di
un controverso rapporto con il sesso. Nessuna
differenza. Tutto era già scritto, è vero, da oltre
un secolo. I cataclismi sociali, è vero sono ciclici,
ma questo non assolve dalle responsabilità chi li
provoca. Non assolve dal dolore che generano. La
punizione è anch’essa ineluttabile. I padri, i
responsabili di tutto questo, stanno vedendo i figli
cadere. A loro toccherà la più terribile tra le
pene, seppellire le loro anime.
Messaggi dalla crudeltà
X(ics) di Motus, dalla periferia dell’occidente al
cuore della giovinezza
di Giorgina Pilozzi
«Noi siamo erbacce, piante vagabonde
che muoiono in un posto per rinascere uguali poco
dopo»
da X (ics) Racconti crudeli della giovinezza di
Motus
Gli adolescenti sono ovunque ultimamente. Nel
migliore dei casi protestano e inondano le strade,
per il resto sono appannaggio di dibattiti televisivi
e di sondaggi che non fanno altro che ridurli a
preoccupanti bulli e a spogliarelliste on-line al
costo di una ricarica telefonica. Ma qualcuno
invece ha deciso di parlare con loro, di osservarne
i riti di passaggio diventati spesso di confine. Di
tentare di guardare con i loro occhi. In un
paesaggio di frontiera – come del resto di
frontiera è sempre stato il suo teatro – si è
immerso Motus, in quell’adolescenza che
finalmente recupera la sua dimensione di luogo
sospeso e crudele da (ri)scoprire e in cui tornare.
E questo viaggio comincia nella primavera del
2007 e prende il nome di X (ics) Racconti crudeli
della giovinezza, progetto triennale che vedrà
nascere quattro spettacoli, un film e vari eventi
performativi (tra cui Run e Crac).
L’intuizione preziosa del gruppo di Rimini (diretto
da Enrico Casagrande e Daniela Nicolò) è la
vicinanza interiore tra questo periodo della
crescita e le zone residuali del paesaggio urbano,
gli interstizi cari a Gilles Clèment come “terzo
paesaggio”. Quegli squarci abbandonati e
indefiniti, diversi l’uno dall’altro ma identici nella
loro attitudine a farsi rifugio meticcio della
diversità. Le terrains vagues verranno allora
esplorate, coi corpi degli attori e delle attrici – in
particolare Silvia Calderoni, straordinaria
traghettatrice sui pattini -, con il freddo obiettivo
della telecamera che filmerà accelerazioni, soste
e incontri.
Partono così da casa loro, da quella bassa
Romagna e dai suoi centri commerciali, dalle
piccole sale prova musicali e dalle colonie
abbandonate lungo la statale adriatica che da
Ravenna arriva a Cattolica. Qui nasce [X.01
movimento primo], spettacolo d’inaugurazione
del progetto che debutta nel 2007 alla Biennale
Danza di Venezia, e qui viene girato Ics_Note per
un film. Nell’autunno del 2007 il gruppo si sposta
nel sud della Francia, a Valence, dove i confini
della banlieu magrebina appaiono nitidi e ben
distanti dal resto della città, come chiare
appaiono le tensioni sommerse. Qui nasce e
debutta [X.02 movimento secondo]. Per [X.03
movimento terzo] il gruppo si sposta nella ex DDR,
ad Halle Neustadt, una shrinking city spopolatasi
dopo la caduta del muro a causa della chiusura
delle grandi fabbriche, dove debuttano a giugno
del 2008. Infine ad aprile 2009 sarà la volta di
Napoli con X(Ics) a Scampia.
In scena assistiamo al viaggio nel suo svolgersi e al
suo ritorno insieme. Un marciapiede accoglie le
vite di questi giovani personaggi, un gradino che li
divide dalla metropoli e da tutto quello che gli
adulti non capiscono. Diventa un trampolino quel
marciapiede, da cui lanciano un ostinato “no”
contro un mondo che non sa proporgli altro che di
sopravvivere, un no scandito dai loro incontri,
dalla loro musica, dai loro movimenti riottosi e
schivi . Lo schermo alle loro spalle – enorme proietta paesaggi mutilati dalle cattedrali del
consumo, aree post-industriali che attraversate da
queste giovani figure che vagano diventano posturbane, e l’ordinario diventa così lacerante da
offrirsi allo spettatore nudo, come per la prima
volta. I corpi che vivono la scena sono gli stessi
che tracciano i propri passi nei luoghi che vediamo
scorrere nelle immagini sullo sfondo e quei
fotogrammi si trasformano prepotentemente in
tutto quello con cui non sono scesi a patti, in
quell’inarrestabile desiderio di vita che è
l’adolescenza. In X.03 appaiono testi di sms sullo
schermo, molti rispondono ad un volantino che
Silvia (Calderoni n.d.r.) ha distribuito ovunque
X(ics) sia passata - perfino all’ingresso dei teatri
dove va in scena - c’è scritto: «mi sto cercando.
