TEMA 9: L`I Tema 9/1: Immortalità • Miguel de Unamuno, Del

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TEMA 9: L`I Tema 9/1: Immortalità • Miguel de Unamuno, Del
TEMA 9: L'IMMORTALITÀ
Tema 9/1: Immortalità
• Miguel de Unamuno, Del sentimento tragico della vita,
Cap. III: Sete di immortalità
© SE, Milano 2003, pp. 43-59
TESTI E DOCUMENTI
III
LA SETE DI IMMORTALITÀ
-11MIGUEL DE UNAMUNO
DEL SENTIMENTO TRAGICO
DELLA VITA
NEGLI UOMINI E NEI POPOLI
TRADUZIONE DI MAU:R1ZIO DONATI
Soffermiamoci sull'immortale anelito di immortalità,
sebbene gli gnostici o gli intellettuali potranno affermare
che quanto segue è retorica e non filosofia. Anche il divino Platone, dissertando nel suo Pedone sull'immortalità dell' anima, disse che di essa conviene parlare per miti,
flultoÀ.oysiv.
Ricordiamo innanzi tutto per una volta ancora, e non
sarà l'ultima, l'affermazione di Spinoza secondo cui ogni
essere si sforza di permanere in se stesso, e che un tale
sforzo è la sua stessa essenza attuale, e implica un tempo
indefinito, e che la mente, sia nelle sue idee chiare e distinte che in quelle confuse, tende a permanere nel proprio essere per una durata indefinita, ed è consapevole
di questo suo sforzo (Ethica, parte III, proposizioni VIIX).
Titolo originale: Del sentimiento tragico de la vida
en los hombres y en los pueblos
© 2003 SE SRL
VIAMANIN 13 - 20121 MILANO
SE
Ci è infatti impossibile concepire noi stessi come non
esistenti, e a nessun costo la coscienza può concepire
Passoluta incoscienza, il suo stesso annientamento. Prova, lettore, a immaginarti in piena veglia quale sarà lo
stato della tua anima nel sonno profondo; prova a colmare la tua coscienza con la rappresentazione della non
coscienza, e vedrai. Sforzarsi a concepirlo causa un'angosciosissima vertigine. Non possiamo concepirci come
non esistenti.
L'universo visibile, quello che è figlio dell'istinto di
conservazione, mi risulta stretto, è come una gabbia
troppo piccola contro le cui sbarre l'anima mia sbatte le
ali, e le manca l'aria per respirare. Di più, sempre di più
voglio essere me stesso, e senza cessar d'essere me stesso
voglio essere anche gli altri, e voglio addentrarmi nella
totalità delle cose visibili e invisibili, estendermi nell'infinità dello spazio e prolungarmi nell'eternità del tempo.
Se io non sono tutto e per sempre, è come se non fossi, e
se ciò non è possibile, che almeno sia totalmente io, e
per sempre. Essere totalmente io, è essere tutti gli altri.
O tutto o nulla!
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o tutto O nulla! E che altro senso può avere 1'« essere
o non essere! », il To be or not ta be shakespeariano, di
quello stesso poeta che nel suo Coriolano dice di Marzio
che gli mancava solo l'eternità per essere dio: He wants
nathing 01 a god but eternity? Eternità! Eternità! Questo
è l'anelito; la sete d'eternità è ciò che si chiama amore
tra gli uomini, e amare un altro è volersi eternare in lui.
Ciò che non è eterno non è reale.
Grida dalle viscere dell'anima ha strappato ai poeti di
tutti i tempi questa tremenda visione del fluire delle onde della vita, dal « sogno di un'ombra », (J'Ktaç ava p, di
Pindaro, fino a «la vita è sogno », di Calder6n, e al
« siamo fatti della sostanza dei sogni », di Shakespeare,
sentenza quest'ultima ancora più tragica, giacché se il
Castigliano dichiara sogno soltanto la nostra vita e non
noi che la sognamo, l'Inglese fa di noi stessi sogno, sogno che sogna.
La vanità del mondo, il suo fluire, e l'amore, sono le
due note radicali e intime della vera poesia. E l'una non
può suonare senza che l'altra risuoni. È il sentimento
della vanità del mondo effimero a condurci all'amore,
che solo trionfa sul vano e sul transitorio, che colma e
rende eterna la vita. In apparenza, almeno, giacché in
realtà ... E l'amore, soprattutto quando lotta contro il destino, ci sommerge nel sentimento della vanità di questo
mondo di apparenze e ce ne lascia intravvedere un altro
nel quale, vinto)l destino, la libertà sarà legge.
Tutto passa! E questo il ritornello di coloro che si sono dissetati alla fonte stèssa della vita, di coloro che hanno assaporato il frutto dell'albero della scienza del bene
e del male.
Essere, essere sempre, essere senza fine! Sete di essere, sete di essere di più! Fame di Dio! Sete di amore
eternizzante e di Dio! Essere sempre! Essere Dio!
