Journée d`étude 23 SETTEMBRE 2005

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Journée d`étude 23 SETTEMBRE 2005
Education et Sociétés Plurilingues n°23-décembre 2007
Plurilinguismo e Comparatismo
Nuovi approcci in didattica della letteratura
Manuela LUCIANAZ
Les comparatistes sont des perceurs de frontières
[…] jeter des ponts c’est aussi prendre des risques
de transformer les paysages auxquels on s’était
accoutumé.
Y. Chevrel (1989, p. 75)
C’est depuis un demi-siècle seulement que la Littérature Européenne Comparée a fait
son apparition dans les écoles supérieures et dans les universités italiennes avec un
retard remarquable par rapport à la France où des départements de Littératures
comparées existent depuis la fin du XIXe siècle. Certains facteurs concomitants ont
favorisé cette diffusion, parmi lesquels la transformation de la société qui est
davantage multiculturelle et multilinguistique, la recherche des principes pour la
construction d’une Europe culturelle aussi et le développement des philosophies
basées sur les différences avec l’appel de Deleuze, Derrida et Lévy Strauss à renoncer
à se référer uniquement aux cultures occidentales.
It has been only about fifty years since Comparative European Literature made its
entrance into Italian institutions of higher education and universities. Remarkably late,
compared to France, where Departments of comp’ lit’ have existed since the end of
the 19th century. Certain concomitant factors have combined to favor its
development, among which the transformation of society which has become more
multicultural and multilingual, the quest for principles allowing to erect a cultural
Europe and the development of philosophies based on differences, backed by the
appeal by Deleuze, Derrida and Lévi-Strauss to stop referring exclusively to Western
cultures.
E’ solo negli ultimi cinquant’anni che nelle università e nella scuola
superiore italiana si è iniziato a parlare di Letteratura Europea e Comparata,
con un discreto ritardo rispetto ai francesi che hanno dipartimenti di
Littératures comparées già a partire dalla fine dell’800.
Alcuni fattori concomitanti hanno influenzato tale diffusione, tra i quali la
trasformazione della società, sempre più multiculturale e multilinguistica,
la ricerca di fondamenti per la costruzione di un’Europa anche culturale e
lo sviluppo delle filosofie della differenza con l’invito di Deleuze, Derrida,
Lévi Strauss a rinunciare all’assoluta referenzialità delle culture
occidentali. A ciò va aggiunto la fortuna degli studi psicanalitici e la loro
M. Lucianaz, Plurilinguismo e Comparatismo
incidenza sulla critica letteraria: vale almeno la pena di ricordare i lavori di
Julia Kristeva, che hanno dimostrato che il rifiuto dello straniero è sempre
rifiuto di sé (famoso è il suo libro Etrangers à nous même) o quelli di
Francesco Orlando in Italia, finalizzati a mostrare che il nativo comprende
meglio la propria realtà a contatto con l’estraneo (da buon francesista egli
cita, come esempi, le Lettres persanes di Montesquieu, le Lettres anglaises
di Voltaire, De l’Allemagne di Madame De Stael e Le roman russe di
Vogué – letture che, tra l’altro, se entrassero nei nostri programmi,
permetterebbero agli alunni di riflettere molto su tale aspetto). Bisogna poi
tener presente la diffusione europea e mondiale che hanno avuto le tesi di
alcuni comparatisti di fama riconosciuta quali Curtius e Auerbach, i cui
testi risalgono agli anni ’50 ma che sono ancor oggi di grande attualità e
costituiscono un punto di riferimento fondamentale per chi si occupa di
letteratura comparata. Nonostante le differenze di impostazione (diacronica
quella di Curtius, sincronica quella di Auerbach) il loro obiettivo resta
quello di mostrare, attraverso l’indagine della letteratura, l’unità culturale
dell’Europa. Infine va riconosciuto che la modernità ha progressivamente
messo in luce quanto fluttuanti siano le identità delle cosiddette letterature
nazionali. Quasi tutte le esperienze letterarie si infrangono in altre,
attraverso traduzioni, riscritture, imitazioni, riprese, che fanno della
letteratura un immenso paese dove le rispondenze e i dialoghi scavalcano i
confini delle singole lingue.
