Relazione emi monteneri

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Relazione emi monteneri
Relazione 13 novembre
Emi Monteneri
Argomento:
- Decostruzione della falsa neutralità della cultura data e stereotipi di genere: alcuni
esempi.
- La rappresentazione del femminile come oggetto e come “preda” nella cultura
maschile.
- La rappresentazione della violenza sulle donne nella cultura femminile.
Nel corso di questa relazione mi occuperò della formazione culturale trasmessa nelle
nostre scuole ad alunne e alunni attraverso testi scolastici e no. Cultura neutra,
espressa con linguaggio neutro, che in realtà è marcato al maschile, che
contraddistingue tutti i manuali in uso. Argomento, questo, trattato in altre relazioni
precedenti, su cui non mi soffermerò, dandolo per scontato. E’ indispensabile,
piuttosto, registrare l’arretratezza dei manuali scolastici a tal riguardo, ancora più
evidente se confrontata con l’evoluzione culturale della nostra società. Lo scarto, a
mio avviso, dipende dalla resistenza dei docenti universitari, che ne sono autori, a
prendere atto del mutamento di sguardo che si è verificato con sempre maggiore
profondità con l’affermarsi del soggetto donna, identità sessuata femminile
portatrice di una visione del mondo “differente”. Mi preme piuttosto riflettere su
certi valori che trasmette la cultura data, cominciando dalla cultura classica, latina e
greca.
La cultura greca, soprattutto la cultura di Atene del V secolo a. C., è stata il modello
su cui si è formata la società occidentale, quella di cui noi facciamo parte, che ha
gettato i fondamenti di democrazia e di valori civili e da cui abbiamo mutuato tutto
l’impianto culturale, a partire dalla filosofia. La religione di questa cultura è la
religione di Zeus Olimpio i cui miti hanno fornito ispirazione ad artisti di grande
valore. Proiezione Gruppo marmoreo ”Apollo e Dafne” di Bernini (Fig. 1 del ppt). La
purezza e la bellezza della forma sublima la violenza del fatto rappresentato: un
tentativo di stupro trasformatosi in metamorfosi. Cioè la madre che aiuta la figlia. La
storia è raccontata da Ovidio nel I libro delle Metamorfosi. Dafne, bellissima
fanciulla figlia del fiume Peneo e di Gea, la terra, rifiuta le nozze perché vuole vivere
libera nei boschi, dedicandosi alla caccia come le seguaci di Artemide, Il padre è
costernato che una fanciulla così bella non voglia maritarsi, ma si rassegna ad
accontentare la figlia. Il dio Apollo, trafitto per dispetto dalla freccia d’oro di Cupido,
incontrando nei boschi Dafne arde d’amore per lei (vv. 495-5011). La fanciulla,
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495. così il dio prende fuoco, così in tutto il petto
496. divampa, e con la speranza nutre un impossibile amore.
497. Contempla i capelli che le scendono scomposti sul collo,
498. pensa: 'Se poi li pettinasse?'; guarda gli occhi che sfavillano
trafitta dallo stesso Cupido dalla freccia dell’odio, fugge disperatamente. Allora
Apollo si rivela (L. I, vv. 510 segg.2) Ma Dafne fugge sempre più impaurita e… (vv.
525-5393). E’ braccata come una preda e, raggiunta dal dio e da lui ghermita, invoca
la madre Gea e viene trasformata in alloro. (O terra spalancati… vv. 540-5564). E’
499. come stelle; guarda le labbra e mai si stanca
500. di guardarle; decanta le dita, le mani,
501. le braccia e la loro pelle in gran parte nuda
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510. Impervi sono i luoghi dove voli: corri più piano, ti prego,
511. rallenta la tua fuga e anch'io t'inseguirò più piano.
512. Ma sappi a chi piaci. Non sono un montanaro,
513. non sono un pastore, io; non faccio la guardia a mandrie e greggi
514. come uno zotico. Non sai, impudente, non sai
515. chi fuggi, e per questo fuggi. Io regno sulla terra di Delfi,
516. di Claro e Tènedo, sulla regale Pàtara.
517. Giove è mio padre. Io sono colui che rivela futuro, passato
518. e presente, colui che accorda il canto al suono della cetra.
519. Infallibile è la mia freccia, ma più infallibile della mia
520. è stata quella che m'ha ferito il cuore indifeso.
521. La medicina l'ho inventata io, e in tutto il mondo guaritore
522. mi chiamano, perché in mano mia è il potere delle erbe.
523. Ma, ahimè, non c'è erba che guarisca l'amore,
524. e l'arte che giova a tutti non giova al suo signore!»
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525. Di più avrebbe detto, ma lei continuò a fuggire
526. impaurita, lasciandolo a metà del discorso.
527. E sempre bella era: il vento le scopriva il corpo,
528. spirandole contro gonfiava intorno la sua veste
529. e con la sua brezza sottile le scompigliava i capelli
530. rendendola in fuga più leggiadra. Ma il giovane divino
531. non ha più pazienza di perdersi in lusinghe e, come amore
532. lo sprona, l'incalza inseguendola di passo in passo.