Se anche tu ti sei perso lascia un messaggio». E
quando in uno scambio di sms alla domanda «Ke
fai?» qualcuno risponde con le parole del Malcolm
di Purdy (ma usando le tipiche abbreviazioni da
sms) «forse sto aspettando ;) temo d nn avere
niente di meglio da fare», si ha la sensazione che
la panchina vuota che è in scena e che dà le
spalle al pubblico sia un punto d’affaccio sul
reale, irrimediabilmente senza soccorso. Il
panorama diventa un grido, una vertigine su quel
groviglio di instancabile vitalità e malinconia che
è l’adolescenza, compresa quella che ci portiamo
dentro al di là delle barriere anagrafiche. Diventa
chiaro quanto ancora preme in ognuno
quell’attimo che sembrava lontano ma che è qui,
marchiato sulla pelle. In scena convivono
l’adolescenza e la sua metafora, quello che in noi
è stato e tutto quello che non vorremo mai
vederci addosso. La scoperta della solitudine
scolpisce in noi la stessa ostinazione che farà poi
sentire soli, come racconta la straordinaria
immagine di Silvia che, nella seconda parte dello
spettacolo, quando lo schermo cade e non rimane
che un interno a due piani, senza esitazione,
scende le scale al contrario, accovacciata a
quattro zampe. E non si può uscire da X(ics) senza
capire che il solo problema tra la società e gli
adolescenti, tra noi e loro è che «non ci siamo
parlati» e che gli unici a non avercela fatta siamo
stati noi. E gli sguardi degli attori in scena
diventano quegli stessi sguardi che non abbiamo
incontrato perché troppo presi a comprare.
Immediatamente la diversità dei tratti dei loro
volti, il fatto che alcuni di loro siano veramente
degli adolescenti che Motus ha incontrato nei
ghetti creati in tutta Europa – non ultima in Italia
- da un liberismo violento e onnivoro, diventa una
scelta che ricadrà irreversibilmente sul teatro di
domani.
La maturità del progetto X(ics) non sta solo nella
sua straordinarietà artistica. X(ics) è un momento
politico del nostro teatro, è una ribellione contro
il pensiero comune capace di generare altra
ribellione, sempre nuova, come il racconto della
propria crudele giovinezza che fa dalla panchina,
di spalle, alla fine di ogni X.03, un’anziana donna
ogni volta diversa, incontrata nella città dove lo
spettacolo è in scena.
Motus riesce ancora una volta a vivere nel
presente, presagisce che il disagio giovanile va
indagato, che gli adolescenti hanno molto altro da
dire fino al punto di diventare, di lì a poco, con
l’Onda anomala, il fenomeno più dirompente che
questo paese non vedesse da anni.
Quando sei adolescente sai benissimo dove non
vuoi stare, e anche se sei costretto a starci diventi
abile nella fuga. Continui a scrivere lettere da
luoghi fitti di desiderio in cui non sei mai stato e
hai chiaro in testa da dove non le scriverai mai.
Motus tutto questo non l’ha mai dimenticato.
A teatro: Bologna, Arena del Sole. X (ics) Racconti crudeli della giovinezza >> Halle/
Neustadt. Dal 6 al 7 febbraio.
A teatro: Bologna, Laboratori DMS - Università di
Bologna. Crac. Lunedì 9 febbraio.
I due volti della diversità
Una lezione di cinema il “Lasciami entrare” di
Tomas Alfredson
di Federico Pontiggia
«Un ragazzo, Oskar, la cui esistenza è stata resa
un inferno dalle intimidazioni e dalla vita in una
casa caotica, un dodicenne in cerca di riscossa. È
soprattutto una storia d’amore. Di come l’amore
di Eli liberi Oskar, lo porti a guardare a se stesso
sotto una luce diversa: non come il ragazzo
terrorizzato, la vittima. Di come gli dia il coraggio
di alzare la testa per il proprio bene. Eli è però un
vampiro, un vero vampiro che vive di sangue».
Dopo che lo sdentato e anemico Twilight ha
impazzato (sic) in tutto il mondo, altri vampiri,
questa volta bambini e indie, affondano i canini:
finalmente. E' Let the Right One In, l'horror
romantico dello svedese Tomas Alfredson, nelle
nostre sale con il titolo - meno significativo Lasciami entrare.
