recensioni e segnalazioni

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recensioni e segnalazioni
RECENSIONI E SEGNALAZIONI
Frabboni F., Pinto Minerva F., Una scuola per il Duemila, Sellerio, Palermo 2014,
pp. 203.
Il volume si presenta come uno strumento prezioso di comprensione e di
analisi, ma anche di proposte innovative, per una conciliazione tra una scuola
pedagogicamente aperta all'ambiente naturale e sociale e l'efficacia didattica nel
formare abilità, conoscenze e competenze. Una scuola che funga da ponte tra
apprendimento e socializzazione deve poter curare non solo il livello istituzionale
(carattere pubblico e gratuito, decentramento e autonomia), ma anche quello
formativo, scandendo il percorso di apprendimento e formazione lungo i bienni
cerniera tra il pre-obbligo, l'obbligo e il post obbligo e lungo un sistema integrato
tra l'offerta della scuola e quella originata nell'ambiente ecologico ed urbano.
Gli Autori, Franco Frabboni, professore Emerito di Pedagogia all'Università
degli Studi di Bologna, e Franca Pinto Minerva, professoressa Emerita di
Pedagogia all'Università degli Studi di Foggia, ricostruiscono, interpretano ed
esprimono, in modo illuminante, inquietudini e speranze per l'educazione e per
l'istruzione delle nuove generazioni.
La scuola che sogniamo, essi affermano, è molto vicina alle raccomandazioni
degli ultimi rapporti dell'Unione europea in materia di istruzione scolastica. I
sistemi formativi del vecchio continente devono sollecitamente predisporre una
Carta europea dell'istruzione (redatta congiuntamente da governi e opposizioni)
con l'impegno di renderla duratura nel tempo (p. 13). È un patto possibile, a
condizione che la Carta rivesta una duplice finalità formativa: il diritto di tutti alla
conoscenza e il diritto di tutti alla cittadinanza. L'ipotesi è che il prossimo
modello di istruzione (istituzionale, ordinamentale, curricolare) sia quello di una
scuola pubblica e gratuita, decentrata ed autonoma, che preveda la formazione di
allievi dotati di intelligenze plurali e di etiche solidaristiche, la nascita di
bienni/cerniera tra il pre-obbligo, l'obbligo e il post-obbligo, la diffusione di un
sistema integrato tra la scuola e le offerte formative dell'ambiente ecologico ed
urbano, la disponibilità di strumenti di valutazione attendibili e duraturi nel
tempo, per certificare non solo la memorizzazione dei prodotti cognitivi, ma
anche la comprensione dei processi di conoscenza e, infine, una solida
professionalità degli insegnanti quanto a cultura e a competenze didattiche e
disciplinari.
A partire dal concetti di libertà e di laicità della cultura, vengono indicati
quattro nuclei di sviluppo: una politica dell'istruzione che ponga la scuola al
centro della complessa rete dei luoghi della formazione (la veste democratica); una
politica dell'istruzione che ridisegni una scuola articolata lungo un triplice
percorso ordinamentale e curricolare (la veste ordinamentale); un ambiente urbano
corredato da aule didattiche decentrate: ludoteche, biblioteche, museoteche,
musicoteche, mediateche (la veste extramoenia); una politica dell'istruzione dove la
scuola sia valutata come sistema, in modo da garantire un'elevata qualità non solo
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ai curricoli ministeriali, ma anche ai piani dell'offerta formativa (la veste
docimologica).
Gli Autori presentano, quindi, all'interno di tale sfondo (e in nome del
fondamentale rispetto della pluralità delle culture e dell'accesso per tutti),
un'analisi approfondita che porta ad identificare due grandi ambiti di proiezione
della formazione: la cultura critica e il pensiero ecosistemico che tratteggiano con
esemplare rigore metodologico e strumenti critici, nella prima parte Frabboni e,
nella seconda parte, Pinto Minerva.
Frabboni propone una riflessione sui processi di conoscenza come categoria
chiave delle pratiche didattiche in difesa delle differenze, della pluralità e della
problematicità. La scuola soffre, da sempre, una rimozione e una censura nei
confronti di un curricolo cosparso di vissuti avventurosi: ovvero, raramente
riconosce il ludico e l'immaginario (p.27).
La riflessione pedagogico-didattica rivaluta la valenza socializzante e un clima
socio-affettivo positivo, tollerante, gratificante e identitario e, nell'analizzare i
mediatori didattici, Frabboni indica la via facendo leva sulle varie forme di
espressività corporea che trovano ospitalità negli spazi di interclasse (laboratori,
atelier, aule interdisciplinari). Molto apprezzabile risulta l'approfondimento della
valenza formativa dei curricoli impliciti, non prescrittivi perché "irrintracciabili
nelle materie surgelate dei Programmi ministeriali" (p. 42), ma che, per il loro
dispositivo euristico, godono di un affidabile mediatore cognitivo.
Gli alfabeti ecologici del mondo naturale insieme alle forme di
drammatizzazione e di espressione teatrale, rappresentano oggetti culturali
importanti e forme di mediazione attiva ed analogica e non devono essere
confinati in una mera esperienza compensativa se non addirittura accessoria. È
l'ecologia il libro della cultura in grado di spalancare gli occhi a un
soggetto/persona (mai un soggetto/massa), dall'etica solidale e dal pensiero
plurale (p. 46).
Ed è in quest'ottica che l'Autore inscrive il richiamo all'impegno etico-sociale
di Giovanni Maria Bertin, alla cooperazione e alla solidarietà in un mondo
sempre più contagiato dal disimpegno e dall'indifferenza nei confronti dell'altroda-me e ad una formazione per la sinergia inventiva, per la disponibilità
socioaffettiva e per la sensibilità estetica.
La scuola del progetto, attraverso la pratica di metodologie mediate sui tempi
e sugli stili cognitivi, nel segno e nel nome di obiettivi egualitari degli allievi,
dedica uno spazio particolare all'espressione di interventi rapportati alla pluralità
delle persone, che tengano conto della soggettività e delle peculiarità dei tratti di
personalità di ognuno, formando, in tal modo, giovani generazioni con le "teste
ben fatte" e dai "cuori solidali", utilizzando una didattica problematica e critica.
Nella seconda parte del volume, Franca Pinto Minerva ci conduce alla
scoperta della possibilità che hanno l'alterità e la conoscenza che non si
realizzano mai in una sola direzione e in una sola forma, ma presentano, bensì,
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percorsi educativi che realizzano produttivi scambi relazionali ed esperienze tra la
scuola e il fuori scuola (p.115).
La scuola all'aria aperta recupera le dimensioni più creative del corpo e della
sensorialità: scopre e sperimenta inaspettate luci e colori; inconsuete forme del
paesaggio, l'intrinseco valore dell'acqua, dell'aria, della terra e del fuoco; la
"matericità" di tutti gli elementi come preziosa suggestione per imparare a
pensare e a fantasticare. Pinto Minerva presenta un'indagine sagace, ricca e
originalissima, contro quell'idea di scuola dalla soffocante autorefernzialità,
condizionata da vincoli di tempi e di spazi, di programmi e di valutazioni, che
non può essere considerata positivamente per affrontare le sfide del nostro
tempo, aperte e problematiche, finanche instabili, in erranza, in de-ri-costruzione.
L'Autrice mette in evidenza gli approdi antropologici oltre a quelli formativi,
che ne fanno strumenti di efficacissima espressione della personalità e del sé,
oltre ad essere, possiamo aggiungere, utile strumento di prevenzione del disagio e
della marginalità sociale.
Viene anche sottolineata positivamente l'abitudine a ragionare in termini di
una relazione improntata all'"abitare" e non allo "sfruttare" la madre Terra, come
anche il recupero della continuità uomo-natura.cultura, che aiuta a sviluppare un
pensiero in grado di connettere le differenze e di collegare i destini di tutti i
viventi e i non viventi dell'unico e comune fondamento terrestre. La scuola,
aprendosi alle esperienze del fuori scuola e ricostruendo i saperi codificati
attraverso le seduzioni dei saperi più liberi e vitali dell'ambiente, ha concreta
possibilità di motivare bambini e ragazzi a scoprire segnali di saperi ancora
inesplorati, ancora inattuali, carichi di alterità. In tal modo, i saperi acquisiti nel
fuori scuola, con un'"ondata di ritorno" arricchiscono il significato delle
esperienze educative del dentro scuola (p.120).
Con un linguaggio ricco di immagini, suggestivo ed efficace, le
argomentazioni pedagogiche di Pinto Minerva interpretano la relazione che
ciascuno intrattiene con il mondo e il sistema dei molteplici vincoli che
sottendono l'agire umano. Solo attraverso l'educazione possiamo tenere insieme
in equilibrio scelte e comportamenti legati alla consapevole appartenenza di
ciascun uomo e donna ad un'unica e complessa matrice terrestre, con ciò
riconoscendo i legami di reciprocità e interdipendenza personale e sociale, in
modo che il pensiero ecologico svolga una fondamentale funzione politica,
culturale, sociale e abbia un imprescindibile valore umano.
Una scuola aperta al proprio interno e all'esterno è capace di stabilire creativi
interscambi con i luoghi del territorio: parchi, giardini, spazi urbani e rurali e, in
tale prospettiva, può considerare il paesaggio un pluritesto da decodificare
attraverso l'acquisizione critica dei molteplici alfabeti dell'ambiente: naturalistici,
storico-antropologici, estetici, etici.
Il volume testimonia la mission di Franco Frabboni e di Franca Pinto di conciliare teoria e prassi didattica e rappresenta una riflessione significativa sulla scuo441
la, utile ad insegnanti ed educatori che operano nei contesti scolastici, ma interessante anche per coloro che sono impegnati nei contesti più ampi dell'extrascuola.
Infatti, nell'indagare i più emergenti ed efficaci percorsi formativi, rappresenta
uno strumento molto utile per orientare verso una dimensione partecipata del
sapere.
Non a caso, il testo individua una serie di risposte atte a creare un sistema
formativo integrato, il cui valore risiede nella capacità di promuovere una progettazione educativa tra istituzioni diverse tra loro e tra operatori con competenze
diversificate e molteplici, cogliendo, in tal modo, l'auspicio di dar vita ad un'etica
planetaria e di sviluppare una cultura della cittadinanza.
Raffaella Biagioli
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Ulivieri S., Pace R. (a cura di), Il viaggio al femminile come itinerario di formazione identitaria, FrancoAngeli, Milano 2012, pp. 238.
Tra gli importanti contributi di cui si è arricchita la ricerca educativa e storica
va annoverato il volume curato da Simonetta Ulivieri e Roberta Pace, che raccoglie dodici saggi presentati in occasione della quarta edizione della "Scuola delle
donne pedagogiste" sul tema del viaggio in tutte le sue connotazioni reali e immaginarie. I saggi, che spaziano dall'Antichità alla società contemporanea, vanno
ben oltre i temi del Grand Tour e dell'ars apodemica già noti agli studiosi che hanno
indagato l'iter italicum e gli itinerari della peregrinatio diffusi dal Seicento in poi. Infatti, il viaggio inteso come percorso di formazione e autoformazione al femminile costituisce un tema assai nuovo nel panorama degli studi di ambito pedagogico, storico educativo e più propriamente di genere. Introducendo la raccolta,
che apre nuove prospettive sulla dimensione educativa del viaggio, le curatrici
rivelano come il viaggio definisca «un'arte dell'essere, una poetica del sé ponendo
al centro dell'azione individuale e collettiva la sfera della soggettività, e di conseguenza quella delle relazioni fra ciò di cui si è portatori e ciò che rinviamo di 'noi'
come centri propulsori del divenire se stessi/e» (p. 7). In particolare, è il mondo
femminile a svelare la valenza simbolica e reale del viaggio in quanto esperienza
formativa nei suoi diversi aspetti con uno sguardo di genere assai originale. Nelle
sue diverse forme, il viaggio costituisce un'esperienza personale di cambiamento
nel percoso di vita di tante figure femminili, le quali riflettono sul suo significato
dal punto di vista della ricerca di identità, saperi e diritti, acquisiti grazie al confronto con altre società e culture.
La raccolta di saggi, corredati da riferimenti bibliografici aggiornati e utili per
ulteriori approfondimenti, è suddivisa in due parti tematiche. La prima tratta del
viaggio reale e immaginario nella prospettiva della ricerca di nuove identità, la seconda del viaggio come proiezione di sé nel futuro, alla conquista di nuovi diritti
e di un destino migliore. Nella prima parte, il saggio erudito di Simonetta Ulivieri
verte sul viaggio come metafora formativa, rievocando le diverse forme di viaggio al femminile, spesso riservate a principesse e nobili alla scoperta dell'amore, il
viaggio religioso cristiano e i pellegrinaggi, in particolare quello della galiziana
Egeria in Terra Santa. Il viaggio educativo si diffonde tra Sei e Settecento tra gli
aristocratici e ricchi borghesi del Centro-Nord Europa, ma le donne ne erano
escluse fino al turismo culturale di origine anche americana, che le coinvolge nel
decennio 1870-1880, le porta alla scoperta dell'arte italiana. In seguito, le donne
delle zone più povere di Italia saranno invece costrette ad emigrare verso il Nuovo Mondo. Spinte a oltrepassare il limen alla scoperta di altri mondi, non senza
provare afflizioni di fronte al senso dell'ignoto, allo spaesamento e al disagio materiale provato per raggiungere paesi lontani, le donne affrontano il viaggio con
mete immateriali di denuncia e liberazione così ben descritte dalla letteratura o
dalla cinematografia. Infatti, come ricostruisce Ulivieri, «il viaggio di formazione,
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la crescita intellettuale, il piacere della conoscenza sono motivi storico-culturali
che si collegano relativamente tardi alla formazione delle donne, e che possiamo
datare dal Settecento in poi» (p. 45).
Tiziana Pironi tratta della vicenda esistenziale di Leda Rafanelli (1880-1971) –
scrittrice anarchica assai originale per formazione, percorso di vita e idee socialiste – la quale trascorse un periodo della sua vita ad Alessandria d'Egitto, ove si
rifugiarono anche numerosi esponenti del movimento anarchico. Attraverso lo
studio della biografia della scrittrice, straordinaria per quei tempi, è possibile cogliere il cambiamento prodotto dal soggiorno che aveva offerto l'occasione di un
confronto personale con l'Islam e l'Oriente e che aveva lasciato una traccia profonda nella sua fede musulmana vissuta in modo assai singolare e nei valori di
pacifismo e anticolonialismo che caratterizzarono il suo pensiero libertario. In
numerosi romanzi (scritti anche con pseudonimo), la dimensione del viaggio viene espressa dalla Rafanelli come desiderio di avventura e richiamo nostalgico alla
ricerca di un paradiso vagheggiato in uno spirito libertario e anticoloniale che caratterizza tutta la sua opera e il suo pensiero.
Milena Manini analizza il viaggio intellettuale di donne universitarie di Bologna negli anni Novanta e cioè un'esperienza di mobilità vissuta da docenti e ricercatrici universitarie di area umanistica a partire dalla riflessione su alcune letture condivise di Renate Siebert, Carol Gilligan e Luisa Muraro che, sotto il profilo
sociologico e filosofico, si interrogavano su generazioni femminili, sistema valoriale e ordine simbolico della donna in quanto madre, intesi come critica al concetto di emancipazione femminile.
Il viaggio come metafora dell'esistenza umana nella letteratura per ragazzi del
Novecento viene affrontato da Susanna Barsotti, che sottolinea il valore prevalentemente iniziatico del viaggio riservato per lo più ai bambini nei classici
dell'Ottocento, poichè la «svolta nella presentazione dei personaggi femminili»
avviene con Karin Michaelis e soprattutto negli anni Ottanta-Novanta del Novecento con Roald Dahl, Philip Ridley, Neil Gaiman e altri, che pongono spesso
all'origine del viaggio un'incomprensione fra bambini e adulti.
Silvia Leonelli si sofferma sulle case delle scrittrici come meta dei viaggi di autrici come Sandra Petrignani, Marisa Bulgheroni, Lina Merlin e Simone de Beauvoir nell'intento di conoscerne meglio la vita e di trarre ispirazione dai luoghi natali, come si è verificato in taluni casi grazie all'opera di Virginia Woolf, Una stanza tutta per sé (1919), che ha trasmesso a una generazione di scrittrici la consapevolezza che per scrivere era «indispensabile una stanza tutta per sé. Chiusa a
chiave» (p. 99). Nelle narrazioni autobiografiche, inoltre, queste scrittrici analizzano significati immediati, evocativi e simbolici degli oggetti riportati dai viaggi,
carichi di ricordi.
Il tema del viaggio verso una nuova identità è stato affrontato in modo assai
originale da Andrea Mannucci, che si sofferma su alcuni aspetti legati alla relazione fra disabilità e sessualità a partire dalle loro radici storiche cristiane fino al
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mondo antico e medievale, allorquando si definirono figure di donne con modi
diversi di essere e vivere la propria sessualità. L'attenzione finale alle problematiche legate alla scarsa educazione sessuale fra gli adolescenti normodotati e diversabili ha il pregio notevole di affrontare un tema ancora poco trattato in Italia,
malgrado il dibattito europeo in merito.
Nella seconda parte del volume dedicata al viaggio come proiezione di sé nel
futuro, il primo saggio di Roberta Pace tratta di percorsi e cammini di donne alla
ricerca della cittadinanza, ossia dei diritti dai quali per secoli sono state precluse.
Traendo spunto dall'opera di Michel Onfray sulla filosofia del viaggio, che nel Sei
e Settecento collocava il suo inizio, si sofferma su Mary Wollstonecraft che intraprende il cammino dell'emancipazione culturale e politica delle donne per
giungere a Olympe de Gouges, che diventa una femme de lettres in un mondo prevalentemente maschile. Nel 1771 la de Gouges pubblica la sua «Dichiarazione dei
diritti della donna e della cittadina», con implicazioni politiche rivoluzionarie inedite; le sue prese di posizione nuove e radicali le costarono la vita durante la rivoluzione francese.
Nel suo saggio, Giovanna Campani affronta il tema dei percorsi che compongono il viaggio d'emigrazione a partire dalla biografia di Anastasia, una donna
originaria della Guinea equatoriale (conosciuta dall'Autrice durante una conferenza svoltasi a Siviglia). Dal racconto di questa particolare viaggiatrice emerge
una visione negativa del modello di donna delle Magdalene di Madrid, dalle quali
era stata ospitata inizialmente, in quanto nella sua percezione il cristianesimo
spagnolo proietta una concezione di donna e maternità che nega la naturale dignità umana di quest'ultima. La sua biografia svela altresì il percorso «a lieto fine»
di una ragazza madre che grazie a un lavoro di domestica in una famiglia australiana a Siviglia è riuscita a terminare gli studi universitari e a lavorare come mediatrice culturale, rendendo visibili le donne nei processi migratori con quello che
la loro cultura di femminilità implica.