533. Come quando un cane di Gallia scorge in campo aperto
534. una lepre, e scattano l'uno per ghermire, l'altra per salvarsi;
535. questo, sul punto d'afferrarla e ormai convinto
536. d'averla presa, che la stringe col muso proteso,
537. quella che, nell'incertezza d'essere presa, sfugge ai morsi
538. evitando la bocca che la sfiora: così il dio e la fanciulla,
539. un fulmine lui per la voglia, lei per il timore.
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540. Ma lui che l'insegue, con le ali d'amore in aiuto,
541. corre di più, non dà tregua e incombe alle spalle
542. della fuggitiva, ansimandole sul collo fra i capelli al vento.
543. Senza più forze, vinta dalla fatica di quella corsa
544. allo spasimo, si rivolge alle correnti del Peneo e:
545. «Aiutami, padre», dice. «Se voi fiumi avete qualche potere,
546. dissolvi, mutandole, queste mie fattezze per cui troppo piacqui».
547. Ancora prega, che un torpore profondo pervade le sue membra,
548. il petto morbido si fascia di fibre sottili,
549. i capelli si allungano in fronde, le braccia in rami;
550. i piedi, così veloci un tempo, s'inchiodano in pigre radici,
551. il volto svanisce in una chioma: solo il suo splendore conserva.
552. Anche così Febo l'ama e, poggiata la mano sul tronco,
553. sente ancora trepidare il petto sotto quella nuova corteccia
554. e, stringendo fra le braccia i suoi rami come un corpo,
proprio il momento della metamorfosi, quando Dafne dalla forma umana sta
trasmigrando nella forma arborea, che Bernini fissa per sempre nel marmo. Da
notare alcune affermazioni di Ovidio, riflesso del senso comune di allora (La
stranezza di una ragazza che nonostante le bellezza rifiuta le nozze, la foia sessuale
chiamata amore, la visione del corpo femminile che alimenta impulsi di violenza nel
dio, la bellezza che arreca danno alla fanciulla e che non viene goduta da lei ma è un
richiamo per chi di lei va a caccia, l’inseguimento di Apollo come quello del
cacciatore che insegue la preda). Ma perché Apollo insegue Dafne? E’ un caso
isolato o una costante nelle abitudini delle divinità maschili greche?
Lo stupro è un topos nel mito greco. Lo stupro e il ratto a scopo di stupro, ne sono le
costanti ossessive. Sono una costante del comportamento di Zeus, dio padre degli
dei olimpici che, sotto forma umana, bestiale e prodigiosa, seduce e si congiunge
continuamente, in maniera più o meno forzata, con ninfe, divinità e donne mortali
provocando la perenne gelosia della moglie Era, raffigurata come una dea
vendicativa, petulante, intrigante perché gelosa. (Figg. 2-5 del ppt) Zeus trasformato
in toro: il mito d’Europa. Ovidio, seducente narratore di miti, racconta anche questo,
Metamorfosi II vv. 858-8755.
Le tradizioni sul mito di Europa sono antichissime e complesse. Io vi sottopongo
nell’allegato la breve e sintetica ricostruzione di Patricia Moneghan che ne attesta
l’esistenza in periodo preolimpico.
555. ne bacia il legno, ma quello ai suoi baci ancora si sottrae.
556. E allora il dio: «Se non puoi essere la sposa mia,
557. sarai almeno la mia pianta. E di te sempre si orneranno,
558. o alloro, i miei capelli, la mia cetra, la faretra;
559. e il capo dei condottieri latini, quando una voce esultante
560. intonerà il trionfo e il Campidoglio vedrà fluire i cortei.
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858. ……….. La figlia di Agenore lo guarda
859. meravigliata, bello com'è e senza intenti bellicosi.
860. Prima però, malgrado le appaia così mite, esita a toccarlo;
861. ma poi gli si accosta e a quel candido muso porge dei fiori.
862. Gode l'innamorato e, in attesa del piacere sognato,
863. le bacia le mani: a stento ormai, a stento rimanda il resto;
864. intanto si sfrena gioioso saltando sull'erba verde
865. o stendendo il fianco color di neve sulla rena bionda;
866. e allontanata a poco a poco da lei la paura, le offre il petto
867. perché l'accarezzi con la sua mano ingenua, o le corna perché
868. le inghirlandi ancora di fiori. E la figlia del re
869. s'adagia persino sul suo dorso, senza sapere su chi si siede.
870. Allora il dio dalla terra asciutta della riva, senza parere,
871. comincia a imprimere le sue mentite orme nelle prime onde,
872. poi procede oltre e in mezzo alle acque del mare si porta via
873. la sua preda. Lei terrorizzata si volge a guardare la riva
874. ormai lontana: la destra stringe un corno, la sinistra s'afferra
875. alla groppa; palpitando al vento si gonfiano le vesti.
Altro gruppo marmoreo del Bernini: Ade che rapisce Core. (fig. 6 del ppt).