Tratto dal bestseller (Marsilio, 2007) di John
Ajvide Lindqvist, autore anche della sceneggiatura
e della citazione in testa, è stato presentato in
anteprima italiana fuori concorso al Torino Film
Festival, dopo aver rastrellato premi in una
quindicina di kermesse internazionali – tra cui
quello del pubblico al Tribeca - e un milione e
mezzo di dollari al botteghino Usa, risultato non
disprezzabile per un film low-budget e senza
megafoni promozionali.
Se Hollywood si è già assicurata i diritti del libro
per il remake che verrà girato - non è una buona
notizia - dal regista di Cloverfield, Matt Reeves,
l'originale di Alfredson è ambientato nell'inverno
del 1982, in un sobborgo di Stoccolma,
Blackeberg, dove il dodicenne Oskar (Kare
Hedebrant, straordinario), vittima inerme del
bullismo di alcuni compagni di scuola, fa amicizia
- per la prima volta, parrebbe - con la nuova
vicina di casa, Eli (Lina Leandersson, stupenda),
occhioni azzurri, capelli corvini e anche lei
dodicenne, ma da molto tempo... Dopo alcuni
"fatti di sangue", Oskar scoprirà che Eli è un
vampiro, senza che questo ponga fine alla loro
storia d'amore, anzi.
«Malgrado lo sfondo deprimente di una Svezia
plumbea, le aspre condizioni sociali, il bullismo e
la violenza sanguinaria - ha detto Alfredson - ho
sentito il libro di Lindqvist come una romantica
storia d'amore. Vi trovo le stesse dinamiche di
sfondi scuri in contrasto con primi piani luminosi
che sono presenti nei romanzi di Charles Dickens».
Caratteristiche che ritornano con fedeltà e
sincerità nel film, dove l'efferatezza del regime
alimentare di Eli e la depressione socioambientale della Svezia prima anni '80 vengono
contrastati dall'idillio tra la baby-vampira e il
piccolo Oskar. Una storia, la loro, ben più sentita,
sofferta, sanguinaria e in definitiva "autentica" di
quella emo-patinata dei cugini adolescenti Bella
ed Edward di Twilight: crepuscolare e romantico,
horror e teen-movie insieme, Lasciami entrare dà
al classico genere vampiresco nuova linfa, pardon,
sangue, regalandoci sequenze da antologia del
low-budget, come quella finale in piscina.
Ma non siamo solo di fronte a un grande piccolo
film, Lasciami entrare rappresenta una delle
declinazioni cinematografiche più originali,
ovvero, “laterali” del bullismo, che negli ultimi
anni è stato oggetto di opere “dedicate” ma
didascaliche - Alpha Dog di Cassavetes del 2007 o approssimazioni insulse: gli italiani Un gioco da
ragazze e AlbaKiara, entrambi del 2008.
Viceversa, Let the Right One In retrodata il
contesto sociale (1982), fa una scelta geografica
marginale (Svezia), sceglie di ancorarsi a un
sottogenere fortunato e codificato (il vampiremovie), ma da questa prospettiva particolare, se
non poeticamente angusta, riesce a mettere a
fuoco il disagio giovanile come pochi altri.
Oskar è il capro espiatorio, abbandonato sull’isola
che non c’è (la famiglia) e alla disperata, ma
sommessa, ricerca di un legame, un’amicizia per
tirare il respiro, quello che i compagni di scuola
non gli concedono. Nella glaciale “zona notte”
svedese, la sua nuvoletta di fiato attirerà un’altra
creatura, agli antipodi, ma ugualmente misfit: la
vampira Eli, solo apparentemente coetanea. Sarà
lei a “salvare” Oskar, non con un’azione fisica,
che pure sarà fondamentale, ma con un intervento
psicologico: aiutare il ragazzino ad affrancarsi
dalla paura e confrontarsi a viso aperto con i suoi
aguzzini. Si tratta di uno scambio, di un patto di
sangue, che solo la fiducia può catalizzare: «Posso
entrare? Lasciami entrare, per favore» - «Entra».
Solo aprendosi all’altro, quello giusto (the right
one), si può trovare un antidoto su scala al
bullismo, che proprio nel rifiuto e nell’ignoranza
dell’altro attecchisce. Se per Eli il percorso passa
dal considerare Oskar non più oggetto, ovvero
preda potenziale, ma soggetto di dialogo e
condivisione, per l’umano Oskar, viceversa, il
vampiro continua, come letteratura vuole, a
essere oggetto di fascinazione, ma questa lascia
progressivamente spazio all’amore, alla
fuoriuscita da sé verso una terra di mezzo, dove
incontrarsi per ritrovarsi nuovo, ovvero indomito.