« Sarete come dèi! », così, racconta la Genesi (III, 5),
disse il serpente alla prima coppia di amanti. '« Se confidiamo in Cristo soltanto per questa vita, siamo i più miserabili di tutti gli uomini », scriveva l'Apostolo (I Coro
xv, 19), ed ogni religione trae le proprie origini storiche
dal culto dei morti, ossia dal culto dell'immortalità.
Scriveva il tragico ebreo portoghese di Amsterdam
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che non esiste nulla a cui l'uomo libero pensi meno che
alla morte; ma quest'uomo libero è un uomo morto, l'enigma di quello che verrà dopo è il battito stesso della
mia coscienza. Contemplando la serenità dei campi verdeggianti, o contemplando occhi chiari a cui si affaccia
un'anima sorella della mia, mi si dilata la coscienza, sento la diastole dell'anima e m'imbevo di vita, credo nel
mio futuro; ma subito dopo la voce del mistero mi sussurra: «Cesserai di essere' », e mi sfiora con l'ala l'Angelo della morte, e la sistole dell'anima mi inonda le viscere spirituali di sangue di divinità.
A somiglianza di Pascal, non comprendo chi asserisce
che non gli importa nulla di questo problema, e una tale
noncuranza per una cosa « in cui si tratta di loro stessi,
della loro eternità, del loro tutto, mi irrita più che intenerirmi, mi stupisce e mi spaventa », e colui che così
sente è per me, come per Pascal, un mostro.
Si è detto e ripetuto in mille toni che è il culto dei
morti, degli antenati, a dar inizÌo comunemente alle religioni primitive, e in realtà si può affermare che quanto
maggiormente distingue l'uomo dagli altri animali è il
fatto di conservare i propri morti, senza lasciarli in balia
della madre terra. E da cosa li preserva in tal modo? Da
cosa li protegge, l'infelice? La coscienza infelice rifugge
dal proprio annientamento, e cosÌ uno spirito animale,
staccandosi dalla placenta del mondo, si trova di fronte
ad esso, e poiché si riconosce diverso, deve aspìrare a
un'altra vita, diversa da quella del mondo stesso. E cosÌ
la terra correrebbe il rischio di trasformarsi in un vasto
cimitero, prima che i morti 'tornassero a morire.
Quando per i vivi non si costruivano che capanne di
terra o di paglia che le intemperie hanno distrutto, si innalzavano tumuli per i morti, e la pietra fu usata prima
per i sepolcri che per le abitazioni. Hanno vinto i secoli
con la loro solidità le case dei morti, non quelle dei vivi;
non le dimore di passaggio, ma quelle permanenti. Questo culto dell'immortalità, non della morte, origina e
mantiene le religioni. Nel delirio della distruzione, Robespierre fece dichiarare alla Convenzione l'esistenza
dell'Essere Supremo e « il principio consolatore dell'immortalità dell'anima », giacché l'Incorruttibile si sgomentava all'idea di doversi corrompere un giorno.
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LA SETE DI IMMORTALITÀ
Malattia? Forse; ma chi non si cura della malattia, trascura la salute, e l'uomo è un animale essenzialmente e
sostanzialmente malato. Malattia? Forse, come è malata
la vita stessa cui va congiunta, e l'unica salute possibile è
la morte; ma questa malattia è la sorgente di ogni salute.
Dal profondo di questa angoscia, dall'abisso del sentimento della nostra mortalità, si esce alla luce di un altro
cielo, come dal profondo dell'inferno uscì Dante a riveder le stelle,
E il rimedio non è quello indicato dalla strofa andalusa:
e quindi uscimmo a riveder le stelle.
(lnf. XXXIV, 139)
Per quanto, sul principio, ci sia angosciosa questa meditazione sulla nostra mortalità, ci risulta infine corroborante. Raccogliti in te stesso, lettore, pensa allento disfacimento di te stesso: la luce ti si spegne, le cose si fanno
mute e non danno più suono fasciandoti nel silenzio, ti
si struggono tra le mani gli oggetti, ti scivola via il terreno da sotto i piedi, svaniscono come in un deliquio i ricordi, tutto si va dissolvendo nel nulla e tu stesso ti dissolvi e non ti rimane neppure la coscienza del nulla, sia
pur come fantastico appiglio ad un'ombra.
Ho udito raccontare di un povero mietitore, motto in
un letto d'ospedale, che quando il prete andò a portargli
l'Estrema Unzione non voleva aprire la mano destra in
cui stringeva alcune luride monete, non rendendosi conto che ben presto quella mano non sarebbe stata più
sua, che lui stesso non sarebbe staro più suo. E così serriamo e stringiamo, non la mano, ma il cuore, volendo
racchiudere in esso il mondo.
Mi confessava un amico che, prevedendo nel pieno
vigore della sua salute fisica la prossimità di una morte
violenta, intendeva concentrare la propria vita, vivendola in quei pochi giorni che calcolava gli restassero, per
scrivere un libro. Vanità delle vanità!