Illuminanti ed esemplari sono le parole di Luce Irigaray:
“La valorizzazione esclusiva del ruolo materno nella donna si è accompagnata al non
rispetto dell'ordine naturale. Il culto della maternità si oppone spesso al rispetto
della fecondità naturale, quali che siano le denegazioni di questa profonda e segreta
contraddizione. Ma questo culto, quando si presenta come tale è culto della madre
del figlio. L'amore della fertilità cosmica è legato alla relazione tra madre e figlia. Ciò
che favorisce la fecondità naturale, la crescita dei frutti della terra, si trova fra
Demetra e Core, per esempio. Se Core viene rapita a sua madre dal dio dei morti, se come altre sue sorelle nella tradizione mitologica - viene ricoperta di terra, sotterrata
o chiusa nelle rocce, sua madre diventa sterile e così tutta la terra. Demetra può
creare in assenza della figlia, Core non conosce felicità se non in presenza della
madre. Bisogna che madre e fIglia rimangano visibili, sensibili l'una all'altra, perché
la terra intera sia feconda, e il tempo sia favorevole ai raccolti.
Questa coppia è inoltre una coppia divina. In quel tempo di ginecocrazia, natura e
dei non sono separati. Il sacrificio dell'una agli altri (o all' Altro) segna il passaggio a
un'altra epoca in cui la vita naturale deve subordinarsi al divenire spirituale. Diquale
natura e di quale spirito si tratti allora, questo rimane ancora impensato in
particolare nel diritto alla vita, diritto sedicente irriducibile, per ogni individuo”6
Il matrimonio è il nuovo valore del nucleo familiare imposto dalla struttura
patriarcale e in questa prospettiva si deve interpretare l’avversione di Dafne per le
nozze.
Il mito, dicevo, sia greco che romano, ad esso assimilato, è affollato di divinità
maschili e di satiri che inseguono ninfe, fanciulle e pastorelle che, comunque,
sembrano gradire. Del resto si sa: “vis grata puellae”.
Dall’Ars amandi di Ovidio questa citazione è risuonata nelle aule dei tribunali dei
processi per stupro.
Ma torniamo ad Ovidio: Ars amandi L. I, vv. 655-6757.
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Luce Irigaray, Sessi e genealogie, La Tartaruga, 1989
Ingannate codeste ingannatrici: razza in gran parte iniqua e scellerata,
cadan nei lacci ch’esse stesse han teso.
Femmina ingannata nel duol si dolga solo di se stessa.
Giovano poi le lacrime: col pianto potrai ridurre tenero il diamante.
Fa’ che ti vegga mandide le guance.
Può darsi si rifiuti, e allora i baci prendili a forza. Se reagirà,
se per la prima volta ti dirà che sei sfacciato, credi, non vuol altro
che, resistendo, essere vinta insieme.
Tu la chiami violenza? Ma se è questo che vuol la donna! Ciò
che piace a loro è dare per forza ciò che vogliono dare.
Come il pudore vieta alla fanciulla di agir per prima, così poi le è
caro chi l’inizia all’amore
Molte vanno a chi fugge, e a chi le assedia offrono sdegno.
Non dall’armi devi guardarti nell’amore; fuggi chi credi amico, se vuoi star
sicuro.
Abbiamo letto un paradigma di comportamenti davvero abietti ma giudicati naturali,
anzi necessari. I miti che narra Ovidio, e soprattutto il modo in cui il poeta si mette
in relazione con tutta la materia del mito, sono frutto di un cambiamento radicale,
storico e simbolico, che si è sviluppato nell’arco dei secoli, l’avvento del patriarcato
e della religione di Zeus olimpio. Esiodo, poeta di riferimento di Ovidio, vissuto
intorno all’VIII sec. a.C., nella sua Cosmogonia, che non è un opera religiosa ma un
trattato sulla formazione del cosmo, dà corpo e importanza alla figura di Zeus, padre
di tutti gli dei e massima autorità dell’Olimpo e afferma che prima dell’ordine da lui
imposto l’oscurità del Caos e il predominio di forze malefiche e oscure dominava il
Cosmo. Nel periodo in cui scrive Esiodo è già avvenuto quel passaggio dal muthos,
(verità rivelata) al logos (argomentazione razionale) che ha determinato lo
svilimento del mito e ha sancito l’importanza acquisita dal poeta che, padrone della
parola e delle verità espresse è anche padrone di manipolare la materia della
propria narrazione. Ai tempi di Esiodo dovevano esserci memoria e tracce di un’altra
tradizione religiosa, molto più antica e profondamente diversa, quella che sarà
chiamata la religione della Dea. Esiodo dimostra di ignorarla ma Omero, a lui
contemporaneo, mostra di conoscerla. Le recenti scoperte di archeologhe
femministe, prima fra tutte Marija Gimbutas, la studiosa lituana, hanno fornito
prove determinanti che attestano l’esistenza della religione della Grande Dea in aree
dell’Europa sud-orientale, dell’Anatolia, dell’area mediterranea, dell’Europa
