costruire baarìa
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a s c i n co n t r i : s a b at i n i a s c i n co n t r i : s a b at i n i Baarìa entra nella tua vita nel 2006 tramite una telefonata del produttore esecutivo, Mario Cotone, con il quale avevi già lavorato, come assistente di Donati, in film come La vita è bella e Pinocchio. Avevi percepito subito la portata di quest’avventura? Non del tutto. Mario è abituato a lavorare a progetti molto importanti - dietro ai film di Leone e Bertolucci c’è lui – ma quel giorno m’invitò semplicemente a pranzo, senza dirmi che ci sarebbe stato anche Giuseppe Tornatore, con il quale peraltro non avevo lavorato in precedenza. Le sue parole furono: “A Tigelli’ - mi chiama Tigellino - vieni che devo proporti un filmetto…” di gianni sorrentino C h i a m a l o “ f i l m e t t o”. E Tornatore fu più esplicito? Direi di sì. Ci presentammo e quasi subito iniziò a disegnarmi su un taccuino piccolissimo una piazza, i corsi, i quartieri dove abitavano i genitori e così via, spiegandomi tutto in maniera molto sintetica ma chiarissima. E quegli “scarabocchi”, come puoi immaginare, sono da me custoditi gelosamente. Da quel momento è partita una lunga fase di studio fondata su un dialogo continuo attraverso il quale ho cercato di capire tutto quello che occorreva al regista. Ho letto la sceneggiatura, ho fatto il mio spoglio ed ho posto tutte le domande che mi venivamo in mente per capire cosa era importante. cento musicisti diretti da Morricone in quasi trenta brani originali agli oltre mille interventi in digitale effettuati più per accentuare il realismo che non le fughe fantastiche. Una ricerca dell’autenticità che durante tutta la lavorazione ha privilegiato la naturalezza di corpi e ambienti, riflettendosi nell’ impianto scenografico e nella costruzione dei costumi. Quest’ultima è stata affidata a Luigi Bonanno, alla sua assistente Antonella Balsamo e ad altri trenta professionisti del reparto che fra Palermo e Tunisi hanno vestito i duecentodieci personaggi principali con Ne immagino molte. Anche perché quella sceneggiatura ha prodotto qualcosa come centoventidue locations in cui realizzare costruzioni o interventi scenografici. Qual’era il tuo pensiero durante la lettura del copione? Durante lo spoglio mi sono effettivamente meravigliato del numero delle scene previste. Poi, considerando che ogni scena ha come minimo due punti di ripresa (campo e controcampo), ho pensato “accidenti, se non altro l’occhio non s’annoia…” Direi proprio di no. Alla fine sono state girate 2600 inquadrature per riprendere 174 scene. Un’alluvione di le fotografie, i disegni ed i modellini che corredano il presente articolo raccontano il lavoro scenografico svolto da Maurizio Sabatini per Baarìa. a fianco: Giuseppe Tornatore, Maurizio Sabatini e Cosimo Gomez. costruire baarìa C icco, Peppino, Pietruzzo. Un pastore vessato dalla mafia, suo figlio sindacalista che voleva cambiare il mondo ed un piccolo ed irrequieto nipote, futuro regista, saltatempo fra epoche dimenticate. Sono i tre eroi baariòti della famiglia Torrenuova, cavalieri d’una dignità perduta che galoppano nel tormentato secolo dipinto da Giuseppe Tornatore in Baarìa. Un affresco debordante di vissuti che condensa le contraddizioni, le pulsioni ed il desiderio di riscatto di una regione 30 intervista a maurizio sabatini intera, se non di una nazione. A vent’anni da Nuovo Cinema Paradiso, Baarìa segna una maturità diversa per il regista che non rinuncia comunque a pensare in grande e ad avventurarsi in un progetto ancor più ambizioso, un’ossessione magniloquente ma non ampollosa, intimamente epica ma non retorica. La tonitruante sfida narrativa lanciata dal regista si è concretizzata nella ricostruzione di mondi perduti i cui sapori sono riemersi grazie alla piena valorizzazione dell’ intera arte italiana dello spettacolo: del passato, del presente e del futuro; dai millequattro- quasi tremila costumi, divisi fra capi originali e riproduzioni mimetizzate attraverso le più svariate tecniche sartoriali. Ancora più arduo, se possibile, è stato il compito della scenografia. Sintetizzarlo ci sembra un’ impresa