Oggetto di studio del comparatismo letterario è dunque quella che Goethe
chiamava la Weltliteratur, la letteratura del mondo (2). Secondo questa
prospettiva, la filologia non può dunque che essere “rivolta alla letteratura
del mondo”, come ricordava Auerbach nell’opera scritta in vecchiaia, che
rappresenta una sorta di suo testamento spirituale:
In ogni caso il nostro domicilio filologico è la terra, non può più esserlo la
nazione […] che diventa operante solo nella separazione, nel superamento
(Auerbach 1952) (3).
D’altronde di letterature nazionali si è iniziato a parlare solo a partire
dall’800, mentre prima si era sempre parlato di «Europe des lettres». Già
tra ‘700 e ‘800, insigni letterati quali Voltaire, Herder, Hamann, Alfieri,
Fichte, Madame de Stael avevano parlato della necessità di ricostruire
l’Europa letteraria europea, superando i particolarismi. Per questo motivo
Curtius nella sua famosa opera Letteratura Europea e Medioevo latino si
era schierato contro i programmi scolastici nazionalisti e contro l’ordinaria
suddivisione Evo Antico-Medioevo-Evo moderno, ponendo l’accento sui
topoi ricorrenti nella letteratura europea, che rendono inadeguato lo studio
della “letteratura di una lingua” separata dalle altre (egli parla di loci
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communes, che risalgono alla tarda latinità e che ricorrono in tutta la
letteratura europea, costituendo così una sorta di “memoria dell’Europa”,
quali, per esempio, il puer senex, il locus amoenus, lo specchio, le armi e le
lettere, ecc.).
L’internazionalità è in effetti strettamente inerente al fenomeno
“letteratura” in Europa, tanto che la maggior parte dei fenomeni letterari a
ben guardare si capisce solo in prospettiva europea. Basti pensare al
Medioevo, al Rinascimento, al ‘700 inglese e francese, o ancora a generi
quali la tragedia, il poema epico, il romanzo, per non parlare delle
avanguardie e di tutto il ‘900. Se guardiamo poi ai luoghi di produzione
culturale, già ben prima del ‘900, città come Firenze, Roma, Parigi,
Madrid, Londra, Vienna, Praga, Budapest, Pietroburgo e Mosca, di volta in
volta, o in parallelo, sono divenute capitali della cultura europea e meta di
emigrazione intellettuale ed artistica, e di conseguenza luoghi di
ibridazione culturale, dove, dal confronto delle singole espressioni
nazionali, si sviluppavano muove forme di creatività e movimenti di
valenza sopranazionale.
Inoltre in molti di questi luoghi il multilinguismo caratterizza la società, e
pertanto condiziona il rapporto tra lo scrittore ed essa (Cfr. C. Guillen
1985: 366) – bilingui o multilingui furono, per esempio, la Strasburgo in
cui studiò Goethe, la Praga di Kafka, Parigi stessa, in cui approdarono tanti
russi e italiani. In realtà il multilinguismo segna tutta la storia letteraria
dell’Occidente, anche se questa attenzione al multilinguismo e al
plurilinguismo in letteratura è piuttosto recente (la letteratura comparata di
fine ‘800 e inizio ‘900 non aveva tenuto troppo in conto questo fenomeno).
Il più evidente è quello (ridotto spesso a bilinguismo) degli scrittori che si
sono espressi in più di una lingua (valga per tutti l’esempio di Raimondo
Lullo, che scrive in latino, arabo, provenzale, catalano). Ma, come dice il
comparatista spagnolo Guillen, c’è un altro multilinguismo, quello latente,
caratteristico di società, città o nazioni intere, così come del poeta,
drammaturgo narratore per il quale il rapporto con più di una lingua fu
l’humus della sua cultura […] E’ ben noto infatti che “l’equilinguismo”, o
dominio identico di due mezzi di comunicazione, salvo eccezioni come
Samuel Beckett, è rarissimo. Pensiamo al caso di Milton, che scrive in
latino e greco e pubblica sonetti in italiano che saranno elogiati da
Carducci: sono pochi, ma significativi indicatori del suo modo di pensare e
procedere, del retroterra culturale, dell’humus che sta dietro i suoi scritti;
pensiamo a Rilke che compone versi in francese, o ancora ai Cantos di
Pounds, che sono vere e proprie impalcature poliglotte.