centrale, occidentale e settentrionale dal Paleolitico superiore fino all’età del bronzo
(vedi Figg. 7-11 del ppt). ”Il tema centrale del simbolismo della Dea si dispiega nel
mistero della nascita e della morte e nel rinnovamento della vita, non solo umana
ma di tutta la terra e anzi dell’intero Cosmo. Simboli e immagini si raggruppano
intorno alla dea partenogenetica, (autogenerantesi) e alle sue fondamentali funzioni
di Dispensatrice di Vita, Reggitrice di morte e, non meno importante, di
Rigeneratrice, e intorno alla Madre Terra, la giovane e vecchia Dea della Fertilità,
che nasce e muore con la vita vegetale. Era l’unica fonte di tutta la vita che traeva
energia dalle sorgenti, dal sole, dalla luna e dall’umida terra. In questo sistema di
simboli si configura il tempo mitico, ciclico, non lineare….L’arte incentrata sulla dea,
con la sua singolare assenza d’immagini guerresche e di dominio maschile, riflette un
ordine sociale in cui le 1) La funzione generatrice della Dea corrisponde alla sua
proprietà numinosa di verginità, intesa come proprietà di purificare e rigenerare. La
Dea è sempre vergine e sempre si accoppia generando vita. Come si comprende il
termine ha un significato ben diverso rispetto a quello legato a particolari anatomici
del corpo femminile. Le donne, come capi clan o regine-sacerdotesse, ricoprivano un
ruolo dominante”8.
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Marija Gimbutas, Il linguaggio della dea, Longanesi
Anche R. Graves, attento e appassionato studioso di miti, ne “La Dea Bianca”, edito
nell’anno 1946, afferma:
"La mia tesi è che il linguaggio del mito poetico anticamente usato nel Mediterraneo
e nell'Europa settentrionale fosse una lingua magica in stretta relazione con
cerimonie religiose in onore della dea-Luna ovvero della Musa, alcune delle quali
risalenti all'età paleolitica; e che esso resta a tutt'oggi la lingua della vera poesia "vera" nel senso nostalgico moderno di "originale non suscettibile di miglioramento,
e non un surrogato". Questa lingua fu manomessa verso la fine dell'epoca minoica,
allorché invasori provenienti dall'Asia centrale cominciarono a sostituire alle
istituzioni matrilineari quelle patrilineari, rimodellando o falsificando i miti per
giustificare i mutamenti della società. Poi giunsero i primi filosofi greci, fortemente
ostili alla poesia magica, nella quale ravvisavano una minaccia per la nuova religione
della logica. Sotto la loro influenza venne elaborato un linguaggio poetico razionale
(oggi chiamato classico), in onore del loro patrono Apollo, linguaggio che fu imposto
al mondo come il non plus ultra dell'illuminazione spirituale. Da allora in poi questa
visione ha dominato praticamente incontrastata nelle scuole e nelle università
europee, dove i miti sono oggi studiati solo come curiosi relitti dell'infanzia
dell'umanità"9.
I grandi sconvolgimenti sociali causati dalle invasioni di popolazioni barbare in tutta
Europa prima, ed nella Grecia a partire dal II millennio a.C. (prima Achei e poi Dori)
che conoscevano il ferro e imponevano con la guerra il proprio predominio, hanno
cancellato ogni espressione di divino femminile, ed imposto un’ idea del divino più
connesso con le vicende degli uomini (sembrerebbe che soprattutto i Dori fossero
portatori di questa visione). Il passaggio dalla religione della madre, la religione tutta
incentrata sulla nascita e sul ciclo vitale, alla religione patriarcale, la religione della
guerra e della morte, è compiuto. Trionfa la religione olimpica di Zeus, padre di tutti
gli Dei. Il quale, a sua volta, affermerà la propria autorità numinosa a cui
sottomettere qualunque manifestazione preesistente di divino femminile. Lo
strumento usato appunto per cancellare e avvilire la maestà della grande Dea è lo
stupro, simbolo di possesso, di appropriazione totale, di spodestamento. Inoltre le
prerogative numinose della dea verranno degradate, e il padre Zeus si approprierà,
in modo davvero stravagante, anche del potere più indiscusso della Grande Madre:
quello di dare la vita. Ecco quindi Athena che esce già armata dalla testa di Zeus e
Dioniso che esce dalla sua coscia. Nel rapporto molto stretto, come dicevo prima,
tra le vicende degli uomini e quelle degli Dei, questo cambiamento, che si svolgerà
in un lungo periodo di difficile datazione, avrà il suo compimento nella società della
polis, che segregherà le donne nella casa (l’oikos) estromettendole da qualunque
9
Robert Graves, La dea Bianca, Adelphi
aspetto della nascente democrazia, e nell’avvento della filosofia di Platone e
Aristotile che soppianterà definitivamente la poesia epica, quella ispirata dalla Dea.