Francesca Marone analizza alcuni testi scritti da donne intellettuali plurilingui
vissute in contesti internazionali e, in quanto tali definite anche «nomadi» e caratterizzate dall'extraterritorialità perchè hanno acquisito identità ed esperienze «in
un altro luogo». Particolarmente preziosi per cogliere i concetti della percezione
di sé e della trasformazione in chiave femminile, i testi di Joyce Lussu, Alba de
Céspedes e Goliarda Sapienza rivelano, accanto alle biografie delle autrici, soggettività femminili di diversa origine e traiettorie internazionali di donne che si
formano e si impegnano in lotte politiche nel corso del Novecento.
Affrontando da un angolo diverso alcuni temi già emersi, Tiziana Chiappelli
riflette sulle testimonianze orali e cioè sui racconti delle donne migranti, le quali,
con le loro prime impressioni all'arrivo in Italia alla ricerca di un futuro migliore
e il loro triste confronto con la realtà, constatano che la «mancanza di tutela minima per i propri figli, oltre che per se stesse, pesa come un macigno sulle donne
migranti» (p. 201).
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Francesca Pulvirienti analizza i risultati di un corso dal titolo «Autonomia scolastica e professionalità docente» realizzato da corsiste e corsisti della SISSIS nel
settembre del 2007 a Catania che consisteva in un viaggio volto all'esplorazione
del proprio Sé professionale, alla socializzazione e alla condivisione delle varie
esperienze. Sorprendenti sono stati i risultati che hanno messo in evidenza come
al termine del progetto, le insegnanti, inizialmente catatterizzate da un'identità
neutra, siano approdate a un'identità di «insegnante di genere» all'insegna «della
nuova logica della 'razionalità riflessiva' dell'epistemologia costruttivista» e che
non scinde il Sé professionale dalla propria identità di genere, come dimostra un
prezioso inserto sul resoconto delle protagoniste del viaggio.
Conclude la riflessione Chiara Tognolotti con un saggio sui percorsi al femminile nel cinema on the road della fine degli anni Sessanta, con qualche considerazione su Corazones de mujer di Pablo Benedetti e Davide Sordella (del 2008).
Mentre i primi erano accomunati dal viaggio inteso come percorso di formazione
interiore, quello verso Casablanca dei due omosessuali Shakira e Zina del film
Corazones de mujer è un viaggio che ridefinisce i contorni dell'identità di genere
«sostituendo al viaggio (che pure resta, ma viene ridotto a sfondo quasi invisibile)
un'esplorazione dell'universo dei sentimenti e delle emozioni che avviene in gran
parte in maniera introspettiva» (p. 234).
I saggi raccolti ricompongono in un vasto mosaico il vissuto di tante donne
che da una parte si sono allontanate dai luoghi natali per scoprire mondi lontani,
civiltà e soggettività di genere e, dall'altra sono giunte in Europa per trovarsi in
una società diversa dall'immagine che ne avevano, riflettendo nella loro autorappresentazione le molteplici esperienze di conflittualità culturali. Filosofia del
viaggio, storia delle donne e dell'emancipazione femminile, pedagogia interculturale e filosofia dell'educazione si intrecciano abilmente in un'ottica di valorizzazione dell'esperienza del viaggio in tutte le sue dimensioni reali, metaforiche,
simboliche, linguistiche e, senza dubbio, umane. Si tratta di saggi di grande interesse scientifico per il ventaglio delle fonti analizzate e per gli approcci disciplinari abilmente coniugati, di grande sensibilità e di piacevole lettura.
Un patrimonio culturale inesauribile quello della formazione di tante donne
che diventano straniere e che vivono forse anche da straniere a se stesse, per citare la nota scrittrice di origine bulgara Julia Kristeva la quale, nell'opera Étrangères
à nous-mêmes (1988), invitava ad educare ad apprezzare l'alterità nelle sue peculiarità a dispetto di una superficiale vana integrazione. I viaggi hanno senza dubbio la
funzione di educare a questa prospettiva nel rispetto dell'alterità.
Dorena Caroli
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Loiodice I. (a cura di), Sapere pedagogico. Formare al futuro tra crisi e progetto, Bari,
Progedit 2013, pp.180.
Il volume "Sapere pedagogico. Formare al futuro tra crisi e progetto" costituisce il primo dei "Quaderni di MeTis" curato da Isabella Loiodice con saggi di
Annacontini, Baldacci, Cambi, Dato, De Serio, Frabboni, Loiodice, Pinto Minerva, Riva e Rossi.
Il volume presenta, attraverso lo sguardo interpretativo di autori diversi, temi
caratterizzanti il pensiero e l'agire pedagogico contribuendo a definire la pedagogia quale scienza della formazione dell'uomo e della donna per l'intero percorso
della vita, attraverso la pluralità dei contesti e la molteplicità dei tempi.
Il volume, a partire da un approfondimento dello statuto epistemologico, delinea la pedagogia quale scienza dialogica, aperta, plurale, in movimento (Pinto
Minerva) capace di incrociare ed interconnettere dimensioni, elementi, punti di
riflessione diversi e a prima vista - apparentemente - distanti (quali ad esempio
razionalità e affettività, intuizione e logica). La pedagogia, quindi, come "sapere
creativamente in progress" (p. 2), mai del tutto inquadrato, definito e delimitato
proprio in quanto calibrato sul continuo movimento ed evolversi della vita stessa. Questo, nell'orizzonte culturale post moderno, contribuisce a caratterizzare lo
statuto epistemologico della pedagogia come resiliente volendo indicare il "movimento ciclico e continuamente trasformativo" della pedagogia (Annacontini) che
è chiamata "alla capacità/necessità […] di riflettere sui suoi presupposti, praticando una trasformazione, un cambiamento degli stessi assi portanti la sua riflessività e la sua produttività scientifica" (p. 17).
Questa natura, inquieta e problematica si connette direttamente con l'oggetto
stesso della pedagogia: l'uomo e la donna visti nella pluralità e multidimensionalità di tempi, luoghi, prospettive e modelli interpretativi.
Il volume si concentra poi, con i saggi di Cambi e Frabboni, sul tema della
formazione visto quale oggetto fondativo della pedagogia. Formazione che si caratterizza come "processo dinamico, aperto, autoriflessivo; come avventura che ha
una meta, ma che resta sempre come 'fine in vista' (possibile, realizzabile) e come
compito (regolativo)" (Cambi, p. 40). Una formazione che si preconizza "irrorata
da una salutare pioggia intergenerazionale" (Frabboni, p. 54) e per questo capace
di valorizzare la famiglia quale luogo primario dove si intessono scambi tra le generazioni "impregnati di emozioni aggrovigliate, aspettative, pretese, bisogni e
manipolazioni" (Riva, p. 76). Quest'ultimo elemento evidenzia l'importanza e la
necessità nella formazione di "una tempestiva e costante alfabetizzazione emotiva […] che consente di sviluppare da un lato competenze emotive di autoconsapevolezza e autorealizzazione ma […] anche competenze sociali di comprensione, ascolto, condivisione" (Dato, p. 121).
Una formazione di cui viene richiamato, attraverso il saggio di De Serio, il
concetto di libertà quale condizione ineludibile - sin dalle prime età della vita 447
per formare soggetti autonomi, indipendenti e responsabili, capaci di formarsi
muovendosi fra cambiamento e permanenza in una "dimensione transitoria […],
del cambiamento continuo" (Loiodice, p. 101).
Formare uomini e donne al futuro in quest'epoca di transizione e costante
mutamento significa, quindi, ridare centralità al progettare che si configura come
capacità/possibilità di "scegliere, decidere, attribuire significato all'agire, rinunciare al disordine, rifiutare il casualismo e il frammentarismo" (Rossi, p. 63) configurando, perciò, una vera e propria pedagogia del divenire.
Scopo ultimo della formazione, e quindi della pedagogia, non è dunque tanto
il prodotto, il risultato, ma il processo che nel suo farsi - anche dialogando e contaminandosi di altri saperi - mette a sistema idee, conoscenze ed anche emozioni,
logica e razionalità.
Proprio quest'ultimo aspetto viene affrontato da Baldacci che illustra l'opposizione fra le concezioni sulla natura dell'intelligenza (singola o plurima) e del suo
ruolo nei processi formativi.
Nella società liquida e dall'economia dell'immateriale la formazione - e quindi
la pedagogia - è chiamata a farsi "crocevia di incontro tra più-linguaggi, tra piùpensieri, tra più-utopie" (Frabboni, p. 54), connettendo "teorie e prassi del passato e del presente per volgerle in direzione futura" (Loiodice, p. VII).
In sintesi il volume riflette pienamente gli obiettivi dichiarati dalla rivista Metis - a cui il volume fa capo - ossia mobilitare saperi e prospettive diversi, contaminandoli e meticciandoli, andando dunque oltre gli steccati e le barriere, oltre limiti predeterminati.
Il testo si offre, in ultima analisi, come occasione di incontro e scambio dialettico, come spazio di discussione, confronto e (ri)-elaborazione sui temi del sapere
pedagogico e dell'agire formativo tra interpretazioni differenti tese a trasformare
le diversità in risorse per prospettare un orizzonte, una idea-limite di pedagogia e
di formazione capace di muoversi tra una situazione presente di crisi e la necessità
di progettazione e di speranza futura.
"In una parola, la formazione - e […] la pedagogia - permane nel cambiamento e
forse proprio attraverso il cambiamento, rispecchiando […] la caratteristica costitutiva della società contemporanea (Loiodice, p. VII).
Gina Chianese
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Formenti Laura (a cura di), Sguardi di famiglia. Tra ricerca pedagogica e pratiche educative, Guerini Scientifica, Milano 2014, pp.197.
Il volume, ideato e curato da Laura Formenti, propone un interessante ripensamento della ricerca pedagogica intorno al tema della famiglia oggi, in una società complessa, disgregata, contraddittoria e globalizzata. Il tema risulta attualmente centrale a molteplici livelli: sociale, educativo, assistenziale, politico. Sono ben
note le battaglie politiche di segno contrapposto combattute in nome della famiglia tradizionale o, al contrario, di modelli del tutto alternativi, come nel caso delle famiglie omogenitoriali. Il volume – come spiega la curatrice Formenti nell'introduzione – vuole ripensare criticamente l'apporto dato dalla ricerca pedagogica
al tema della famiglia, a partire da richiami storici per poi descrivere la sua attuale
multiformità. La ricerca pedagogica ha tardato a considerare la famiglia come oggetto pedagogico specifico, che ha acquistato solo di recente una rilevanza conoscitiva alla luce del rinnovamento dei paradigmi interpretativi e del tramonto di
vecchi stereotipi. Va sottolineato, a questo proposito, che si deve a Riccardo
Massa l'istituzione, nel 1999, del primo corso di Pedagogia della famiglia in una
università pubblica (Milano-Bicocca). Un evento importante sul piano formativo,
culturale e istituzionale. Sicuramente, erano maturi i tempi, in seguito a una serie
di fenomeni complessi intrecciatisi tra di loro: la progressiva laicizzazione della
società e parzialmente anche della pedagogia, il consolidamento delle scienze
dell'educazione accanto al pensiero pedagogico di ispirazione più tradizionale, lo
sviluppo della ricerca pedagogica sull'età adulta, sull'adultità come condizione
dell'esistenza e sul lifelong learning, la professionalizzazione del lavoro educativo
e la formazione universitaria richiesta agli educatori professionali. Ciò ha condotto alla possibilità per un verso di approfondire in modo più rigoroso, e teoricamente supportato, la natura dei fenomeni sociali che gli operatori incontrano nel
lavoro educativo e, per l'altro verso, di fondare il loro intervento in modo meno
occasionale, legato più al cosiddetto buon senso o a una ideologia moralistica di
orientamento che a una analisi approfondita della natura dei problemi. Sono anche stati prodotti testi, in ambito pedagogico, dedicati alla cura, alle emozioni,
alle relazioni, agli affetti, all'educazione sentimentale (Riva, Iori, Mortari, Rossi,
Galanti,Covato, Borruso, Cantatore, Marone, Ulivieri Stiozzi), che hanno contribuito a porre in piano piano l'azione formativa dei sentimenti, sia nel loro darsi
nel vissuto – secondo una lettura fenomenologica – sia nella loro rilettura in
chiave psicoanalitica. Di particolare rilievo il ruolo svolto dal costrutto di ''pedagogie narrate'' nel dare piena dignità alla storia della vita quotidiana delle e nelle
famiglie, in cui elettivamente si formano le soggettività e si apprendono i modi di
stare nelle relazioni umane. Molti altri fattori hanno concorso a mettere sotto i
riflettori il tema della famiglia come oggetto adeguato ad assumere una propria
dignità di oggetto pedagogico da studiare, quali la forte denatalità (Pati), i divorzi,
le separazioni e le famiglie ricostituite (Iori), le famiglie migranti (Caputo, Mosca449
to), i ruoli di genere (Contini, Ulivieri), gli stili di vita (Sapio). A partire da un rilettura storica del fenomeno e del senso delle metamorfosi della famigli patriarcale fra Otto e Novecento, il presente volume vuole contribuire a rileggere anche
con sguardo pedagogico questo insieme di temi, più tipicamente analizzati dalla
psicologia e psicopatologia, appieno riconoscendo la necessaria e ineludibile interdisciplinarietà nella ricerca di comprensione profonda dei fenomeni complessi
della postmodernità. La pedagogia della famiglia include in sé sempre una duplice
attenzione: teorica e operativa. La ricerca pedagogica sulla famiglia è opportuna
per ''evidenziare, sostenere, progettare processi di apprendimento-educazioneformazione'', ponendo le condizioni per rendere migliore il contesto sociale e
collettivo. Il volume intende,dunque, porsi come qualcosa di più di una raccolta
di saggi, perché la premessa di ogni capitolo riguarda la messa in luce dello specifico sguardo utilizzato da ogni autore, in modo da render conto della molteplicità
di punti di vista da cui il tema della famiglia può essere affrontato in chiave pedagogica. La dichiarazione consapevole della propria epistemologia è la carta d'identità e il filo rosso del volume, che vuole porsi come un riferimento criticoriflessivo nello scenario pedagogico attuale.
Il capitolo di Borruso, attraverso l'analisi di lettere, diari, documenti relativi alla vita privata delle famiglie, svolge uno studio volto a mettere in luce le complesse trasformazioni storiche della famiglia borghese fra Sette e Novecento. Riva, con un taglio psicostorico inteso come strumento di lavoro per la ricerca pedagogica, esamina le dinamiche trans generazionali dal secondo dopoguerra in
poi, rintracciando il filo rosso invisibile che lega le generazioni in una catena,
purtroppo in grado di trasferire pesanti eredità inconsce e ''cibo avvelenato''. Musi utilizza uno sguardo fenomenologico – servendosi dell'attenzione all'esperienza vissuta, all'epochè, all'empatia, per riconoscere l'irriducibile alterità di chi ci
circonda, in famiglia o meno, indicando poi come le categorie trasversali dell'analisi fenomenologica – generatività, testimonianza, ricerca – possono orientare
l'intervento educativo verso forme di sostegno alla famiglia. Sità si concentra sul
'farwe famiglia', cioè sulle ''pratiche investite di senso'' che le famiglie ogni giorno
mettono in atto per costruire i propri legami. Lo sguardo pedagogico può essere
uno strumento per riconoscere la dimensione attiva dei comportamenti dei
membri della famiglia. Gigli ricerca una lettura pedagogica della pluralizzazione
dei legami familiari, esaminando la rivoluzione antropologica in atto che sta modificando modelli educativi e patti familiari più tradizionali. Stramaglia fornisce al
lettore la possibilità di riconsiderare la presenza spesso sottovalutata dei nonni,
spesso trascurata nella ricerca pedagogica. Attraverso il porre in primo piano il
legame con questa terza figura dei nonni, propone il concetto di ''fragilità praticabile'', volto a nominare e integrare la fragilità, potendo superare anche momenti critici dell'esistenza. Ulivieri Stiozzi si serve dello sguardo psicoanalitico per
mostrare alla ricerca pedagogica come le relazioni siano giocate dall'inconscio. In
particolare, grazie alla metafora de ''teatro interno'', viene presentata una rifles450
sione sulla famiglia come prodotto di una storia interiorizzata, fatta di memorie
consapevoli ma anche di storie mute, da sottoporre a una trasformazione grazie
anche ad interventi educativi. Milani conduce l'attenzione sul fenomeno in aumento della negligenza familiare, interrogandosi su quali interventi educativi possono essere progettati per contrastarla. Milani vuole superare un approccio, a suo
parere riduttivo, centrato solo sulle relazioni tra minori e adulti, per allargare il
campo di studio alle relazioni ecologiche dei soggetti con i loro più ampi contesti
sociali di appartenenza. Premoli affronta la questione del lavoro socio educativo
con le ''famiglie spettinate'', a partire dai diritti e non dai bisogni. Infatti, occorre
riconoscere le competenze di tutti gli attori in campo, bambini, genitori, adulti, in
modo che, sentendosi riconosciuti, possano coltivare un pensiero riflessivo intorno alle proprie pratiche. Infine, il capitolo finale redatto da Formenti utilizza
uno sguardo sistemico/composizionale, estetico ed enattivo, volto a studiare il
Noi familiare come organismo trans individuale. Particolare attenzione, oltre alla
famiglia come oggetto di intervento, è data alle premesse teoriche che guidano
l'azione educativa e pedagogica.
Carmela Covato
451
Gecchele M., Momenti di storia dell'istruzione in Italia, Pensa Multimedia, LecceBrescia 2014, pp. 444.
Momenti di storia dell'istruzione in Italia, pubblicato nella collana "Emblemi. Teoria e storia dell'educazione", è frutto di anni di studio, ricerca e insegnamento che
Mario Gecchele condensa offrendo un contributo del tutto originale.
Analizza la storia dell'istruzione pubblica, dalla sua affermazione alla presa di
coscienza dell'importanza di una formazione anche da parte delle classi popolari.
La dimensione storica-pedagogica è coniugata con alcune problematiche metodologiche-didattiche. Infatti, il testo propone un "affresco" di ciò che avviene
all'interno dell'istituzione scolastica, con ampi riferimenti al metodo di insegnamento, alla relazione tra docente e alunno, ai testi adottati, ai sussidi disponibili.
La trasformazione della scuola è illustrata non solo in senso cronologico, ma facendo riferimento alla quotidianità, al "fare scuola". Ad esempio, per quanto riguarda il periodo successivo all'entrata in vigore della Riforma Gentile del 1923,
l'Autore non si limita a riferirne i principali caratteri, ma fa luce sul vissuto di
ogni giorno da parte di docenti e alunni, offrendo un quadro illuminante ed esaustivo di come progressivamente l'istituzione scolastica diventi un luogo che non
solo risente dell'ideologia fascista, ma un vero e proprio strumento di propaganda politica per poi lentamente, da questo punto di vista, perdere incisività.