Comune a entrambi, la scelta, la necessità di
scegliere: discriminare tra oggetto e soggetto,
tenendo in bocca i canini, per Eli; “farsi vampiro”
per Oskar, che nell’exemplum della vicina troverà
le coordinate della liberazione. Gli servirà ancora
il soccorso di Eli, ma nella piscina dell’ultima
scena il sangue si mischierà all’acqua per un
inedito battesimo: di libertà.
Sarò più bianca della neve
Storia di eroina e di antieroine in “Mitigare (il buio
fuori)” di Francesca Sangalli
di Attilio Scarpellini
Un manifesto con Dracula che addenta il collo
della Statua della Libertà, imprimendo su di esso
due vistosi buchi sanguinanti; poco più in là, una
ragazza sdraiata sul letto alza le braccia, segnate
da altri buchi di un rosso livido, e lancia verso
l’obiettivo uno sguardo puro, quasi cristallino, ma
completamente vacuo, a cui solo le labbra
semiaperte conferiscono un’espressione di
disperata ottusità. Sentire tutto per non sentire
più niente. E’ una delle immagini – e non la più
cruda – che la fotografa americana Jessica
Dimmock ha scattato al nono piano di un palazzo
di Brooklyn interamente occupato da
tossicodipendenti. Francesca Sangalli nella
presentazione del suo Mitigare (il buio fuori),
progetto di spettacolo segnalato all’ultima
edizione del premio Tuttoteatro.com Dante
Cappelletti*, le definisce “intense e intime”. Ma
perché ci sia intimità, segreto, deve esserci un
fuori da cui ritagliare il suo spazio (e con il quale
l’intimo, il privato è in costante dialettica),
perché ci sia un uomo che orgogliosamente,
gelosamente si rifugia e si separa in quello spazio,
deve esserci da qualche parte una città che glielo
permette, che ne accoglie l’intimità: il mondo
documentato dalla Dimmock, invece, è una colata
di nuda vita, uno spazio concentrazionario che
annullando i propri confini con il mondo,
annichilisce qualunque intimità: tutto è
drasticamente, crudelmente esposto, nella
degradazione dei suoi corpi tatuati, scarificati
dalle siringhe, come in un lager.
Se c’è una differenza cruciale tra queste immagini
e quella articolata dalla Sangalli nel suo testo (e
negli studi scenici presentati a Roma, prima al
Kollatino Underground per la semifinale – 22 e 23
novembre - poi nella finale del premio al Teatro
India – 20 e 21 dicembre) è nel tentativo di
Mitigare di rappresentare non tanto l’inferno,
quanto la precarietà della sua soglia. Soglia
anzitutto generazionale: il nine floor della
Dimmock è un cimitero degli elefanti dove il buco,
vecchia bestia interclassista, unisce e confonde le
generazioni; le tre protagoniste della pièce della
Sangalli sono delle adolescenti che intraprendono
il cammino della dipendenza da eroina, per le
quali lo sballo è già un mondo, ma non ancora
tutto il mondo. Lo stesso filo sentimentale che le
lega all’infanzia non è ancora stato
completamente reciso, se per una di esse (la più
borghese) la brown sugar mantiene il colore, e
l’innocenza edonistica, dello sciroppo d’acero sui
dolci della mamma. Mitigare, anzi, è la
registrazione amplificata degli slittamenti
progressivi dal piacere alla dipendenza di una
droga che nella sua apparenza residuale (l’eroina
non è stata soppiantata dalla coca e dagli acidi),
soft (non ci si limita ad iniettarla, la si fuma o la si
sniffa), nonché nella sua presunzione
postmodernistica di rappresentare una pratica
controllata, continua a nascondere lo stesso
trucco, lo stesso “miserabile miracolo” delle
droghe totalitarie degli anni ’70: l’assuefazione
nel circolo vizioso che anestetizzando il dolore
riduce il piacere a un intervallo sempre più sottile
tra “dose e astinenza”, fin quando la vita, come
scrive la Sangalli, «diventa fatta di parentesi». Si
mitiga fino all’anestesia definitiva («non sente
nulla quando è fatta, prova dolore solo un attimo,
quando è nella parentesi prima dell’astinenza»),
finché il buio di fuori non risorge dentro e
dall’eccesso di presenza del mondo si trapassa
nella sua schiacciante mancanza.