Le tracce della dea, comunque, come ha mostrato e dimostrato Marija Gimbutas,
permangono. ”Le credenze delle popolazioni agricole riguardo sterilità e fertilità, la
fragilità della vita e la costante minaccia di distruzione, e il periodico sogno di
rinnovare i processi generativi della natura sono tra le più durature. Continuano a
vivere nel presente, così come gli aspetti arcaici della dea preistorica. Trasmesse da
nonne e mamme della famiglia europea, le antiche credenze si sottrassero al
processo di sovrapposizione dei miti indoeuropei e infine di quelli cristiani. La
religione incentrata sulla Dea esisteva molto prima di quelle indoeuropea e cristiana
(che rappresentano un periodo relativamente breve nella storia dell’umanità), e ha
lasciato un’impronta indelebile nella psiche occidentale”10.
Concludo questa prima parte dicendo che i nostri musei archeologici sono colmi di
reperti catalogati in maniera anonima e insignificante, ma se ad Aidone o a Siracusa,
ad Agrigento o nel nostro museo archeologico A. Salinas, quando lo riapriranno,
vedrete decorazioni simili a queste, emozionatevi pure: è la dea che continua a
trasmettere il suo messaggio per chi sappia coglierlo.
Ma torniamo alla domanda di prima: erano gli antichi greci ad avere quelle idee sullo
stupro o, al contrario, la tradizione, trasmessa nell’arco dei secoli, è arrivata fino a
noi? Le mie sono evidentemente domande retoriche e un po’ provocatorie. Con un
breve excursus (breve, al solito, per motivi di tempo), per campionature, cerchiamo
di arrivare ai nostri tempi.
Lo stil novo e le pastorelle.
Tutti e tutte conosciamo i componimenti dello stil novo, poesia d’amore sublimato e
angelicato fiorito a in Toscana ad opera dei poeti stilnovisti, Dante soprattutto e poi
Guido Cavalcanti ecc. La poesia iniziale di riferimento è la poesia trobadorica, la
poesia del “fin amor”. Esiste però anche un genere,” la pastorella”, sempre di
matrice trobadorica, (Marcabrun è il primo autore di questi componimenti), che
risponde a gusti più sanguigni. Questa è stata scritta da Guido Cavalcanti, il poeta
de: “Chi è questa che vien…., l’amico di Dante, uno dei più autorevoli esponenti
dello Stil novo, ma è di ben altro tipo. Si tratta di un contrasto tra due personaggi,
un cavaliere e una pastora, di un incontro in un locus amoenus, in cui lo squilibrio
sociale tra i due è evidente e rende molto fragile le eventuali resistenze della
pastorella, sempre allegra, sorridente e pronta all’amore.
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Marija Gimbutas, op. cit.
In un boschetto trova’ pasturella
*
In un boschetto trova’ pasturella
più che la stella – bella, al mi’ parere.
Cavelli avea biondetti e ricciutelli,
e gli occhi pien’ d’amor, cera rosata;
con sua verghetta pasturav’agnelli;
[di]scalza, di rugiada era bagnata;
cantava come fosse ’namorata:
er’adornata – di tutto piacere.
D’amor la saluta’ imantenente
e domandai s’avesse compagnia;
ed ella mi rispose dolzemente
che sola sola per lo bosco gia,
e disse: «Sacci, quando l’augel pia,
allor disìa – ’l me’ cor drudo avere».
Po’ che mi disse di sua condizione
e per lo bosco augelli audìo cantare,
fra me stesso diss’i’: «Or è stagione
di questa pastorella gio’ pigliare».
Merzé le chiesi sol che di basciare
ed abracciar, – se le fosse ’n volere.
Per man mi prese, d’amorosa voglia,
e disse che donato m’avea ’l core;
menòmmi sott’una freschetta foglia,
là dov’i’ vidi fior’ d’ogni colore;
e tanto vi sentìo gioia e dolzore,
che ’l die d’amore – mi parea vedere.
Evidente la doppia morale: donne da adorare e donne da stuprare.
E’ un locus amoenus lo scenario in cui si svolge la caccia infernale descritta nella
quinta giornata del Decameron, quella dedicata agli amori che si concludono
felicemente dopo varie difficoltà, nella Novella dal titolo: Nastagio degli Onesti.
Passeggiando nei pressi di Ravenna Nastagio degli Onesti, di nobile famiglia, che
amava non ricambiato una gentildonna e per corteggiarla si stava rovinando con
spese pazze, vede una donna nuda che corre disperata inseguita da feroci mastini
che la azzannano e da un cavaliere nero con uno stocco in mano che la minaccia e,
raggiuntala, la trapassa con lo stocco e, squartatala, da le sue interiora in pasto ai
cani. Poi, prodigiosamente, la donna si rialza e la caccia continua. Dallo stesso
cavaliere Nastagio viene a sapere che loro sono anime condannate all’inferno, il
cavaliere perché si è tolta la vita per il dolore del suo amore non ricambiato verso
quella dama, quando entrambi erano vivi, la donna invece scontava la pena della sua
crudeltà amorosa. Nastagio, pertanto, invita amici, i parenti dell’amata e l’amata
stessa ad un pranzo all’aperto nello stesso luogo dell’incontro. Puntualmente si
verifica lo stesso spettacolo e la dama superba, terrorizzata, accondiscende a
sposare Nastagio. La notizia di questo episodio impressionò tanto tutte le donne
ravennati che da quel momento furono più arrendevoli alle richieste d’amore. Come
dire: l’amore trionfa. E’ evidente che si tratta di amore sessuato al maschile e che la
volontà della donna è un particolare irrisorio, da forzare a proprio piacimento.