persa in partenza. Per questo motivo siamo andati dall’ultimo e più fedele assistente di Danilo Donati. Un allievo che gli è sempre rimasto a fianco perché “abbandonarlo sarebbe stata un’eresia”. Parole sue. Parliamo di Maurizio Sabatini, lo scenografo di Baarìa. scenografie e costumi ritmata da oltre tremila tagli di montaggio. Non riuscirei ad accostarlo a nessun altro film italiano. Il ritmo è serratissimo. E Baarìa è veramente un film raro. Per me è stata una grande opportunità e una grande fortuna. Sono infinitamente grato a Tornatore per la fiducia che ha avuto in me e per il coraggio e la forza del suo impegno. Nelle note di produzione, parlando della vostra collaborazione hai scritto che è nata sotto il segno della passione, della determinazione e dell’entusiasmo. Ti chiedo di sviscerare questi sentimenti. Nel primo incontro Tornatore mi ha accettato così, a scatola chiusa. Poi sono andato a Bagheria a documentarmi, a fotografare, fotocopiare, a comprare libri, a parlare con la gente. C’è stato un vigile urbano che si è messo a disposizione e mi ha portato casa per casa presentandomi tutti. Le famiglie hanno tirato fuori le fotografie con i matrimoni dei nonni, le comunioni, le feste di paese e così via. Una documentazione pazzesca nella quale abbiamo ritrovato tutto, dagli arredamenti delle case sino all’aspetto dei quartieri nelle varie epoche. A quel punto sono risalito a Roma e ho portato tutto a Tornatore. Avevo preparato un montaggio fotografico con i prospetti odierni della città, evidenziando i punti in 31 a s c i n co n t r i : s a b at i n i cui sono più chiaramente riconoscibili le varie epoche di Bagheria. Insieme abbiamo iniziato allora ad affrontare, foto per foto, le possibilità, i problemi, le soluzioni. Siamo andati avanti senza accorgerci del tempo che passava. A tarda notte, quando pure la segretaria era andata via, Tornatore aveva ormai perso tutti gli altri appuntamenti ma non era né preoccupato né stanco. Un coinvolgimento totale che mi ha dato una carica incredibile. a s c i n co n t r i : s a b at i n i struzione di un modellino, diciamo “modellone” visto che raggiungeva quasi i sei metri. Ricevuto l’ok da Tornatore e da Cotone, siamo diventati operativi. A quel punto siamo tornati giù a Bagheria per fare i calchi delle parti più antiche della città. Abbiamo raccolto circa trecento calchi di elementi architettonici che vanno dai particolari tufi del posto sino agli elementi architettonici liberty ancora presenti nelle strade principali. Contemporaneamente abbiamo iniziato a studiare i colori, anche nei disegni tecnici. Un linguaggio poetico, se vuoi, per dire che la vita diventava sempre più fredda e più dura. Eravate “in sala parto”, un po’ di emozione è comprensibile. Come è proseguita la documentazione? Se la intendi come ricerca e scambio, la documentazione è durata sino all’ultimo giorno di riprese. Quella iniziale raccolta a Bagheria ci permise di stilare una prima progettazione di massima, finita in tre settimane, che si completò con la co- 32 Le vostre fonti iconografiche erano prevalentemente in bianco e nero. Come avete affrontato la ricerca del colore? Direi che abbiamo cercato di costruire assieme i colori affinché il film, nel suo corso, esprimesse tutti i significati contenuti nella sceneggiatura. Giuseppe voleva i sapori delle cartoline illustrate a mano, quelle dipinte con colori pastello, molto tenui ma caldi, per poi perderli man mano che si avanzava con le epoche. La fotografia è riuscita a valorizzare questa poetica? C’è stata una corrispondenza assolutamente perfetta. Enrico Lucidi proviene da un’ottima scuola, ha una grandissima esperienza nell’uso della macchina e anche in quello della luce. Ho lavorato con direttori della luce forse più blasonati ma che non ti chiedevano mai un’opinione mentre con lui ci siamo continuamente parlati. Un aspetto fondamentale che ha permesso di mantenere l’attenzione sul discorso poetico che si voleva realizzare. Io penso di sì. Ed è l’unico modo di lavorare seriamente. Se ci pensi, questa è la scuola di Danilo Donati. Lui non era semplicemente uno scenografo perché seguiva tutto l’aspetto visivo del