Articolato in nove capitoli, il volume affronta alcune questioni fondamentali
della storia della scuola italiana. Riguardo alla figura del docente e della sua formazione delinea come faticosamente vada maturando la consapevolezza della
necessità di una specifica competenza professionale. La problematica dell'insegnamento della religione e della laicità dello Stato è interpretata con riferimenti
alla storia locale. La disabilità, affrontata in prospettiva storica, fa comprendere
come si realizza il passaggio dall'assistenza all'integrazione e da quest'ultima
all'inclusione.
La seconda parte del libro propone un percorso legislativo: i due capitoli ricordano le principali leggi tra Ottocento e Novecento in merito all'istituzione
scolastica a partire dalla quella per l'infanzia fino alla media.
Particolarmente curato risulta il ricco apparato iconografico con la riproduzione di documenti per lo più inediti, di manoscritti, di copertine di libri in uso
per l'insegnamento unitamente a quadri, disegni e foto d'epoca attinenti la vita
della scuola.
Le immagini accompagnate dalla relativa puntuale didascalia contribuiscono a
mettere a fuoco i numerosi concetti presentati, completando in maniera interessante il libro che si presenta come un manuale particolarmente utile per quanti
frequentano i corsi di Storia della Scuola e gli iscritti a Scienze della Formazione
Primaria.
Paola Dal Toso
452
Mancino E., A perdita d'occhio, Mursia, Milano 2014, pp. 274.
Chi e che cosa, più dello sguardo poetico, può dare voce ai turbamenti dello
sguardo, alle sue imprevedibili inquietudini, ai timori che lo attraversano, mentre
spalancandosi sulla realtà ne coglie il volto sfuggente e proteiforme? Lo sguardo
viene prima del dire e del dirsi nella parola che tenta di imprigionarlo in impressioni pittoriche determinate, e ritorna immediatamente dopo, quando il parlare,
con le sue pause, lascia spazio ai silenzi che attraversano la vita, ne attutiscono i
rumori, addolciscono i sensi. Perché la parola ha bisogno dello sguardo per appoggiarsi alla realtà, ma … a quale realtà? Quella che ci sfugge inesorabilmente in
un darsi che non può esser che transeunte; quella che si nasconde, heideggerianamente, nell'attimo stesso in cui si rivela.
Lo sguardo, per lo meno quello poetico, può esser solo A perdita d'occhio: questa sembra essere la tesi di Emanuela Mancino, che riflette sull'opportunità di
(ri)posarlo e (ri)posizionarlo per concorrere alla elaborazione di una "pedagogia
del sospeso". Un concetto, quello di sospensione, con forti ascendenze nietzscheano-bertiniane, che sigla la disappartenenza dell'esistere al regno del già dato e sottrae i gesti dell'educare all'immobilismo e al semplice senso di ripetizione
dei riti consacrati: lì l'esperienza muta, per il suo frasi creativamente e generativamente lieve, e il mondo si tinge di epifanie rare e rarefatte che non temono
l'incontro con la solitudine dell'artista ebbro ed eterno, piuttosto che di quello
tormentato dal peso del dolore e di una coscienza travagliata dall'affanno.
Un altro sguardo, quello fenomenologico husserliano, ci ricorda tuttavia che
la sospensione è anche del giudizio: di una mente a favore di un'altra, quando
nessuna delle due s'affida al dirsi della poesia e al suo conclamato essere aperto
all'alterità, e l'una vorrebbe pronunciare le parole che l'altra ancor le cancella e
nasconde. Qui, il dirsi saggistico prende il sopravvento sul frammento lieve e inconcluso, e procede per tracce ed indizi, mentre tenta d'incamminarsi verso le
cose stesse: quali cose stesse? Quelle di fronte a cui lo sguardo si sente in "esilio"
e fa solo "dischiudere la possibilità della presenza e del ritorno in un più responsabile 'sono qui'." (p. 15) L'"imparare a guardare" è differente dal "poter vedere"
– prosegue l'Autrice – presuppone l'attraversamento dell'"innamoramento" come
della "meraviglia", la tolleranza della "cecità".
Oltre l'infanzia del linguaggio, il mito smarrisce il suo magico animismo, ma
diviene euristicamente denso di nuovi incontri e opportunità: di ricerca del senso
in luoghi più insoliti di quelli già battuti, di riscoperta di memorie dolorose, dalle
quali sgorga un pianto finalmente felice, per il loro redimere il passato, restituendogli linfa, forza e vigore. E quando i ritorni, come quello di Ulisse, si fanno impossibili, solo allora, la dimensione del viaggio abbraccia quella del volo e si fa
dissolvenza: lì l'atto ermeneutico non teme di sconfinare nell'immaginazione che
offre alla parola un differente spazio di abitabilità e di visibilità.
"La scrittura – scrive l'Autrice – è la visibilità dell'altro; è il corpo tangibile del
nostro pensiero come doppio, come dialogo con l'altra lingua di noi, quella che
453
vediamo, che si distacca, che abita il tempo in un tempo diverso dallo sguardo
che la legge e dallo sguardo che l'ha creata. In più, la scrittura è responsabilità e
posizionamento. È dire parole degne del silenzio che infrangono, degne del gesto
di dire stesso." Ebbene, come non ringraziare Emanuela Mancino per il suo aver
voluto infrangere il silenzio con parole di cui tutti noi e il silenzio stesso le siamo
oggi riconoscenti? E come non sperare che molte scritture del nostro tempo diano voce all'altra lingua che è in noi, l'unica in grado di sottrarre il pensiero e la
comunicazione al gomitolo stretto dei giorni in cui ogni nuova parola pronunciata rischia di essere intercambiabile con tutte le altre già dette?
Maurizio Fabbri
454
Amenta G., Dal disagio alla rinascita del sé, La Scuola, Brescia 2014, pp. 170.
«Il fine dell'educazione è di aiutare ciascuno a liberarsi dai condizionamenti e
a conquistare la capacità di scegliere in maniera consapevole, libera, responsabile», laddove «…alcuni propositi interni alla base dell'agire oltremisura diligente,
compiacente, forte, caratterizzato dalla fretta e dallo sforzo, inaugurano dei percorsi paradossali che boicottano nell'esercizio della libertà responsabile» (p. 97).
E ancora: «Si tratta di tradurre in pratica la difficile arte maieutica, che consiste
nell'incoraggiare l'educando a riscoprire e a ritrovare se stesso, fino a realizzare,
se necessario, una specie di seconda nascita a livello intrapsichico e relazionale,
esistenziale ed esperienziale» (p. 8).
Queste affermazioni, così incisive e stimolanti, già esprimono il senso e rendono conto della cifra di questo volume di Giombattista Amenta, imperniato sui
temi del disagio e della rinascita nell'esperienza del Sé.
L'Autore, ordinario di Didattica e Pedagogia speciale all'Università di Enna
"Kore", ci consegna con questo testo un'appassionata esplorazione sui problemi
della perenne dialettica tra autenticità e falsità nell'esperienza umana, tra conformazione e adattamento acquiescente da un lato, e ribellione e divergenza dall'altro.
Scritto con uno stile chiaro ed efficace, sorretto da un corredo di note e di riferimenti bibliografici ampi e accurati, il volume collega tra loro diversi punti di
vista sui temi del disagio, della natura e delle vicissitudini del Sé nel corso del suo
sviluppo.
Sul piano teorico l'approccio prescelto si caratterizza per una felice integrazione di diverse prospettive e tradizioni storiche, ben esplicitate, nello studio della personalità: dalla prospettiva umanistica ed esistenziale di Maslow, Perls e Allport all'approccio costruttivista piagetiano, dalla pragmatica della comunicazione
umana alle teorie cognitive, rilette in chiave sociale, e al punto di vista più clinico
dell'analisi transazionale di Berne. Ne scaturisce una panoramica originale nella
concezione del Sé, al servizio di una visione pedagogica di livello sovraordinato,
che ha a cuore i temi di un'educazione non direttiva, volta a favorire e a liberare
le potenzialità spontanee insite nell'animo del bambino, così come dell'allievo
nella scuola. Il libro è inoltre ricco di un'ampia casistica clinica, nella quale ci
vengono dati esempi e testimonianze di diversi modi di violare l'esperienza di sé,
o come ricorda l'Autore già in premessa, con un'espressione deliberatamente macabra ma densa di significato, di tumulare, vale a dire seppellire, la natura del proprio Sé, quando ancora sarebbe potenzialmente, a tutti gli effetti, ancora vivo.
L'Autore riprende dall'analisi transazionale il concetto di copione per riferirsi a
quei modelli di rapporto interpersonale interiorizzato che, in qualità di schemi
ripetitivi e coatti, bloccano la possibilità di essere se stessi, riproducendo il passato nel presente in circoli viziosi patologici, laddove un fine dell'educazione diventa quello di favorire una nuova esperienza di vita, in cui il passato possa essere
455
superato nel suo lascito traumatico in una condizione nuova, capace di interrompere la ripetizione del vincolo patologico. La paura di fondo, sostiene ancora
l'Autore, è quella allora della separazione, di vivere attraverso la ribellione un'esperienza traumatica di solitudine, abbandono, privazione.
In questa prospettiva si inserisce dunque la dialettica tra conformazione e ribellione, che trova un felice sbocco nel concetto, particolarmente caro all'Autore,
di integrazione. Se infatti la conformazione del Sé, intesa come risposta compiacente nei confronti dell'ambiente, conduce alla lunga a una progressiva alienazione del Sé dal proprio essere, la ribellione a sua volta, sfociando nell'attacco violento e distruttivo, rischia di non rompere il circolo vizioso patologico, rinchiudendo il soggetto nelle secche dell'egoismo. In questa opposizione l'Autore rivaluta il concetto di integrazione, come sana capacità di adattamento, in grado di
favorire trasformazione e cambiamento sia in se stessi che nell'ambiente, al servizio della relazione con altri.
A tale proposito va qui sottolineato come questi contenuti si pongano in sintonia con le più recenti teorie sull'esperienza del Sé. Uno dei temi su cui l'Autore
riflette maggiormente è quello dell'acquiescenza, dell'adattamento falso e compiacente verso gli aspetti disturbati dell'ambiente, che mina nella sua genesi l'autenticità del Sé.
All'opposto invece abbiamo l'adattamento violento, la ribellione aggressiva
che non risolve il problema alla radice dell'essere se stessi. Ritroviamo qui, come
l'Autore ci ricorda, la dialettica tra vero e falso Sé di Winnicott, a cui si può aggiungere il concetto proprio della teoria dell'attaccamento di modello operativo interno, in seno alla ripetizione dell'esperienza affettiva coartata e patologica. Vi si ritrova anche il concetto psicoanalitico di identificazione proiettiva, intesa quest'ultima
come modalità squisitamente relazionale, attraverso cui il genitore proietta un
aspetto negativo di sé sul figlio, esercitando su di lui un controllo per indurlo a
identificarsi inconsciamente con tale aspetto di sé che gli è stato attribuito. Ecco
che il figlio è come costretto a prendersi con la forza qualcosa di disturbato, che
in origine non era suo, ma che sarà giocoforza portato a vivere come se fosse proprio. È questo il senso della violazione del proprio idioma, come dice Christopher
Bollas, della parte peculiare e più autentica di se stessi.
Si rinnova allora il valore di un'educazione sufficientemente buona, un lavoro
formativo capace di anteporre la comprensione all'azione, per promuovere un'autentica liberazione nell'esperienza di vita del soggetto.
Il volume, per il valore scientifico e per l'attualità delle tematiche espresse, si
rivolge sia a esperti del settore della disabilità, come pure a formatori in ambito
pedagogico, psicologico, psichiatrico e sanitario. Risulta particolarmente adatto
come testo nei corsi di laurea di Scienze della Formazione indirizzati a educatori
e docenti che svolgono le loro attività con bambini e ragazzi in situazione di disagio e di disturbo della personalità.
Tommaso Fratini
456
Montuschi F., Gli equilibri dell'amore. Cura di sé e identità personale, EDB, Bologna
2014, pp.140.
"Uno dei grandi meriti di Montuschi è di aver smitizzato il tema dell'accettazione e della
rassegnazione; di aver collocato la questione della disabilità in una prospettiva realistica, progettuale, di superamento e di sfida, senza demagogie e populismi, nell'intento di rendere chiare le
variabili che intervengono in una situazione complessa e rispetto alle quali l'intervento educativo
può essere dirimente" (Caldin, 2014, in M. Corsi, La ricerca Pedagogica in Italia. Tra innovazione e internazionalizzazione, Pensa Multimedia, Lecce, p. 151).
Così Roberta Caldin sintetizza il grande contributo che Ferdinando Montuschi ha dato nel suo assiduo lavoro durante e dopo la sua carriera universitaria, in
particolare come pedagogista speciale. Anche in questo testo – "Gli equilibri
dell'amore. Cura di sé e identità personale" – uno dei nodi centrali rimane quello
dell'accettazione, in un'ottica di promozione. Non si parla di disabilità in questo
caso, ma dell'importanza che la formazione della propria persona ha nella costruzione dei rapporti sociali.
Attraverso il filo rosso dell'insegnamento evangelico "Ama il prossimo tuo
come te stesso", Ferdinando Montuschi conduce il lettore a riflessioni intorno al
tema dell'Amore verso di sé, verso gli altri, fino alla conquista della condivisione.
Non può esistere un senso del "noi" se non si impara a districarsi nel labirinto
composto da tutti quegli elementi che concorrono a formare l'essenziale rapporto umano tra l'"io" e il "tu". Da questo labirinto è possibile uscire se, giorno per
giorno, si segue un percorso di amore "senza interferenze e senza sconti: né sulla
verità, né sulla propria dignità, né sulla dignità del proprio interlocutore. È una
strada difficile, che richiede la pienezza di sé e il pieno riconoscimento del valore
della persona dell'altro" (p. 124). Abbiamo voluto iniziare la recensione di questo
testo a partire dalle parole dell'autore che, con quella maestria che fa scorrere il
testo in modo fluido e semplice, accompagna il lettore a intravedere come il percorso che porta ad amare sé stessi e il prossimo coincida con il cammino che
porta alla conquista della libertà. Sembra paradossale, o per lo meno non possibile, il connubio amore per sé, per gli altri e libertà; eppure è proprio a questo che
Montuschi conduce il lettore presentandogli, chiaramente, strade e alternative.
Infatti, "la vera e fondamentale premessa all'accettazione dell'altro è la capacità di
rimanere autenticamente sé stessi in presenza di qualunque interlocutore" (p. 95).
Gli elementi di originalità del testo, proprio a questo proposito, sono individuabili in particolare in almeno un duplice obiettivo che l'autore si prefigge di
raggiungere attraverso la scrittura di questo testo. Innanzitutto intende "analizzare l'amore inadeguato verso se stessi che è all'origine di un te stesso come misura
'in difetto'. (…) Cercheremo di evidenziare – utilizzando la teoria dell'analisi
transazionale – i tanti modi con cui non ci si ama, per delineare uno sfondo negativo che serva a mettere in maggior rilievo il profilo positivo della persona che
ama se stessa, con i suoi confini il più possibile definiti" (p. 29). In secondo luo457
go, l'Autore si prefigge di delineare i luoghi percorsi per costruire l'accettazione
di sé, che permette alla persona di investire ogni sua risorsa per avvicinarsi sempre più a quell'identità che vuole acquisire nel 'costruirsi persona', e per costruire
l'accettazione dell'altro, che rimane la premessa per la costruzione del 'campo sociale'.
L'indice rispecchia la linearità e la semplicità, accompagnate dalla profondità e
dallo spessore, del procedere. Quattro capitoli incorniciati tra un'introduzione e
conclusione che riprendono i nodi centrali affrontati senza essere scontate o ridondanti. I primi due capitoli esplicitano le misure in difetto e in eccesso di percezione di sé stessi, con la conseguente costruzione di identità false e pericolose
innanzitutto per sé stessi. Il terzo capitolo indica invece le caratteristiche di una
propria identità credibile. Solo nel quarto capitolo l'autore può procedere con le
caratteristiche dell'amore per il prossimo. A indicare che, solo grazie ad un lavoro
reale su sé stessi è possibile creare un incontro autentico con l'altro.
A partire da una definizione tutta pedagogica di identità, in cui l'identità personale è composta da ciò che fa sì che una persona non sia identica a nessun'altra, Montuschi la lega al concetto di appartenenza mettendo in evidenza la sua duplice natura: di essere sia innata sia acquisita: "La ricerca e la scoperta delle proprie risorse sono una strada efficace per completare l'immagine che ciascuno ha
di sé e per renderla maggiormente positiva, incamminandosi così verso quell'amore di sé che precede e arricchisce l'amore per l'altro" (p. 93).
Gli elementi identitari, quindi, possono essere motivo di disaccordo, ma anche occasione di incontro e comunione e l'appartenenza, dunque, può diventare
non solo un elemento di cultura ma motivo di vera e propria affermazione personale, quando viene integrato nella personalità e nell'intera categoria degli esseri
umani, diventando così un vero e proprio patrimonio della comunità. Da questa
posizione, l'appartenenza può trasformarsi in utile motivo di dialogo. Ecco come
l'autore riesce a spostare il focus di attenzione dal sé alla comunità. L'appartenenza che ci rende parte di una comunità è anche il punto di partenza utile per
l'incontro con il "diverso" e il dialogo accettato legittima gli interlocutori e ammette la loro presenza, anche in prospettiva futura (p. 20).
I contenuti di questo testo diventano tanto più attuali, viste le situazioni
mondiali di difficoltà diplomatiche, quanto più la riflessione si spinge nel terreno
del dialogo, del conflitto, della possibilità dell'incontro. Il dialogo è possibile, ma
resta nel campo della possibilità e non della realizzazione, finché non avviene un
vero incontro tra identità che devono essere definite in modo chiaro e maturo.
Infatti, "l'amore di sé è condizione essenziale per amare il prossimo: ma il passaggio di sé all'altro, anche se possibile, non è automatico" (p. 107).
Il testo non si limita a presentare quali potrebbero essere i percorsi possibili,
ma il punto di vista di questo volume – di forte interesse teorico e riflessivo – si
spinge oltre indicando concretamente alcune azioni che possono corrispondere a
chiari compiti educativi all'interno di una tematica, quella della costruzione dell'i458
dentità, spesso trattata anche da altre discipline. Ad esempio, approfondendo la
tematica del dialogo, e quindi della comunicazione, viene indicato quale elemento
chiave l'assertività che "fa perno sull'accettazione e la valorizzazione di sé (…)
un'accettazione che si conquista con un'educazione consapevole e mirata" (p.
26).
Altro campo, individuato da Montuschi, nel quale la pedagogia e l'educazione
sono chiamate a intervenire è quello proprio dell'apprendimento e, in particolare,
dell'apprendimento relativo ai sentimenti. I sentimenti, infatti, "sono in larga misura il risultato dell'apprendimento realizzato dalla persona nel corso della sua
esistenza" (p. 60) e l'imparare a riconoscerli è un compito che può prevenire situazioni conflittuali. Ad esempio, "riconoscere in sé stessi queste forme di rabbia
può essere utile per meglio padroneggiare il proprio sentire, il proprio agire e per
ritornare il più rapidamente possibile in contatto positivo con se stessi" (p. 69).