Sempre in un locus amoenus, la selva ove si intrecciano molte vicende dell’Orlando
Furioso, avviene l’incontro tra Sacripante e Angelica. Ariosto si diverte a ridicolizzare
la rozzezza di questo guerriero che incontriamo in una radura e, mentre si crede
solo, piange a calde lacrime e filosofeggia parafrasando in modo volgare
argomentazioni da Roman de la rose.
L. Ariosto: Orlando Furioso, canto I, Ott.42; 43, 44 (vedi allegato). Angelica nascosta
in un cespuglio lo riconosce e gli si rivela sperando che lui possa ancora proteggerla
e assicurando che Orlando, suo cavaliere, mai ha attentato alla sua verginità. Vedi
all. ott. 57 (Se mal si seppe il cavalier d’Anglante..) ott.59 Corrò la fresca e mattutina
rosa, Che, tardando, stagion perder potria, So ben ch’a donna non si può far cosa
Che più soave e più piacevol sia, Ancor che se ne mostri disdegnosa, E talor mesta e
flebil se ne stia: Non starò per repulsa o finto sdegno, Ch’io non adombri e incarni il
mio disegno.
Il poeta spinge la sua ironia fino a farlo disarcionare….da una donna, la bianca
guerriera Bradamante, davanti ad Angelica!
Il Novecento, noi lo sappiamo bene, è il secolo in cui il genio femminile, a partire
dalla scrittura, si espande in tutti i campi. Sarà anche “secolo breve” (Hobsbawm),
secolo di grande crisi nelle valutazioni di filosofi e sociologi maschi, ma è,
indiscutibilmente, il secolo della libertà femminile.
Ancora agli inizi del secolo, e non solo, la sensibilità degli uomini nei confronti delle
donne, soprattutto di quelle di valore, che hanno ambizioni e capacità, e per questo
sono viste come un pericolo per la loro supremazia, è estremamente ostile.
Perderemmo solo tempo a citare Schopenauer e Nietzche. Citerò solo, rapidamente,
il caso di Maria Montessori, che, giovanissima, alla fine dell’ottocento partecipando
ai congressi femminili europei, sosteneva scientificamente la tesi dell’uguaglianza
della donna e il suo diritto all’accesso al lavoro al di fuori della vita domestica.
Posizione che dava la misura della sua incrollabile determinazione, se si considera
che, nell’ambiente accademico che la circondava, lo studioso Giuseppe Sergi, con cui
la Montessori collaborava, sosteneva che l’inferiorità della donna non fosse dovuta
alla sua condizione sociale, ma fosse biologica, adducendo, tra l’altro, l’argomento
dell’ereditarietà dei caratteri del genio. …I caratteri geniali dell’uomo, se
permangono nella donna, non si sviluppano, dato che ella, per la sua “condizione
sessuale resta sempre dietro rispetto allo sviluppo maschile…La donna, quindi, può
essere madre del genio senza essere geniale”. Mi sembra di essere tornata al
tormentoso interrogativo dei teologi medievali: Le donne hanno un’anima? (Se vi
sono donne di genio. Appunti di viaggio nell’antropologia dall’unità d’Italia a oggi. A
cura di Alessandro Volpone e Giovanni Destro-Bisol)
Tra le scrittrici la scelta è vastissima. Io l’ho indirizzata su tematiche mirate: le
difficoltà incontrata, nella storia, dalle donne di genio ad esprimersi, e la forza delle
donne che emerge anche dai contesti più esasperati.
Anna Banti, grande scrittrice italiana, (Lucia Lo Presti) (l’anno scorso è stato
pubblicato finalmente il Meridiano Mondadori in cui è raccolta la maggior parte
della sua opera) è sensibile alla difficoltà del genio femminile, nella storia, di
esprimersi.
Lavinia e Artemisia, due grandi personagge, condividono questa ingiustizia. “Lavinia
fuggita”, è racconto contenuto nella raccolta che da esso prende nome. Lavinia è
un’orfana povera che vive a Venezia, nel ‘700, nell’orfanotrofio della Pietà dove si
esegue la musica del maestro Antonio Vivaldi. Inserisco questa citazione perché, a
mio avviso, Lavinia è vittima di uno stupro della mente. La ragazza ha un grande
talento musicale, è maestra concertatrice nel gruppo concertante dell’orfanotrofio,
compone, nel più assoluto segreto e, incaricata di trascrivere la musica da eseguire,
osa alterare le partiture per inserire sue composizioni. Approfittando di un periodo
d’assenza del maestro Vivaldi, sostituisce un oratorio con uno di sua composizione,
che ha un notevole successo. Raccoglie la sua musica in un grosso quaderno su cui
ha scritto “Cantate e concertini”. Scoperta e duramente punita, scomparirà dal
collegio attratta da un irresistibile richiamo di libertà, da terre lontane, verso
oriente, che riteneva suo probabile luogo di origine. In ricordo di lei resterà,
custodito dalle amiche Orsola e Zanetta il quaderno, ricordo della sua arte e della
sua passione impossibile.