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Vi sono poi molti scrittori che hanno scelto di scrivere in lingue diverse
dalla loro lingua madre: Conrad in inglese, Beckett e Jonesco in francese,
Brandes in tedesco, e ancora Lukàcs, Kafka, Kundera, per citare solo alcuni
dei più noti. Dalla seconda metà del ‘900, con la globalizzazione, questo
fenomeno, a causa dei frequenti mescolamenti politici, degli spostamenti di
autori (in seguito a viaggi, o a esili forzati) o del melting pot, è cresciuto
ancora di più. Per il fenomeno delle egemonie coloniali e post-coloniali
soprattutto, che hanno avuto anche importanti risvolti culturali e linguistici,
alcuni scrittori appartenenti ai paesi colonizzati scrivono principalmente in
inglese e in francese, molti anche in portoghese, e in tali lingue essi trovano
una loro appartenenza e una loro identità post-coloniale.
Per tutti questi motivi, uno studio della letteratura incentrato unicamente
sulla dimensione nazionale sembra non rendere ragione della complessità
del fenomeno letterario. L’esempio di Conrad lo dimostra bene. Egli era un
“outsider” in un certo senso, estraneo alla tradizione inglese: di origine
polacca, si era familiarizzato con l’inglese tardi, solo dopo i vent’anni, ma
aveva scelto come maestri scrittori francesi (Maupassant, Flaubert); il suo
pensiero va pertanto misurato non tanto con quello degli intellettuali
britannici ma piuttosto con le teorie elaborate in ambito continentale da
Nietzsche, Dovstoievski, Kafka, Mann – anche se egli non ne conosceva
l’opera o, conoscendola, la rifiutava. Da qui la necessità, come sostiene
Marenco (1996), di ampliare gli studi su Conrad per comprenderlo a fondo,
facendo presente che ancora oggi esiste nella critica una notevole
differenza tra una lettura di Conrad fatta sulla scorta della tradizione
europea e una lettura affidata a principi e a un gusto più insulari, incline a
interpretazioni semplicistiche e consolatorie, che viene continuamente
sorpresa dall’ironia negativa presente nei testi.
Questo sguardo più vasto sulla letteratura apre però tutta una serie di
problemi, sia a livello teorico sia a livello di applicazione pratica.
Che cosa insegnare?
Il problema è quello del canone, che ha dominato le discussioni recenti di
critica letteraria, e che da noi si complica per la peculiarità italiana di un
insegnamento incentrato sia sui testi sia sulla storia letteraria.
Sempre più chiara è l’esigenza (esplicitata soprattutto dai Cultural Studies)
di andare oltre al nostro canone etnocentrico, sociocentrico, sessocentrico e
monolingue, che privilegia un’ottica maschile, delle classi dominanti, delle
élites intellettuali, con l’invito da più parti a ricontenstualizzare
culturalmente il canone e a pluralizzarlo, in Italia formulato da critici quali
Armellini, Luperini, Sinopoli. Tuttavia non è affatto chiaro quali debbano
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essere i confini di questo ampliamento. Oggi sembra necessario
circoscrivere il discorso all’Europa proprio perché si sente la necessità di
ricostruire il tessuto culturale europeo per ritrovare le proprie radici; in
letteratura però con Europa spesso si intende implicitamente l’Europa
meditteranea e occidentale, secondo l’impostazione di Curtius, mentre un
vero insegnamento di letteratura europea presupporrebbe fors’anche la
necessità di aprirsi alla produzione dell’Europa orientale. Ma qui sorgono
ulteriori ostacoli: sono letterature che neppure gli studiosi conoscono ed in
ogni caso è noto che la letteratura dell’est non può essere indagata secondo
le nostre categorie tradizionali. Infatti l’Est ha sempre avuto un destino
plurilingue, comunità interlinguistiche e interculturali; nel Centro Europa,
che rappresenta veramente il punto di contatto tra l’est e l’ovest, la
sovrapposizione o prossimità di culture molte volte è la norma (Praga,
Bupadest, ecc.), nei Balcani numerose sono le isole etnico-linguistiche,
poiché gli stati stessi superano la triade unica lingua-cultura-religione. La
mia Europa del Nobel Milosz, come bene ha detto Scudieri (2003), è la
dimostrazione vivente dell’impossibilità di regolarizzare sotto codici
nazionalisti la cultura dell’est europea. Egli rivendica una differenza
specifica, un’assenza di forma interiore quale cifra poetica, quale specchio
della mancanza di una società consolidata.