Se quando muore il corpo che mi sostiene, e che chiamo mio per distinguerlo da me stesso, la mia coscienza
torna all'assoluta incoscienza da cui è scaturita, e ugualmente accade a tutti i miei fratelli in umanità, allora il
nostro esausto genere umano non è altro che una fatale
processione di fantasmi che vanno dal nulla al nulla, e
l'umanitarismo è la cosa più inumana che si possa concepire.
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Cada vez que considero
que me tengo que morir,
tiendo la capa en el suelo
no me harto de dormir. 1
y
il rimedio è confrontarsi faccia a faccia, fissando lo
sguardo nello sguardo della sfinge; è così che si spezza il
suo incantesimo.
Se moriamo tutti totalmente, perché tutto quesro?
Perché? È il perché della sfinge, è il perché che ci consuma il midollo dell'anima, è il padre dell'angoscia, quella che ci procura l'amore della speranza.
Tra le poetiche lamentazioni del povero Cowper ci
sono alcuni versi scritti sotto il peso del delirio, e nei
quali, credendosi bersaglio della vendetta divina, esclama che l'inferno potrà dar ricetto alle sue miserie.
Hell might afford my miseries a shelter.
Questo è il sentimento puritano, la preoccupazione
del peccato e della predestinazione; ma queste altre parole di Sénancour, espressione della disperazione cattolica e non di quella protestante, sono molto più terribili
quando fa dire al suo Obermann (lettera xc): « Uhomme
est périssable. Il se peut; mais périssons en résistant, et, si
le néant nous est réservé, ne faisons pas que ce soit une justice ». E in realtà devo confessare, per quanto dolorosa
mi sia la confessione, che mai, nei giorni della fede ingenua della mia giovinezza, mi fecero tremare le descrizioni, sia pur truculente, dei tormenti dell'inferno, e sentii
sempre che il nulla era molto più spaventoso. Colui che
soffre, vive, e colui che vive soffrendo, ama e spera, sebbene alla porta della sua dimora abbiano posto la scritta
« Lasciate ogni speranza! », ed è preferibile vivere nel
dolore che cessare di esistere nella pace. lo non potevo
credere all'atrocità dell'inferno, di una pena eterna, e
non vedevo altro inferno più vero del nulla e della sua
prospettiva. E continuo a credere che se noi tutti credessimo nella nostra salvezza dal nulla, saremmo migliori.
1 Ogni volta che penso che devo morire, stendo il mantello a terra e non
mi sazio di dormire.
DEL SENTIMENTO TRAGICO DELLA vITA
LA SETE DI IMMORTALITÀ
Cos' è mai questo attaccamento alla vita, la jaie de vivre, di cui ora ci parlano? La fame di Dio, la sete d'eternità, di soprawivere, soffocherà sempre questp misero
godimento della vita che passa e non rimane. E l'amore
sfrenato per la vita, l'amore che la vuole interminabile,
quello che solitamente origina l'ansia di morte. « Se è vero che muoio totalmente, quando io sarò annientato - ci
diciamo - il mondo per me finirà; e perché allora non
dovrebbe finire subito, affinché non vengano altre coscienze a soffrire del doloroso inganno di un'esistenza
effImera ed apparente? Se, dissolta l'illusione del vivere,
il vivere per il vivere stesso o per altri che devono ugualmente morire, non ci colma l'anima, perché vivere? Il
solo rimedio è la morte ». Ed è cosi, per la paura che incute, che si inneggia all'eterno riposo e si chiama liberatrice la morte.
Il poeta del dolore e dell'annientamento, quel Leopardi che, perduto l'estremo inganno, quello di credersi
Kivauvoç, bella è la sorte, possibile, che l'anima nostra'
non muoia mai, germe, questa sentenza, del famoso argomento della scommessa di Pascal.
Di fronte a un tale rischio, e per annullarlo, mi si portano come prova argomentazioni sull' assurdità della credenza nell'immortalità dell'anima; ma queste argomentazioni non mi convincono, giacché sono ragioni, nient'altro che ragioni, e non è di ragioni che si alimenta il cuore. Non voglio morire; non voglio, e non voglio volerlo;
voglio vivere sempre, sempre, sempre, e voglio vivere io,
questo povero io che sono e sento di essere ora e qui, ed
è per questo che mi tormenta il problema della durata
della mia anima.
lo sono il centro del mio universo, il centro dell'universo, e nell'ora delle mie supreme angosce grido con
Michelet: « Il mio io, mi strappano il mio io! ». Che giova all'uomo conquistare il mondo intero, se perde l'anima sua? (Mt., XVI, 26). Egoismo, dite? Non c'è niente di
più universale dell'individuale, giacché quanto è di ogni
uomo è di tutti gli uomini. Ogni singolo uomo vale più
dell'umanità intera, e non serve sacrificare ognuno a tutti, se non in quanto tutti si sacrifichino per ognuno.
