sullafavola - Materiale Scienze della Formazione Primaria

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sullafavola - Materiale Scienze della Formazione Primaria
S U L L A
F A V O L A
FAVOLA/FIABA
«Il nome di favola si suole applicare, richiamandosi alle favola delle nostre
culture, a narrazioni nelle quali intervengano animali o piante (talora anche uomini e
dei) e che siano svolte con intenti di esortazione, esempio o satira, elementi questi
ultimi che determinano differenze rispetto al mito e al semplice racconto»1.
I principi generali che la favola afferma costruiscono una sintassi minore dei
rapporti sociali, rappresentano un modo particolare e parziale di descrivere e di
articolare i comportamenti umani attraverso la rappresentazione di personaggi
stereotipi e simbolici che funzionano quali «operatori logici» (Levy-Strauss). Da qui,
in maniera evidente, la sua possibilità di essere adoperata nel corso dei secoli per
diverse finalità a seconda del prevalere di uno dei suoi elementi costitutivi e, di
conseguenza, il suo rappresentare anche rispetto alla Fiaba «una fase di pensiero più
matura, più critica, più realistica in quanto procura di dare una soluzione pratica alle
leggi spesso crudeli o ai pregiudizi che presiedono ai rapporti degli uomini fra di loro
e presuppone una società socialmente costituita»2. Queste, infine, le ragioni della sua
codificazione letteraria insieme con il passaggio dall’oralità alla scrittura.
Quest’ultimo avvenimento, che la storia attribuisce a Demetrio di Falero (300
a.C.), con la trascrizione di favole riprese dalla tradizione esopica (VII sec. a.C.) e da
quella egizio-orientale che fino ad allora avevano avuto una circolazione orale,
codifica un genere ancora oscillante tra i generi brevi (proverbi, aneddoti, detti
memorabili, battute ecc.) e anticipa di quasi duemila anni la codificazione della
Fiaba ad opera di G.B. Basile con il suo Cunto de li cunti (Parigi, 1636) costituendo
di fatto la prima storica e non formale differenza tra Favola e Fiaba3.
1
F. Rodríguez Adrados, Favola, in Dizionario di retorica e stilistica, UTET, Torino 2004, p. 146. Si preferisce questa
definizione rispetto a «finzione che afferma una verità generale di tipo etico, raccontando una sola azione del passato
attraverso caratteri specifici» (B. PERRY, Fable, in «Studium Generale», 12, 1959, pp. 17-37); «una forma di narrazione
binaria in cui un personaggio, generalmente debole, compie una scelta morale che un altro, più forte, valuta nella replica
o nell’azione finale» (M. NØIGAARD, La fable antique. La fable grecque avant Phèdre, Nyt Nordisk Forlag, Arnold
Busck, København, 1964); altri analizzano non i tipi di ragionamento che sono sottesi e che strutturano formalmente i
testi favolistici ma le operazioni di pensiero che il destinatario deve applicare relativamente alla Favola, (Deduzione,
Induzione, Analogia) (D. LEE RUBIN, A pact with Silence. Art and Throught in the Fables of Jean de La Fontaine, Ohio
State University Press, Columbus, 1991, pp. 7-12.). Altri definisce la la F.come «un genere ‘doppio’ perché composto
da una parte narrativa e da una parte suscettibile di interpretazione allegorica» (P. BRUNEL, La fable est-elle une forme
simple?, in «Revue de Littérature Comparée», numero spécial, 1996, pp. 9-19).
2
Rodríguez Adrados, Favola cit.,ivi.
3
La ‘favola-exemplum’ va a poco slegandosi dal mito come genere indipendente «[…] la fàbula griega, aunque con
raices profundas en la religiòn, el mito y la literatura griegas, logrò dar el salto definitivo desde las pequeñas
narraciones a la literatura gracias a haberse dejado impregnar de los temas, las ideas y las estructuras composicionales
de la fabulìstica oriental: fundamentalmente, la mesopotàmica, también la egipcia. La leyenda de Esopo procede
igualmente de una sintesis de motivos religiosos griegos e influjos orientales. Por otra parte, la fàbula grieca quiedò
perfectamente integrada dentro de la cultura griega y evolucionò con ella, constytuendo un género popular y critico,
contrapunto de otros màs oficiales y solemnes». F. Rodríguez Adrados, Historia de la fàbula greco-latina, t. II, Madrid
1979, pp. 641-2.
Esopo non sarebbe altro che l’inventore di una «letteratura povera, sconfitta,
documento di una clandestina opposizione al mondo degli eroi: in questo senso, egli
sarebbe non solo il compagno, ma l’oppositore di Omero»4. Ai miti delle classi alte
del mondo antico si sarebbe contrapposto da parte del basso popolo l’altrettanto
mitico personaggio di Esopo come costruttore di un’epopea animale.
La favola classica, greca e latina, è un genere breve che può stare accanto, e di
fatto viene tramandato insieme, ai motti di spirito, alle facezie, alle battute, agli
epigrammi, ai detti memorabili, ai proverbi dei quali contiene diverse caratteristiche
fino al punto da potersi ipotizzare la sua nascita per finalità comiche e addirittura, per
molte delle favole esopiche, nella forma della barzelletta5. La favola, occorre però
precisare, non cerca «né lacrime né commozioni né turbamenti, ma al più un breve e
chioccio riso: niente riso eroico, rabelaisiano»6.
La presenza di una «morale» sembra soprattutto distinguere il nuovo genere,
apparso nell’epoca ellenistica delle collezioni,7 dagli altri generi brevi e piegarlo
verso finalità e usi pedagogici e linguistici insieme 8.
Questa prima differenza storica implica la necessità di riferire alla favola fin
dalla sua prima apparizione il nome di un autore, anche se anch’esso incerto e
favoloso come Esopo. La favola nella sua realtà storico-letteraria appartiene nella
quasi totalità (ovviamente fanno eccezione le Fables Anonymes) sempre a uno
scrittore; ha cioè una sua forma definita e stabile, non soggetta ad alterazioni o ad
adattamenti temporali se non a quelli della sua difficile e complessa tradizione e
soprattutto, pur rivolgendosi a molti con il suo discorso generalizzato, è sempre
espressione della visione del mondo di un singolo autore e della cultura del suo
tempo.
È da sottolineare subito, anzi, come la favola non sia mai storicamente un
prodotto isolato, ma sempre più nel tempo, anche se attraverso contaminazioni, la
parte di un insieme di testi che costituiscono tutti insieme il discorso del loro autore.
La singola favola, pur facendo parte del significato complessivo del discorso,
acquista pieno senso soltanto se messa in rapporto con le altre favole dello stesso
autore. La singola favola è la parole con la quale si articola una langue più ampia,
l’una può essere intesa pienamente soltanto in relazione con tutte le altre.
Questo non avviene per la fiaba di tradizione orale, almeno fino al momento
della sua trascrizione. Per buona parte della loro storia, la reale opposizione e,
dunque, le differenze tra le due forme dovrebbero porsi sul piano del discorso (tra
Fiaba e Favole).
4
G. Manganelli, Introduzione, in Esopo, Favole, Rizzoli, Milano 1984, p. 7.
G. Nanfa, Esopo autore di barzellette?, in Grammatica del comico, Avia, Palermo 2008, pp. 189-203.
6
Ivi, p.8.