Il testo si chiude con l'indicazione, da parte dell'autore, di quei tre elementi
che contraddistinguono un amore reale per l'altro: parità, reciprocità che rende
circolare la relazione, condivisione.
Si tratta di un testo che aiuta a meditare, che porta a riflettere e che si fa rileggere più volte: un testo vivo. Utile a tutti gli adulti che si interrogano sulla propria
identità personale e professionale, il testo è interessante per tutte quelle figure
educative – non solo quelle tradizionali, ma anche quelle che si stanno sviluppando e che agiscono nei campi formali, informali e informali – che ogni giorno
sperimentano l'accompagnamento di percorsi cura e di sviluppo di identità propri di chi è stato loro affidato.
Valeria Friso
459
Gardner H., Davis K., (tr. it.), Generazione App. La testa dei giovani e il nuovo mondo
digitale, Feltrinelli., Milano 2014, pp. 215.
In che modo l'identità personale, le relazioni di intimità con gli altri e le modalità con cui si esercita l'immaginazione sono state riconfigurate negli ultimi decenni
dalle tecnologie digitali e in che modo differenziano generazioni nate nel secondo
Novecento: Howard Gardner (anni '50), Katie Davis (fine anni '80) e Mollie Davis (fine anni '90)? Tre approcci generazionali sensibilmente diversi alletecnologie
digitali, che vengono analizzati dagli Autori con un argomentare serrato e affascinante, al fine di approfondire le conseguenze dell'uso diffuso dei social network e in particolare delle App, cioè di queisoftware che si utilizzano solitamente
su dispositivi mobile e consentono di portare a termine una o più operazioni.
La diffusione delle app sta cambiando (in meglio o in peggio? Oppure, alternativamente, nell'uno o nell'altro) le abitudini di vita e gli stessi modi di pensare
delle persone: le caratteristiche delle appsono infatti quelle di essere veloci, su richiesta e tempestive. Si va ora alla ricerca di un'app per qualsiasi cosa: dalla mappa per raggiungere una località alla ricerca di alberghi o di ristoranti o per l'accesso a brami musicali,a film, alle informazioni più disparate. Tuttavia, proprio la
facilità e la velocità di acquisizione delle informazioni si trasforma spesso in una
"scorciatoia" che evita di impegnarsi a orientarsi in uno spazio, a chiedere informazioni o a ricercarle in internet o negli archivi della propria memoria.
Le considerazioni formulate dagli Autori si snodano nel volume attraverso
un'approfonditaargomentazione che cerca sempre di analizzare dialetticamente il
tema, nei suoi aspetti positivi e negativi (anche se inevitabilmente emerge il giudizio critico e anche per certi versi preoccupato degli Autori): «La nostra tesi è
che i giovani di quest'epoca non solo sono immersi nelle app ma sono giunti a
vedere il mondo come un insieme di app e le loro stesse vite come una serie ordinata di app (…). Tutto ciò che un essere umano può desiderare deve poter essere fornito da una app, se la app richiesta non esiste, deve essere rapidamente
inventata da qualcuno (…) se nessuna app adatta può essere immaginata o inventata, allora il desiderio (o la paura o il dilemma) semplicemente non ha importanza" (p. 19).
Il volume svolge in maniera articolata e serrata una serie di analisi - esito non
solo delle lunghe conversazioni tra i due autori del libro e la sorella dell'autrice,
Molly e infine anche con il nipotino di Gardner, Oscar, ma anchedi ricerche
condotte per anni dal gruppo di Gardner - con l'obiettivo non di demonizzare le
tecnologie digitali ma di elaborare forme pedagogicamente "sane" di utilizzazione.
Alcune considerazioni finali di Gardner e Davis appaiono largamente condivisibili: «Le app sono perfette se si occupano delle cose quotidiane, rendendoci in
questo modo liberi di esplorare nuove direzioni, tessere relazioni più profonde,
riflettere sui misteri della vita e costruirci un'identità unica e ricca di significato.
460
Se invece ci trasformano in abili pantofolai, incapaci di ragionare con la propria
testa o di porre nuove domande, sviluppare relazioni significative, o costruire un
senso del sé appropriato, elaborato e in continua evoluzione, allora le app semplicemente spianano la via alla schiavitù, intesa in senso psicologico» (p. 20).
Si tratta allora di educare ad essere app-attivi e non app-dipendenti, mantenendo alcune abilità indispensabili della mente (l'approfondimento, la riflessione,
lo spirito critico, la ricerca-scoperta) e sviluppandone altre (la capacità intuitiva,
reticolare).
Particolarmente illuminante il capitolo sull'identità personale nell'era delle
app, che mette in evidenza tutta una serie di possibili pericoli nell'utilizzo esclusivo e superficiale delle app e in genere delle tecnologie digitali: versioni artefatte e
false della propria identità virtuale rispetto a quella reale, l'individualismo e il "sé
confezionato" che ne può derivare (con rischi di esibizionismo), la tendenza,
quasi compulsiva, a fare contemporaneamente più cose (parlare con qualcuno,
chattare con qualcun altro, andare in tram, ascoltare musica…), la preferenza per
le comunicazioni virtuali rispetto a quelle in presenza («sempre connessi ma non
sempre comunicanti», p. 99) riducendo le relazioni faccia a faccia che costringono spesso anche a rendere manifesta una fragilità/vulnerabilità che nella rete può
non apparire o che si teme di mostrare. A questi pericoli si contrappone lo sviluppo dell'immaginazione che molte app possono promuovere, mettendo a disposizione strade inedite e molteplici per l'espressione della propria creatività:
oggi praticamente tutti possono produrre un video, un cd, mixare più linguaggi.
Rimane il rischio che si tratti di un'immaginazione in ogni caso "manovrata" da
chi elabora i software e che quindi costringe a fare solo ciò che il software consente di fare.
Le ricadute di questo discorso non possono che avere valenza educativa,
nell'ottica della formazione e dell'apprendimento permanenti, visto che ora più
che mai le tecnologie accompagnano le persone dalla nascita fino all'ultimo istante della propria esistenza. Da una parte, quindi, occorre sottolineare la straordinarietà del fatto che le tecnologie consentono ora relazioni, comunicazioni e collaborazioni prima impensabili, superando i vincoli spazio-temporali («Tutto questo è splendido», dicono gli Autori, p. 160). Al contempo, però, il rapporto educativo, a partire dai primi gradi scolastici fino all'università e alla formazione
permanente, necessita dei momenti faccia a faccia e la formazione non può essere solo un accumulo di MOOC (massive open online courses), senza incontrare
mai realmente nessuno; la stessa valutazione degli apprendimenti si ridurrebbe a
un insieme di verifiche quantitative, affidate a test anche elaborati macalibrati solo su tipologie di apprendimenti che non "colgono" quelle capacità di pensiero
critico e riflessivo vitalmente congiunte alla dimensione emotivo-affettivo e socio-relazionale.
Non si tratta, evidentemente, di rimpiangere il bel tempo che fu e neppure di
negare le straordinarie possibilità offerte dalle tecnologie digitali e quindi anche
461
dall'uso delle app; si tratta però di saper "dominare" i software e di imparare a
non farsi manovrare, limitandosi a fare, a pensare, a relazionarsi solo ed esclusivamente nella forma e secondo le possibilità consentite dagli autori dei software.
Concludono gli Autori: «Per noi, e per coloro che verranno dopo di noi, desideriamo un mondo in cui ognuno abbia la possibilità non solo di dare le proprie
risposte , ma anche di porre le proprie domande, e di affrontarle a modo suo» (p.
178).
Isabella Loiodice
462
Biffi E., Le scritture professionali del lavoro educativo, FrancoAngeli, Milano 2014, pp.
160.
Quello educativo è un lavoro complesso, che richiede ai suoi operatori competenze professionali plurime e differenti. Dalle competenze di natura relazionale, chiaramente connesse al lavoro di relazione con l'utenza; a quelle di natura riflessiva ed emotiva, inerenti la gestione di quella stessa relazione e del suo portato su di un piano consapevole e non; a quelle di natura gestionale ed organizzativa, relative alle dimensioni anche amministrative del proprio intervento all'interno dei servizi; a quelle connesse alle capacità di operare all'interno di équipe multi-professionali, a stretto contatto con altri operatori ed altri servizi oltre al proprio.
All'interno di tale complessità, esiste una competenza trasversale che sovente
viene dimenticata, vale a dire quella connessa alla capacità di tradurre il proprio
lavoro – in ogni sua fase, dalla progettazione, alla realizzazione, alla valutazione –
in testo scritto.
Il volume di Elisabetta Biffi fa della necessità di una simile competenza il
punto di partenza, argomentando, nel corso della sua riflessioni, quali siano e
quali funzioni rivestano le scritture professionali del lavoro educativo.
Si tratta di argomentazioni che dipanano alcuni aspetti cruciali, primo fra tutti
il rapporto fra la documentazione – intesa come funzione connessa al lavoro
educativo ma anche come produzione completa – e le scritture professionali che
animano la quotidianità dell'operato dei professionisti. Se, infatti, documentazione e scritture possono apparire ad un primo sguardo quasi coincidenti, si tratta
invece di livelli differenti, la prima connessa ad una funzione trasversale del servizio e dell'operatore, la seconda connessa ad una pratica che si declina in molteplici produzioni, molteplici testi.
Questo introduce il secondo aspetto che il testo in esame affronta: le funzioni
della documentazione e le vesti ed i ruoli che le scritture professionali incarnano
nei servizi. Si parla, così, della possibilità, attraverso i testi redatti, di progettare e
valutare il proprio intervento, di relazionare quanto si va facendo agli altri interlocutori presenti sul caso, di comunicare il senso del proprio agire e di diffondere
una cultura educativa alla società.
Infine, trasversalmente a tutto il volume, è possibile toccare la preoccupazione dell'autrice verso un aspetto assai delicato: la possibilità di garantire, da parte
degli operatori educativi, alle proprie scritture professionali uno stile prettamente
pedagogico. Nell'analisi di tale aspetto, viene in aiuto quel sapere già consolidato
in alcuni servizi educativi, quali quelli dedicati alla prima infanzia, e nel mondo
della scuola, ove la documentazione è da tempo una prassi pedagogicamente
orientata. Pare, invece, terreno ancora incerto quando ci si addentra in quei servizi che non hanno soltanto come propria missione quella educativa, così come
in quei servizi pur educativi ma chiamati ad interagire strettamente con servizi di
463
altra natura (sanitaria, sociale e così via), ove lo stile presente sembra lasciarsi influenzare da altre scritture professionali ad opera di medici, assistenti sociali, magistrati e così via.
La necessità e la possibilità di costruire testi – relazioni, progetti, materiale
promozionale del servizio e così via – pedagogici è, invece, un aspetto fondamentale per un professionista dell'educazione, poiché è proprio attraverso quei
testi che diviene possibile comunicare il senso proprio operato all'esterno, aiutando a comprendere dove sia l'educativo e quali siano le ragioni a suo sostegno.
Diviene esemplare, in tal senso, una particolare scrittura cara alla tradizione
pedagogica e non solo, vale a dire la scrittura del caso, capace di assolvere a funzioni di progettazione, condivisione dell'intervento e anche riflessione sullo stesso. Una pratica non ancora diffusa, o per meglio dire non diffusa con chiaro intento pedagogico, che invece si può rivelare strumento prezioso per l'operatore
educativo.
È, infatti, attraverso lo scrivere, nelle suddette diverse forme, che l'operatore
può pensare al proprio lavoro e, soprattutto, a se stesso nel suo agire professionale. La scrittura dunque, quale che sia le veste che ricopre, si rivela una preziosa
alleata riflessiva ed emotiva, anche, capace di costruire uno spazio di sosta pensosa
per il professionista, al di fuori dell'emergenza e della fretta del quotidiano.
Tutto ciò rende, a detta dell'autrice, la scrittura pedagogica una competenza
professionale cui gli operatori vanno formati e preparati, affinché sappiano agirla
con consapevolezza ed esperienza nei diversi contesti in cui si trovano ad operare. E, in tale direzione, il volume qui descritto si presenta quale utile ed efficacestrumento.
Loredana Perla
464
Ottolini G., Rivoltella P.C. (a cura di), Il tunnel e il kayak. Teoria e metodo della Peer
& Media education, FrancoAngeli, Milano 2014, p.195
Il volume, secondo nato della nuova collana Media e tecnologie per la didattica,
curata da P.C. Rivoltella e P.G.Rossi, si inscrive nel filone di una pubblicistica
d'avanguardia che, elaborando connessioni culturali inedite fra new media, linguaggi e conoscenza, va solcando il terreno fertile di una possibile costruzione di una
teoria didattica dell'educazione: una teoria giovane, che ambisce ad oltrepassare i
confini della rigida perimetrazione epistemica all'oggetto di studio tradizionale
della didattica, l'insegnamento, e intende schiudere lo sguardo verso l'orizzonte
dei variegati mondi dell'educazione e delle professionalità formative che vi operano. In questi mondi la didattica ha una storia ancora in gran parte da scrivere.
Una storia nella quale avrà un peso crescente l'esplorazione di traiettorie scientifiche di lavoro capaci di contaminare metodi e linguaggi (anche della tradizione
didattica che ne viene, così, vivificata e riattualizzata), di leggere i bisogni emergenti delle nuove generazioni, di cogliere le sfide avanzate alla prevenzione dalla
cultura digitale destinata ad essere essa stessa "validata" dai suoi fruitori, anche in
quei territori sino a ieri restii ad accoglierla. È in questa cornice che può essere
letto il contributo offerto dal nuovo saggio di Rivoltella e Ottolini. Esso si rivolge agli operatori del lavoro educativo, della prevenzione, dell'attività sociale ma
anche alla Scuola e al Terzo settore, nella prospettiva di un ampliamento delle
competenze espresse da questi ultimi ambiti nel campo della prevenzione dei
comportamenti a rischio.
Innovativo sin dalla scelta del titolo, richiamante metaforicamente la leggerezza di un'imbarcazione capace di scivolare via dai "tunnel" delle dipendenze, Il
tunnel e il kayak. Teoria e metodo della Peer & Media education è il resoconto avvincente della storia pluriventennale di una ricerca-intervento realizzata in un territorio
con alta incidenza di comportamenti a rischio: il "triangolo" Verbano-CusioOssola. In questo "triangolo" caratterizzato da percentuali di ammalati di Aids
fra le più elevate a livello nazionale ma, anche, da presenze territoriali significative quali l'Associazione Contorno Viola, è stato possibile attivare una rete di solidarietà sociale capace di affrontare il problema trasformandolo nella opportunità
che la ricerca ha dischiuso, per i suoi destinatari d'elezione e per i destinatari di
prevenzione: studenti di Scuole (ma non solo). E così, in rete con la Asl locale e
con l'appoggio determinante del Cremit dell'Università Cattolica di Milano, è stato possibile dare abbrivio alla sperimentazione di un nuovo approccio alla prevenzione dei comportamenti a rischio, capitalizzando l'ampia esperienza accumulata in anni di presenza sociale e di promozione di gruppi di auto aiuto effettuata
nel territorio. Poi, nel tempo, la scelta di coinvolgere più profondamente la Scuola, includendo nella sperimentazione oltre 22.000 studenti e mettendo a sistema
variabili introdotte dal Cremit che hanno fatto da volano alle potenzialità espresse dagli attori sociali della sperimentazione. L'esito è stata la formalizzazione di
465
un modello di prevenzione e intervento socio-educativo basato su una metodologia attiva integrante metodi e tecniche della Peer Education con gli approcci e gli
strumenti della Media Education.
Il modello viene presentato per la prima volta in questo volume, suddiviso in
tre parti.
Scenari comprende tre capitoli il primo dei quali, firmato da Emilio Ghittoni e
Mauro Croce, ricostruisce l'evolversi della storia del modello. Ne vengono richiamati gli esordi, nel lontano 1996, nei termini di "esperienza laboratoriale" che
ha attraversato quattro fasi cronologiche: 1996-2003: il modello leggero di Peer
Education; 2004-2007: la Peer Education come strategia di sviluppo del capitale
sociale; 2008-2010: la fase della Peer &Video Education; 2011-2012: contaminazioni con la New Media Education. Nel corso degli anni il modello è maturato,
modificando i codici comunicativi mutuati all'inizio dalla psicologia sociale sui
quali erano stati in origine strutturati gli interventi di prevenzione. Questa evoluzione ha lasciato emergere il profilo di un nuovo peer: non più il peer educator tradizionalmente inteso ma un peer&media educator "in grado di agire entro scenari che
intersecano le situazioni in presenza e digitali con una rinnovata consapevolezza
critica ed etica" (p. 30). Questo profilo raddoppia le competenze espresse dal solo peer o dal solo media educator, rimettendo al centro il ruolo strategico della
prevenzione nei percorsi di promozione alla salute, anche mutuando competenze
da campi limitrofi e da paradigmi bio-medici ma innestando poi pratiche e attività di intervento in modo congruente con gli stili di vita e i linguaggi delle nuove
generazioni. La proposta didattica sortita da questa contaminazione virtuosa è
"finalizzata alo sviluppo di capacità di progettazione, valutazione, verifica, riprogettazione e conduzione degli interventi di prevenzione (p.28).
Il secondo capitolo, di Mauro Vassura, intitolato "L'identikit di una generazione", esplora gli effetti del "tornado digitale" sull'attuale generazione di adolescenti: un tornado che interpella insegnanti ed educatori a pensare nuovi approcci alla prevenzione. Quello peer offre numerose possibilità di successo, soprattutto in un tempo in cui il rapporto fra adolescenti e adulti è cambiato e chiede lo
sforzo di una ricerca di nuovi codici e nuovi registri di comunicazione. "Gli adolescenti non sembrano tanto convinti che l'età adulta sia un buon affare, intravedono obblighi e responsabilità e non pensano di avere tanto da guadagnare; d'altronde a loro non manca nulla" (p.36). Se il conseguimento dell'età adulta non
sembra "impreziosire" il portfolio esperienziale di questi neo-adolescenti, allora
urge trovare persone diverse - potrei dire degli adulti alternativi ma altrettanto
significativi sul piano della trasmissione intergenerazionale - capaci di dialogo e di
comunicazione alla pari. In questo caso la Peer Education "recluta" gli adolescenti
come risorse attive per creare contesti non convenzionali di comunicazione e
contribuire a ridurre quel gap generazionale rispetto al quale appare necessario
che ci sia qualcuno - appunto il peer - che "si metta a far l'adulto". Provvisoriamente. L'operazione è facilitata da fatto che gli adolescenti parlano lo stesso lin466
guaggio e, una volta formati, diventano vettori di informazioni e di sguardi reciprocamente critici. Ciò che serve agli adolescenti "a rischio".