Il tratto sconcertante di Mitigare è di restituire
una parabola chiusa, sempre la stessa in qualche
modo – la tossicità, e la sua noia senza fine – ma
attraverso l’imponderabilità di un’esperienza che
è come un cono a cui il déjà vu delle generazioni,
passando dall’incanto al disincanto, ha tolto il
rocchetto: melliflua e senza tragedia, divenuta
addirittura oggetto di citazioni derisorie (come
quella di Trainspotting o di Noi i ragazzi dello zoo
di Berlino, divenuto film di culto delle neodrogate), banalizzata (come tutto il resto, dal
razzismo a berlusconi, con la minuscola), l’eroina
del piccolo sballo adolescenziale mantiene intatta
la sua potenza di contagio e quella capacità di
fotografare il mondo rovesciandone, senza
cambiarle di una virgola, tutte le relazioni.
L’eroina è un negativo del mondo cosi com’è. «Le
dipendenze – dice una delle tre diciassettenni –
nascono per avere qualcosa a cui pensare che non
sia il senso di una vita che appassisce, il dolore,
gli affetti che vengono a mancare e alla fine la
morte che te lo mette in culo». Le dipendenze
nascono per non pensare, sono la faccia mortifera
e entropica di una società del consumo e
dell’intrattenimento: il passo più lungo della
gamba di un desiderio che non misura più
economicamente i suoi confini, spingendosi… “al
di là del principio di piacere”. Nell’era del suo
nichilismo trionfante, l’eroina era considerata lo
strumento estremo di un rifiuto dell’esistente:
attraverso di essa un piccolo esercito di giovani
verificò – prima ancora e assai più che con il
terrorismo – l’orizzonte più remoto e tragico della
propria hybris: quanto a “velocità di liberazione”,
quella del viaggio in vena era incomparabile anche
rispetto al più insofferente dei millenarismi
rivoluzionari. Nell’epoca in cui il flash è uno
“schizzo” frugale e quasi senza pretese, deposto
dal suo prestigio creativo per diventare pratica di
un consumismo routinario che inebria ma consente
di restare “precisi” (“sparpagliati” come “i
granelli di zucchero da scaldare”, ma non
dissolti), una retorica minimalista prende il
sopravvento sul mito, e di nuovo permette
all’irreale di fotografare il reale a testa in giù.
Sulla scena di Mitigare a drogarsi sono sempre gli
altri, i “robbosi”, e la distanza dalla derelizione
dei veri tossici è segnata dalle tre protagoniste
con attenzione maniacale: passo dopo passo,
parola per parola, ci si accusa a vicenda di essere
quel che si sta diventando («Devo smettere. Se no
divento come quelle due, fanno schifo davvero») e
nel frattempo si colma il divario tra chi controlla
il piacere e chi ne è ormai controllato, finché non
resta alcuno spazio in cui arretrare – neanche nel
ricordo che continuamente squarcia il testo della
Sangalli – tra sé e la roba, totalità inalterata
persino dal suo disincanto, miserabile e grandiosa
ad un tempo, perché, come sempre, immagine
perfetta della debolezza ( e della ontologica
menzogna) del mondo che circonda i suoi
consumatori. Così, nel teatro dell’eroina è solo il
segno del disagio a cambiare: le identità esplose
di Mitigare, a differenza di quelle degli anni ’70,
non sono tanto soggetti di un rifiuto radicale
spinto fino all’autodistruzione, quanto oggetti di
un abbandono, figlie di una crisi di sentimenti, di
uno strappo della sensibilità che affonda le sue
radici nell’unico Eden che sono ancora in grado di
concepire, quello dell’infanzia. La casa borghese a
cui Martina, la narratrice, sogna di ritornare, ma
sulla cui soglia viene respinta con un
rovesciamento della parabola del figliol prodigo,
non è quella del Padre – eclissatosi al tempo del
suo mitico assassinio e da allora introvabile, se
non come feticcio animato da un ventriloquio
autoritario – ma quella di una Madre formale e
inospitale che scaccia la figlia, terrorizzata dal
suo piercing.
«-Marti non farti vedere
– Mamma, ma è solo un piercing…
- Amore? – è la voce di mio padre da una stanza.
E mia madre senza trattenersi mi richiude la porta
prima che arrivi.»
Al lato opposto di una madre senza corpo c’è il
senso di inadeguatezza adolescenziale di un corpo
che attraverso le ondate di calore della droga
sente il tempo arrotolarsi su se stesso e rivive il
sogno virginale del suo essere senza bisogni, senza
organi, senza dolore. Un corpo che, straniato dal
tocco gelido del disamore, programma la propria
sparizione.