7
F. Rodríguez Adrados, Les collections de fables à l’èpoque hellénistique et romaine, in Entretiens sur l’antiquitè
classique. publiés par Olivier Reverdin ed Bernard Grange. Tome XXX. La Fable, Vandoevres – Genéve, 1983, p.
139.
8
«[…] el momento decisivo, cualitativa y cuantitativamente, de la fàbula griega es el constituido por las colecciones
que, sobre el modelo de la de Demetrio de Falero, se constituyeron en la edad helenistica. Esta es, quizá, la aportación
más importante de la totalidad de esta obra». Rodríguez Adrados, Historia de la fàbula greco-latina, cit. ad vocem, p.
642.
5
Quando, dopo molti secoli, anche la Fiaba passa alla tradizione scritta diviene
prima il discorso di un autore (Basile, Perrault, fratelli Grimm ecc.) che opera le sue
scelte all’interno del corpus orale, ma ben presto si presenta anche come il discorso
di una nazione con cui vengono identificate le singole raccolte dei vari ricercatoristudiosi.
BREVITAS/AMPLIFICATIO
Nonostante la favola assuma e utilizzi fin dall’inizio della sua storia elementi
retorici, letterari, filosofico-morali e perfino linguistici e didattico-pedagogici, la sua
portata conoscitiva appare assai limitata. Infatti, la favola non dice, in genere, nulla di
nuovo rispetto alle conoscenze diffuse e generalizzate, perché il contenuto di ciò che
essa predica è qualcosa di già conosciuto nel senso in cui, almeno, le sue cosiddette
«morali» appartengono in grande misura al sapere collettivo se non addirittura al
senso comune. Le sue cosiddette «morali» sono inoltre, soprattutto per quanto
riguarda il periodo classico, del tutto ‘amorali’: «Le monde de la fable antique ignore
les valeurs de la justice et de la vertu; elle n’admet comme valeurs positives que la
force et la ruse. En ce sens, la fable n’est ni morale ni immorale»: sa conception de la
vie ignore même cette prospective»9.
Lo stesso esito finale dell’altra delle due parti di cui sembra composta la
favola, la «storia allegorica» (semplice narrazione, dialogo o dialogo-narrazione), è
implicito nei rapporti di forza tra i personaggi protagonisti. Esso è sempre regolato
dalla legge del più forte (la forza va intesa, oltre che in senso fisico, anche sul piano
del comportamento, come astuzia o intelligenza. Resta inteso, come sottolineano
quasi tutti i discorsi favolistici, che la forza fisica viene sempre soverchiata da quella
dell’intelligenza). Chi avrà alla fine del racconto il sopravvento risulta evidente già
nel momento stesso in cui vengono introdotti i personaggi simbolici e quindi
appaiono chiari i loro rapporti di forza10.
La funzione principale della favola non appare a prima vista conoscitiva ma
persuasiva: consiste nel presentare il particolare come generale, l’accidentale come
necessario.
In questa sua ‘finzione’ comunicativa la favola si presenta in primo luogo come
‘forma breve’. La brevitas, dal mondo classico a Lessing11, è stata sempre esaltata
come una delle principali caratteristiche costitutive di questa particolare forma di
narrazione12, compresa per questa ragione tra le forme brevi. Questa brevitas non è
semplicemente relativa alla dimensione e allo spazio della scrittura ma sta in
relazione con la finalità (tèlos) che essa si prefiggerebbe (la persuasione) la quale
9
M. Nøigaard, La moralisation de la fable: d’Ésope à Romulus, Ivi, p. 225.
Cfr. ad. es., Esopo, 3 L’aquila e la volpe, 5 L’aquila il gracchio e il pastore, 8 L’usignolo e lo sparviero, 12 La
donnola e il gallo, ecc.
11
Cfr. Lessing Gotthold E., Trattati sulla favola. Ediz. italiana e tedesca a cura di L. Rodler, Carocci, Milano 2004.
12
Anche se Jedrkiewicz sostiene che «La nozione di brevità è solo indicativa e di per sé poco precisa (Nøigaard, 1964,
pp. 112-113, e prima Perry, 1959, pp. 20-21)». Cfr. S. Jedrkiewicz, Sapere e paradosso nell'antichita. Esopo e la
favola, Edizioni dell'Ateneo, Roma 1989, p. 264 n.20. «essa è un criterio relativo e vago», Ivi, p. 269.
10
sarebbe più facilmente perseguibile quanto più il bersaglio sta vicino alla freccia
scoccata dall’arco. Non importa il decoro dell’arco e la sua ridondanza d’ornamenti
(come, sostiene Lessing, accade spesso in La Fontaine) che anzi potrebbero essere
nocivi al risultato. Ciò che conta, in ogni caso, è il rapporto stretto, la distanza breve
tra il racconto-dialogo allegorico e la morale (o tema o diànoia).
La favola è, infatti, un testo che mira a persuadere stabilendo un rapporto
stretto, di tipo logico-consequenziale, tra due elementi diversi del suo discorso, quello
particolare della «storia allegorica» e quello generale della «morale» enunciata.
Quest’ultima, a dispetto dell’ordine espositivo, della successione secondo la quale
viene presentata nella favola (come promìtio o epimìtio), costituisce (nella forma di
semplice enunciato, di proverbio, modo di dire ecc.) il nucleo tematico col quale
stabilisce un rapporto e un riferimento logico l’azione, ovvero la «storia allegorica»
nella quale operano personaggi simbolici (vegetali, animali, divinità, uomini, principi
astratti ecc.). La «morale» è, dunque, non la conseguenza della «storia allegorica» ma
un primum, il reale punto di partenza da cui prende le mosse l’intero processo
costruttivo della favola. La «storia allegorica», come sostiene Fletcher13, non
esisterebbe se il tema (o morale) non predominasse sull’immagine (o simbolo) e
sull’azione (o mito). «Del proverbio, la stessa retorica antica conosceva la vicinanza
con la favola: ha in comune con questa il valore assertivo, la capacità allegorica, la
possibilità d’applicazione referenziale. I modi di formulazioine del proverbio
(asserzione, interrogazione retorica, ipotesi o esortazione) sono gli stessi della battuta
favolistica conclusiva»14.
Ciò vale fin dalle prime raccolte e anche dall’uso in ambito cinico della
tradizione orale dalla quale, si può ipotizzare, fossero scelte e inserite nelle collezioni
a partire da una «morale» precostituita proprio allo scopo di ‘illustrare’ attraverso
«storie allegoriche» un più ampio e complesso discorso morale. Si può anzi
ipotizzare che la formalizzazione e la trascrizione del genere trovi la sua più profonda
necessità proprio in questa trasformazione15.
A parte i complessi significati che implica tutto ciò, importa sottolineare come,
stando così le cose dal punto di vista della costruzione del testo, è evidente che la
favola può esistere solo e in quanto ‘amplificazione’ di una forma più breve, di un
tema, la cosiddetta «morale» costituita originariamente da un modo di dire, da un
proverbio, una sentenza, da un motto e simili. Sua caratteristica costitutiva, dunque,
al contrario delle apparenze e delle affermazioni di principio, piuttosto che la brevitas
è l’amplificatio. Si può affermare, anzi, che senza amplificazione non esiste la favola
stessa.
13
A.Fletcher, Allegory. The Theory of a Symbolic Mode, Ithaca, N. Y., 1964, p. 304.