L'ultimo capitolo della terza parte, scritto da Mauro Croce e Pier Cesare Rivoltella, muove dagli interrogativi posti dai precedenti due ed elabora le linee didattiche per una prevenzione 2.0 la quale, entro lo scenario disegnato nei capitoli
citati, appare percorso, obiettivo e tensione insieme. Coscientizzazione, condivisione e
cambiamento sono le parole-chiave del percorso, ibridanti dimensioni di sviluppo personale con dimensioni attinenti alla partecipazione sociale e politica senza
la quale nessun cambiamento nella direzione di una sostenibilità concreta della
prevenzione potrebbe mai avere luogo. Sul nodo critico di queete ibridazioni gli
autori di Fondamenti, nella seconda parte del volume, innestano la descrizione
puntuale del modello snodata attraverso tre capitoli. Andrea Gnemmi e Gianmaria Ottolini curano il 4° capitolo (La Peer Education: una strategia flessibile fra
scuola, territorio e web); Pier Cesare Rivoltella il 5° (La Media Education) e
Gianmaria Ottolini e Pier Cesare Rivoltella il 6° (La Peer&Media Education).
Tutti scontornano, con grande sinergia-sintonia, i presupposti teorici e i tragitti
pratici del metodo. Qui l'obiettivo diventa squisitamente formativo: si intuisce
che il destinatario elettivo di queste pagine è il "volto" dei futuri peer&media educator. Per questo il volume vira il suo impianto dal resoconto (anche narrativo) della
prima parte al trattato di epistemologia formativa di questa seconda, senza perdere in leggerezza espositiva e densità di concettualizzazione. Vengono fissati idea e
metodo della P&M con la precisazione di una definizione che circoscrive con
chiarezza il nesso della integrazione fra l'uno e l'altro. "Questa integrazione si basa sull'obiettivo comune della Peer e della Media Education ovvero lo sviluppo di
percorsi di riflessione e di prevenzione partecipata su tematiche di interesse condiviso che prevedano l'empowerment dei soggetti e dei gruppi coinvolti nei processi in funzione dello sviluppo di consapevolezza critica e responsabilità" (p.
116). Vengono puntualmente indicate le dimensioni di intervento del nuovo modello: educare i pari con i media; educare ai media con i pari ed educare i pari e ai media. I
peer hanno competenze per gestire un gruppo in modo presenziale e digitale,
sanno fare analisi dei media, sanno attivare collaborazioni social. E così accade
che alla Peer Education 1.0 laddove il lavoro del peer è presenziale e la scuola è lo
spazio di reclutamento dei peer e di intervento in attività condotte in aula (Brick),
si affianchi l'uso integrato della presenza e dell'online (Brick and Click), ma, anche, il lavoro in toto online (Click).
Nell'ultima parte del volume, Pratiche, Michele Marangi e Francesca Paracchini
analizzano luoghi e applicazioni didattiche del modello: scuola, centri di aggregazione giovanile extrascolastici, sanità, mentre negli ultimi due capitoli Rivoltella,
Gnemmi, Ferrari, Carenzio e Ratti propongono una riflessione di approfondimento su metodi e strumenti, linguaggi e formati della P&M evidenziando la necessità di comprendere bene come l'anima metodologica di questo modello non
sia nella mera giustapposizione dello strumentario di tradizione dei due metodi o
467
nella banale giustapposizione di formati didattici digitali ma nella sapienza di saper fare "quadrato metodologico" di cui "lavoro di gruppo, animazione, analisi e
media making sono gli elementi costituitivi" (p. 145). Il volume, corposo eppure
lieve nella organizzazione logico-metodologica del suo impianto, si presenta come un lavoro autenticamente corale, concettualmente chiaro, denso, capace di
coniugare felicemente, col rigore scientifico che è proprio da sempre del lavoro
intellettuale di Pier Cesare Rivoltella e della sua équipe, teorie e pratiche delle
nuove didattiche. Mai dimenticando, neanche per un attimo, che l'ibridazione fra
sostanzialità educativa e tensione verso la modellizzazione costituiscono il punto
critico del lavoro teorico della didattica contemporanea, scienza il cui senso è anche nella capacità di risposta alle grandi domande formative del nostro tempo.
Loredana Perla
468
Caroli D., Per una storia dell'asilo nido in Europa tra Otto e Novecento, FrancoAngeli,
Milano 2014, pp. 392.
La convinzione che il nido sia un'istituzione recente è piuttosto diffusa tra gli
operatori ed anche tra gli esperti di scienze dell'educazione; indubbiamente, se si
fa riferimento al nido come lo si intende oggi, la storia di questa particolare struttura è ancora breve e si potrebbe farla risalire a circa la metà del secolo scorso,
ma questo giudizio apparirebbe erroneo sul piano di una più puntuale ricostruzione storiografica e le ricerche di Dorena Caroli in merito descrivono una storia
"nuova" ancora da dissodare, di cui l'Autrice suggerisce anche utili piste di approfondimento per giungere ad una ricostruzione compiuta di questo segmento
di istituzioni e pratiche educative.
Nei sei capitoli del libro sono, così, tracciati chiaramente i contorni delle prime esperienze di puericultura e nursing nei principali Paesi dell'Europa moderna e
contemporanea, con ampiezza di riferimenti archivistici e bibliografici e una disamina approfondita di documenti in gran parte inediti, accompagnata da una
verifica critica della letteratura esistente, non soltanto in Italia, ma, si può dire, in
tutta Europa.
La prima parte del testo è dedicata a quei Paesi che videro la nascita delle
primissime esperienze di igiene infantile e puericultura. In Francia, in particolare,
furono aperte nel 1844 le prime crèche, che per l'Autrice si possono considerare
come le "antenate" dell'asilo nido odierno, con la dovuta attenzione alle differenze; osserva Caroli che il nido, in effetti, «nel primo secolo della sua esistenza, non
è stata un'istituzione educativa per la primissima infanzia, bensì un luogo di accoglienza e di custodia del neonato di tipo assistenziale, dedito alla lotta contro la
mortalità infantile e alla prevenzione dell'abbandono» (p. 9).
Le prime sale di custodia e i ricoveri dei "trovatelli", le riforme a norma di
legge dell'antichissimo istituto del baliatico, lo sviluppo di nuove conoscenze
mediche ed anche di un orientamento diffuso tra i medici francesi in favore
dell'allattamento materno, furono gli elementi che prepararono il terreno alle
prime esperienze organizzate da Firmin Marbeau, figura significativa di giurista e
filantropo ottocentesco, che, da un lato, intuì il legame psicologico tra l'allattamento al seno e l'affetto materno, dall'altro, comprese la necessità di andare incontro alle esigenze delle madri lavoratrici in una fase fondamentale dell'industrializzazione francese.
Da queste prime esperienze, e da quelle di William Cadogan in Inghilterra si
ispirarono successivamente anche filantropi ed educatori di altri Paesi; tra questi
vi fu anche, tra gli altri, Giuseppe Sacchi, figura già ben nota in campo storicoeducativo, che è all'origine anche della prima crèche italiana, nata nella Milano risorgimentale.
Dopo le prime esperienze e riflessioni sul "modello" di questa nuova struttura, dapprincipio concepita con il minimo indispensabile di arredi, dalle culle alla
469
stufetta per asciugare i pannolini, poi sempre più oggetto di attenzione ed anche
di studio, le riforme legislative della seconda metà dell'Ottocento completarono il
processo di costruzione dell'identità dei "nidi" francesi ed europei, da un lato
stabilendo il carattere assistenziale di queste strutture, poste quasi sempre sotto il
controllo dell'amministrazione socio-sanitaria dell'epoca, dall'altro inserendo anche nel dibattito dell'opinione pubblica le problematiche riguardanti l'indole e lo
sviluppo delle crèche, che Caroli segue fino alle soglie della seconda guerra mondiale, vale a dire in un periodo della storia politica e sociale molto significativo
per la trasformazione sempre più marcata dei "nidi" in strutture destinate principalmente ai figli delle donne lavoratrici e spesso collocate all'interno o nelle vicinanze degli impianti industriali.
Il caso francese è soltanto uno tra quelli analizzati nel volume; molto importante è anche l'evoluzione delle day nurseries in Inghilterra, che ebbero anch'esse
un ispiratore nell'illuminista settecentesco William Cadogan e si svilupparono
progressivamente attraverso le verie normative di carattere sociale della prima
metà dell'Ottocento (le note Poor Laws) fino alla loro stabilizzazione sia sul piano
legislativo sia su quello organizzativo nel contesto del Children Act del 1908 e di
successivi provvedimenti che posero queste strutture nell'ambito della sanità
pubblica.
L'interesse rivolto da Caroli alla collocazione giuridica dei "nidi" permette di
cogliere due costanti che attraversano, si potrebbe dire, l'intera Europa occidentale; anzitutto, per molto tempo (fino ad oggi, in fondo) la cura della prima infanzia è stata considerata questione di carattere socio-sanitario, mentre soltanto
di recente si è affacciata una consistente preoccupazione pedagogica; inoltre, anche in questo caso, il primo slancio alla costituzione e alla diffusione di questo
genere di strutture per l'infanzia fu dato nel primo Ottcoento da privati e, pur
auspicando essi stessi l'intervento pubblico, si dovette attendere a lungo per un
impegno sistematico degli Stati nel settore. Se si aggiunge a questi aspetti anche il
fatto che nel corso del Novecento avvenne una trasformazione graduale nella
stessa utenza dei nidi (dapprima dedicati ai bambini illegittimi, poi ai figli di donne lavoratrici, infine, ma soltanto in tempi a noi vicini, considerati, grazie ai cambiamenti avvenuti nella mentalità diffusa e nell'organizzazione sociale e del lavoro, come una risorsa a disposizione di tutte le famiglie), il quadro della storia dei
nidi risulta chiaro e la lettura del libro di Caroli molto documentata.
Restano almeno da menzionare i capitoli dedicati alla storia degli asili nido in
Germania e in Russia, in cui i nidi ebbero un destino diverso dalle istituzioni
omologhe francesi e inglesi in virtù delle particolari vicende politiche di queste
nazioni. Il regime bolscevico e quello nazista, infatti, ovviamente in modi e con
motivazioni differenti e divergenti, inserirono anche i nidi (Krippen, in Germania,
e jasli nell'Unione Sovietica) nel vasto impegno di modernizzazione condotto sotto le idee guida di quei regimi. Caroli, che ha dedicato parte cospicua della sua
attività di ricerca all'Unione Sovietica, anche in questo libro propone documenti
470
e interpretazioni significative, specialmente a proposito del rilievo peculiare che
ebbe nell'URSS la ricerca psicopedagogica sull'organizzazione dei nidi. Anche il
condizionamento ideologico intervenuto ad influenzare la stessa ricerca scientifica, medica e psicologica (per esempio, con il bando della "pedologia" nell'URSS
staliniana) è documentato con chiarezza nel volume di Caroli.
L'ultima parte del volume è dedicata alla storia degli asili nido in Italia, dai
primi "presepi" milanesi, nati sotto l'ispirazione di filantropi risorgimentali per la
lotta contro la mortalità infantile, al fascismo, con particolare attenzione all'età
giolittiana e alle riforme legislative dell'epoca. Anche nel nostro Paese alcune vicende e fenomeni peculiari hanno orientato lo sviluppo dei nidi e della puericultura, in particolare lo sviluppo della cosiddetta "nipiologia" in campo medico e il
sorgere di strutture pubbliche per la protezione dell'infanzia, dapprima rivolte in
particolare a quella abbandonata, poi, come negli altri Paesi, rivolte ai figli delle
donne lavoratrici; nel Novecento sarà l'Opera Nazionale per la protezione della
Maternità e dell'Infanzia ad assumere la competenza in materia e a conservarla a
lungo. Figure come lo psicologo Enzo Bonaventura, non ancora adeguatamente
conosciuto, specialmente per il suo impegno nella ricerca intorno alla psicologia
del bambino durante la fase dell'allattamento, e Maria Montessori, viceversa famosissima, ma della quale è utile riconsiderare le "intuizioni" (come giustamente
Caroli le definisce) riguardo alla prima infanzia, contribuirono ad orientare, nel
secolo scorso, lo sviluppo della puericultura e dei nidi nel nostro Paese ed anche,
almeno per quanto concerne Montessori, all'estero.
In conclusione, la ricostruzione contenuta in questo volume è significativamente sorretta da un'attenzione che va tanto alla storia delle istituzioni quanto
alla storia delle idee, offrendo un quadro di riferimento equilibrato e molto documentato su vicende della storia dell'infanzia che meriteranno certamente nuove
ricerche nel prossimo futuro.
Furio Pesci
471
Fabbri M., Controtempo, Junior Spaggiari, Padova 2014, pp. 112.
In anni in cui la parola Crisi ricorre ossessivamente nell'immaginario sociale
delle società occidentali e, più che mai, nel linguaggio quotidiano della vecchia
Europa, un'altra parola, quella di Empatia, comincia ad imporsi con frequenza
analoga a quella precedente, al punto che essa cessa di essere prerogativa di specialisti esperti del fenomeno e diviene oggetto d'attenzione da parte di studiosi di
varia e lontana derivazione disciplinare: neuroscienziati, etologi, storici, sociologi
ed economisti. Ne deriva una situazione tale per cui il concetto d'empatia entra a
far parte di un patrimonio collettivo che, sino a qualche anno fa, ne ignorava l'esistenza o, per lo meno, ne fraintendeva il significato. Qual è il senso di un accostamento che, mentre riscontra il perdurare di una fase di disagio economico e
sociale di lungo periodo, per certi aspetti, senza precedenti nella storia recente
delle economie capitalistiche, insiste anche sull'avverarsi di esiti di riforma del
pensiero e di trasformazione della civiltà che sembrano tendenzialmente incompatibili con la situazione economica in atto? E qual è la sua ricaduta sui trend caratterizzanti dell'esperienza educativa?
A queste domande tenta di rispondere Maurizio Fabbri, con il suo libro Controtempo, appena pubblicato in una delle nuove collane editoriali della Junior
Spaggiari. Collegandosi con una riflessione di Jeremy Rifkin, che vede nella diffusione dell'empatia l'altra faccia di un modello di sviluppo economico ed energetico ad alto rischio di degenerazione entropica, l'Autore si chiede come sia possibile che questa categoria attecchisca con sempre più forza proprio nel momento in
cui tale modello di sviluppo evidenzi i segni della propria crisi e presenti segnali
d'involuzione che rischiano di far regredire l'umanità a fasi antecedenti dello sviluppo storico. La ricerca etologica e neuroscientifica dimostrano che il sedimentarsi di competenze empatiche viene da lontano e fa parte di un processo di evoluzione filogenetica che ha inizio con l'istinto di sopravvivenza della specie e trova ulteriore svolgimento nell'imporsi di dimensioni elettive d'esistenza, che consentono alla specie umana d'affrancarsi dal mero soddisfacimento dei suoi bisogni primari. Se per una lunga, lunghissima del processo d'evoluzione l'empatia ha
funzionato a livelli strettamente necessari, oggi essa sembra essere oggetto di
un'inedita accelerazione che le consente di coltivare e generalizzare su scala dimensioni alte dell'esistenza, quali quelle rese possibili, ad esempio, dall'esperienza
educativa.
E allora si scopre che già l'esperienza di Crisi aveva contribuito ad avvalorare
le dimensioni dell'empatia: quando la crisi era indizio di un processo di trasformazione in atto che favoriva l'indebolimento delle culture tradizionali, con i loro
metafisici fondamentalismi e assolutismi. E a riorientare l'esperienza storico sociale intorno alla sperimentazione di valori relativi, socialmente condivisi. Quella
fase della cultura della Crisi tuttavia aveva come suo limite quello di non essersi
mai definitivamente affrancata dai trascorsi del Nichilismo, e, nel Nichilismo,
472
non meno compiaciuto e autofondante della tradizione metafisica, ha trovato le
ragioni e il principio del proprio snaturamento. Così la Crisi, da principio di rispecchiamento antidogmatico, è divenuta motore di sviluppo (o meglio d'involuzione) del mutamento storico secondo un proprio interiore teleologismo: spargendo intorno a se stessa i semi di crisi della civiltà piuttosto che di riforma della
civiltà medesima.
In questa quadro, sta all'Empatia raccogliere oggi le sfide del pensiero debole
per chiamarle a confrontarsi con un nuovo ordine di priorità storiche ed epistemologiche insieme e con differenti modelli di razionalità, perché, scrive Fabbri:
"Viviamo nel tempo della crisi della crisi; quest'ultima ha cessato di fungere da
paradigma innovativo e non è più in grado di incentivare quel lavoro di analisi
antidogmatica e di decostruzione di cui è stata per decenni l'artefice … È la civiltà dell'empatia, che dentro questa crisi annuncia oggi tali e tanti mutamenti come
inarrestabili: perché costituiscono il punto d'arrivo di un processo di evoluzione
secolare che sta giungendo a compimento; perché sono entrati nella fenomenologia dell'esperienza educativa, sino a far trasparire al suo interno le cose stesse
della vita e dell'educazione. Le cose stesse sono lì davanti a noi, spalancate ai nostri sguardi, incapaci di nascondersi e tacere, per il solo fatto di esistere: non sarà
possibile ridurle al silenzio, perché esse rispondono alla domanda di senso della
maggior parte dell'umanità oggi." (p. 106).
Maria Grazia Riva
473
Brambilla L., Palmieri C., (a cura di), Educare leggermente. Esperienze di residenzialità
territoriale in salute mentale, FrancoAngeli, Milano 2010, pp. 192.
Educare Leggermente è un testo un po' retrò. Riattualizza infatti una questione
scottante negli anni '70 e '80 del secolo scorso: come è possibile che persone
dall'esistenza segnata da problemi psichiatrici – oggi diremmo, seguendo gli autori, di salute mentale – non solo trovino un proprio posto nel contesto sociale, ma
anche e soprattutto vi partecipino in quanto "cittadini", come amava dire Basaglia? Nella globalità degli interventi che lo compongono, il testo propone una linea di risposta complessa, capace sia di tener conto dei cambiamenti socioculturali e istituzionali intercorsi dall'approvazione della Legge Basaglia, sia delle
questioni epistemologiche che soggiacciono al "trattamento" della salute mentale,
sia degli esiti di sperimentazioni di servizi innovativi, con riferimento in particolare alla Residenzialità Leggera.