«Vorrei non avere più bisogno di niente. Diventare
pura, vergine, senza bisogni senza fame non voglio
più alcool non più pisciare, cagare, scopare.
Non voglio che nessuno possa più toccarmi.»
(Non toccate il mio corpo: le ultime parole di
Antonin Artaud).
*L’autore di questo testo è membro della giuria
del premio diretto da Mariateresa Surianello che
nella sua ultima edizione ha segnalato il progetto
di Francesca Sangalli assieme a Storia di un teatro
delle Sirene del Teatro del Lido di Ostia.
Presieduta da Gianfranco Capitta e composta da
Roberto Canziani, Massimo Marino, Renato
Nicolini, Laura Novelli, Mariateresa Surianello, la
giuria ha assegnato il Premio Tuttoteatro.com alle
arti sceniche Dante Cappelletti 2008 al progetto
di spettacolo Sul confine di Gabriele Di Luca e
Massimiliano Setti.
In equilibrio su un filo tra indifferenza e
alienazione
I Gogmagog portano in scena uno “Straniero” che
parla la lingua di Camus pensando ad Abdul Guibre
e alla Columbine
di Luigi Coluccio
E’ un esistenzialismo carico di pulsioni e soluzioni
quello di Albert Camus. Letterariamente
paradossale ma umanamente corretto. Non a
caso, lo stesso scrittore franco-algerino rifiutò
sempre l’etichetta di “pessimista”; e, non a caso,
la compagnia toscana Gogmagog sembra partire
proprio da questa rivendicazione personalletteraria per il suo Fino all’omicidio, lavoro
tratto da Lo straniero - l’epocale romanzo
camusiano apparso nel bel mezzo della Seconda
Guerra Mondiale - e andato in scena all’ombra
d e l l ’ o t t o c e n t e s c o C a s t e l l o Pa s q u i n i d i
Castiglioncello.
Se il referente letterario è di prima grandezza, lo
stesso si può dire della produzione: Gogmagog fa
parte, assieme alle compagnie Teatro Persona ed
EmmeA’teatro e attraverso il progetto Sensi e
dissensi – Laboratori teatrali toscani presentato
dal Festival di Armunia in collaborazione con
Krypton/Teatro Studio, dei vincitori del bando
dell’ETI Nuove creatività, rivolto al sostegno di
dieci proposte “artistiche innovative” a livello
nazionale nel circuito degli Stabili, delle residenze
e dei festival. Un progetto, dunque, su cui
gravavano aspettative rilevanti, del tutto sciolte
in questo primo studio che ci dona un corposo e
gustoso assaggio del senso, e del significato, di
questa operazione – tanto che la retorica domanda
che accompagna studi, prove aperte, prime, ci
sembra venir capovolta: come continuare a
creare, in un meccanismo che ci appare già
fecondo, interessante, risolto così com’è?
Eppure il dato di partenza, per quanto celato, per
quanto occultato da letture, esegesi e storiografie
miopi, c’è ed è ben presente nella sua abissale e
lucente inesorabilità. Il romanzo di Camus si
chiude rompendo un cerchio, donando al languido
Meursault - e, di ironica e triste triangolazione, a
noi tutti - una soluzione: l’indifferenza
dell’universo nei confronti dell’essere umano. Ma
un termine così pregnante – indifferenza -, ci fa
assegnare una determinazione, un attributo, una
sostanza quasi “esistenzialista” al creato – del
resto, sostituire “universo” con “Dio” è sbagliato
filologicamente nei riguardi di Camus e ci fa
tornare allo stesso, infimo e deplorevole, errore:
Dio è così simile all’uomo...
Per l’ateo scrittore nemico (?) di Sartre l’alfa
privativa presente davanti al greco “teo” è la
misura, e il setaccio, di ogni cosa: una privazione
che non è solo, e meramente, creazionistica, ma
umana prima di tutto. Alla natura – naturalmente
vergata con una muta e risoluta minuscola - e alle
sue forze primigene ed immobili va ascritta ogni
cosa presente nell’esistente. E la coscienza
assoluta attorno questo definitivo horror vacui
acquisita da Meursault alla fine del romanzo è
l’unica soluzione, per quanto effimera ed inutile
possa apparire, che si offre alla vita dell’uomo. E i
Gogmagog sembrano offrire uno sguardo simile
sull’opera di Camus, seppur diametralmente
opposta.