film: dalle scenografie ai costumi, dagli attori all’attività del direttore della luce, dal trucco alle parrucche. E gli altri collaboratori chiedevano sempre il suo consiglio. Era poi attentissimo alla fotografia, tanto che per il Pinocchio chiese a Spinotti di studiare più profondamente la luce del Settecento. dell’impianto scenografico. Il film racconta un secolo di vita di una città e di una famiglia alternando il verismo con la fuga onirica, il massimo rigore filologico con la meditazione interiore. Come si possono coniugare delle dimensioni così apparentemente antitetiche? Con l’interpretazione. Il verismo e la meditazione interiore sembrano effettivamente dimensioni antitetiche ma quando ricostruisci una Prima di entrare nei cantieri di Baarìa, ho un’ultima c u r iosit à su l la poetica Si è raggiunta l’unità espressiva che ricercavate? 33 a s c i n co n t r i : s a b at i n i realtà così stratificata, così lontana nella memoria, deve esserci necessariamente una forte componente interpretativa. Baarìa è un film basato sull’iper realismo ma è comunque frutto di uno studio legato a degli aspetti che vanno al di là del realismo. Pensa al colore e a come ci aiuta a far scorrere le epoche, ad esprimere la diversità storica dei quartieri da un’unica inquadratura. Baarìa è un film sulla memoria che racconta dei vissuti. L’iper realismo è solo un punto di partenza. Possiamo partire ora per Baarìa. Il mondo raccontato dal film è stato ricostruito principalmente attraverso due costruzioni principali realizzate in Tunisia. In questa nazione avevi già lavorato sia nel tuo primo lavoro, Anno Domini, come assistente di Bulgarelli, che ne La tigre e la neve, dove firmi le scenografie. Vorrei accostare i film “tunisini” di Benigni e Tornatore e chiederti un confronto. La tigre e la neve era un film diverso, scenograficamente meno impegnativo di Baarìa ma più itinerante. a s c i n co n t r i : s a b at i n i Aveva costruzioni a Tunisi, a Gafsa, a Tozeur: nel deserto, nel centro e a nord del Paese. Qui era tutto più concentrato ma con dimensioni diverse. Baarìa è stato un film scenograficamente più complesso anche perché c’erano due se non tre fronti da gestire simultaneamente. Costruzioni, interventi e riprese sono andate avanti di pari passo fra la Sicilia, Tunisi e Hammamet, impiegando trecentocinquanta tecnici. Per questo mi sono avvalso di art director come Cosimo Gomez e Maurizio Di Clemente. Persone delle quali ti puoi veramente fidare. Ho pensato che la scelta della Tunisia fosse dovuta alle rassomiglianze con il paesaggio siciliano, ai costi minori e alla partecipazione al progetto di Tarak Ben Ammar. C’è dell’altro? Credo che la scelta di girare in Tunisia sia stata quella ideale. Devi tener presente che molte delle epoche raccontate dalla sceneggiatura sono andate completamente perdute. Andavano ricostruite in luoghi che permettessero questa impresa titanica ed in Tunisia, oltre a vari fattori, ci sono delle maestranze molto brave che hanno acquisito il mestiere che gli abbiamo insegnato dai film di Zeffirelli in poi. Oggi hanno stuccatori bravissimi e dei fabbri eccezionali che sanno lavorare con il ferro forgiato tutto a mano. Cose che noi abbiamo purtroppo perso. La costruzione principale è stata realizzata in otto mesi vicino a Tunisi, in una vecchia fabbrica dismessa di tubi di cemento dopo una progettazione durata tre mesi. Quali sono le caratteristiche salienti di questa costruzione? La progettazione esecutiva ruotava attorno ad almeno tre aspetti molto interessanti. In primo luogo bisognava trovare una soluzione per stare dentro i tempi e non sforare con i costi. Una delle mosse è stata quella di utilizzare delle reti metalliche nelle applicazioni relative ai telai di scena. Questo accorgimento ha velocizzato l’intonacatura, il montaggio e lo smontaggio ed ha anche abbassato i costi. Il secondo aspetto è dato da una piccola anomalia rispetto agli altri film perché qui abbiamo utilizzato proporzioni uno ad uno. Il maestro non ha voluto cedere di un centimetro e questa sua scelta mi ha reso felice perché per uno scenografo è preferibile costruire un piano nelle proporzioni giuste