Soprattutto, però, ciò che sorregge e attraversa tutto il volume è la questione
pedagogica. Il presupposto da cui muove è che la salute mentale non possa essere liquidata "semplicemente" come un problema (di pochi, magari), ma che essa
coincida con il modo in cui ciascun soggetto vive il complesso compito del "darsi
forma" in cui consiste l'esistenza umana. La salute mentale, così, corrisponde a
quel delicato equilibrio tra momenti di fragilità e di benessere che ogni persona
rincorre: un equilibrio vulnerabile, in quanto sempre esposto ai molteplici eventi
della vita e alle differenti occasioni che l'ambiente offre per venire a patti con i
propri limiti e le proprie potenzialità. Come alcuni saggi del testo esplicitano, si
tratta di un equilibrio difficile da trovare e da mantenere: nessuna esistenza è
esentata dalla possibilità di scivolare in un disagio profondo, che si genera quando l'esistenza stessa si incaglia in forme cristallizzate, le uniche possibili per sopportare la sofferenza del vivere quotidiano, le pressioni degli ambienti familiari,
lavorativi, sociali ma anche certi dolori intimi, mai o non del tutto elaborati prima. Il modo in cui le persone possono far fronte al loro compito esistenziale e a
quel disagio che può essere sempre dietro l'angolo dipende non solo da propensioni individuali, ma anche dalle risorse che il contesto sociale mette loro a disposizione: reti familiari e sociali, riferimenti istituzionali, servizi educativi e/o
riabilitativi. In questo senso, afferma Brambilla nel primo capitolo, il territorio
diventa: «terreno di possibilità ma anche di rischio, specie se, come sta accadendo, il
tempo che lo racchiude è un tempo di crisi. Il clima che stiamo attraversando tradisce, infatti, oggi ancor più che nel passato, l'emergenza mai sopita di una necessità pedagogica. L'intervento educativo, concepito come possibilità, si fa dunque necessità e urgenza, accomunando "savi" e "folli" nella ricerca di una più autentica
comprensione e governo del proprio vivere. È alla pedagogia che è possibile affidare la riflessione e l'indirizzo del compito arduo, complesso, e tuttavia imprescindibile, della formazione e dell'autoformazione del soggetto umano e l'intenzionalità politica affinché si creino quelle condizioni strutturali che nella realtà
474
permettano a ciascuno di incontrare e far proprie quelle opportunità formative
capaci di renderci abili alla vita» (pp. 24-25).
Pur partendo da questo presupposto, il volume non valorizza il sapere pedagogico a scapito di altri. Al contrario. La sensibilità e lo sguardo pedagogico alla
formazione del disagio esistenziale (e quindi psichiatrico) vengono posti in un
certo senso "a servizio" di altri sguardi e di altre sensibilità, quali quella medicopsichiatrica e sociologica, al fine di tessere una cornice epistemologica nuova ma
soprattutto di comprendere come sia possibile generare le condizioni necessarie
perché un territorio si trasformi in un milieu pedagogico: un contesto in cui sia centrale e diffusa la preoccupazione per la formazione autentica dei soggetti e per lo
sviluppo territoriale. Certamente, in tutto ciò emerge la dimensione ideologica e
forse utopica che innerva il testo: gli autori sembrano esserne consapevoli e adottano un atteggiamento critico per evitare rischiosi scivolamenti in prese di posizione fini a se stesse. Questa attenzione emerge nei capitoli di Brambilla e di Re,
nel momento in cui esplicitano elementi di continuità e di discontinuità, di reciproca valorizzazione ma anche di criticità nel dialogo tra sapere e pratiche pedagogiche e sapere e trattamento in psichiatria e salute mentale.
Ma l'originalità del volume è data soprattutto dalla ricerca che espone. Come
evidenziano i capitoli di Motto e Palmieri, nella prima parte del testo, l'occasione
per riflettere sui diritti/doveri di cittadinanza delle persone in situazione di disagio psichico in relazione alle opportunità che il contesto sociale e il mondo dei
servizi di salute mentale offrono loro è stata fornita dall'esigenza di valutare il
Progetto Innovativo "Percorsi integrati per la presa in carico di utenti affetti da
disturbi psichici gravi e portatori di bisogni complessi", finanziato come programma sperimentale da Regione Lombardia nel triennio 2005-2008. All'interno
di tale progetto si iscrive la Residenzialità Leggera, come «proposta di riabilitazione sociale per persone in situazione di disagio psichico che si accingono a
concludere un percorso terapeutico e riabilitativo… persone intenzionate… a
proseguire autonomamente nel proprio progetto esistenziale» (p. 9). La Residenzialità Leggera, infatti, afferma Barili, «nasce dall'esigenza di superare il dispositivo comunitario» (p. 159), offrendo a persone che stanno concludendo il loro
percorso terapeutico la possibilità di sperimentare l'abitare in appartamento in
vista della possibilità di avere, nell'arco di breve tempo, una casa loro; secondo
Palmieri è come una «palestra» in cui allenarsi a vivere la propria quotidianità, e
con essa le proprie, altrettanto quotidiane, scelte esistenziali (p. 181). La seconda
parte del volume illustra i presupposti e gli esiti della ricerca che gli stessi operatori della Residenzialità Leggera, formati e supervisionati da Cristina Palmieri nel
suo ruolo di ricercatrice universitaria, hanno realizzato per poter valutare come,
nei tre anni di attivazione, la Residenzialità Leggera abbia funzionato.
Dal punto di vista pedagogico, questa parte è significativa per almeno due ragioni. In primo luogo, come sottolinea il saggio di Palmieri, perché mostra le
possibilità che si schiudono agli educatori (e ai coordinatori) nel momento in cui
475
assumano una posizione di ricerca, diventando quindi essi stessi, in prima persona, ricercatori in ambito educativo. Tale esperienza, che la stessa autrice chiama
"sperimentale", ha saputo valorizzare la richiesta di valutazione del progetto di
Residenzialità Leggera, trasformandola da esigenza di rendicontazione di matrice
meramente amministrativa in occasione di comprensione delle condizioni che
hanno reso possibile, nel contesto residenziale innovativamente strutturato, generare determinati effetti sui soggetti e sui contesti (la residenzialità stessa, i servizi di salute mentale, il quartiere, ecc.). Non solo. Mettersi in posizione di ricerca
ha significato da un lato valorizzare la documentazione già presente nel servizio,
dall'altro generare nuova documentazione, ottenuta soprattutto dando la parola a
coloro che avevano vissuto l'esperienza di vita in appartamento in prima persona,
mettendo a punto diverse modalità di raccolta delle testimonianze. Come esplicitano i saggi che illustrano risultati di ricerca, questo percorso ha permesso agli
educatori da un lato di valutare l'esperienza formativa insieme agli "utenti", dall'altro di valutare il loro stesso modo di lavorare, riflettendo sulle condizioni – strutturali, relazionali, sociali, epistemologiche – che incidono sulle pratiche educative
e sui loro effetti.
In secondo luogo, appunto, la ricerca mette in evidenza come abbia funzionato la Residenzialità Leggera nei tre anni di sperimentazione. Pomati esplicita i
presupposti e le procedure che introducono e punteggiano l'esperienza in appartamento; Del Giudice ne approfondisce i significati pedagogici; Bresciani riflette
sulla complessità delle relazioni tra Residenzialità Leggera, servizi di salute mentale e territorio, o meglio "quartiere"; Brambilla ragiona criticamente sul ruolo
degli educatori professionali e dell'équipe; Barili mostra le scelte metodologiche e
si sofferma sul significato educativo delle pratiche quotidianamente messe in atto. I risultati di ricerca, come riconosciuto nell'introduzione al testo, non sono
certamente generalizzabili. Sono però preziosi proprio in quanto risultanze di
uno studio di caso in grado di evidenziare punti di forza e punti di debolezza di
un progetto – o meglio, di un servizio – e di generare riflessione e consapevolezza sulle scelte pedagogiche e sulle pratiche educative, costruendo un sapere situato che, in quanto tale, può rappresentare un'ottima base per poter comprendere
altre esperienze simili o per ri-progettare esperienze residenziali nel medesimo
ambito. Per l'approccio militante, per la capacità di riflettere criticamente sulle
possibilità di incontro del sapere pedagogico e di quello "psichiatrico", per le
prospettive innovative di cui mostra le condizioni di fattibilità, per le riflessioni
che emergono dalla ricerca e quindi dall'esperienza della Residenzialità Leggera il
volume può rappresentare un contributo prezioso per pensare criticamente, oltre
che pedagogicamente, la questione dell'inclusione sociale in relazione alle condizioni che, materialmente, la rendono possibile.
Maria Grazia Riva
476
Xodo C., (ed.), Rousseau e le donne, La Scuola, Brescia 2014, pp. 303.
Misurarsi con la pedagogia di Rousseau con l'ambizione di attualizzarne il
pensiero alla luce della tematica del maschile e del femminile non rappresenta
un'impresa facile, soprattutto in considerazione del fatto che sono numerosi i
piani interpretativi del pensiero rousseauiano relativo alla tematica del genere, e,
in particolare, dell'educazione femminile. Il testo Rousseau e le donne, curato da
Carla Xodo, edito da La Scuola (2014), riprende le questioni affrontate durante la
terza giornata del convegno internazionale Il pedagogista Jean-Jacques Rousseau tra
metafisica, etica e politica svoltosi presso le università di Bergamo e di Padova. Le
riflessioni in esso contenute intendono però anche andare oltre la semplice celebrazione accademica del pedagogista e rivelano il fascino, ma anche la complessità, dell'affrontare il tema della donna in Rousseau, che poi si intreccia con quello
dell'uomo, della famiglia e delle relative educazioni.
Come rileva la curatrice del volume C. Xodo, vi è sempre un dubbio di fondo
che scaturisce dai pensieri di Rousseau e si coglie nei diversi contributi che cercano di darne un'interpretazione: trattando di realizzazione dell'uomo e della
donna, Rousseau avvalora il principio della differenza, che implica anche, però,
per alcuni aspetti, la dipendenza della donna dall'uomo. Come decifrare, intendere e giustificare, allora, questa sua antinomia che ci riporta a quella natura-cultura,
individuo-società, sentimento-ragione …? I diversi autori del testo ricercano,
ognuno da un punto di vista specifico, proprio le possibilità di dirimere la quaestio
rousseauiana che sembra alcune volte irrisolvibile.
La prima parte del testo, Fondamenti teorici e pedagogici della differenza sessuale, è
occupata dal corposo saggio di C. Xodo, Rousseau: l'ami des femmes, che, già dal titolo, esprime l'idea dell'intersecarsi dei piani storico-culturali, personali e biografici, pedagogici e sociali nella rappresentazione che Rousseau offre della donna.
Innanzitutto, si evidenzia la sua 'immersione' nel problema femminile, di cui non
solo argomenta, ma che anche vive personalmente, a partire dal rapporto con la
zia, con la signora Lambercier, per non parlare di Eleonora de Warens fino a
Thérèse Le Vasseure e a Madame d'Houdetot. In secondo luogo, va considerato
che per Rousseau ogni tematizzazione sulla donna è legata alla definizione del
destino dell'uomo-uomo, che nel medesimo tempo si rivela come un elemento
prioritario per ribadire la complementarità dei sessi e, soprattutto, per chiarire i
fenomeni della disuguaglianza e dell'ingiustizia sociale. Rousseau sembra, infatti,
aver ben chiara la diversità di condizione fra la donna dell'aristocrazia e alta borghesia e quella del popolo e in ogni caso ne denuncia la fragilità generale di fondo, il non riconoscimento dell'identità femminile da parte della società. Il saggio
ricostruisce così, organizzandolo e interpretandolo, il percorso non sempre lineare condotto da Rousseau per l'individuazione del modello femminile, che si snoda fra immaginario e autobiografico, fra amore di sé e amor proprio, amore sessuale e spirituale, romantico e coniugale. A poco a poco dalla Nuova Eloisa, me477
glio ancora che dall'Emilio e da altri suoi scritti, sembra emergere il file rouge che ci
fa cogliere l'identità sessuata della donna e il rapporto fra maschile e femminile,
fra corrispondenze e diversità, che conduce a riflettere sull'educazione maschile e
femminile del suo tempo ma anche di oggi.
Apre la seconda parte del testo, Il maschile e il femminile nella pedagogia e nell'educazione di Rousseau, il saggio di Franco Cambi – La "differenza educativa": pedagogia di
genere e dialettica dei generi in Rousseau – il quale si sofferma sulla riflessione, definita
complessa, plurale e problematica, del ginevrino in merito all'educazione dei due generi
a volte opposta, a volte complementare, che presenta un itinerario più vigilato
nel caso di Emilio, più autogovernato per Giulia e Sofia. Le dialettiche educative
dei generi oscillano, secondo Cambi, fra differenza, supremazia e riqualificazione, in
cui il formarsi della coppia pare costituire una via riformatrice per l'uomo morale,
ma che, ad un certo punto, sembra entrare essa stessa in crisi.
La complessità del pensiero rousseauiano viene sottolineata anche da Giuseppe Limone, che nel suo contributo – Per una teoresi a più facce del legame sociale: il
problema di Rousseau tra la "famiglia" e la "polis" – intende cogliere, all'interno dei tre
fondamentali percorsi di Rousseau inerenti il tema dell'amore e del rapporto coniugale, dell'educazione e del contratto sociale, la possibilità di individuare un
comune programma epistemologico. Le problematiche legate al maschile e al
femminile si arricchiscono di ulteriori spunti di riflessione attraverso i contributi
di Diega Orlando Cian – Rousseau: l'educazione dell'uomo e il suo ruolo in famiglia – e di
Luisa Santelli Beccegato – Il ruolo della donna nell'educazione familiare –, che affrontano proprio il tema dell'educazione familiare. Premesso che la polisemia e l'ambivalenza del linguaggio rousseauiano consentono di sostenere tesi anche contraddittorie, D. Orlando affronta la lettura del tema con una metodologia descrittiva attraverso la quale fa emergere alcune interpretazioni critiche di cui una, ad
esempio, legata alla difficoltà di comprendere che cosa per Rousseau sia "inerente al sesso" e vada quindi rispettato anche nell'educazione familiare. Gli equivoci
e le ambiguità presenti nell'Emilio sembrano trovare soluzioni in Giulia. È nel
rapporto reciproco di Giulia e del marito che, per Orlando, è presente il vero
ideale della famiglia secondo Rousseau, in cui si trovano i prodromi della famiglia
moderna. In essa, l'educazione, impartita sia dalla donna che dall'uomo, continua
ad essere volta alla perfettibilità, la cui completa realizzazione non sarà mai compiutamente realizzata nell'esistenza umana.
L. Santelli, che riconosce a Rousseau intuizioni geniali ma anche talune chiusure, evidenzia come egli si occupi della famiglia in diverse sue opere. Viene rimarcato come in esse sia necessario che la donna, in qualità di figlia, sposa e madre, si presenti obbediente e docile e non solo dolce. Allo stesso modo, però,
non ne fa un essere passivo, in quanto sottolinea l'importanza di un'intesa col
padre e col marito, ponendo così le basi per una sua valorizzazione. L'approfondimento sulla modellizzazione del corso di vita presente nella dottrina di Rousseau, in particolare nell'Emilio, condotto da Mirca Benetton ne Il ciclo di vita ma478
schile e femminile nella pedagogia dell'Emilio, riflette sulle caratterizzazioni educative
che connotano, appunto, il corso della vita maschile e femminile visto nella sua
integralità. Nel definire le singole tappe di crescita della persona, considerando il
quid che le unisce e che conduce alla costituzione dell'identità umana, nell'approcciarsi alle idee di stadialità ma anche di continuum esistenziale e di perfettibilità, Rousseau delinea un approccio olistico al modello pedagogico di corso di vita
di notevole attualità. Il pedagogista permette di individuare gli elementi chiave
del divenire della persona, del senso dello sviluppo umano nella libertà e nell'autodeterminazione, fra sentimento e ragione, naturale e spirituale, per il progressivo perfezionamento di quest'ultima. Nel medesimo tempo, in tale percorso di
umanizzazione emergono delle specificazioni diverse per l'uomo e la donna, che
ancora una volta fanno sorgere dei dubbi in relazione al progetto di vita femminile che Rousseau intende coadiuvare dal punto di vita educativo. La libertà
umana che costituisce la meta finale del percorso formativo e che vale per Emilio, può riferirsi anche a Sofia? In questo caso, forse, se Rousseau pare essere riuscito pienamente nell'intento di integrare il modello biologico-stadiale dello sviluppo della persona, sembra adeguarsi di contro al modello sociale nel non rivendicare pienamente, in maniera chiara e lineare, l'autonomia e l'indipendenza
della donna.
Il contributo di Chiara Biasin – Les Rêveries d'un promeneur solitaire: percorsi di autoformazione anche al femminile – si sofferma sull'ultima opera scritta da Rousseau,
pubblicata postuma nel 1782, evidenziando che non si tratta di una raccolta di
fantasticherie e di sogni ad occhi aperti, ma di percorsi fisici, mentali, etici ed
estetici in cui Rousseau compie non solo un esercizio di memoria ma un viaggio
interiore che diviene un percorso di autoformazione o anche di ri-formazione. Il
contributo di Melania Bortolotto – La "seconda nascita" dell'uomo e della donna nella
pedagogia di Rousseau – prende in esame l'adolescenza per come viene descritta da
Rousseau, quale oggetto proteiforme, ma espressione di un'antropologia pedagogica ancora attuale, per coglierne la possibile declinazione al maschile e femminile. Anche relativamente a tale problematica, emerge l'intreccio rousseauiano fra
biografia e opera letteraria, così che, mentre per Emilio il percorso formativo appare più chiaramente tracciato, l'adolescenza femminile di Sofia sembra essere
più nascosta, e, quando si palesa, emergono le antinomie più volte evidenziate:
libertà e docilità, opinione e sentimento interiore. Tale età della vita pare, insomma, per lei depotenziata rispetto ad Emilio.
Il cammino educativo prende forma anche quale esperienza culturale, come
quella del Gran Tour, che costituisce un rito di passaggio alla vita adulta. Su tale
tema si sofferma il saggio di Andrea Porcarelli, Il viaggio come passaggio alla vita adulta in Rousseau: la prospettiva di Emilio e quella di Sofia. Rousseau sembra avere chiara
consapevolezza della funzione educativa e formativa del viaggio, che coinvolge
sia Emilio che Sofia. Nell'intreccio dei loro destini, Rousseau lo fa riapparire infatti anche come via di fuga. Ma, soprattutto, Emilio è il protagonista del viaggio
479
iniziatico che compie prima delle nozze con Sofia; oltre che carico di significati
emotivi, esso si presenta come un vero e proprio viaggio di istruzione, presentato
come un diario di viaggio. Infine, il contributo di Massimiliano Sandri, Rousseau:
Il maschile, il femminile e le origini di una differenza, si sofferma sulla tematica rousseauiana del rapporto passione-ragione e sul ruolo dell'uomo e della donna nel
vivere la passione, l'amore e il sentimento.
Ritornano le domande di fondo che rendono mai conclusa la scoperta del
pensiero di Rousseau, come Rousseau e le donne dimostra argutamente nella sua interezza: come agisce – o interferisce – la diversità 'di natura' dei sessi in rapporto
alla civilizzazione e all'ambiente in cui il soggetto cresce nel connotare il maschile
e il femminile?
Il testo, in definitiva, giunge a colmare un vuoto rispetto ad una tematica,
quella della donna, che finora non era stata compiutamente affrontata dagli studi
pedagogici su Rousseau.
Giuliana Sandrone
480
Milani L., Collettiva-Mente. Competenze e pratica per le équipe educative, SEI, Torino
2013, pp. 258.
Anticipando una tematica oggi ritenuta decisamente innovativa, l'Autrice ha
inaugurato un filone di ricerca ancora poco esplorato in prospettiva pedagogica.