Come insegnare?
Accanto al problema della scelta dei contenuti, si aprono alcuni grandi
interrogativi sui metodi: quali strumenti utilizzare, come affrontare il
problema della lingua e delle traduzioni, quali le strategie per un proficuo
insegnamento-apprendimento della letteratura?
In definitiva si tratta di esplicitare cosa si intende per comparatismo.
L’approccio che finora ha dominato, specialmente a scuola, è un’analisi
basata su alcuni parametri utilizzati per costruire le unità didattiche –
“categorie sopranazionali” secondo la definizione di Guillen o “concetti
operativi” secondo quella di Souiller Troubetzkoy (Soullier 1997). Essi
diventano strumento di analisi delle relazioni che intercorrono tra le diverse
opere letterarie, miranti a mettere in luce le analogie o le differenze tra
opere, e possono essere di diversa tipologia: scuole e movimenti che hanno
diffusione sopranazionale; generi, modi e filoni di scrittura comuni ad
autori diversi per provenienza e per collocazione storica; temi (categoria
sotto la quale includiamo anche i topoi, i miti, i simboli) che continuamente
ritornano, come dimostrano le storie editoriali, la fortuna e le influenze
delle opere da un paese all’altro, da una cultura ad un’altra.
Sappiamo bene che qui si aprono ulteriori questioni. Prima di tutto vi è un
dibattito critico aperto su ciò che si debba intendere per scuola, tema,
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genere (che differenza c’è per esempio tra tema, topos, simbolo, mito,
motivo? La questione, a livello critico, non è risolta). Inoltre da più parti ci
si chiede se davvero tale impostazione sia funzionale all’approfondimento
dello studio letterario.
Attualmente, l’analisi di genere, assieme a quella tematica, sembra essere la
forma prediletta di indagine degli studi comparatisti, che dalla seconda
metà dell’800 in poi hanno abbandonato lo studio di autori, periodi,
movimenti per concentrarsi su di essa. La Sinopoli (2002: 17) per esempio
sottolinea il fatto che il genere letterario permette di meglio controllare il
rapporto tra dimensione diacronica e dimensione sincronica della
letteratura, tra produzione e ricezione dei testi, tra storia delle forme e
storia dei temi. Lo stesso Luperini, pur adottando un’impostazione
ermeneutica per il suo manuale, dichiara la storia dei generi di gran lunga
preferibile ad altri modelli di organizzazione del materiale letterario (4).
Non è dunque un caso se dal 1995 in poi sono comparse nuove importanti
storie della letteratura italiana per generi (Brioschi & Di Girolamo 1994-97,
Barberi Squarotti 1990-96, Enrico Malato), che hanno avuto una discreta
diffusione.
Nonostante ciò, gli insegnanti sono decisamente restii a rinnovare i
programmi e il curricolo in tale direzione. D’altro canto, le perplessità non
sono solo quelle dei docenti, ma anche degli stessi critici. Si può, come per
esempio si chiede La Penna (1994: 80-81), smembrare la trattazione di
Virgilio tra genere bucolico, genere didascalico e genere epico, come se le
tre opere avessero elementi comuni trascurabili nello stile e nei rapporti
con l’ideologia augustea?. Lo stesso dubbio è espresso da Segre e
Martignoni (1994: 125ss), che, in polemica con Luperini, manifestano
grande scetticismo a tal proposito.