Quello che chiamate egoismo è il principio di gravità
psichica, il postulata necessario. « Ama il prossimo tuo
come te stesso! », ci fu detto, presupponendo che ognuno ami se stesso; e non ci fu detto: « Amati! ». E, nondimeno, non sappiamo amarci.
Lascia perdere la tua persistenza e medita su quelle
che ti dicono. Sacrificati per i tuoi figli! E ti sacrifichi
per loro, perché sono tuoi, sono parte di te e tuo prolungamento, ed essi, a loro volta, si sacrificheranno per i
propri figli, e cosÌ di seguito, senza fine, in un sacrificio
sterile da cui nessuno trae beneficio. Vivi per la Verità,
ti dicono ancora, per il Bene, per la Bellezza! Vedremo
poi la suprema vanità e la suprema insincerità di questa
ipocrita posizione.
« Questo sei tu! » mi dicono con le Upani?ad. E io dico loro: « Sì, io sono questo, quando questo è me stesso,
e tutto è mio e mia è la totalità delle cose. E in quanto
mia, la voglio e amo il prossimo perché vive in me e come parte della mia coscienza, perché è come me, è
lIUo ».
eterno,
Perì l'inganno estremo
ch'eterno io mi credei,
parlava al suo cuore dell'infinita vanità del tutto, aveva
già riconosciuto la stretta fratellanza che esiste tra l'amore e la morte, e che quando
nasce nel cor profondo
un amoroso affetto,
languido e stanco insiem con esso in petto
un desiderio di morir si sente.
È l'amore che arma la mano alla maggior parte di coloro che si danno la morte, è l'ansia suprema di vita, di
più vita, di prolungare e perpetuare la vita, ciò che li
spinge alla morte, quando si sono persuasi della vanità
della loro ansia.
Tragico e immutabile è il problema, e quanto più cerchiamo di sfuggirlo, tanto più gli andiamo incontro. Fu
il sereno Platone - sereno? - colui che, già ventiquattro
secoli or sono, nel suo dialogo sull'immortalità dell'anima, parlando di quanto sia dubbio il nostro sogno d'immortalità e del rischio che sia vano, si lasciò sfuggire
quel profondo detto: « Bello è il rischio! », KuÀ6ç yap ò
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Oh, poter prolungare questo dolce momento, addormentarsi ed essere eterno! Ora e qui, in questa luce tenue e diffusa, in questo ristagno di quiete, quando si
placa la tempesta del cuore e più non giungono gli echi
del mondo I Dorme il desiderio insaziabile e neppure sogna: l'abitudine, la santa abitudine, regna nella mia eternità; con i ricordi sono morti i disinganni, e con le speranze i timori!
E vogliono ingannarci con l'inganno degli inganni, e
vengono a dirci che niente si perde, cbe tutto si trasforma, muta, cambia, che non va distrutta la benché minima particella di materia, né svanisce del tutto il più piccolo impulso di forza, e c'è chi pretende consolarci con
questo. Miserabile consolazione! Non mi curo né della
mia materia né della mia forza, giacché non sono mie se
io stesso non sono mio, vale a dire eterno. No, non è
naufragare nel grande Tutto, nella Materia o nella Forza
infinite ed eterne o in Dio ciò a cui anelo; non è esser
posseduto da Dio, ma possederlo, divenire io stesso Dio,
senza cessare di essere quell'io che ora cosi vi parla. Non
ci servono i raggiri del monismo; vogliamo corpo e non
ombra di immortalità!
Materialismo, dite? Senza dubbio; ma anche il nostro
spirito è una sorta di materia, altrimenti non è nulla.
Tremo all'idea di dovermi separare dalla mia carne; tremo ancor più all'idea di dovermi separare da tutto ciò
che è sensibile e materiale, da ogni sostanza. Se questo
merita il nome di materialismo, se mi aggrappo a Dio
con tutte le mie potenze e tutti i miei sensi, è perché Egli
mi porti tra le sue braccia oltre la morte e mi guardi con
il suo cielo negli occhi quando i miei occhi si staranno
spegnendo per sempre. M'inganno? Non parlatemi d'inganno e lasciatemi vivere!
E lo chiamano anche orgoglio; «fetido orgoglio », lo
chiamò Leopardi, e ci chiedono cbi siamo noi, vili vermi
della terra, per pretendere l'immortalità e in grazia di
cosa, e perché, e con quale diritto esistiamo. Esistere è
altrettanto gratuito che continuare ad esistere per sempre. Non parliamo né di grazia né di diritto, né del perché del nostro anelito, che è un fine in se stesso, perché
perderemmo la ragione in un vortice di assurdità. Non
reclamo né diritto né merito alcuno, è solo una necessità, ne ho bisogno per vivere.
« E chi sei tu? » mi domandi, ed io ti rispondo, con
Obermann~ «Per l'universo, niente; per me, tutto! ».