“Artemisia” è il romanzo più conosciuto della Banti, considerato anche la sua
autobiografia interiore. E’ dedicato ad Artemisia Gentileschi, grande pittrice vissuta
nel seicento, “che ebbe il coraggio di esistere come artista”. Straordinariamente
dotata per la pittura, ancora bambina lavorava nella bottega del padre Orazio,
grande pittore molto conosciuto ai tempi e lì, in quella promiscuità, conobbe
Agostino Tassi, pittore, amico e collaboratore del padre, che la violentò e poi si
scoprì che era già sposato e con figli. Ecco la voce di Artemisia: Quattordici anni! Mi
difesi e non valse. Aveva promesso di sposarmi, lo prometteva fino all’ultimo,
traditore, per togliermi la mia vendetta. M’aveva donata una turchina: “ti ho
sposata con questa”, diceva. Davanti a lui soffrii la tortura, era livido e non diceva
una parola. Il padre, incollerito per l’affronto, scrisse la denuncia, quindi ci sarà il
processo, il pittore sarà condannato ad una pena lieve, ma verrà presto liberato per
gli intrallazzi di certi suoi amici. Il processo più duro per lei sarà affrontare la
vergogna della vita quotidiana, da sola, e le chiacchere dei vicini. Ma Artemisia non
sarà mai una vittima. Ferita negli affetti, con un rapporto ruvido e difficile col padre,
continuerà a coltivare la sua grande passione: la pittura e diventerà una grande
pittora.”Ma io dipingo!” Ed è salvata. Questo partire da sé di Artemisia è la
ripartenza di una donna forte, che ha vinto senza armi ed affronta la vita con
pienezza e inesauribile energia.
Donne forti. Anche Marianna Ucria lo è, nobildonna vissuta nel settecento,
protagonista del romanzo: La lunga vita di Marianna Ucria di Dacia Maraini.
Marianna è muta a causa di uno shock subito da bambina e, proprio per questa sua
menomazione che non le consentirebbe di ambire ad un matrimonio adeguato,
viene maritata ad un vecchio zio, che le ripugna, all’età di quattordici anni. Tutte voi,
credo, avete letto il romanzo e quindi posso accennare che proprio lo zio l’aveva
stuprata quando aveva l’età di sette anni ed era stata questa la causa del suo
mutismo. (Di questo terribile segreto di famiglia lei si renderà conto quando è già
adulta). La notte delle nozze, stravolta, piomba a casa dei genitori, dichiarando che
non vuole più tornare dal marito, ma viene duramente rimproverata e sollecitata a
compiere i suoi doveri di moglie. Quando, grazie alla vedovanza, si sarà liberata dei
suoi doveri di moglie, gusterà il piacere di vivere una vita culturalmente intensa e
costruttiva.
Ancora di violenza domestica parlerà Maria Messina nel romanzo: La casa nel vicolo.
Casa avvolta nell’ombra, dove si snoda la misera vita di una famiglia dominata da un
marito padrone, insensibile e gretto, che causerà una tragedia terribile quanto
incompresa. Le donne di questa famiglia sono annullate e mortificate, ma la forza
femminile è quella della scrittrice che, con mano che non trema, affonda, come un
bisturi, la sua penna per denunciare un inferno quotidiano.
Donna forte è anche la protagonista de Una donna, romanzo femminista e
autobiografico di Sibilla Aleramo, del 1906. E’ una denuncia impietosa del
perbenismo della società borghese che fa del matrimonio un’arma di asservimento
per le donne. Tutta la vicenda costituisce una vistosa incrinatura in ”quello specchio
dal potere magico e delizioso” di cui parlava Virginia Woolf ne” Una stanza tutta per
sé”. Sposata senza amore con un uomo rozzo che l’aveva violentata, la protagonista
abbandona la sua casa e, con immenso dolore, anche il figlio che il marito le nega ,
per realizzare il suo desiderio di una vita libera, intensa, dedicata alla cultura, alla
letteratura e all’impegno sociale.
Emerge, secondo me, una sostanziale differenza tra uomini e donne rispetto alla
violenza, nelle storie citate. Per gli uomini la violenza afferma predominio e
sopraffazione, è un’affermazione di potere sessuato, è statica e sterile. Nei
personaggi femminili e nelle scrittrici produce movimento, reazioni, indignazione,
cambiamenti profondi e coscienza di sé.