piuttosto che tre con finzioni prospettiche o altre invenzioni. Corso Umberto, ad esempio, arrivava a misurare 400 metri ed era incrociato dai 150 metri di Corso Butera. La chiesa era in scala reale e così via. L’ultimo aspetto è forse il più interessante. La nostra era e doveva essere una costruzione a cipolla… Questa me la devi spiegare… È molto semplice. Il film attraversa tutto il Novecento e l’impianto scenografico doveva essere pronto a saltare da un periodo storico all’altro. C’erano dei giorni in un cui si giravano gli anni Sessanta, altri in cui si tornava agli anni Venti, altri ancora nei Settanta. Abbiamo dovuto progettare, studiare e pensare le trasformazioni già in fase esecutiva, stratificando le varie epoche nella stessa costruzione. Una cipolla che prevedeva edifici dentro ad altri edifici, pavimentazioni sovrapposte e un ampio utilizzo del blue screen per apportare tutte le correzioni necessarie, sia per tagliare, nel caso in cui la macchina da presa sforasse, sia per estendere in altezza alcune componenti scenografiche. Ho letto che ci sono stati più di mille interventi in digitale. Oltre a stupirmi piacevolmente della loro entità “invisibile”, mi sono chiesto quale fosse stato il tuo ruolo. La maggior parte sono estensioni. Mario Zanot, la persona che ha curato tutti questi interventi, ha raccolto innanzitutto le texture, ovvero i campioni grafici delle varie materie che compongono gli edifici e poi, per le costruzioni in 3D, si è rifatto alle nostre indicazioni e soprattutto a quelle del regista. È un lavoro che si fa insieme ed è stato determinante se tieni conto che ogni vicolo, oltre ad essere costruito e percorribile, aveva il suo blue screen. Quello che dominava Corso Umberto era alto sedici metri. Ritieni che gli scenografi italiani sappiano utilizzare adeguatamente queste risorse? In realtà s’è sempre fatto, anche se con tecniche e accorgimenti diversi. Nella mia piccola esperienza ho attraversato molte fasi. In Momo c’erano varie strade riprodotte fra il teatro 5 e il 12 ma erano costruite soltanto fino ai primi tre metri. Danilo le estendeva con il cristallo, posizionando lui stesso la macchina da presa oppure dando le indicazioni ai decoratori e a chi doveva illuminare la scena. Si potevano usare i 34 35 a s c i n co n t r i : s a b at i n i modellini oppure si lavorava direttamente sulla pellicola e sulla macchina da presa come faceva Whitlock in Anno Domini. Il digitale costa di meno, velocizza i tempi e dà maggiore libertà alla macchina da presa. Tornando a Baarìa, fammi però dire che gli interventi digitali più importanti e difficili non erano legati alla scenografia. Il sasso che tocca le tre rocce? I sogni del protagonista? Cose più semplici ed invisibili. Pensa alla scena della visita medica. Zanot ha preso la testa di Francesco Scianna, un ragazzo di trent’anni, e l’ha messa su un corpo d’anziano. E non si vede niente. La bravura c’è quando sembra che non hai fatto nulla. Un’invisibilità che rischia però di celare ancor di più il lavoro degli scenografi e degli arredatori. Fa parte del mestiere. Va accettato e secondo me è un motivo di merito e di orgoglio, non certo di rammarico. Nessuno si accorge che gli interni sono tutti ricostruiti? Pazienza. Mi basta sapere che la madre di Tornatore si è 36 a s c i n co n t r i : s a b at i n i commossa quando ha visitato la casa ricostruita dove aveva vissuto la loro famiglia. È tantissimo e mi rende felice del lavoro fatto per ricreare le carte da parati fatte a mano, le ceramiche, la pavimentazione e tutto il resto. Pensa che perfino Massimo Quaglia, montatore del film, si chiedeva come mai non avesse ancor visto una singola costruzione quando aveva completato i due terzi del film. E Giuseppe a dirgli “Ma come? Non hai visto la piazza, la chiesa, la cava, il salumiere? È tutto ricostruito!” Passi per strade, cave e chiese. Ma anche il negozio del salumiere Buttitta era finto? Completamente ricostruito. I baccalà e i caciocavalli son fatti di vetroresina tenendo ben presente, anche qui, la lezione di Donati. Noi ci siamo solo portati, a mo’ di campione, una caciotta, un baccalà e pochi salumi. Poi ci hanno