S. Jedrkiewicz, op. cit. p. 262.
15
Questa posizione, a solo titolo d’esempio, risulta evidente in Florian che spiega come le sue favole «toutes ne sont
pas de mon invention. J’ai lu beaucoup de fabulistes; et lorsque j’ai trouvé des sujets qui me convenaient, qui n’avaient
pas été traités par La Fontaine, je ne me suis fait aucun scrupule de m’emparer». Cfr. Fables de Florian, suivies des
poëmes de Ruth et de Tobie et autres poésies, Librarie de Firmin Didot Fréres, Paris 1850, p. 10.
14
UNA FORMA INGANNEVOLE
Nella favola risultano costitutive due parti: una narrativo-dialogica (a
prevalenza narrativa o a prevalenza dialogica) ovvero la «storia allegorica» e una,
composta da un proverbio, un motto, un modo di dire, un’esortazione ecc., per brevità
indicata in genere come la «morale»16.
Comunemente, la «morale» della favola viene presentata come conseguenza
logica della storia. Essa, per queste ragioni, viene molto spesso posposta (epimìtio).
Anche quando essa viene inserita prima della «storia allegorica» (promìtio) in realtà
si tratta soltanto di un’anticipazione puramente formale e al suo interno contiene
marche che rinviano alla storia che segue; si tratta cioè semplicemente di una
conseguenza logica anticipata («Questa favoletta attesta la mia affermazione»,
Vacca e capretta, pecora e leone, Fedro, I, V). Verrebbe dopo, ma viene inserita
nell’incipit per darle maggiore evidenza così come negli enunciati geometricomatematici la conclusione viene anteposta alla dimostrazione. Si tratterebbe, anzi, di
una disposizione puramente retorica che intenderebbe sottolineare il carattere logicoscientifico della «storia allegorica» che segue.
In età modena questo procedimento era abbastanza chiaro al favolista La
Motte che sosteneva che «pour faire un bon apologue, il faut d’abord se proposer
une vérité morale, la cacher sous l’allègorie d’une immage qui ne pechè ni contre la
justesse, ni contre l’unitèm ni contre la nature; amener ensuite des acteurs que l’on
fera parler dans un style familier mais élégant, simple mais ingènieux, animé de ce
qu’il y a deplus riant et de plus gracieux, en distinguant bien les nuances du riant et
du gracieux, du naturel et du naïf»17.
Elemento costitutivo della favola, malgrado l’apparenza sembri indicare il
contrario, è proprio la «storia allegorica». Epimìtio e promìtio (che ha la più alta
frequenza soprattutto in Esopo) possono anche mancare, come dimostra la
costruzione di favole (già in Esopo, Diogene e il calvo 97, L’eunuco e il sacerdote,
113) prive di questi elementi e la cui «morale» è implicita e ne viene soltanto indicato
il destinatario.
La presenza nelle favole di promìtio o di epimìtio è da intendere soprattutto da
tre punti di vista: funzionale, residuale, mnemonico.
La funzione di promìtio e di epimìtio è in primo luogo quella di convogliare in
una direzione univoca di senso la polisemia potenziale della «storia allegorica»
che precede o segue18. La «storia allegorica» dei personaggi simbolici lascia,
infatti, sempre un residuo e/o un’ambiguità di significato che può aprire a
diverse e anche opposte interpretazioni. Promitio o epimitio, chiarendo i
16
Si può anzi affermare che «au prix de transformations incessantes, la matière de la fable ésopique s’est pliée à
l’expression d’idéologies moralisantes sans cesse renouvelées. Une des préoccupartions constantes de la fable, tant
antique que médiévale, a été, en effet, de faire coïncider narration et moralité, et on peut concevoir l’histoire de la fable
antique comme una recherche ininterrompue d’une moralisation intégrée structuralment au conte animal exemplaire»,
M. Nøigaard, La moralisation de la fable: d’Ésope à Romulus, in Entretiens sur l’antiquité classique cit., p. 225.
17
Cfr. La Motte cit. in Florian cit., p. 11.
18
Cosa già nota fin dall’antichità e sottolineata da Elio Teone (I-II sec. d.C.) nei suoi Progymnasmi (3, II 75).
termini del rapporto tra le due parti costitutive della favola, svelano e
confermano il significato dell’analogia tra le due parti voluta dallo scrittore.
È ovvio che una favola funzioni in miglior modo nella misura in cui, non
la distanza tra le due parti sia breve, ma quanto più l’analogia stabilita dallo
scrittore risulti riconoscibile, stringente e conseguente.
Inoltre, l’anticipazione o la riproposizione in termini sintetici
(assiomatici, proverbiali, sapienziali ecc.) del contenuto della «storia
allegorica» attraverso la forma sintetica della «morale» ha anch’essa la
funzione di amplificare quanto in essa rappresentato. Stessa funzione ha anche
l’omissione, il silenzio della «morale», che rinvia a una conclusione tutta
interiore e perciò evidente per il destinatario.
Infine, proprio la polisemia della «storia allegorica» ha permesso nel
corso dei secoli e degli autori di avere versioni e «morali» differenti a partire
da una stessa favola. Non mutava, se non in alcuni particolari poco
significativi, la «storia allegorica», ma cambiava la «morale», cioè l’elemento
costitutivo del discorso etico complessivo del singolo autore (cfr. Il lupo e
l’agnello in Esopo, Fedro, La Fontaine).
Residuale: la «morale» è in realtà molto spesso un proverbio, un motto,
un modo di dire e simili o più spesso una «regolarità esistenziale», un punto di
vista sul mondo del favolista presentato nelle forme di una di queste
espressioni sintetiche o semplici.
Questo è il punto di partenza logico-reale, il nucleo originario della
favola, visibile anche nella sua forma assertiva che ancora conserva e rimane
visibile nella «morale». È il residuo concettuale da cui prende le mosse la
«storia allegorica».
Mnemonico: la «storia allegorica» serviva certamente a ‘visualizzare’ ciò
che la «morale» affermava e quindi a fissarla meglio nella memoria. Ma a sua
volta, per una sorta di riflesso speculare tra le due parti della favola, la
«morale» serviva anch’essa a fissare meglio la «storia allegorica». Da essa si
poteva risalire facilmente a tutta la «storia» e viceversa.
LA LOGICA DELLA FAVOLA
Considerata da questo punto di vista, la favola è il risultato di un processo
logico che originariamente è di tipo deduttivo (da un’asserzione di carattere generale,
la «morale», alla costruzione di una «storia allegorica» particolare), ma che si
presenta secondo una forma induttiva (dalla «storia allegorica» consegue una
«morale»); costruisce cioè un percorso rovesciato obbligato in vista di una
conclusione formalmente logica (S : M = M : S; dove S = «storia allegorica» e M =
«morale»).