È di questi giorni, infatti, l'attenzione agli Smart Group ossia i gruppi di lavoro che
danno migliori performance e esprimono creativamente un'intelligenza collettiva. Il
punto focale del volume di Lorena Milani è costituito dall'ipotesi che un'équipe
efficace, in grado di gestire le situazioni inedite e di costruire prassi adeguate, sia
fondata su una Mente Collettiva generata dalla cooperazione, dalla capacità di costruire connessioni tra i suoi membri, dall'azione sinergica derivata dalla condivisione di scenari, repertori e linguaggi. Tenendo presente un'ampia letteratura internazionale e interdisciplinare, l'Autrice delinea un quadro che, considerando
l'evoluzione dei collettivi in ambito educativo e la loro necessità per il lavoro
educativo e formativo, descrive il senso di una professionalità giocata al plurale e
costruita sulla generazione e sulla condivisione di competenze collettive. L'idea di
un'équipe competente conduce alla revisione e alla riscrittura della responsabilità:
oltre il saper agire, voler agire e poter agire (Le Boterf), la competenza necessita della
dimensione del dover agire (aspetto deontologico) che costituisce il crinale sul quale si situa la possibilità di discriminare l'agire professionale da un agire insensato e
dannoso. La complessità dei livelli di progettualità, la pluralità dei contesti e delle
problematiche, la differenziazione dei soggetti e dei bisogni educativi richiedono
sempre più risposte declinate al plurale in cui la deontologia si sviluppa come asse portante il cui centro è la responsabilità euristica in grado di costruire riflessione, di attivare la circolarità teoria-prassi e di riscrivere la pratica educativa. Situando l'agire educativo nella gestione del quotidiano in una lirica ed estatica tensione
verso la ri-significazione della prassi nella direzione della speranza educativa, l'équipe si pone come soggetto capace di trasformare l'inedito e l'imprevisto in oggetti
scientifici. Emerge l'immagine dell'équipe come un soggetto impegnato a costruire un Noi educativo con un'identità forte e capace di dispiegarsi in una possibile
struttura reticolare e flessibile che accoglie i soggetti cui si rivolgono i servizi
educativi, gli stakeholder, le differenti professionalità con cui si progetta e si attua
un percorso educativo in una logica di confronto multiprofessionale. La struttura
ricorsiva del testo connette costantemente la gestione e la produzione di competenze collettive (ed individuali) e la capacità dell'équipe di apprendere e di innovare la prassi attraverso la sperimentazione. Lo sfondo che accompagna la riflessione dell'Autrice, oltre a riferirsi alla letteratura scientifica sulle competenze e la
professionalità educativa, si struttura sui contribuiti di quattro autori che vanno a
costituire la trama del discorso pedagogico intrecciando i temi della formazione
(G. Pinau), della riflessività (A. D. Schön), dell'apprendimento trasformativo (J.
Mezirow) e della comunità di pratiche (E. Wenger). Attraverso un lavoro critico
sulle fonti e una loro lettura combinata e confrontata, Lorena Milani delinea una
481
prospettiva che trasforma l'équipe in un collettivo riflessivo, ossia un collettivo che
intreccia autoriflessione, riflessione ed ecoriflessione in una co-riflessione che costruisce agire sensato e favorisce uno sguardo praxiologico. Il punto focale del
collettivo riflessivo è costituito dal ciclo dell'apprendimento tra riflessività, esperienza, competenze e innovazione della pratica. Nel delineare le fasi di questo
processo, l'Autrice costruisce un modello utile sia per la ricerca scientifica sui
processi di apprendimento delle équipe, sia per la lettura e l'analisi del lavoro di
cambiamento della prassi e di generazione delle competenze accanto alla costruzione del Noi educativo da parte delle équipe stesse.
Il discorso pedagogico sulle équipe suggerisce, quindi, la necessità di stabilire
alcune metacompetenze collettive, ossia intenzionalità, progettualità, riflessività, deontologicità, rappresentatività e storicità, adatte sia per la gestione e il coordinamento delle équipe, sia come strumenti di analisi sul campo delle équipe in una prospettiva di ricerca scientifica. Allo stesso modo, definendo in modo chiaro il Noi
educativo come centro dell'Identità Collettiva dell'équipe, vengono descritte le dinamiche tra Sé professionale, Identità Collettiva, Identità Sociale Professionale e
Rappresentatività/Storicità e, contemporaneamente, vengo individuate cinque metafore interpretative dell'Identità Collettiva di un'équipe. Le metafore hanno lo scopo di favorire la riflessione sui possibili sviluppi identitari delle équipe e mettono
in luce sia gli aspetti positivi sia quelli negativi.
Se l'identità costituisce l'epicentro attorno al quale si sviluppa la possibilità di
un gruppo di divenire équipe, l'apprendimento e la genesi delle competenze sono
la forza stessa che si origina e che ritorna costruttivamente su questo epicentro,
strutturando l'équipe competente come un soggetto sistemico che agisce su cinque direttrici: 1) riflessività, 2) orientamento all'apprendimento e 3) al perfezionamento professionale, 4) mindfulness e 5) resilienza. Nella prospettiva dell'Autrice, quindi, il lavoro di équipe non si risolve solamente nella classica gestione delle
dinamiche di gruppo e delle questioni di leadership, ma si definisce come impegno
a forte carattere pedagogico nel ricostruire un'epistemologia localizzata e contestualizzata.
Milani fa intendere che questo risultato è possibile unicamente se l'équipe diviene capace di essere Mente Collettiva, ossia un soggetto capace di agire sintonicamente in modo cooperativo e coordinato attraverso le connessioni che i membri del gruppo riescono a realizzare nell'affrontare un compito educativo. Questo
richiede il saper padroneggiare le competenze connesse alla cooperazione (saper,
voler, poter e dover cooperare), accentando anche la sfida dell'incompetenza come
elemento da coltivare nella conquista di una maggiore efficacia e come occasione
per interrogarsi sul senso del limite dell'azione educativa.
Il valore aggiunto di questo contributo sta nell'aver delineato in modo chiaro
e complesso l'idea di una professionalità condivisa come orizzonte di senso e questione pragmatica dell'agire educativo, come condizione per un progetto circolare
tra teoria e prassi in contesti educativi e come momento apicale della professio482
nalità degli educatori. Nello stesso tempo, il volume costruisce una riflessione
costante sul senso della pedagogia, sulle strutture fondanti il discorso pedagogico
e sull'episteme della pedagogia a partire dai contesti dell'educazione di frontiera e
militante e dall'agire educativo in équipe. Di fatto, nel volume di Milani è tutto il
senso attuale della pedagogia che viene riletto nella prassi del lavoro di équipe.
Flavia Stara
483
Bertagna G., (ed.), Il pedagogista Rousseau. Tra metafisica, etica e politica, La Scuola,
Brescia 2014, pp. 316.
J.J. Rousseau può essere considerato uno dei "padri" della pedagogia moderna
per l'influenza che il suo pensiero ha avuto, durante gli ultimi tre secoli, sugli autori che si sono occupati di problemi educativi. Nel 2012 si sono celebrati in Europa e nel mondo due anniversari significativi: i 300 anni dalla nascita e i 250 dalla pubblicazione di tre delle sue opere più importanti: Giulia o la nuova Eloisa, Il
contratto sociale e l'Emilio. Purtroppo, gli anniversari non hanno avuto l'attenzione
che meritavano, soprattutto in ambito pedagogico. Il volume Il pedagogista Rousseau contiene una parte degli atti458 del convegno internazionale, organizzato dal
Dipartimento di Scienze umane e sociali dell'Università di Bergamo in collaborazione con il Centro di Ateneo per la Qualità dell'Insegnamento e dell'Apprendimento (CQIA) dell'Università di Bergamo, dal Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia, Psicologia applicata (FISPPA) dell'Università di Padova e dal
Centro Italiano di Ricerca Pedagogica (CIRPED). Il convegno rappresenta una
delle poche iniziative che, in Italia, ha cercato di interrogare in profondità i problemi e le riflessioni che il pensiero rousseauiano è ancora in grado di generare.
Il volume è suddiviso in tre ampie parti: la prima si occupa dei temi pedagogici presenti nei testi del Ginevrino, la seconda degli aspetti filosofici e politici, la
terza del modo in cui la sua opera è stata interpretata dalla tradizione.
La prima parte Tra pedagogia ed educazione è aperta da un ampio saggio di Giuseppe Bertagna, curatore del volume, dal titolo Una pedagogia tra metafisica ed etica.
L'autore individua nella metafisica e nell'etica i temi centrali della proposta rousseauiana e, prendendo le distanze in modo critico da molte interpretazioni sul
rapporto tra Emilio e Contratto sociale, sostiene che l'educazione e la pedagogia non
sono riducibili alla politica: «Rousseau non avrebbe scritto l'Emilio per rendere
possibile il Contratto sociale, e viceversa scritto il Contratto sociale per dimostrare che,
per stipularlo senza certezze di fallimento, si avrebbe avuto bisogno dell'Emilio.
Egli al contrario, avrebbe scritto l'Emilio per ribadire che l'educazione e la pedagogia non sono in alcun modo la politica (Contratto sociale), ancorché la si voglia
intendere al nobile modo platonico della "basilikè téchne". È, infatti, la politica che
commercia statutariamente con il "potere", non l'educazione e la pedagogia. È la
politica, inoltre, che, per essere tale, deve interessarsi del possibile "fattibile" oggi
e del "possibile" praticabile magari domani. Con pazienza e tenacia» (ivi, p. 23),
non l'educazione e la pedagogia che, invece, si interrogano e agiscono sul "doveroso" e sul "bene". Sicuramente, sottolinea Bertagna, esistono legami e intrecci
tra il pensiero politico e quello pedagogico rousseauiano. Ma, allo stesso tempo,
458 La seconda parte degli atti del convegno internazionale è stata pubblicata nel testo curato da
Carla Xodo, Rousseau e le donne (La Scuola, Brescia 2014).
484
il Ginevrino è consapevole della specificità pratico-poietica dell'ambito educativo. Una specificità che, pur concretizzandosi nella consapevolezza della necessità
di partire dall'esistente e da ciò che è reale e presente, trova la sua finalità in un
costante slancio verso ciò che è "bene" per natura e che, in quanto tale, "si deve"
realizzare. La finalità dell'educazione è, dunque, il pieno sviluppo di tutte le potenzialità dell'essere umano e non la semplice formazione di cittadini, scopo centrale dell'attività politica. È possibile che i due compiti possano realizzarsi entrambi in modo armonico, ma solo a condizione che: «l'uno sia mezzo per l'altro:
si sottometta all'altro per l'altro. Infatti, non si può fare allo stesso tempo l'uno e
l'altro, perché un conto è se la politica diventa un mezzo per l'educazione e la
pedagogia al servizio dell'uomo, un altro se accade, come tante volte è accaduto il
contrario» (ivi, pp. 23-24).
Il volume prosegue con l'articolo di Egle Becchi su Natura e educazione: i tre
grandi testi degli anni Sessanta e oltre che analizza le analogie e le differenze tra Giulia
o La nuova Eloisa, l'Emilio e il Contratto sociale per cogliere alcuni temi paradigmatici
della scena educativa rousseauiana. Becchi propone un'articolata analisi della figura del gouverneur sottolineandone l'importanza e la ricchezza: «essere che conosce la natura ma che vive nel mondo, ne incontra le insidie, talora anche sbaglia –
o, meglio finge delle mosse errate – e pur sempre conduce a buon fine la sua
missione di traduttore della natura nella realtà sociale, il gouverneur appare, pur nella differenza di posizione nel contesto discorsivo, come affine non tanto a Wolmar, quanto al Legislatore del Contratto sociale» (ivi, p. 78).
Il tema dell'autobiografia nell'opera del Ginevrino è approfondito da Giuliano
Minichiello in L'esperienza autobiografica come categoria pedagogica nel Contratto e
nell'Emilio. Proprio l'esperienza autobiografica, secondo l'autore, costituisce un
elemento centrale che lega la riflessione politica ed educativa del Ginevrino: «l'autobiografia moderna non è il puro e semplice riconoscimento di una trama oggettiva da portare alla luce, bensì la costruzione di una unità/identità che nella
narrazione viene effettivamente posta in essere. Il carattere autopoietico della coscienza e l'identità narrativa dell'io si corrispondono "quasi" perfettamente» (ivi,
p. 91).
Il saggio di Giuseppe Mari Il pensiero pedagogico russoviano tra culmine e superamento
della modernità avvia un confronto tra le categorie filosofiche e pedagogiche di
Rousseau e quelle della modernità tentando di mettere in evidenza gli aspetti che,
nella riflessione rousseauiana, anticipano o si distanziano dalle principali linee
ermeneutiche del pensiero moderno. Mari identifica nell'importanza dell'orizzonte etico il contributo più originale del Ginevrino: «Rousseau offre una risposta
fondata e attendibile quando – richiamando il pensiero antico – sottolinea che
l'educazione ha a che fare con la conquista della moralità» (ivi, p. 113).
I testi che chiudono questa prima parte riflettono su due temi centrali dell'opera rousseauiana: la natura e il linguaggio. Andrea Cegolon, in Rousseau e Quesnay: un'ipotesi sulla genesi del mito della natura, attraverso un confronto con i testi di
485
Quesnay, indaga le idee di stato di natura e di lavoro, mentre Andrea Potestio, in
Il ruolo del linguaggio nella proposta educativa di J.-J. Rousseau, affronta i temi del linguaggio e della parola a partire da un'analisi del Saggio sull'origine delle lingue.
La seconda parte I legami etico-politici approfondisce, anche attraverso un confronto con la tradizione filosofica moderna, l'intreccio tra educazione e politica
nell'opera di Rousseau e il suo sforzo di suggerire possibili percorsi per realizzare, in modo armonico, la loro integrazione. In questa direzione, Raymond Trousson nel suo saggio Eziologia del ricordo d'infanzia e di giovinezza in J.J. Rousseau interroga, a partire dalle Confessioni, il significato nuovo che l'infanzia assume nel progetto rousseauiano. Se nel Settecento i primi anni di vita non suscitavano un
grande interesse per gli intellettuali, Rousseau, tra i primi, identifica questa età
come un momento significativo per lo sviluppo dell'identità soggettiva adulta.
Infatti, «il ricordo d'infanzia testimonia la bontà originale dell'individuo Rousseau
e propone un modello da imitare per ritrovare i principi naturali all'interno di una
società corrotta» (ivi, p. 163).
Roberto Gatti in Il male, l'educazione, la politica indaga le radici del problema del
male e della sua formazione. La questione del ruolo del negativo è centrale per
comprendere l'intera impostazione ontologica rousseauiana. Il male è generato
dai legami sociali, ma risulta presente anche nella struttura profonda dell'essere
umano. Come è possibile, quindi, limitarne il potere deformante? La risposta che
il Ginevrino fornisce ai suoi lettori, secondo l'interpretazione di Gatti, non è
semplicistica e coglie la natura radicale del male all'interno della dimensione
umana: «il fatto è che il male di rivela iscritto nella natura umana e, per tale motivo, neppure l'educazione del più "abile maestro" può porre per sempre al riparo
da esso. Emilio ne può ridurre, per così dire, l'incidenza nella sua vita ai margini
del mondo e stando sempre in guardia contro le contaminazioni che il mondo, in
quanto abitato da uomini con la loro faiblesse e con la loro tendenza ad abusare
della libertà, porta con sé. Non più di questo» (ivi, p. 177).
Gianfranco Dalmasso propone ne Il "Rousseau" di Hegel un confronto serrato
tra il pensiero del filosofo tedesco e quello rousseauiano, volto a interrogare temi
centrali della produzione dei due autori come la libertà, l'alterità e il negativo. La
seconda parte viene chiusa dai testi di Guglielmo Forni Rosa e di Maurizio Griffo. Il primo autore affronta, in Karl Barth: dal Rousseau romantico alla teologia liberale,
il problema della storia e della teologia partendo dall'interpretazione che Karl
Barth offre del "pedagogista" ginevrino. Griffo in Rousseau e l'ottima costituzione:
l'onnipresenza del modello antico si occupa della presenza delle categorie politiche
classiche nel pensiero politico rousseauiano.
La terza e ultima parte degli Atti è dedicata a interventi che cercano di ricostruire, da un punto di vista storico, le tappe più significative della ricezione che
l'opera rousseauiana ha avuto durante i secoli, in Italia e in Europa. Il saggio di
Simonetta Polenghi La ricezione di Rousseau in area austro-tedesca. Da Lessing a Milde
(1751-1813) analizza le linee teoriche, filosofiche e pedagogiche, che nei paesi di
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lingua tedesca hanno interpretato i testi del Ginevrino: «se tralasciamo le premesse metafisiche e politiche, e centriamo l'attenzione sull'Emilio e sulla Nuova Eloisa,
possiamo osservare che questi due lavori esercitarono un immediato impatto su
intellettuali, pedagogisti, educatori ma anche esponenti dell'aristocrazia e della
borghesia tedesca» (ivi, p. 225).
Gli articoli di Antonio Viñao La ricezione di Rousseau in Spagna e di Dorena Caroli La ricezione di Jean-Jacques Rousseau in Russia tra Settecento e Ottocento si occupano,
rispettivamente, della diffusione dei testi e delle idee di Rousseau in area spagnola
e in area russa. Sono dedicati, invece, alla ricezione italiana i saggi di Adolfo Scotto di Luzio Rousseau nel dibattito italiano alla vigilia della Grande Guerra e di Giuseppe
Zago L'Emilio nella lettura di Giuseppe Flores d'Arcais che chiudono il volume.
Fabio Togni
487
Corsi M., (Ed), La ricerca pedagogica in Italia. Tra innovazione e internazionalizzazione,
Pensa Multimedia, Lecce 2014, pp. 250.
Questo libro raccoglie gli atti del Convegno Nazionale della Società Italiana di
Pedagogia (Macerata, 2013) dal titolo "Generazioni pedagogiche a confronto.