La madre muore e Meursault fuma e si rifiuta di
vedere la bara. I vecchi ospiti-reclusi dell’ospizio
si accalcano per una tragicomica scena funebre in
cui inseguendo il giaciglio-feticcio sperano di
esorcizzare, attraverso la visione di una di “loro”,
l’avvicinarsi della propria fine. E Meursault li
ferma strozzandoli, scaraventandoli via,
sopraffacendo quei gusci vuoti oramai regrediti a
pura e lenta e strozzata gestualità o a sonorità
mute e rauche. Le altre scene che compongono
questo affresco sviluppato su un’orizzontalità
degli eventi e del senso attraversano la vicenda
del protagonista de Lo straniero con elegante e
calibratissima efficacia: le luci di Marco Falai
accarezzano ed accompagnano le figure-maschere
di Salamano, Thomas Perez, Marie – interpretate
dai vari Tommaso Taddei, Simone Faloppa, Cristina
Abati, Alessandra Comanducci - e, soprattutto, il
Meursault di Carlo Salvador – attore e regista -,
dal fisico imponente e dall’indolente camminata,
in uno scarto fisico ed attoriale di forte impatto.
L’orizzontalità prima accennata, come in Camus,
viene però squadernata e capovolta in due doppie
visioni che partendo da un dato puramente
estetico arrivano al nucleo etico, esistenziale, che
pulsa sotto le ceneri. Prima appaiono dei corpi che
attraversano in modo concitato e violento uno
spazio illuminato da folgoranti neon; poi, ed
infine, un maestoso ed osceno essere, una figura
che ha sul capo una maschera costellata di pietre
che riflettono incessantemente la luce – figura che
finirà per essere uccisa da Meursault stesso...
Il ribaltamento, la truffa, è compiuta. Laddove
Camus imprime una soluzione materialista,
naturale, alla vicenda, i Gogmagog offrono uno
sguardo all’uomo e alle sue pulsioni, affezioni, e perché no? -, creazioni. L’imponente figura
reclama a sé tutto ciò, librandosi come richiamo
vitale ed oscuro, straniero, di un’Algeri, di
un’Africa primordiale di cui era inevitabilmente
figlio Camus e per la quale Maurseault ha perso (?)
la vita. L’indifferenza cosmica, finale, del
romanzo portava ad un’alienazione naturale dalle
strutture, dalle leggi, dai tabù della società – e, in
ultima analisi, dall’uomo. Alienazione che oggi
viene declinata in massacri e stragi compiuti da
solitari e silenziosi studenti o da commercianti
che spaccano la testa a ladri di cioccolatini, tutti
privi, paradossalmente, delle capacità di pensiero
di Maurseault. Che in Camus equivalgono alla
consapevolezza dell’uccisione di uno straniero
arabo per mano di un altro straniero, azione priva
di peso in un mondo privo di peso. E che nel
lavoro dei Gogmagog diviene la malìa di un
berbero djinn, demone del giorno che agisce
protetto dalla luce e dal Sole, in un vortice
estetico e vitale che trova il suo epilogo
nell’umano, troppo umano, omicidio. E poi, di
nuovo, buio.
crudezza, sia lo Scorsese di Taxi Driver che il Van
Sant di Drugstore Cowboy affermano di aver tratto
ispirazione. Seguono le serie Teen-Age Lust e The
Perfect Childhood e il debutto alla regia con Kids
(1995), insignito dell’Independent Spirit Awards.
Nato come progetto fotografico, Kids diventa
sceneggiatura grazie all’allora diciannovenne
Harmony Korine (Gummo) e si caratterizza per una
ricerca visiva “di strada”, che abusa di macchina a
spalla e si ricollega più o meno apertamente al
manifesto del Dogma. Il film - che ha lanciato
attori quali Chloë Sevigny, Rosario Dawson e Justin
Pierce e si caratterizza per interpreti presi dalla
strada -, è stato tacciato di amoralità per aver
rappresentato una banda di giovani teen-ager di
New York dediti al bere, alla droga e al sesso
occasionale non protetto. Il risultato è una brutale
opera cinematografica senza lieto fine né morale,
ma diventata di culto.