Quanto qui affermato varrebbe anche nell’ipotesi, da più parti formulata, di
un’aggiunta posteriore della «morale» alla «storia allegorica», come sembrerebbe il
caso dei testi di Esopo, forse originariamente privi di una autentica ed esplicita
morale. In questo caso, infatti, proprio per la ragione che il favolista è l’autore non di
una favola ma di una silloge di favole che tutte insieme formano il suo discorso,
questi avrebbe potuto selezionare le proprie «storie allegoriche» in funzione delle sue
intenzioni «morali», del suo discorso e stabilire in questo caso a posteriori la corretta
proporzione logica (M : S = S : M). Ciò spiegherebbe anche lo stretto rapporto tra
favole e aneddoti e simili, ma insieme la loro comune trasmissione dal cui corpus
potrebbero essere state prelevate le «narrazioni» diventate poi «allegoriche» con
l’aggiunta della «morale». Questa pratica, d’altronde, è attestata proprio da tutta la
tradizione favolistica in genere e, in particolare, da quella autoriale, che ha ripreso
quasi sempre molte delle «storie» predecenti piegandole a una nuova «morale».
Si tratterebbe, dunque, anche in questo caso, di un ordine ingannevole: ciò che
viene logicamente e temporalmente prima (la «morale») appare nella favola come
successivo e/o conseguente. In altri termini, la favola presenta in forma induttiva
(dall’azione-dialogo particolare al principio generale) quello che è invece il prodotto
di una deduzione. Perché?
Il termine induttivo, qui adoperato in senso generico, si riferisce nella favola
non soltanto a ‘particolare  generale’ ma soprattutto ad ‘astratto  concreto’, cioè
a un dato esperienziale che la storia allegorica intende rappresentare. L’a priori
sottinteso a tutte le «storie allegoriche» che la favola imbastisce è infatti l’asserzione
che l’esperienza insegna, anzi, per alcuni favolisti, come Esopo, l’esperienza non è
soltanto l’autentica forma del sapere ma è l’unica. Il sapere non appartiene allo studio
e alla lettura, ai trattati, al dialogo accademico tra sapienti, ma all’osservazione
attenta del reale e alla comprensione di ciò che accade nel mondo accanto a noi. La
favola fa riferimento a un sapere pragmatico, alla certezza elementare che i fatti
hanno un senso e racchiudono un insegnamento, a un sapere che stabilisce un
rapporto stretto di reciprocità tra evento e conoscenza. Questo realismo implicito è
anzi uno dei caratteri precipui e distintivi della favola sia classica che moderna.
Fondamentale resta in ogni caso la funzione dell’analogia sulla quale si fonda
tutto il meccanismo interno della favola. Oltre al legame analogico tra tema (morale)
e azione (narrazione-dialogo) su cui si regge il buon funzionamento interno della
favola, in rapporto con il suo destinatario-lettore esterno (E), l’analogia si estende
fino a diventare di tipo proporzionale (S : M = E : M). Il rapporto tra le due parti
interne della favola si prolunga infatti all’esterno, anche qui per analogia, fino alla
concreta esperienza del destinatario-lettore che, dopo averla riconosciuta e fatta
propria, può così applicarla, al momento opportuno, alla propria esperienza concreta.
La favola, dunque, si fonda su una doppia analogia senza la quale essa fallirebbe il
suo stesso scopo e la sua funzione pragmatica.
L’analogia è ovviamente di tipo diverso dal modello matematico in quanto gli
elementi simbolici della favola non sono indifferenti e il loro funzionamento
persuasivo risulta tanto più efficace quanto più i termini della proporrzione stessa si
presentano nella loro immediata evidenza. Ogni elemento aggiuntivo (o decorativo)
non è però da considerare un rumore comunicativo, qualcosa che disturbi la
comunicazione stessa e le sue finalità persuasive, ma risulta funzionale quando
conferisce una piacevolezza (estetica, percettiva, retorica e simili) che accresce
l’attenzione e l’interesse del lettore e quindi le sue capacità mnemoniche.
Ovviamente, trattandosi di forma scritta codificata fin dall’antichità (anche se
in parte a circolazione orale), il destinatario del discorso favolistico non è da un certo
punto in poi esclusivamente il terzo stato, la plebe, come fino ad ora si è
favoleggiato, considerando principalmente l’origine sociale degli autori, ma da
sempre le classi medio-alte che avevano accesso all’istruzione e quindi alla letturascrittura. Al massimo è possibile riferirsi a una doppia forma di circolazione, orale e
scritta.
LA PERSUASIONE E LA MEMORIA
Principale finalità della favola sembrerebbe, dunque, la persuasione; si
tratterebbe di un meccanismo adatto a persuadere della veridicità pragmatica, e
quindi dell’applicabilità alla propria esperienza, dei principi generali che la «morale»
sintetizza. Si è detto però che i contenuti conoscitivi della favola appartengono al
senso comune e, come tali, non avrebbero necessità di rafforzamenti persuasivi. Se
però si pone mente al fatto che la «storia allegorica» sta alla «morale» nel rapporto di
analisi a sintesi e che, come si è qui sostenuto, la morale-sintesi stabilisce un legame
analogico con la storia allegorica-analisi, che ne costituisce un’amplificatio, si
comprende bene come, all’interno dei meccanismi logici e analogici, elemento
costitutivo della favola non sia tanto la «morale» che molte volte conserva la forma
originaria del proverbio, del motto e simili con i quali è stato più volte apparentato e
dai quali in molti casi sembrerebbe prendere spunto, ma proprio la «storia
allegorica».
Certo, la «storia allegorica» amplifica e accresce la forza di persuasione
contenuta nella «morale», ma la sua funzione complessiva più profonda consiste nel
‘tradurre’ in una azione-dialogo di tipo figurale una «morale» molto spesso di tipo
concettuale. La sua funzione più autentica, in altri termini, oltre che persuasiva, è
mnemonica; consiste nel fissare in una più ampia serie di immagini (personaggi
simbolici, azione, scena, dialogo) un’asserzione (la «morale») che in genere si
presenta in termini concettuali, ma che però a volte può contenere essa stessa
elementi figurali minimi (come nei proverbi).
La stessa assenza della scena all’interno del testo favolistico (ma presente
nell’immaginario del destinatario) riporta alla dimensioine rarefatta e ‘logica’ della
«morale» e cioè alla sua origine prevalentemente di tipo sintetico-concettuale, che è
un indice e una conseguenza del suo prendere le mosse da un segmento di tipo
assertivo e di esserne la sua amplificazione figurale.
Spesso la favola mostra la sua origine sintetica che contiene in sé gli elementi
di una mnemotecnica19, ma con la sua più o meno ampia costruzione figurale illustra
19
Cfr. A. JOLLES, Forme semplici, in Id., I travestimenti della letteratura: saggi critici e teorici (1897-1932), B.
Mondadori Ed., Milano, p.374.
e fissa nella memoria un’asserzione attraverso una sequenza più o meno breve di
immagini. L’immagine non rafforza soltanto, attraverso il meccanismo analogico, il
contenuto di verità della «morale», ma la fissa nella memoria in sequenze facilmente
riattivabili e ricostruibili perché strettamente interconnesse, allegoriche e interpretate
da personaggi simbolici. Si tratterebbe, in altri termini, di una conoscenza figurale e
analogica, molto più antica e profonda, che rafforza e supporta quella semplicemente
logica. In questo senso per la favola appare più opportuno il rinvio al pensiero
analogico e alle forme del pensiero narrativo20.
Ricordare una storia o un acceso dialogo tra due o tre figure simboliche è molto
più semplice, efficace e duraturo del serbare in se stessi un puro concetto. Non ad
altro sembra che servissero già in età moderna le famose «carte» di Giordano Bruno21
e in età contemporanea gli spot pubblicitari che, non a caso, mantengono molto
spesso al loro interno figure simboliche proprio di animali come nelle favole. Una
funzione, più che persuasiva, mnemonica, fondata sul pensiero analogico.