pensato gli stuccatori che hanno fatto la forma con il gesso e tutto il resto, come si fa per la statua di Marco Aurelio. Solo che noi lo abbiamo fatto per un caciocavallo. Inizio a “temere” che anche la stazione non fosse “vera”… Se è per questo neanche il treno. Di stazioni ne abbiamo fatte due. O meglio, una e mezza. Quella di Bagheria, da dove i paesani partono per la guerra, è stata ricostruita attorno ad una location che abbiamo trovato vicino ad Hammamet, la città dove abbiamo anche ricostruito il quartiere Guttuso, quello della madre del protagonista, attorno ad un agrumeto preesistente. La stazione di Palermo, quella che vedi nelle scene finali, l’abbiamo ricavata con degli interventi scenografici apportati a quella odierna di Tunisi. Le carrozze erano costruite per metà, solo la locomotiva era vera. Il treno era in movimento e si portava dietro la sua fettuccia di blue screen per consentire gli interventi di cui abbiamo parlato prima. So che la scena sui tetti del treno è stata girata dal vero e in Italia ma non ho riconosciuto il luogo. È stata girata su un treno storico vicino a Caccamo. Gli attori che hai visto erano veri interpreti e non stuntman. Le carrozze erano in movimento e la scena è stata girata dalla troupe assicurata a quei tetti. Tutto dal vero. Che si tratti di girare in cima ad un vagone o ad una montagna, Giuseppe non si spaventa di fronte a niente. Rimanendo in altura, nei titoli di coda ringraziate la Guardia Forestale di Polizzi Generosa, autentica gemma nascosta delle Madonie ma distante mezzo migliaio di chilometri dai due set principali. Come vi siete giunti? Siamo arrivati a Polizzi Generosa mentre cercavamo un punto panoramico dove ambientare la scena in cui il giornalista romano, interpretato da Raoul Bova, intervista il protagonista del film. Ho visitato così decine e decine di luoghi sulle Madonie che Tornatore ha voluto personalmente valutare uno ad uno. Ma non era mai soddisfatto. Mi diceva che cercava un luogo in cui si potesse realmente vedere “tutta la Sicilia”. Ci siamo rivolti così alla forestale di Polizzi che ci ha fatto scoprire un posto mozzafiato in cima al Pizzo Carbonara. E lì, portandovi troupe e macchinari e aggiungendovi un dolly altissimo, Tornatore ha voluto girare, supportato da un produttore come Cotone che di fronte alla qualità e alla bellezza non s’è mai tirato indietro. Quella scena omaggia Placido Rizzotto e tutti coloro che hanno combattuto la mafia. La ricerca della qualità e della bellezza che ci hai raccontato omaggia invece il cinema di una volta, sperduto come Baarìa nella memoria dei pochi che lo hanno assaporato. Quali sono le sensazioni che ti ritrovi al termine di un’avventura del genere? Stento a descriverle. Quando hai la fortuna e il privilegio di ricevere un lavoro così gratificante ti ci tuffi dentro con l’anima. Da un punto di vista emotivo, attraversi una prima fase leggera, euforica, in cui pensi che non si farà niente o al massimo una minima parte. Poi ci sono delle volte, come questa, che ti accorgi che tutto quello che hai buttato sul tavolo si sta concretizzando. Ti risvegli da quella fase un po’ incosciente e guardi con occhi diversi le cose che hai progettato. E pensi: “cacchio, e mo’ me tocca falle!”. Diventi operativo e a quel punto è come se rimanessi ingabbiato nel microcosmo del tuo lavoro perché non esiste nient’altro. Arrivi a casa, quando ci arrivi, e sei completamente annullato. Però hai sempre uno scatto di adrenalina in più. Quel pizzico di energia nascosta, quella concentrazione massima che ti sorregge e ti svuota quando il lavoro è finito. Rifaresti un film così? Immediatamente. Domani stesso. Anzi, stanotte. E il mestiere di scenografo? Questo lavoro l’ho cominciato per caso, come succede a parecchi, non l’ho cercato. Mentre studiavo andai a lavorare, pagato a ore, in un ufficio tecnico di architetti. Ad un certo punto mi venne offerto di partecipare alla progettazione di un film. Era un mondo nuovo e oscuro ma sentivo che era alla mia portata. Salutai i miei sfruttatori e m’imbarcai al buio. Mi dissi “faccio quest’avventura diversa e poi torno alle mie cose”. Ma non sono più tornato. 37