Orgoglio? E orgoglio voler essere immortali? Tragico fato, senza dubbio, quello di dover fondare sulla fragile e
instabile pietra del desiderio d'immortalità l'affermazione della stessa; ma è grande stoltezza condannare un tale
anelito ritenendo provato, senza averlo provato, che sia
inattingibile. Sogno ... ? Lasciatemi sognare; se questo sogno è la mia vita, non destatemi. Credo nell'immortale
origine di questo anelito d'immortalità che è la sostanza
stessa dell'anima mia. Ma ci credo realmente ... ? E se mi
chiedete perché voglio essere immortale, non comprendo la domanda; è come se mi chiedeste la ragione della
ragione, il fine del fine, il principio del principio.
Ma di queste cose non è dato parlare.
Narra il libro degli Atti degli Apostoli che Paolo,
ovunque andasse, suscitava sempre contro di sé le gelosie e le persecuzioni degli Ebrei. Lo lapidarono ad Iconio e a Listra, città della Licaonia, nonostante i miracoli
che in essa aveva operato; lo flagellarono a Filippi di
Macedonia e lo perseguitarono i suoi fratelli di razza a
Tessalonica e a Berea. E infine giunse ad Atene, alla nobile città degli intellettuali, su cui vegliava l'anima eccelsa di Platone, colui che aveva affermato la bellezza del
rischio di essere immortali, e qui Paolo prese a disputare
con stoici ed epicurei che dicevano di lui: « Che cosa intende dire questo ciarlatano (cr1tEP/-10À.Oyoç)? », oppure:
« sembra che sia annunciatore di nuovi dèi!» (Atti, XVII,
18). E lo presero, e lo condussero all' Areopago, dicendo: «Possiamo sapere cosa sia questa nuova dottrina
che vai predicando? Poiché tu ci porti all'orecchio cose
assurde e vogliamo sapere di cosa si tratta» (Atti, XVII,
19-20). E nel testo è poi contenuta una magnifica caratterizzazione di quegli ateniesi della decadenza, di quei
golosi di curiosità, poicbé « in quel tempo, tutti gli ateniesi e i loro ospiti stranieri non si occupavano d'altro
cbe di dire o di udire qualcosa di nuovo» (Atti, XVII,
21). Tratto stupendo, che ci dipinge a qual punto si erano ridotti coloro che avevano appreso dall'Odissea che
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gli dèi tramano e consumano la distruzione dei mortali
affinché i posteri abbiano qualcosa da raccontare!
Paolo, dunque, si trova davanti ai raffinati ateniesi, ai
graeculos, agli uomini colti e tolleranti che ammettono
qualunque dottrina, e tutte le studiano, e che non lapIdano né flagellano né imprigionano chi professa questa
dottrina piuttosto che un'altra; ormai è giunto laddove si
rispetta la libertà di coscienza e si sente e si ascolta ogni
opinione. E lì, nell' Areopago, alza la voce e parla come
si conviene parlare ai colti cittadini d'Atene, e tutti, ansiosi di sentire l'ultima novità, lo ascoltano; ma quando
giunge a parlare della resurrezione dei morti, lapazienza
e la tolleranza degli ateniesi vlen meno, e alCUni SI fanno
beffe di lui, mentre altri, con il proposito di tacitarlo, gli
dicono: «Questa ce la racconterai un'altra volta! ». E
ugualmente gli accadde a Cesarea con il pretore romano
Felice, anch'egli uomo tollerante e colto, che alleviò la
pena della sua prigionia, che :,olle udirlo e l'udì dissertare sulla giustizia e sulla contmenza; ma quando commciò a parlare del giudizio futuro, gli disse impautit,?: 8/l<po~oç YEVO/lEVOç, ota vattene, a suo tempo ti tlchlamerò (Atti, XXIV, 23-25). E quando parlò davanti al re
Agrippa, il governatore Festo, udendolo nominare la resurrezione dei morti, esclamò: «Tu sei pazzo, Paolo; la
troppa dottrina ti ha dato alla testa » (Atti, XXVI, 24).
Qualunque sia la verità sul discorso di Paolo nell' Areopago, e se anche non fosse mai stato tenute> è certo
che in questa narrazione mirabile ben si vede smo a che
punto giunge la tolleranza etica e dove h~ termine la pazienza degli intellettuali. Vi stanno a sentire, calmi e sorridenti, e a volte v'incoraggiano dicendo: «E,curioso! »,
oppure: «Ha dell'ingegno! », o ancora: «E suggestivo! », o: «Com'è bello! », oppure: «Peccato che tanta
bellezza non sia la verità! », o anche: « Questo fa pensare' », ma non appena parlate loro della resurrezione o
della vita oltre la morte, perdono la pazienza e vi interrompono dicendo: «Lascia perdere! Di questo parlerai
un altro giorno! », ed è di questo, miei poveri ateniesi,
miei intolleranti intellettuali, è di questo che oggi intendo patlarvi.
E se anche questa credenza fosse assurda, perché la si
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tollera meno di altre che sono ancora più assutde? È
pauta? È dolore per non potetla condividere?