Il bravo favolista cerca da un lato di persuadere il lettore di una sua particolare
visione del mondo, ancorata all’esperienza e alla realtà quotidiana e ‘naturale’, e in
tal senso opera una scelta di «morali» su cui imbastisce il sistema delle sue «storie
allegoriche» e quindi il suo discorso complessivo; dall’altro costruisce le sue «storie
allegoriche» in maniera che siano logicamente conseguenti alle «morali» e soprattutto
tali da rendere figurale il concettuale e di conseguenza facilmente memorizzabile.
Si tratta, proprio per queste ragioni appena esposte, di testi che si proiettano
immmediatamente al di fuori della pagina e che tengono in gran conto del loro
destinatario che implicitamente tutto il loro discorso non solo presuppone e ingloba
all’interno delle forme stesse con cui è costruito.
Ricordare è persuadere? In generale la risposta sembrerebbe negativa nel senso
almeno in cui malgrado si tenda in generale a tenere nella memoria fatti che si legano
alla nostra persona per particolari interessi, si memorizzano fatti anche spiacevoli e
negativi. La persuasione però in questi casi si realizza al contrario e cioè nella misura
in cui la memoria ci dissuade dal perseguire certi comportamenti o di ripetere
determinate esperienze. Certamente si ricorda meglio il positivo e si tende a
dimenticare il negativo. Proprio questa, a differenza degli spot pubblicitari odierni,
sarebbe un’altra funzione importante delle favola: la memorizzazione del negativo,
del non fare più del fare, il divieto molto più dell’assenso.
IL LUPO E L’AGNELLO
Nella famosa favola di Fedro (ripresa da Esopo e rielaborata da La Fontaine),
che non a caso apre l’opera dello scrittore romano e che qui viene considerata a puro
20
Cfr. A. Smorti, Il pensiero narrativo : costruzione di storie e sviluppo della conoscenza sociale, Giunti, Firenze 1994;
P. Nicolini, Il racconto di sé: considerazioni sul pensiero narrativo, Morlacchi, Perugia 2001.
21
Cfr. G. La Porta, I tarocchi di Giordano Bruno: Le carte della memoria, Jaca Book, Milano 1984; F. Storti, Le carte
della memoria: dal De umbris idearum di Giordano Bruno, prefazione di Gerardo Picardo, Litografia Azzurra, Nusco
1999.
titolo esemplificativo, appare evidente che i due protagonisti sono due animali
simbolici. Nella realtà, infatti, anche a voler ammettere una qualche forma di
comunicazione tra specie diverse, un lupo non parlerebbe con un agnello e soprattutto
non perderebbe alcun tempo ad aggredirlo e a sbranarlo. Si è sostenuto però che nelle
favole avvenga un’antropomorfizzazione del mondo animale (oltre che delle piante,
delle cose ecc.): gli animali parlano e agiscono come uomini. Al contrario, come
nell’esempio di cui sopra, si potrebbe dire che, soprattutto a partire in particolare da
Fedro, si tratta di uomini che vestono i panni degli animali22. Ciò costituisce una
situazione ‘magica’ che ha per effetto il meraviglioso. Il comportamento del lupo
simbolico, infatti, come si faceva notare, ha più dell’umano che del bestiale. Anche in
questo caso, dunque, si tratta di un ordine ingannevole. Gli animali, quando entrano
in scena, sono soltanto degli uomini in maschera, un ibrido riconoscibile a prima
vista, semplicemente un’icona. Lo sono sia nel caso del lupo e l’agnello sia nelle
favole in cui gli animali agiscono con le loro specifiche caratteristiche naturali perché
il loro stare sulla scena narrativa è sempre in funzione di quella proporzione
analogica con il lettore (S : M = E : M) secondo la quale ciò che conta è la
riconoscibilità e la riproducibilità nel mondo umano della «storia allegorica» e quindi
dei suoi personaggi.
È vero che la favola mette in opera un processo di ibridazione per cui gli
animali simbolici conservano alcuni tratti essenziali delle specie d’origine però ad
essi sommano caratteristiche antropiche, e non è da sottovalutare il fatto che in ogni
caso essi stanno sulla scena narrativa non per loro stessi ma solo e unicamente in
quanto al posto degli uomini rispetto ai quali non sono altro che un ibrido.
Il tipo animale in questo caso serve soltanto come immagine simbolica (icona):
- perché il personaggio, in particolare il tipo animale, viene presentato
ideologicamente con caratteri stereotipi e immutabili.
- per rendere immediato e condiviso con il lettore il significato del
personaggio attraverso la riduzione del tipo animale a un carattere dominante, che
ovviamente però trascura tutti gli altri23;
- per semplificare narrativamente (se non eliminare del tutto) la costruzione
dell’identità del personaggio che non ha alcuna necessità di essere descritta24;
22
Cfr. Nøigaard, 1964, p. 297, F. Della Corte, Punti di vista sulla favola esopica, in «Opuscula» IV, Genova, 1973,
pp.117-146; H. Cancik, Die kleinen Gattungen der römischen Dichtung in der Zeit des Prinzipats, in M. Fuhrmann
(Hg.), Römische Literatur. Neues Handbuch der Literaturwissenschaft, III, Franfurt, 1974, pp. 261-289.
23
Altra motivazione è stata indicata nel «bisogno di personaggi “forti”, introdotti nel racconto in modo univoco, tipico
di una cultura orale». Cfr. S. Jedrkiewicz, , p. 224.
24
Cfr. Nøigaard, 1964, p. 68.
- per identificare in maniera immediata i ruoli narrativi che, come già detto,
sono sempre regolati dai rapporti di forza.
Per far questo la favola ha bisogno di mettere in opera una sua precisa logica.
I PERSONAGGI SIMBOLICI
Per agire in maniera logica sulle forme varie del comportamento umano cui
sempre fa riferimento la “morale” della favola, l’invenzione deve far ricorso a una
ben definita e soprattutto costante tipologia.
Il linguaggio contiene fin dai suoi esordi un gran numero di uguaglianze tipo
umano-tipo animale, processo parallelo alla animalizzazione del territorio (nomi di
monti, di territori ecc.) e del firmamento (stelle e costellazioni in genere) abbastanza
fisso nel tempo e nelle diverse culture. L’osservazione di queste somiglianze,
comportamentali e fisiche, è certamente assai antico e radicato in tutte le culture.
Il comportamento animale è stato considerato per millenni, almeno fino a
Cartesio (Discorso sul metodo, 1637), la conseguenza di un meccanismo naturale. La
macchina animale si presenterebbe in ogni circostanza e in ogni, sia pur diverso,
singolo individuo della specie con le medesime caratteristiche (la volpe è sempre
furba, il lupo vorace, ecc.).
In questo processo di identificazione e di costruzione dell’identità del tipo
animale le somiglianze tra individui della stessa specie e le invarianti contano,
ovviamente, molto più delle differenze che diventano invece oggetto di scarto.
L’identità animale a sua volta viene definita in base a termini propri del
comportamento umano (astuzia, voracità, pazienza ecc.). È certamente, in termini
retorici, una prosopopea; in altre parole, una antropormorfizzazione del regno
animale, una sua riduzione a una misura umana che certamente non gli appartiene e
impedisce, anzi, di coglierne la diversa specificità.