Le opere infatti spesso nascono con un’altra motivazione che non quella
dell’aderenza ad una forma o una struttura. Esse inoltre, pur aderendo ad
alcune norme che ne decretano l’appartenenza ad un genere, per altri
aspetti se ne allontanano: il genere è trattato con libertà e continuamente
travalicato, come fa notare anche Segre (1985: 131), ed è dunque
necessario assumere anche altri criteri per scoprire la complessità delle
opere, poiché se ci si limita ad esso si rischia di creare fuorvianti
schematismi e di non offrire agli alunni una visione organica dell’opera
stessa. D’altronde tutte le storie del dibattito su questo tema hanno
evidenziato la vanità dello sforzo di giungere ad una definizione
soddisfacente del genere preso in esame, da qualunque punto di vista lo si
consideri.
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Per questo motivo sembra interessante considerare anche altre strategie, più
conformi a produrre un vero approfondimento dell’opera senza ricadere in
restrittivi modelli storico-culturali nazionali, assumendo un punto di vista
intertestuale e interlinguistico.
In questo senso interessanti risultano essere l’approccio dialogico –
intertestuale elaborato specialmente da Bachtin – Kristeva, e la traduzione,
pratica attualmente non utilizzata ma la cui introduzione nello studio
letterario potrebbe avere ricadute interessanti.
Il metodo dialogico-intertestuale
Si fanno libri solo su altri libri e intorno ad altri libri. […]
I libri parlano sempre di altri libri e ogni storia racconta una storia già
raccontata (Eco 1983: n. 49)
La lettura intertestuale è quella che coglie gli echi che si rimandano tra loro
le opere letterarie. In base a tale criterio non si considera più l’opera
letteraria come separata ed autonoma, bensì quale costruzione complessa,
che rende esplicita la sua relazione con altri testi che lo precedono e che lo
attraversano, sia in forma di cenni espliciti e citazioni, sia in forma di
allusioni, pastiche, parodie, riscritture. Questo approccio punta a mettere in
evidenza quella trascendenza testuale del testo che Genette in Palimpestes
definisce a grandi linee come tutto ciò che mette in relazione, in modo
manifesto o occulto, un testo con altri testi (Genette 1982).
Essa conobbe grande sviluppo specialmente in Francia, in seguito alle
ricerche della Kristeva, che introdusse il termine intertestualità attraverso
una definizione di testo rimasta famosa:
Tout texte se construit comme une mosaïque de citations, tout texte est
absorption et transformation d’un autre texte. A la place de la notion
d’intersubjectivité s’installe celle de intertextualité et le langage poétique
se lit au moins comme un double (Kristeva 1969: 146) (4).
La Kristeva è debitrice per lo sviluppo delle sue teorie all’opera di Bacthin.
Fu lei stessa d’altronde, nel saggio Le mot, le dialogue, le roman (incluso
in Semiotiké), a precisare l’apporto e la significatività per la sua trattazione
del pensiero del critico russo, favorendo così anche la diffusione della sua
opera, allora quasi del tutto ignota in Europa. Sebbene gli anni ’80 siano
stati dominati, a livello critico, dalla scoperta e dalla lettura di Bachtin, egli
rimane a tutt’oggi poco noto, specialmente in ambito scolastico.
La critica di Bacthin è molto affascinante, anche perché essa nasce fuori
dall’Accademia, nasce dall’esilio (come dall’esilio nasceva d’altronde la
filologia di Auerbach). Egli mette in evidenza tutti i limiti del formalismo,
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ritenendo che qualsiasi teoria della forma ha senso solo se inserita in una
grande teoria della cultura: le categorie con cui leggere il mondo e i testi
letterari sono per lui quelle del dialogismo, dell’alterità, della polifonia,
dell’intersoggettività (5), poiché il “segno” è per lui sempre un fatto non
individuale ma sociale, oggettivo, prodotto al di fuori della coscienza.
Partito dalla profondità dell’analisi dell’umanità in Dovstoieski che l’aveva
folgorato, egli evidenzia una dimensione del linguaggio e dell’arte come
anteriore al soggetto stesso e all’inconscio; con le ricerche che condusse
con alcuni critici suoi amici sul romanzo (6), egli elaborò una visione del
testo come entità a sua volta dialogica e polifonica, intreccio di voci,
discorso che oltrepassa la coscienza del soggetto stesso che lo produce.