Ed ecco i sensati, quelli che non si lasciano ingannare,
e tornano a frastornarci le orecchie con il ritornello che
non serve consegnarsi alla pazzia e dar testate contro il
muro, essendo impossibile quel che non può essere possibile. «Virile » dicono « è rassegnarsi alla sorte, e poiché non siamo immortali, non vogliamo esserlo; inchiniamoci alla ragione senza angosciarci per l'irrimediabile, senza renderci triste e cupa la vita. Questa ossessione
è una malattia ». Malattia, pazzia, ragione ... Il ritornello
di sempre' Ebbene, no! Non mi sottometto alla ragione,
mi ribello ad essa, e tendo a creare, a forza di fede, il
mio Dio, colui che rende immortali, e tendo con la mia
volontà a mutare il corso degli astri, poiché se avessimo
una fede grande come un granello di senape, diremmo a
questa montagna: « Spostati! », e si sposterebbe, e niente ci sarebbe impossibile (Mt., XVII, 20).
Prendete quel ladro d'energie, come egli stesso turpemente chiamava il Cristo, che volle sposare il nichilismo
con la lotta per l'esistenza e vi parla di valore. Il suo cuore gli chiedeva il tutto eterno, mentre il suo cervello gli
indicava il nulla e, pazzo e disperato, per difendere se
stesso, maledisse ciò che più amava. Non potendo essere
il Cristo, bestemmiò il Cristo. Tronfio di sé, volle essere
infinito e sognò l'eterno ritorno, meschina parvenza di
immortalità, e colmo di compassione verso se stesso, disprezzò ogni compassione. E c'è chi dice che la sua è
una filosofia da uomini forti. La mia salute e la mia forza
m'impongono di perpetuarmi. La sua è una dottrina da
uomini deboli che aspirano ad essere forti, non da forti
che sono taW Solo i deboli si rassegnano alla morte finale e sostituiscono con surrogati l'anelito d'immortalità
personale. Nei forti l'ansia di immortalità sopravanza
l'incertezza di riuscire a conseguirla, e l'esuberanza di vita si riversa sull'al di là della morte.
Di fronte a questo terribile mistero della mortalità,
faccia a faccia con la sfinge, l'uomo assume diversi atteggiamenti e cerca in vari modi di consolarsi di essere nato. A volte la mette in burla, e dice con Renan che questo universo è uno spettacolo che Dio offre a se stesso, e
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LA SETE DI IMMORTALITÀ
che dobbiamo assecondare i propositi del gran Corego e
contribuire a rendere lo spettacolo il più brillante e il
più vario possibile. E hanno fatto dell' arte una religione
ed un rimedio per il male metafisica, e hanno inventato
il cavillo dell'arte per l'arte.
E non gli basta. Colui che vi dice di scrivere, di dipingere, di scolpire o di cantare per il proprio diletto, e poi
offre al pubblico quello che fa, mente. E mente se firma
il suo scritto, il suo dipinto, la sua statua, la sua canzone.
Vuole, se non altro, lasciare un'ombra del suo spirito,
qualcosa che gli sopravviva. Se l'Imitazione di Cristo è
anonima, è perché il suo autore, cercando l'eternità dell'anima, non si preoccupò di quella del nome. Illetterato
che vi dica che disprezza la gloria, mente come un furfante. Di Dante, colui che scrisse quei trentatré vigorosissimi versi sulla vanità della gloria mondana (Purgatorio XI, 85-II7), il Boccaccio ci dice che «vaghissimo fu e
d'onore e di pompa per avventura più che non si appartiene a savio uomo ». Il desiderio più ardente dei suoi
dannati è quello di essere ricordati qui, sulla terra, che si
parli di loro, ed è questo ciò che maggiormente rischiara
le tenebre del suo inferno. Ed egli stesso espose il concetto della Monarchia non solo per utilità altrui, ma per
conseguire la gloria (De Monarchia, lib. I, cap. I). E cos'altro di più? Persino di quel santo, il più distaccato, in
apparenza, dalla vanità terrena, il Poverello d'Assisi, i
Tre Compagni narrano che dicesse: adhuc adorabor per
totum mundum' Vedrete come sarò adorato nell'intero
mondo! (II Celano, I, 1)1 E perfino di Dio stesso i teologi dicono che creò il mondo per manifestare la sua glo-
cui la fede medievale nell'anima immortale svanisce.
Ognuno vuole affermarsi, sia pure in apparenza.
E quando è soddisfatta la fame, e si fa presto a soddisfarla, sorge la vanità, la necessità d'imporsi e sopravvivere negli altri. L'uomo suole dar la vita per la borsa,
ma dà la borsa per la vanità. S'inorgoglisce, in mancanza
di meglio, perfino delle sue debolezze e miserie, ed è come il bambino che, pur di farsi notare, si pavoneggia
con il dito fasciato. E che cos'è la vanità se non ansia di
sopravvivere?