All’animalizzazione dello spazio circostante si aggiunge in parallelo
l’animalizzazione dell’uomo nel linguaggio. L’animale è «buono da conoscere» serve
cioè a conoscere e a rappresentare il mondo umano.
La favola nasce quando alla similitudine (già presente e diffusa nei poemi
omerici) si sostituisce quella forma speciale di metafora che è l’antonomasia.
Nasce quando di qualcuno non si afferma più una somiglianza, agisce come un
orso, ma direttamente si passa al predicato analogico: X è un orso. Da questo
momento il predicato “orso” può sostituire il soggetto X e diventare il protagonista di
una storia.
Ciò può avvenire quando nel linguaggio si è fissata abbastanza stabilmente
l’equazione orso=forte ma scontroso e questa è, per l’appunto, un’antonomasia. Si
tratta di un processo necessariamente lungo e che contiene in sé implicazioni di altra
natura, soprattutto mitiche e religiose ma anche sociali. Esse appartengono soprattutto
al periodo della trasmissione orale delle favola esopiche.
MORFOLOGIA
I personaggi-tipo (animali, umani, divini ecc. – in Esopo spesso anche un tipo
di mestiere o di posizione sociale ma pure «un tale» che equivale a «un uomo, uno
qualunque», uno come tanti) declinano una morfologia che quasi non muta nel tempo
e nello spazio che quindi è potenzialmente interclassista e universale. Ciò ne spiega
in parte la diffusione e la collocazione interculturale.
La corrispondenza comportamento animale-carattere psicologico-morale
umano non ne fa soltanto dei simboli (volpe-astuzia; lupo-ferocia; cervo-narcisismo
ecc.) ma soprattutto dei tipi (l’uomo astuto, l’uomo feroce, l’uomo narcisista ecc.)
facilmente riconoscibili per convenzione ai quali il destinatario-lettore sovrappone la
propria esperienza e riconosce l’identica «morale». La tipologia umano-animale è
soltanto un linguaggio di cui si serve il favolista per declinare una morfologia
comportamentale, per decifrare il caos delle esperienze e sciogliere la matassa dei
fatti umani per riconoscerli, prevenirli, dare loro una collocazione e un significato.
Elementi costitutivi dei personaggi-tipo sono: la simbolicità, l’invarianza, la
riconoscibilità.
Il personaggio-tipo animale (il riferimento in questo paragrafo è ai soli animali)
enfatizza alcuni caratteri comportamentali delle specie, ne mette in ombra altri e li
deforma perché vi sovrappone (vi mescola o li presenta come) vizi e virtù umani.
«L’icona teriomorfa è pertanto un’antropomorfizzazione parziale e parimenti
conduce alla traduzione zoomorfa di alcuni caratteri umani al fine di renderli più
espliciti e prototipici»25.
Non si tratta, dunque, di animali che parlano, né di uomini nelle vesti di
animali26, ma di un prodotto ibrido che riprende e mescola caratteri di entrambi.
«[…] il referente teriomorfo assume un valore simbolico, tende a staccarsi dal contesto
animale di partenza per creare una figura o un segno di carattere culturale. L’icona teriomorfa tende
a prevalere nelle culture urbane, cioè in quei contesti socio-culturali che hanno perduto la relazione
25
R. Marchesini- S. Tonutti, Manuale di zooantropologia, Meltemi, Roma 2007, p. 145. Prototipici nel senso di essere
«in grado di catturare l’attenzione, aumentare l’attivazione del soggetto, favorire i processi elaborativi e
rappresentazionali e l’implementazione di assetti cognitivi relati al qui e ora». Ivi, p. 183.
26
«[…] facendo parlare gli animali come esseri umani, mettendo sulle loro labbra le argomentazioni (e, con esse, le
idee, le motivazioni, le preoccupazioni, le passioni ecc.) che ci aspetteremmo dagli uomini, la favola esopica opera una
trasgressione categoriale, mette in atto una contraddizione, un’incongruenza, un conflitto superabili solo attraverso
un’interpretazione metaforica», A. Contini, Uomini e lupi. La metafora nella favola esopica, in AA.VV., La fantasia
del reale. Esopo e la favola, Diabasis, Reggio Emilia 2008, p.51.
diretta con l’animale e dove rimane solo l’interazione mediata dal referente culturale. L’animale
iconico della tradizione disneyana non è solo una semplificazione bensì rappresenta la lenta
erosione di referenza animale tipica delle società occidentali. Al posto dell’animale prende posto un
feticcio che lo va a sostituire e che successivamente informa i processi di interpretazione del
comportamento di quegli animali, quali i pet27, che rappresentano la frontiera quotidiana del
rapporto uomo-animale. L’icona animale dà origine a nuove forme di totemismo dove
l’interpretazione del comportamento è fortemente condizionata da precisi stereotipi culturali. La
banalizzazione determina una profonda frattura tra uomo e animale, in termini di consuetudine e di
auteticità di rapporto, ma altresì porta alla totale negligenza dei bisogni referenziali dell’uomo verso
l’alterità animale. Non ci si preoccupa di conoscere l’animale perché si ritiene che l’animale non
abbia nulla da dirci, vale a dire che l’animale esiste in quanto e nel modo in cui viene pensato.
L’animale icona sostituisce l’animale concreto e azzera la possibilità di referenza animale giacché
l’icona è frutto della proiezione umana e ogni commercio con l’animale icona rafforza la solipsia
dell’uomo. L’animale che ne esce è di fatto una caricatura che non solo non viene compreso nella
sua diversità ma nemmeno in quei tratti che condivide con l’uomo»28.
La favola utilizza stereotipi animali che non rendono ragione delle diversità ma
dei tratti invarianti. Questi presuppongono, oltre che un meccanismo fisso all’interno
del mondo animale, la sua sostanziale immobilità e danno per certa l’impossibililtà
del mutamento, l’immutabilità naturale dei caratteri e quindi, in ultima analisi,
implicitamente negano ogni evoluzione di tipo darwiniano e, sul piano morale,
l’impossibilità di ogni opera di recupero se non proprio di redenzione. Si ha un
determinato carattere per natura. La natura, appunto non soltanto sta dietro i
comportamenti umani-animali, ma è lei che dirige e governa tutte le azioni
(naturalismo caratteriale e comportamentale)29.
Proiettato all’interno della realtà umana, questo modo di considerare i rapporti
animali implica una visione del tutto pessimistica dell’uomo.
A prescindere da ogni possibile contenuto, qualunque sia la ‘morale’ della
favola, questa prende sempre le mosse da un atteggiamento di sfiducia, in ogni caso
negativo nei confronti dei comportamenti umani. Qualunque cosa accada, gli eventi
umani sono infatti già prestabiliti e, cosa ancora peggiore, non possono mutare in
alcun modo. Il lupo mangerà sempre l’agnello; la volpe ruberà sempre il formaggio o
la carne al corvo. Il favolista esprime sempre una forma di pessimismo realistico.