Se la protagonista di Una donna è costretta dalla violenza subita ad accettare un
matrimonio riparatore con un uomo meschino e ignorante, nella vita reale,
sessant’anni dopo Franca Viola, ragazza di Alcamo, rapita dal suo ex fidanzato
respinto, Filippo Melodia, figlio di mafiosi, sequestrata e violentata, sostenuta dalla
famiglia, rifiuta il matrimonio riparatore. Nel 1966 ci sarà il processo e Filippo
Melodia sarà condannato ad una pena di 11 anni di carcere, poi ridotti a 10. Del ’64
è Io splendido film di Pietro Germi Sedotta e abbandonata, tutto incentrato sul tema
dell’onore della famiglia legato al decoro sessuale delle donne.
ll 5 sett. 1981 il Parlamento italiano, con legge n. 442, abroga l’articolo di legge che
consente il delitto d’onore e il matrimonio riparatore.
Infine Melania Mazzucco, (Sei come sei è il suo ultimo romanzo) grande scrittrice
vivente, particolarmente lucida e sensibile nell’individuare problemi umani ed
esistenziali del nostro tempo. Il suo romanzo Un giorno perfetto racconta una
dramma familiare, che si conclude tragicamente, con la compattezza dell’unità di
tempo: la vicenda si sviluppa entro le 24 ore. Un abisso separa quest’ultima opera
da tutte le precedenti, non tanto per il valore letterario e per la contemporaneità
dei problemi trattati, ma proprio per la peculiarità del dramma che si consuma. La
famiglia di Emma e Antonio è avvinta dentro una spirale di violenza che non si
allenta neanche dopo la separazione dei coniugi. Emma, bella ragazza, cui
l’avvenenza rende la vita più difficile, abbandona il marito violento, con cui è
impossibile vivere e si sobbarca ad un esistenza precaria e difficilissima, pur di
ricostruire un’esistenza più serena per sé e per i propri figli. Antonio, poliziotto, non
accetta la separazione e oscilla tra impulsi omicidi e l’illusione di poter ritrovare in
Emma la ragazza tanto amata di un tempo, e amata tuttora, quella che lo aspettava
a casa tranquilla, che aveva interrotto per lui la carriera di cantante, quella di cui era
e continua ad essere ossessivamente geloso. Le loro sono vite continuamente
interrotte proprio dall’ossessione di Antonio che perseguita la moglie. Emma è una
ragazza forte e indomita, Antonio, aspetto imponente e palestrato, col suo arsenale
di armi e mitragliette rivela una fragilità pericolosa e penosa che si risolverà in
tragedia.
Tra gli anni sessanta e il 2005, anno dell’edizione del romanzo, è cambiata
profondamente la società, divorzio, aborto, femminismo, l’elaborazione di pensiero
e di pratiche che mettono al centro l’autorità femminile, la nuova consapevolezza di
identità sessuata che hanno le donne, unita alla dignità di disporre del proprio corpo
e della propria vita, hanno dato gli scossoni definitivi al patriarcato in crisi. Alle
spinte di crescita nell’ottica di una vita più degna e soprattutto frutto di scelte
autonome, da parte delle donne, non corrisponde, in genere, una riflessione sulla
propria identità sessuata e su un modo di intendere i rapporti fra uomini e donne da
parte degli uomini. Il patriarcato si è sbriciolato ma ancora non è finita. Il compito
dei/delle docenti è arduo e delicato. Affermare l’inviolabilità del corpo femminile,
sostenere ragazze e ragazzi nella riflessione/costruzione del senso di sé dovrebbe
costituire un momento importante in un percorso di crescita comune.
Bibliografia
Marija Gimbutas, Il linguaggio della dea, Longanesi
Robert Graves, La dea Bianca, Adelphi
Robert Graves, Miti greci, Longanesi
Bruno Snell, La cultura, Piccola Biblioteca Einaudi
Vernant, Mito e società nell’antica Grecia, Piccola Biblioteca Einaudi
James G. Frazer, Il ramo d’oro, Bollati Boringhieri
Esiodo, Teogonia, B.U.R.
Patricia Monaghan, Le donne nei miti e nelle leggende, RED
Luce Irigaray, Etica della differenza sessuale, La tartaruga
Luce Irigaray, Sessi e genealogie, La tartaruga
Luce Irigaray, All’inizio, lei era, Bollati Boringhieri
Associazione Donne Insegnanti, Inviolabilità del corpo femminile. Atti del corso di aggiornamento, 1990
Ovidio, Le metamorfosi, B.U.R.
Ovidio, L’arte dell’amore, Zanichelli
Boccaccio, Decameron, UTET
L. Ariosto, Orlando furioso, Salani
Anna Banti, Lavinia fuggita - Artemisia, I meridiani Mondadori
Dacia Maraini, La lunga vita di Marianna Ucria
Maria Messina, La casa nel vicolo, Sellerio
Sibilla Aleramo, Una donna, Feltrinelli
Melania Mazzucco, Un giorno perfetto, Rizzoli