Accade al vanitoso quel che accade all'avaro, che
scambia il mezzo per il fine e, dimentico di questo, si aggrappa a quello, e in quello si appaga. Il fingere di esser
altro, che porta ad esserlo, finisce per costituire il nostro
obiettivo. Abbiamo bisogno che gli altri ci credano superiori a loro per crederci tali, e dobbiamo fondare in
questo la fede nella nostra persistenza, almeno in quella
della fama. Ci è più gradito sentirci encomiare per il talento con cui difendiamo una causa che non veder riconosciuta la bontà e la verità della stessa. Una furiosa mania di originalità spira nel mondo degli spiriti moderni,
ed ognuno l'applica a una cosa. Preferiamo prendere un
abbaglio con ingegno piuttosto che cogliere nel segno
con volgarità. Già disse Rousseau nel suo Emi/e:
« Quand'anche i filosofi fossero in grado di scoprire la
verità, chi di loro se ne interesserebbe? Ognuno di loro
sa bene che il proprio sistema non è meglio fondato degli altri, ma lo sostiene perché è il suo. Non c'è un solo
filosofo che venendo a conoscenza del vero e del falso,
non preferisca la menzogna che egli stesso ha trovato alla verità scoperta da un altro. Dov' è il filosofo che per la
sua gloria non ingannerebbe di buon grado il genere
umano? Dov'è colui che nel segreto del cuore si proponga un fine diverso dal distinguersi? Qualora si elevi al di
sopra dell'ordinario, qualora offuschi il lustro dei suoi
concorrenti, che altro può volere? L'essenziale è pensare
in modo diverso dagli altri. Tra i credenti è ateo, tra gli
atei è credente» (Libro IV). Quanta verità si manifesta
nel fondo di queste tristi confessioni di quell'uomo cosÌ
dolorosamente sincero!
La nostra lotta senza esclusione di colpi per la soprav-
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na.
Quando i dubbi ci invadono e offuscano la fede nella
immortalità dell'anima, acquista vigore e doloroso impulso l'ansia di perpetuare il nome e la fama, di raggiungere un'ombra qualsiasi di immortalità. Nasce da questo
la tremenda lotta per distinguersi, per sopravvivere in
qualche modo nella memoria degli altri e dei posteri,
una lotta mille volte più terribile della lotta per la vita e
che dà tono, colore e carattere a questa nostra società in
1
Celano, Legenda Trt'um Sociorum, 4.
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LA SETE DI IMMORTALITÀ
vivenza del nome si volge al passato così come aspira a
conquistare l'avvenire; combattiamo contro i morti,
giacché sono quelli che fanno ombra ai vivi. Proviamo
gelosia dei geni che furono, i cui nomi, come pietre miliari della storia, segnano le età. Il cielo della fama non è
molto grande, e quanti più vi entrano, meno ne tocca a
ciascuno. I grandi nomi del passato ci rubano lo spazio,
e quello che essi occupano nella memoria degli uomini
lo sottrarranno a noi che aspiriamo a occuparlo. E così
ci rivoltiamo contro di loro, e da questo sorge l'acredine
con cui tutti coloro che cercano rinomanza nelle lettere
giudicano quelli che l'hanno già conseguita e che godono di essa. Se la letteratura si arricchirà di molto, verrà il
giorno della vagliatura, e ognuno temerà di rimanere
nelle maglie dello staccio. Il giovane irriverente verso i
maestri nell'attaccarli, in realtà si difende; l'iconoclasta,
o distruttore d'immagini, è uno stilita che erige se stesso
a immagine, a icona. Che i confronti siano sempre odiosi
è un modo di dire assai comune, ed infatti vogliamo essere unici. Non dite a Fernandez che è uno dei giovani
spagnoli di maggior talento, giacché, anche se mostra di
ringraziarvi, l'elogio lo infastidisce; se gli dite che è lo
spagnolo di maggior talento ... va bene! Ma ancora non
gli basta; se gli dite che è una delle eminenze mondiali,
già vi sarà più grato; e tuttavia sarà soddisfatto solo
quando gli direte che è il primo di ogni luogo e di ogni
tempo. Quanto più siamo soli, tanto più siamo vicini all'immortalità apparente, quella del nome, poiché i nomi
si sminuiscono l'uno con l'altro.
Che significa quell'irritazione quando riteniamo che
ci rubino una frase, o un pensiero, o un'immagine che
credevam? nostra, quando subiamo un plagio? Chi derubano? E forse ancora nostra, una volta che l'abbiamo
data al pubblico? Solo per nostra la riconosciamo, e teniamo maggiormente alla moneta falsa che conserva il
nostro conio che non a quella d'oro puro da cui è scom-'
parsa la nostra effigie e la nostra iscrizione. Accade assai
di frequente che non si pronuncia più il nome di uno
scrittore proprio quando esercita la maggiore influenza
sul suo popolo, quando ormai il suo spirito si è diff)lsO
ed è penetrato profondamente negli spiriti di coloro che
lo hanno letto, mentre lo si menzionava quando i suoi
pensieri e le sue sentenze, essendo in contrasto con quelle dominanti, necessitavano della garanzia del nome.