A ben vedere è questa forma conoscitiva, questo atteggiamento
complessivamente negativo e diffidente nei confronti dei rapporti interpersonali e
27
«L'intuizione del valore terapeutico degli animali, che risale all'antichità e nel corso dei secoli ha assunto sempre più
importanza, trova oggi una strutturazione metodologica e impieghi mirati a specifiche patologie. Per indicare questo
tipo di approccio da parte della medicina e della ricerca di base si parla in modo diffuso di pet-therapy, un neologismo
di origine anglosassone coniato dallo psichiatra infantile Boris Levinson negli anni '50-'60.
Il termine pet-therapy indica una serie complessa di utilizzi del rapporto uomo-animale in campo medico e
psicologico». (http// favolafavola Redazione Ministerosalute.it gennaio/2003).
28
R. Marchesini, L’animalità come artificio, in Manuale cit., pp. 145-6.
Sono evidenti i rapporti, oltre che con il pensiero cinico, con il filone materialista della cultura classica, da Epicuro a
Lucrezio, e con la linea scientista del pensiero moderno – non a caso è scrittore di favole Leonardo da Vinci.
29
della società nel suo insieme, è proprio questo il principale messaggio del favolista di
ogni tempo.
Se si riprende il rapporto con i proverbi, si potrà considerare facilmente come
questo sia stato definito nel suo insieme una sorta di struttura neutra, nel senso che
all’interno di questo sistema aperto ogni proverbio rimanda al suo contrario che in tal
modo finisce con l’azzerare e rendere neutro il suo potenziale di significazione. Si
tratta di un genere perciò consolatorio e, si è detto, anaforico; serve cioè a rinviare a
un avvenimento già esperito e formalizza qualcosa che si sta realizzando nel presente.
Diversamente dai proverbi, ma anche dalle fiabe di tradizione orale, le favole
facendo sempre riferimento a un autore costituiscono tutte insieme, al contrario dei
proverbi, un sistema chiuso e, ciò che più conta, palesano come in un mosaico
l’immagine complessiva del reale, come bilancio e come progetto, che il singolo
favolista per mezzo di esse intende rappresentare e prospettare.
Certo, le singole favole hanno un loro esplicito significato, ma questo sta
sempre in rapporto con tutti gli altri e può e di fatto lo è sempre essere modificato da
questi.
La favola stabilisce una stretta interrelazione tra psicologia (caratteri dei
personaggi-tipo) e comportamento («storia allegorica»). Questo rapporto è sempre di
causa-effetto ed è addirittura prevedibile: posto un determinato carattere psicologico,
il suo comportamento in una determinata situazione sarà sempre e costantemente
conseguente a ciò che egli rappresenta, diversamente non sarebbe riconoscibile e la
morfologia linguistica della «storia metaforica» finirebbe col non avere più alcuna
coerenza ‘grammaticale’ (Un agnello non mangerà mai un lupo). Si tratta di vedere di
volta in volta soltanto la modalità in cui verrà realizzato il potenziale psicologico
contenuto nel personaggio-tipo. La volpe è astuta, il corvo è un uccello brutto e
sgraziato. Messi accanto, in quell’opposizione binaria fondamentale che costituisce la
struttura di base di tutte le favole, si tratterà soltanto di vedere come la volpe avrà il
sopravvento sul corvo. In natura, infatti, è stato sempre evidente che il pesce grosso
mangia sempre il pesce piccolo e che i rapporti intersoggettivi sono regolati
essenzialmente da rapporti di forza (fisica o dell’intelligenza, cui si affiancherà in
tempi moderni la lotta tra la virtù e il vizio).
Non c’è dubbio che un lupo avrà sempre ragione di un agnello, di un granchio
di una patella e così via. La favola costruisce il suo percorso di senso selezionando e
amplificando un modo in cui questo possa avvenire in maniera esemplare. La legge
del più forte è anche la negazione di ogni giustizia. Ed è anche l’affermazione
dell’impossibilità naturale dell’uguaglianza tra gli uomini (così come tra gli animali)
e al contrario della loro sostanziale diseguaglianza naturale.
Dietro la favola c’è dunque l’idea che non solo l’esperienza insegni ma che il
mondo naturale sia un campo virtuale di conoscenze comportamentali. Più che il
principio Historia magistra vitae (molte favole esopiane hanno per protagonisti esseri
umani) vale soprattutto Natura docet.
È evidente che la favola, mentre mette in scena dei personaggi-tipo (molto
spesso animali) si serve di questi per definire e conoscere la psicologia umana che per
questa via e, in questo modo, rimane razionalmente determinata e circoscritta. La
favola esprime, realizza e socializza, dunque, anche una forma di conoscenza dello
spazio psicologico umano. È una forma elementare e primitiva (legata alla
fisiognomica e agli aspetti magico-religiosi del mondo animale), anche se già
abbastanza complessa, di analisi e di conoscenza psicologica del comportamento
umano. L’animale (qualora sia esso il personaggio-tipo adoperato) è ‘buono per
conoscere’ l’uomo. Come nei fatti che racconta la «storia metaforica» così in
interiore homine non v’è nulla di inconoscibile, di irrazionale o di arazionale. Ogni
fatto, esterno o psichico, ha una sua spiegazione, è la conseguenza necessaria di
qualcosa, ha un senso. La favola, dunque, serve anche a semplificare e unificare la
molteplicità, a ridurre e omologare la diversità e soprattutto a dare un ordine e un
senso al mondo umano e non umano (razionalismo implicito).
La favola rappresenta, quindi, uno spazio di frontiera culturale, un luogo
virtuale al cui interno possono incontrarsi sul piano della «storia metaforica» umano e
non umano. La favola, in altri termini, così come la moderna zooantropologia, ruota
attorno al concetto di cultura come ibridazione30.
«Il presupposto è infatti che la cultura umana sia il frutto di un processo di fertile
contaminazione con l’alterità (animale, come già umana) e che l’animale, in tale contesto, rivesta il
ruolo di parte attiva, partner, in quanto soggetto di una relazione. L’interpretazione della cultura
perviene così a un cambiamento radicale: non più una prerogativa dell’uomo definita per contrasto
con le caratteristiche rinvenibili in un estraneo mondo animale, bensì un farsi “cultura” della
cultura, e “uomo” dell’uomo, proprio grazie all’ibridazione con l’animale, elemento integrante di
questo processo di genesi culturale. Ciò che pertanto la zooantropologia apporta al tavolo di
discussione sull’uomo è una radicale rivalutazione dei concetti di cultura, identità, alterità. Con ciò,
si superano le antitesi umano/animale e natura/cultura e si indica la strada verso una nuova
concezione dell’umano e della sua collocazione nel contesto del vivente: è la prospettiva del
postumanesimo»31.
Di là di ogni validità estetica e letteraria, appare evidente l’importanza storica e
la specifica funzione svolta attraverso i secoli dalla Favola per la costruzione di
questa possibile prospettiva postumanistica.
È in questa direzione che ci siamo mossi e che intendiamo questa ricognizione
del campo letterario.
LA SCENA E IL TEMPO NATURALI
La favola non colloca la sua azione (narrativa o dialogica) in un tempo storico
determinato. Anche se il tempo della narrazione può dilatarsi per periodi più o meno
lunghi, il quadro storico di riferimento risulta sempre imprecisato. Si può dire anzi
che proprio l’atemporalità sia proprio una delle caratteristica della favola Il lettore
non sa in quale periodo storico s’incontrino il lupo e l’agnello, né in quale secolo si
possa collocare la storia della formica e della cicala ecc.