Alla nozione statica di testo egli infatti sostituisce l’idea secondo la quale la
parola letteraria risulta costituita dall’incrocio di “superfici testuali” e dal
“dialogo tra più scritture”, è il luogo dinamico in cui si effettuano gli
scambi tra gli enunciati dei personaggi e quelli dell’autore (7). Egli ha
inoltre contribuito a mettere in luce come le pratiche intertestuali portino
necessariamente a pratiche di “sovracodificazione”: fanno cioè la sintesi di
testi, temi, generi precedenti e finiscono per trasformarli e rinnovarli
(Bachtin 1929/1979).
Tutto il patrimonio letterario è letto come un dialogo continuo tra scrittori
diversi, ma anche tra arti diverse, dialogo che emerge, in maniera più o
meno esplicita, ad intermittenza nel testo. La letteratura, vista in questa
prospettiva, è come il romanzo contemporaneo, polifonica, per riprendere
una categoria che Bacthin usa per il romanzo di Dovstoiesvki: essa può
essere vista come una sorta di enciclopedia, una rete di connessione tra testi
diversi. Il patrimonio letterario deve essere guardato con gli occhi con cui
Gadda guardava il mondo: un “sistema di sistemi”, in cui ogni sistema
singolo condiziona gli altri e ne è condizionato, e rappresenta una tappa
successiva rispetto ai precedenti.
A celui qui lui demanderait d’où lui est venu ce qu’il a écrit, l’auteur
répondrait: « J’ai imaginé, je me suis ressouvenu et j’ai continué (Flaubert,
1973, I: 302).
E’ proprio la ‘continuazione’ di cui parla Flaubert come caratteristica
fondante del processo di produzione artistica ciò che l’intertestualità mette
in evidenza, continuazione che non è passiva, ma diviene appunto creatrice,
produttrice di nuovi significati. Essa considera la scrittura sì come
riscrittura, ma non come mero collage, come vuole Compagnon (1979:
32.), bensì come ‘appropriazione’ e memoria generatrice di nuova
testualità.
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Più in generale si tratta di concepire l’opera letteraria non come un oggetto
di conversazione, ma un soggetto in conversazione, un’entità “in
colloquio”, che continuamente procede in avanti.
Colloquio con molti amici era anche, per esempio, ciò che Virginia Woolf
scrivendo l’Orlando diceva di fare, aggiungendo che alcuni sono morti […]
di tale fama, che appena oso nominarli […] Altri sono vivi (Woolf 1989:
453, citato anche da E. Raimondi (xxxxx: 211) che ripropone questo
concetto di letteratura come conversazione: “La letteratura è quello spazio
che sta tra la solitudine e l’amicizia. Ma come avrebbe detto il vecchio
Montaigne solitudine e amicizia sono due condizioni molto difficili perché
diventano nello stesso tempo conversazione”.
In tal caso la dimensione “nazionale” della letteratura sfuma per lasciar
spazio a letture più dinamiche, più aperte, sempre tese però a mettere in
evidenza “l’individualità” di un’opera, la sua profondità ( e non ad operare
parallelismi più o meno interessanti che però offrono solo una visione
parziale della stessa). All’insegnante spetta dunque partire dai testi (lo
diciamo da trent’anni ma chi lo fa realmente?...) e cercare con gli alunni
questa “rete intertestuale”, assumendo una impostazione didattica
problematicista e non nozionistica. In tal modo infatti si cerca di rispondere
alla domanda: “Perché l’autore ha scritto ciò, ha scritto così?”, oltre che
“Come ha scritto e che cosa?”. D’altronde, per gli alunni, grazie alle nuove
tecnologie, è ormai facile reperire dati di qualunque tipo, mentre al docente
rimane il compito fondamentale di tracciare il “fil rouge” tra opere diverse,
tra una letteratura e l’altra, tra letteratura e altre arti, assumendo una
prospettiva più globale. Solo così si svilupperà uno sguardo capace di
vedere la complessità delle cose, di accettare la diversità e di concepirla
come ricchezza.
Inoltre questo potrebbe anche diventare il criterio con cui scegliere gli
autori e i testi da proporre: dovranno entrare a far parte dei programmi
quelli che raccolgono e riportano alla luce tradizioni precedenti e/o
divengono a loro volta generatori di tradizione, punto di riferimento per i
successori, anche per gli stessi detrattori (l’esempio di D’Annunzio nel
‘900 è lampante a questo proposito: Gozzano esultava per non essere nato
gabrieldannunziano ma la sua poesia è piena di echi e rimandi a quella del
vate).