Quello che è suo è ormai di tutti, ed egli vive in tutti.
Tuttavia, dentro di sé si sente triste e abbattuto e si crede sconfitto. Non ode più l'applauso e neppure il battito
silenzioso dei cuori di coloro che continuano a leggerlo.
Domandate a un qualsiasi artista sincero che cosa preferisca: che vada perduta la sua opera e sopravviva la sua
memoria, oppure che si perda la sua memoria e sopravviva la sua opera, e vedrete, se è davvero sincero, cosa vi
risponderà. Quando l'uomo non lavora per vivere, lavora per sopravvivere. Operare per l'opera stessa è gioco e
non lavoro. E il gioco? Avremo modo di riparlarne.
Terribile passione, quella di volere che la nostra memoria sopravviva all'oblio, se possibile. In essa affonda
le radici l'invidia, a cui si deve, secondo il racconto biblico, il crimine che diede inizio alla storia umana: l'assassinio di Abele per mano di suo fratello Caino. Non fu
una lotta per il pane, fu una lotta per sopravvivere in
Dio, nella memoria divina. L'invidia è mille volte più
terribile della fame, perché è fame spirituale. Risolto
quello che chiamiamo il problema della vita, il problema
del pane, la terra si trasformerebbe in un inferno, poiché
insorgerebbe con maggior vigore la lotta per la sopravVIvenza.
Al nome si sacrifica non soltanto la vita, ma la felicità.
Che si sacrifichi la vita è naturale. « Che muoia io, e viva
la mia fama! », esclama Rodrigo Arias ne Las mocedades
del Cid, cadendo ferito a morte da Don Diego Ord6fiez
de Lara. Ogni uomo deve se stesso alla propria fama.
« Coraggio Gerolamo, ti si ricorderà a lungo; la morte è
amara, ma la fama è eterna! ", esclamò Gerolamo Olgiati, allievo di Cola Montano e uccisore, in combutta con
Lampugnani e Visconti, di Galeazzo Sforza, tiranno di
Milano. C'è chi anela perfino al patibolo per acquistare
notorietà, per quanto infame: avidus malae famae, come
disse Tacito.
E questo erostratismo, che cos' è in fondo se non ansia
d'immortalità, almeno di nome e di ombra se non di sostanza e di corpo?
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LA SETE DI IMMORTALITÀ
E si hanno, in questo, dei gradi. Colui che disprezza
l'applauso della moltitudine odierna, cerca di sopravvivere nelle nuove minoranze delle generazioni future.
" La posterità è una sovrapposizione di minoranze », diceva Gounod. Vuole prolungarsi nel tempo più che nello spazio. Gli idoli delle folle sono presto abbattuti dalle
folle stesse, e le loro statue si sgretolano senza che nessuno le guardi, mentre coloro che conquistano il cuore degli eletti riceveranno più a lungo il tributo di un culto
commosso, magari in una piccola cappella, solitaria e
raccolta, ma sufficiente a salvarli dai flutti dell'oblio.
L'artista sacrifica l'estensione della sua fama alla sua durata; agogna più di durare per sempre in un cantuccio
che non brillare per un istante nell'intero universo; preferisce esser atomo eterno e cosciente di sé, piuttosto
che fugace coscienza dell'intero universo; sacrifica l'infinità all'eternità.
E tornano a rintronarci le orecchie con il solito ritornello: orgoglio, fetido Of!\oglio! È orgoglio voler lasciare
un nome incancellabile? E come quando si interpreta la
sete di ricchezze come sete di piaceri. Non è l'ansia di
procurarsi dei piaceri, ma il terrore della miseria a trascinare noi miseri mortali alla ricerca del denaro, come non
era il desiderio di gloria, ma il terrore dell'inferno, a trascinare gli uomini del Medio Evo ai rigori del chiostro.
E neppure questo è orgoglio, ma terrore del nulla. Tendiamo ad essere tutto, poiché in questo vediamo l'unico
rimedio contro il nulla. Vogliamo salvare la nostra memoria, almeno la nostra memoria. Quanto durerà? Tutt'al più, quanto durerà il genere umano. E se salvassimo
la nostra memoria in Dio?
Queste mie confessioni sono miserie, lo so bene; ma
dal fondo di tali miserie sorge una vita nuova, e solo bevendo fino all'ultima goccia il dolore spirituale si potrà
giungere a gustare il miele che giace sul fondo della coppa della vita. L'angoscia ci conduce alla consolazione.
Questa sete di vita eterna, molti, soprattutto i semplici, la estinguono alla fonte della fede religiosa; ma non a
tutti è dato di berne. L'istituzione il cui fine primordiale
consiste nel proteggere questa fede nell'immortalità personale dell'anima è il cattolicesimo; ma il cattolicesimo
ha voluto razionalizzare questa fede facendo della religione teologia, volendo dare come fondamento alla credenza vitale una filosofia, e una filosofia del secolo XIII.
Passiamo ad analizzarlo, e ad esaminarne le conseguenze.