L’apparente atemporalità della favola in realtà è una conseguenza imposta
dall’uso dei personaggi-simbolo e, in primo luogo, degli animali che ovviamente si
muovono su un asse temporale che ha a che fare con i tempi molto lunghi della
Natura. Questa dimensione è necessaria:
per garantire una notevole regolarità e fissità nel tempo degli stessi
personaggi-simbolo su cui si regge l’azione;
per garantire quindi la loro validità e resistenza temporale;
30
31
Cfr. Marchesini –Tonutti, Manuale cit.
Ivi., p. 83.
perché l’apparente destorificazione consente un intervento critico
ma in apparenza ideologicamente ‘neutro’ sulle società coeve;
perché l’assenza di ogni determinazione temporale conferisce una dimensione
e una forza ‘naturale’ (epigrammatica) alla «morale».
Le favole, si è scritto,32 non sviluppano o rappresentano poco lo spazio nel
quale si muovono i personaggi. Poiché gli animali sono i protagonisti della
maggioranza assoluta delle favole di tutti i tempi, in queste note si fa riferimento
principalmente ad essi. Le stesse osservazioni, però, risultano ugualmente valide nei
casi in cui i protagonisti siano dei (il cui valore simbolico è uguale al ruolo), uomini
(identificati per lo più per il mestiere o la funzione sociale) o cose (per la loro
immobile utilizzazione).
Nella maggior parte dei casi nelle favole la scena non è indicata o risulta
appena accennata. Una pianta, un rudere, un torrente o simili generiche e vaghe
indicazioni sono sufficienti a dare forma e a individuare uno spazio. Una realtà
sempre stilizzata (alto/basso; sopra/sotto; forte/debole ecc.), dunque, scabra ed
essenziale in parallelo con la riduzione dei personaggi umani che vi si trovano
rappresentati non nelle loro abituali e irriconoscibili forme esterne, ma sotto le vesti
di tipi animali del tutto e facilmente identificabili. All’interno della favola il narratore
mette in opera una coerenza stilistica per rendere omogeneo e compatto ogni livello
del testo. L’assenza di una rappresentazione dello spazio è forse un altro elemento a
favore di quella brevitas indicata da più parti come caratteristica propria del genere,
più sicuramente permette l’essenzialità della proporzione analogica e dunque la sua
stessa efficacia comunicativa.
Lo spazio favolistico non è sempre accennato. Nelle favole, da Esopo a La
Fontaine e oltre, in un buon numero di casi non è presente alcuna indicazione di
luogo. Da ciò si deve concludere che esso non esista o che non abbia alcuna
importanza? Che la favola si serva di un’alocalizzazione funzionale ai suoi scopi etici
generali? Di uno spazio imprecisato e quindi valido per tutti i luoghi?
In realtà, sia il narratore che il lettore cui si rivolge il testo, anzi che il testo
‘comprende’ e prevede nella sua analogia, sanno benissimo che gli animali di cui
trattano le favole vivono per lo più in un ambiente naturale (la campagna, il bosco, il
mare e simili) che costituisce la scena implicita ma contestuale sulla quale i
personaggi e le azioni della quasi totalità delle favole vanno naturalmente collocate.
Senza questa ovvia collocazione i protagonisti delle favole avrebbero un valore
puramene nominale e perderebbero di efficacia narrativa e quindi di senso. Una
volpe, un lupo o un orso andranno collocati certamente e senza grande sforzo in un
ambiente che l’immaginario del lettore presuppone e riconosce come ‘naturale’ e che
32
«Conviene anzitutto sottolineare l’assenza di riferimenti spaziali o temporali: volendo figurarsi la situazione, si
dispone solo dell’immagine di un albero, senza ulteriori specificazioni». L. Rodler, La favola, Carocci, Milano 2007, p.
9; M. Nøigaard, in Entretiens sur l’antiquité classique cit., p. 225.
si costruisce nel suo immaginario quale scena narrativa insieme con l’apparire dei
protagonisti animali. Si può anzi sostenere che il porsi stesso del genere favola, prima
ancora dei suoi specifici contenuti, presupponga una scena ‘naturale’ sulla quale
vadano di volta in volta collocati i protagonisti simbolici. Anche la sua assenza è,
quindi, un fatto naturale.
Altra funzione pregnante della scena implicita è quella iconica. La natura non
viene in genere rappresentata, ma costituisce il fondale sempre presente di ogni
azione o dialogo dei personaggi animali. Su questa scena sostanzialmente
immutabile, o scarsamente variabile, il narratore non fa che porre i suoi protagonisti.
Per i casi nei quali il narratore avverte la necessità di dare qualche indicazione
è da notare che si tratta, in genere, di una qualche collocazione che si discosta in parte
o di molto dalla scena naturale prevedibile o di una sua maggiore tipizzazione. In
ogni caso, l’esiguità delle indicazioni spaziali, o la loro essenzialità, sta in rapporto
con la scena implicita prefigurata, rispetto alla quale gli esigui indicatori spaziali
svolgono in genere la semplice funzione di specificatori.
Oltre ad avere valore e significato puramente spaziale, la scena implicita
svolge una funzione chiaramente simbolica. Lo sfondo ‘naturale’ riduce infatti ogni
affermazione e ogni morale dei testi favolistici a un dato, le toglie dalla loro pura
accidentalità e casualità, da ogni prospettiva storica, svela e presenta le sue allegorie
come epigrafi già trascritte al suo interno ab eterno, quali verità naturali.
In età moderna la scena implicita viene ad assumere anche una forte
connotazione ideologica. Lo sviluppo socio-economico e lo sfruttamento più
intensivo delle forze naturali si accompagna, tra Cinque e Seicento, infatti, a nuove
forme di conoscenza della natura, filosofiche e scientifiche, che nell’ambito dei tipi
letterari rimettono in moto il genere favolistico che fin dai tempi di Esopo sembra
dialogare con la natura. La favola moderna da La Fontaine in poi non è più soltanto
un proiettare sul mondo animale comportamenti umani e trarne da questi degli
insegnamenti generalmente validi ma, come sarà per il poeta-scienziato Giovanni
Meli, un interrogare la Natura stessa con gli strumenti non dello scienziato ma della
letteratura, un riconoscere delle affinità tra i due mondi, da Cartesio così nettamente
‘distinti’, che possa realmente giovare a una migliore comprensione del genere
umano e contribuire alla sua crescita morale e sociale. La favola diventa in questo
modo una maniera tutta letteraria di partecipare alla nascente rivoluzione scientifica
che accompagna e sorregge un più intenso sfruttamento delle forze naturali che a sua
volta costituisce la base e permette una più netta ascesa e affermazione economica e
sociale delle borghesia europea.
Questo tipo di favola si diffonde e raggiunge il suo apice nel Settecento
proprio perché in questo secolo più forte e diffuso tra gli intellettuali è il problema
della Natura in tutte le sue forme, dai progressi scientifici a quelli filosofici e
pedagogici, e il bisogno di trarne delle ‘leggi’ valide in se stesse e per tutti.
La scena implicita in questo contesto allargato, ma insieme storicamente
determinato, acquista un significato preciso, si presenta come icona della Natura,
come spazio di una quête, certamente ancora di tipo allegorico-morale ma insieme
decisamente a sfondo scientifico-naturale, intrapresa dal narratore con l’aiuto del
comportamento animale.
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