Il metodo dialogico-intertestuale evita anche banali psicologismi o facili
ermeneutiche sull’autore: considerando infatti l’intero patrimonio letterario
come una rete intertestuale, quest’ultimo, benché importante, è considerato
comunque solamente il mezzo e non il centro della produzione. Al
contrario essa pone in grande rilievo il lettore, poiché, tranne nel caso della
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citazione esplicita, è solamente attivando, per usare una metafora dantesca,
il “libro della sua memoria” che si possono ravvisare le riprese, le allusioni
e tutta la trama intertestuale sottesa al testo (Guillen, op. cit.: 359 ). In tal
modo si riconosce all’alunno–lettore quel ruolo centrale auspicato dalle più
recenti riforme.
Inoltre, a livello didattico, il criterio dialogico-intertestuale potrebbe avere
una grande valenza pedagogica: esso è un metodo, uno sguardo profondo
sulla letteratura che, una volta acquisito, può essere applicato anche al sé.
In Voleurs de mots Michel Schneider (un’opera forse meno nota
nell’ambito degli studi sull’intertestualità, in cui l’autore riflette sui
rapporti tra i testi servendosi della psicoanalisi) recupera la nozione di
alterità di Bacthin e la utilizza come concetto chiave per istituire una sorta
di paragone tra la genesi dei testi e la costituzione della personalità:
De quoi est fait un texte? Fragments originaux, assemblages singuliers,
références, accidents, réminiscences, emprunts volontaires. De quoi est
faite une personne? Bribes d’identification, images incorporées, traits de
caractères assimilés, le tout (si l’on peut dire) formant une fiction qui
s’appelle moi (Schneider 1985: 12).
Se azzardata è forse la definizione di persona quale finzione, il parallelo è
interessante: se esso vale, attivare letture intertestuali potrebbe allora
insegnare un metodo valido anche per fare una lettura di sé, dei frammenti
della propria storia personale, del proprio essere, fine ultimo di ogni
insegnamento-apprendimento.
Anche Calvino, alla fine della sua lezione sulla Molteplicità ci ricordava:
Chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienze, di
informazioni, di letture, di immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, un
inventario di oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere
continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili (Calvino
1993: 134-135).
2. La pratica della traduzione
E la traduzione che cos’è? È, come dice Antonio Prete (2003), l’anima di
queste voci dialoganti che costituiscono il patrimonio letterario. Tradurre
significa penetrare maggiormente nello spirito del testo, entrare nelle sue
profondità. Con essa non solo si impara a conoscere meglio il testo, l’altro,
ma si approfondisce anche la conoscenza di sé.
Tutti coloro che hanno studiato il problema della traduzione hanno messo
in evidenza che leggere in fondo è sempre tradurre, è sempre il passaggio
di un’esperienza a un altro luogo, ad un altro soggetto. E’ Humboldt
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(antropologo e linguista, che dopo aver tradotto l’Agamennone si interrogò
molto sulla traduzione) a spiegarci che il capire è sempre una tensione
verso il capire, che implica anche il passaggio attraverso il non-capire, il
fraintendere: non è mai un lavoro pacifico, ma sempre una sorta di sforzo,
in cui però chi traduce impara a confrontarsi con un altro, a entrare a sua
volta in dialogo con lui, ed anche a gestire i conflitti.
Per questo, come dice Raimondi (2003), il tradurre è forse il lavoro più
necessario delle letterature. Era lo stesso discorso della Weltliteratur di
cui parlava Goethe, perché è lì che si dà l’ampliamento della
significatività e della forza espressiva, come una sorta di dilatazione, di
operazione nella quale ognuno resta sé stesso ma diventa anche
qualcos’altro.