L’odore acre dell’adolescenza
Le visioni disturbanti di Larry Clark, reporter
embedded nei coflitti giovanili.
di Nunzia Garoffolo
Larry Clark è ossessivo e imprescindibile. E’
l’artista che più di ogni altro ha usato il tema
dell’adolescenza come una cartina di tornasole
della società americana, ritraendo la vita, la
gioventù, la solitudine e la disperazione degli
adolescenti americani. Ma è pure un fotografo che
ha profondamente influenzato la ricerca
contemporanea sul linguaggio visivo, trasformando
insopprimibili necessità documentaristiche in
scomode narrazioni da fruire al cinema o in un
museo. E se ieri Cat Stevens, sulle suggestive note
di Father and son cantava la disperazione
adolescenziale che nasce dall’incomunicabilità
con i genitori, Clark con la sua macchina
fotografica e con la cinepresa, ha fatto
altrettanto. Spingendosi oltre. Avvalendosi di una
tecnica fotografica collocata a metà strada tra un
servizio di moda on the road e una serie di
istantanee, ha disegnato coraggiosamente il vuoto
morale di un degrado incredibilmente sensuale. E
mentre il colore si faceva più saturo, il significato
svaniva. Perché per lui «tutti gli adolescenti hanno
una vita segreta ed è sempre più oscura di ciò che
pensano i loro genitori». La sua intenzione è «di
mostrare il modo in cui i ragazzi vedono la vita,
poiché vivono il momento senza pensare a
qualcosa che va oltre l’attimo», ed è questo che
ha voluto catturare. Ma voleva, soprattutto, che
«lo spettatore si sentisse come se fosse là con
loro, a fumare erba e fare sesso».
Anche lui è stato un adolescente traviato da un
rapporto conflittuale con il padre, che ha
accusato di «averlo ignorato e non averlo mai
amato», e dagli eccessi di una vita da
“fuorilegge”, governata da sesso, metaanfetamine e alcool, che ha raccontato nella sua
prima opera: Tulsa (1971). Va detto che da questa
serie di foto di austera monocromia e calibrata
Perché Clark fa tutto ciò? Come egli stesso
afferma: «molti pensano che sia un pervertito
perché filmo e fotografo ragazzini, ma guardo solo
all’opera, a situazioni reali e alla vita reale. Non è
il sensazionalismo a spingermi a fare ciò che
faccio». Tuttavia, in Ken Park, il suo film più
controverso (2002), ha inserito una scena in cui un
giovane ragazzo si abbandona a un atto di
autoerotismo che lo induce all’asfi ssia.
L’elemento di shock non riguarda il soggetto in sé,
ma la modalità in cui è ritratto. La sua cinepresa
tende ad indugiare sui corpi dei giovani
protagonisti, spesso appena vestiti e illuminati da
colori saturi. Ma paradossalmente, come risulta
dai suoi lavori successivi, i teen-ager non sono poi
così pericolosi. Così è in Los Angeles 2003-2006,
che documenta i quattro anni trascorsi da Clark
con i giovani ispanici del quartiere di Compton,
nell’area centro-sud di Los Angeles. Il risultato è
una dettagliata iconografia dell’adolescenza in
perenne movimento: lo slang, i dress-code, i tagli
di capelli. È l’antropologia di un giovane colta in
tutta la profondità dei suoi strati più superficiali.
Gli stessi soggetti li ritroveremo in Wassup Rockers
(2006). Ma cosa pensavano questi ragazzi di
questo tipo attempato che cammina e chiacchiera
come uno di loro? Inizialmente sospettosi, lo
avevano poi accettato. E ciò perché Clark è “un
tipo cool”, nonostante dimostri pienamente i suoi
sessantacinque anni. E anche se i suoi abiti, t-shirt
e pantaloni hip-hop, lo fanno sembrare lo skater
più anziano del pianeta, riluce, immutata, la sua
adolescenza spirituale. E riguarda proprio
l’abbigliamento “giovane”, l’ultima impresa in cui
si è lanciato l’artista, che ha prodotto per Fuct, il
brand inglese di abbigliamento per skater, la serie
di t-shirt Larry Clark × Fuct.
La sua ultima fatica cinematografica è Destricted
(2006) - che vede alla regia, tra gli altri, Marina
Abramović, Matthew Barney, Sam Taylor-Wood -, il
cui focus è il corpo quale luogo di convergenza di
desideri e tensioni contemporanee. In Destricted,
Clark propone un documentario da molti salutato
come il suo capolavoro: Impaled. Trentotto minuti
di interviste fatte dall’artista a ragazzi tra i 19 e i
23 anni, al fine di capire in che misura la
pornografia condizioni o meno la loro sessualità.
In mostra: Lucca, Fondazione Ragghianti. Fino al
31 gennaio. Faces. Ritratti nella Fotografia del XX
° Secolo.
la differenza
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direttore responsabile
Gian Maria Tosatti
in redazione
Graziano Graziani, Attilio Scarpellini,
Mariateresa Surianello.
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