D’altronde traduttori sono stati tanti grandi della nostra letteratura,
dimostrando che il passaggio attraverso l’opera di un altro è sempre foriero
di ricchezza: Baudelaire ha scritto le Fleurs du mal mentre traduceva le
Novelle di Poe, Montale ha imparato da Shakespeare che traduceva. Tale
pratica si infittisce nel ‘900, dove diffusamente troviamo poeti che
traducono poeti – Celan che traduce Mandel’stam e Ungaretti, Guillen che
traduce Valéry, Lowell che traduce Montale, ecc.
Allora perché non proporre come esercizio, come compito anche la
traduzione letteraria?
Valéry Larbaud (1997: 71), che ha dedicato al problema una monografia,
dice chiaramente che il traduttore en même temps qu’il accroit sa richesse
intellectuelle, il enrichit sa littérature nazionale et honore son propre nom.
Per lui, poiché il dovere del traduttore è quello di rendere il senso (inteso
come senso materiale e letterale e al tempo stesso come impressione
estetica, atmosfera), la traduzione è un esercizio che vale ben più di tante
interrogazioni; tra i suoi vantaggi vi è, oltre a quello di appropriarsi del
testo, di imparare a scrivere sotto la direzione di un maestro. In tal senso
dunque si configura come trait d’union tra letteratura e scrittura, binomio
sempre vissuto come tragicamente inconciliabile per gli insegnanti di
lingue e lettere; diventa essa stessa una ri-scrittura del testo, un modo per il
traduttore-allievo di entrare nel grande dialogo della letteratura e
contribuire alla sua costruzione.
Note
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M. Lucianaz, Plurilinguismo e Comparatismo
(1) Psicanalista, semiologa e studiosa di letteratura e di critica letteraria, dirige
attualmente l’Ecole doctorale della Sorbona Paris VII, Dipartimento di letteratura
comparata.
(2) “La parola Weltliteratur (letteratura mondiale) è un neologismo di Goethe. La
troviamo per la prima volta in un appunto del suo diario, datato “18 gennaio 1827”,
ma riassume le intuizioni, con le loro applicazioni pratiche, della sua intera vita.
Implica concetti di traduzione (Goethe traduceva da 18 lingue) e di Weltpoesie […]
Secondo Goethe tutti i modi dell’enunciazione letteraria, sia essa orale o scritta, sono
d’importanza fondamentale per la comprensione che l’uomo ha della propria storia del
proprio statuto civile, della propria stessa lingua” (Steiner 1997: 89-90).
(3) Cfr. R. Luperini 1998: La predilezione per il genere è tipica anche della scuola
Nordamericana e ultimamente del Neostoricismo di Greenblatt.
(4) Già Philippe Sollers in Ecriture et révolution (1968: 75) aveva proposto una
definizione di testo molto vicina a quella della moglie Kristeva:
“Tout texte se situe à la jonction de plusieurs textes dont il est à la fois la relecture,
l’accentuation, la condensation, le déplacement et la profondeur. D’une certaine
manière, un texte vaut ce que vaut son action intégratrice et destructrice d’autres
textes”.
(5) Bacthin non aveva usato il termine intertestualità, ma esso era sotteso nel concetto
di dialogismo, elaborato in Poétique de Dovstoievski (1929, 1963), in Estetica e
romanzo (1975, 1979) e in L'Oeuvre de François Rabelais et la Culture populaire au
Moyen Age et sous la Renaissance (1970). Sarà Todorov nel 1981, nella sua opera su
Bachtin, a mettere in evidenza come il principio dialogico bacthiniano contenga in sé
due nozioni, il dialogismo propriamente detto e l’intertestualità come la Kristeva la
definirà successivamente.
(6) Nota è la difficoltà di attribuzione degli scritti di Bacthin: quali sono realmente
suoi, quali dei compagni Volosinov e Mevedelev? Il problema è ben messo in evidenza
da Todorov nell’introduzione a Bacthin, Il principio dialogico, op. cit.
(7) Cfr. M. Bachtin, Slovo v romane in “Voprosy literatur”, 8, 1965, riportato in
Kristeva, Semiotiké, p. 85: “Il linguaggio del romanzo è un sistema di superfici che si
incrociano. L’autore si colloca in quel centro regolatore che rappresenta l’incontro tra
le superfici. E’ solo una concatenazione di centri: assegnargli un solo centro significa
costringerlo a una posizione fonologica, teologica”.
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