Nuove prospettive di ricerca e dimensione internazionale" e si pone l'obiettivo di
fare del confronto tra differenti modelli, teorie e scuole di pensiero un'occasione
per pensare le sollecitazioni del presente e una sfida per costruire "il futuro che ci
attende". Si tratta di un'opera corale che persegue nella forma, oltre che nei contenuti presenti in un testo intenzionalmente enciclopedico e aperto a tutti i settori e i
campi di intervento della pedagogia, una vocazione comunitaria. Nell'ordito stesso della struttura del testo è custodito il progetto di una pedagogia di domani
che, solo se saprà pensarsi coesa al suo interno - pur nei molteplici rivoli in cui si
declina la sua ricerca -, potrà crescere nel suo profilo scientifico come nella sua
capacità di rispondere alle nuove sfide di un tessuto sociale in perenne cambiamento. Sul fronte dello sviluppo scientifico il testo vuole parlare alla comunità
nazionale e internazionale per mostrare quanto la poliedricità degli ambiti in cui
la ricerca pedagogica si impegna è uno specifico che la pedagogia non può dismettere, pena la distorsione della sua ispirazione originaria di ricerca. Oggi la
sfida è duplice: occorre continuare a dare voce a ricerche locali, che sappiano valorizzare le culture originali e rispondere ai problemi mirati dei contesti educativi
specifici ma promuovere, anche, studi e progetti di più ampio respiro, che sappiano imporsi sulla scena internazionale, grazie al rigore di dispositivi metodologici chiari e alla capacità di innovare, nel dialogo con le tradizioni di ricerca europea, i propri paradigmi interni. Si tratta di avere, oggi più che in passato, uno
sguardo binoculare: continuare a scorgere nella tradizione della ricerca pedagogica italiana elementi di inattualità da ripensare per costruire il nostro presente e, al
contempo, aprire la ricerca educativa e la comunità scientifica al dialogo con altri
modelli europei, per praticare, nella sostanza, la sfida del dialogo e del confronto
con l'alterità. Oggi la ricerca educativa, se vuole rispondere ai problemi complessi
che si affacciano sulla scena del nuovo millennio, ha la necessità di assumere uno
sguardo di soglia, capace di presidiare le zone di confine tra le discipline e i saperi
specialistici e tra tradizioni metodologiche diverse (quantitative e qualitative); solo da una pratica intelligente dell'ibridazione è possibile crescere come sapere e solo attraverso la cooperazione con altre discipline è possibile raggiungere risultati
sostanziali sul piano dell'impatto internazionale della ricerca. Da quanto detto è
comprensibile come non sia possibile sintetizzare la ricchezza contenutistica del
testo in poche frasi; il libro ospita contributi che spaziano in molteplici direzioni
e che attestano la forte ispirazione pluralistica del sapere pedagogico. Ciò che,
invece, si costituisce come elemento prezioso e come efficace trait d'union del libro, ben oltre l'abbondanza di sguardi di ricerca e di prospettive di intervento, è
il progetto culturale e pedagogico delineato. Si tratta di un'opera permeata da
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un'ispirazione testamentaria, che guarda ai giovani ricercatori come a una promessa
per il futuro, invitandoli al riconoscimento del patrimonio custodito dalle generazioni di pedagogisti precedenti, come atto fondamentale per ogni opera di tradimento e traduzione, autenticamente innovativi. Ri-soggettivare il passato è un
gesto carico di ambivalenze e non esente da conflitti ma implica, anche, sapersi
riconoscere dentro a un patto di filiazione e dentro una trama affettiva che ci ha
costituiti e che può continuare a germinare solo se si assume una postura di riconoscimento e gratitudine verso il lascito che ci è dato in consegna.
Stefania Ulivieri Stiozzi
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Alessandrini G., Pignalberti C. (a cura di), Le sfide dell'educazione oggi. Nuovi habitat
tecnologici, reti e comunità, Pensa Multimedia, Lecce 2012, pp. 333.
Le sfide dell'educazione oggi è un denso collettaneo, curato da Giuditta Alessandrini e Claudio Pignalberti, che raccoglie i contributi presentati al "Secondo Seminario Internazionale di Pedagogia del Lavoro", svoltosi presso l'Università di
Roma TRE il 23 maggio 2011. Un incontro, organizzato dalla Rete RUPLO (Rete Siped di Pedagogia del lavoro e delle organizzazioni), che ha visto confrontarsi
docenti e ricercatori provenienti da diverse Università (delle città di Milano, Bari,
Macerata, Parma, Roma e Napoli) e Associazioni (AICA, Siped).
Come ha sottolineato Michele Corsi nella Prefazione, il volume esprime la capacità di "fare rete", a livello nazionale ed internazionale, e di aprire la ricerca al
territorio e a «collaborazioni scientifiche che superano il conchiuso orto accademico e talora anagrafico, per aprirsi a giovani brillanti e a figure ed esponenti del
mondo della scuola, come delle imprese» (p. 17).
Segno della capacità di sollecitare il dialogo internazionale sulle problematiche
odierne del lavoro mediante un approccio inter- e multi-disciplinare, in grado di
facilitare il dialogo fra i diversi saperi, è il saggio di Etienne Wenger dal titolo
Verso un futuro più distribuito. L'Autore enfatizza il ruolo della tecnologia come
elemento propulsore della creatività collettiva, che si manifesta come forza aggregante a diversi livelli, all'interno della comunità e del mercato: fra comunità di
pratica e sviluppo tecnologico vi è una reciproca influenza che coinvolge l'area
della formazione, della comunicazione, della partecipazione e della cittadinanza.
Wenger evidenzia la natura sociale dei media di rete, sottolineando come la recente evoluzione tecnologica possa generare pericoli ma, al contempo, nuove
possibilità e "sfide" per la coesione della comunità e delle identità. La prospettiva
che sottende il contributo dell'Autore – ma non solo, potrebbe essere il fil rouge
che connette i numerosi saggi del volume – enfatizza la dimensione esperienziale,
sociale e trasformativa dell'apprendimento, la sua capacità di mobilitare le nostre
identità e di negoziare nuovi significati, di costruire traiettorie di partecipazione,
di supportare la partecipazione comunitaria.
I processi apprendimento, intesi come processi trasformativi, sono in grado
di riconfigurare gli schemi e le prospettive di senso che orientano l'agire individuale e collettivo (Striano) all'interno di particolari cornici culturali, linguistiche e
sociali. Essi permettono di riconfigurare, grazie a processi riflessivi, le pratiche acquisite nel corso dell'agire professionale, ossia tutte quelle attività regolate da una
serie di azioni condivise e trasmesse all'interno di una comunità professionale, in
cui vi è sempre una trasformazione data dall'accoppiamento strutturale fra soggetti e pratiche, fra ambiente che propone degli input, destabilizzando gli equilibri pregressi, e il sistema che ha una propria struttura, risponde e si trasforma. In
tale processo, divengono efficaci dispositivi didattici che richiedano l'esame di situazioni com-
490
plesse, purché siano vissute e sentite dal formando come emotivamente significative e connesse
alla propria esperienza identitaria (Rossi).
Le pratiche si inscrivono in contesti, linguaggi, memorie ed expertise professionale che occorre conservare e documentare affinché possano divenire terreno di
co-costruzione e condivisione di significato; ciò è valido in particolare all'interno
del contesto scolastico, dove emerge la «necessità di creare una memoria di comunità che metta a disposizione di ciascun insegnante una pluralità di saperi in grado
di allargare il repertorio delle pratiche di ognuno e di sostenere forme di apprendimento organizzativo» (Schiavone, p.131). Un problema essenziale per le comunità
di professionisti è, infatti, quello di preservare le conoscenze professionali da trasmettere, stabilizzarne gli effetti e creare le condizioni per il nuovo, sfruttando la
comunicazione resa possibile da gruppo che agisce in rete (Alessandrini).
Al centro dei nuovi processi apprenditivi e di partecipazione si collocano le
tecnologie e gli ambienti digitali, ritenuti risorse dalla indiscutibile valenza civile, democratica e formativa, strumenti per formare "cittadini dell'apprendimento" rispettando tempi e scelte, ritmi della vita associativa e professionale; ciò è evidente in
tante aree in cui si assiste alla commistione fra tecnologia, processi formativi e
partecipazione, come ad esempio quella della didattica e dell'editoria, in cui vengono generati processi di reificazione e di negoziazione di significati all'interno
delle comunità di studenti e di lettori (Maragliano).
Il concetto di comunità di pratica appare, inoltre, assai pervasivo: basti pensare alle possibilità formative e auto-trasformative che possono essere adottate per
sostenere i processi di crescita nelle famiglie, ritenute come comunità di ricerca riflessiva, in cui l'apprendimento e i processi di costruzione della conoscenza sono interpretati come depositari di saperi situati elaborati soprattutto attraverso la risoluzione dei
problemi e l'apprendimento dall'esperienza e come luoghi di apprendimento permanente che si
strutturano attorno alla pratica (De Natale, Bracci); allo stesso modo, il concetto di
comunità di pratica appare una "sfida" educativa anche per la chiesa e le comunità cristiane, impegnate nel costante impegno di valorizzazione della formatività
della vita (Zuppa).
Forte è anche la correlazione tra l'apprendimento e il lavoro, il quale si presenta mutato qualitativamente e richiede figure professionali sempre più adattive,
multitasking, capaci di riconoscere il valore della pratica e dell'esperienza e di intrecciarlo con le storie personali; affinché ciò possa avvenire, è necessario sviluppare ambienti di apprendimento al lavoro di workplace learning (Pastore) e di orientamento al lavoro, sempre più parte integrante del percorso di costruzione professionale degli studenti nella prospettiva del life long guidance (D'Agostini). Se non
è più possibile misurare il capitale umano con i livelli di istruzione formale acquisiti, occorre allora investire in processi di transizione scuola-lavoro come l'alto
apprendistato, esperienza formativa in grado di educare ad avere resilienza
nell'apprendere al fine di accrescere le proprie competenze e sapersi orientare nel
campo professionale (Livraghi). Occorre, inoltre, coniugare la dimensione esi491
stenziale con quella lavorativa, valorizzando, contaminando, mettendo a patrimonio conoscenze ed esperienze (Trevisanello), in un processo di cambiamento
capace di sviluppare ed implementare politiche di benessere organizzativo (Petrucci) o di generare "valore pubblico" all'interno della pubblica amministrazione
(Ursino). Soprattutto attraverso la mediazione attiva del Web, si assottiglia sempre più la distinzione fra partecipazione e reificazione, si moltiplica il numero di
comunità a cui è possibile "appartenere", si genera una nuova identità sociale e, al
contempo, individuale.
Tutto ciò – come afferma Giuditta Alessandrini nella Postfazione del volume –
necessita di essere compreso e interpretato in chiave pedagogica, al fine di cogliere le antinomie implicite di tali fenomeni emergenti e leggerli criticamente evidenziandone, per un verso, i processi di generatività collettiva e, per altro verso, i limiti dei processi cognitivi che si attivano nei contesti comunitari in rete. Riecheggiano, infatti, le domande che l'Autrice pone all'attenzione della comunità
scientifica pedagogica in relazione allo sviluppo della creatività in rete e all'evoluzione delle comunità di pratica e di apprendimento: «Quali attese elaborano le
persone rispetto alla loro identità, nel loro accedere alla comunità in rete? Come
percepiscono il "dono" che emerge dalla condivisione sul web? Quali resistenze
possono incontrare le Codp in rete laddove si percepisce l'inconsistenza o la superficialità del "dono"? Nelle strutture organizzative nelle quali si riconosce una
forte cultura di rete possono verificarsi vere e proprie paure connesse alla perdita
di controllo del "knowledge" individuale messa a repentaglio dalla condivisione?
Possono, dunque, le Codp in rete essere percepite come "minaccia"? Come sviluppare una cultura organizzative in grado di riconoscere e legittimare dall'alto il
lavoro comunicativo di rete? Il che significa chiedersi se si può incentivare – a
partire sempre dall'alto – il flusso germinativo di un pensare plurale nella rete?»
(p. 330).
Il volume, lavoro corale e articolato, invita a riflettere e ad approfondire le future prospettive dischiuse dal riconoscimento della comunità di pratica in rete
come fattore determinante rispetto agli esiti futuri dei processi life long learning, in
cui apprendimento informale e formale assumono pari valore e la riflessione
sull'esperienza diviene strumento chiave dell'educazione degli adulti (Pignalberghi). Si tratta di un salto di paradigma e di una rottura epistemologica – nel passaggio
fra l'apprendimento tradizionale e quello reticolare – che abbandona fonti di sapere esperto, individuale, stabile ed esplicito, per abbracciare fonti sempre più
distribuite, collettive, sociali, dinamiche, non sempre codificate e, perlopiù, tacite,
in grado di generare e stimolare creativamente la formazione (e la conformazione) dei gruppi-comunità.
Viviana Vinci
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Perla, L. (a cura di), Per una didattica dell'inclusione. Prove di formalizzazione, PensaMultimedia, Lecce 2013, pp. 360
I processi di integrazione e/o inclusione nell'ambito della Pedagogia e della
Didattica speciale sono spesso presentati come intercambiabili, lo stesso uso indifferenziato dei due termini comporta una confusione semantica, la quale 'nasconde' le diverse ricadute progettuali che i due processi hanno nell'ambito della
formazione umana.
Il lavoro curato da Loredana Perla mira proprio ad una identificazione semantica e progettuale dell'inclusione nei suoi risvolti pratico-didattici.
L'inclusione, pertanto, "non è un dato di partenza, né solo un prodotto informale dell'esperienza umana, ma è un oggetto culturale vero e proprio" (p.23)
ossia un processo che supera il rischio di normalizzazione delle differenze muovendosi prevalentemente su cinque ambiti: l'ambito politico-culturale, l'ambito
del confronto con paradigmi di confine, specie di tipo clinico; l'ambito delle parole per dire la diversità; l'ambito della formazione docente e infine l'ambito
dell'offerta di competenze per la diversa-abilità altamente specializzate sul modello on demand (p.42).
Muovendosi come istanza di superamento del paradigma biomedico l'inclusione non si configura più come un "bisogno o una necessità della persona in stato di disagio o di disabilità, ma è, appunto, un diritto e, come tale, andrebbe reso
cornice di scuole strutturate intenzionalmente al riconoscimento del comune diritto alla diversità" (p.42).
Riconoscendo l'inclusione come diritto alla diversità, la riflessione si sposta
sull'azione didattica in senso proprio, che sappia concedere dimora, in ogni fase
della sua azione, alle differenze.
A tal proposito la riflessione si sposta sulla necessità di costruire un alfabeto
dell'inclusione (Viviana Vinci), che dia valore e attenzione alle differenze anche
nella fase valutativa. Ogni pratica inclusiva è composta da esperienze eterogenee
che necessitano di attenzioni educative e competenze pedagogiche che naturalmente non possono essere ritenute valide a priori, ma vanno continuamente
problematizzate e contestualizzate (Cristina Palmieri).
La pratica inclusiva non può fare a meno delle strategie di personalizzazione
(Pier Giuseppe Rossi) intese come "la possibilità di introdurre spazi di autodecisione che gli studenti possono gestire per curvare il percorso generale in funzione dei propri interessi e delle proprie modalità di apprendimento" (p.143) e quelle di individualizzazione che avvengono "quando il docente predispone per lo
studente percorsi di mediatori diversi, ma finalizzati al raggiungimento di obiettivi identici per tutta la classe" ( p.143).
La fase della progettazione didattica si basa su dispositivi e viene supportata
dalla tecnologia la quale può rappresentare un ottimo strumento al fine di co-
493
struire pratiche inclusive, soprattutto in riferimento ai Bisogni Educativi Speciali
(Laura Fedeli).
La didattica dell'inclusione, pertanto, necessita di format inclusivi basati su
analisi, discussioni e mappe condivise (Catia Giaconi) e innovazioni didattiche
quali la competenza documentativa che può annoverarsi tra le strategie per l'inclusione (Nunzia Schiavone), come il modello della scuola senza zaino, nel quale
lo spazio classe diventa un'aula ospitale e aperto alle differenze e alle personalizzazioni delle attività (Marco Orsi, Maria Paola Pietropaolo). La costruzione di
una scuola inclusiva non può non prescindere dall'aver cura degli alunni con
DSA e progettare una mediazione didattica capace di stimolare la cooperazione,
la meta-cognizione e l'apprendimento per scoperta (Nunzia Schiavone, Ilenia
Amati) capaci di rispettare e riconoscere le diversità cognitive esistenti in un contesto classe.
La didattica dell'inclusione, quindi, può essere riconosciuta come speciale/normalità, la quale permette di distinguere ma non di separare del tutto i due
termini speciale/normale, di far dialogare ad anello due aspetti salienti del processo formativo di ciascuna persona e di valorizzare l'antinomia speciale/normale all'interno dell'idea trascendentale della formazione umana.
La specialità potrà riguardare l'integrazione, in quanto essa si riferisce ai soggetti con disabilità, mentre per normalità potremmo intendere l'inclusione, in
quanto processo che riguarda tutti i soggetti sia con DSA che con Bisogni Educativi Speciali. L'integrazione con la sua specialità offrirà un contributo importante all'inclusione/normalità tanto da ampliarne i contenuti; il processo inclusivo
continuamente accoglierà le nuove istanze provenienti dalla speciale/integrazione, che confluiranno nel nuovo processo inclusivo/normale arricchitosi dei contributi dell'integrazione stessa. La doppia logica tra integrazione e
inclusione permetterà a ciascuna persona di poter e saper stare con l'altro, in
quanto il soggetto diversamente abile avrà bisogno dell'integrazione per stare con
gli altri e così quest' ultimi attraverso l'inclusione potranno stare insieme ai primi.
Integrare e includere si configurano come due processi differenti e complementari che, valorizzati nella loro diversità e complementarità, edificano un contesto di convivialità delle differenze.
Dal punto di vista squisitamente didattico, invece, è la partecipazione la chiave di volta per un'autentica inclusione. I processi di integrazione/inclusione, pertanto, sono costitutivi di un progetto formativo integrato di ampio respiro, capaci di mettere in rete, in uno spazio conviviale, i differenti progetti di vita.
Potremmo dire che la didattica dell'inclusione, così come formalizzata nel testo, ci spinge a ritenere l'inclusione non solo un diritto ma un processo di educazione democratica, in quanto la stessa democrazia deve essere inquadrata anche
in termini più generali, alla luce della sua capacità di alimentare la partecipazione
consapevole favorendo la disponibilità di informazione e la possibilità di dare vita a confronti interattivi. Ovvero la democrazia non è solamente una forma di
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governo (Dewey),essa va valutata non solo in base alle istituzioni formalmente
esistenti, ma anche all'effettivo spazio concesso alle diverse voci delle varie componenti sociali, uno spazio aperto alla riflessione, al libero scambio delle opinioni
differenti, e al riconoscimento delle diversità che abitano i contesti sociali, come
quello scolastico.
Il lavoro 'Per una didattica dell'inclusione' può contribuire a stimolare e/o
problematizzare la riflessione sul nesso inclusione-diritti-democrazia, in quanto
non c'è scuola inclusiva senza democrazia e non c'è democrazia senza inclusione.
Angela Maria Volpicella
495
Mortari L., Bertolani Jessica, Counseling a scuola, La Scuola, Brescia 2014, pp. 160.
Il Volume 'Counseling a scuola', a cura di Luigina Mortari e Jessica Bertolani,
approfondisce il tema della consulenza educativa (o counseling) e la sua applicazione nel contesto scolastico, favorendo il confronto tra realtà italiana e americana.
Il testoraccoglie i contributi di 9 autori, tra cui alcuni dei maggiori esperti di
couseling scolastico negli Stati Uniti, dove la figura dello schoolcounselor vanta
una forte tradizione, è ben radicata e copre una vasta gammadi funzioni. L'obiettivo è di ampliare lo sguardo su una professione ormai nota come quella del
Counseling, evidenziandone le potenzialità grazie alla lezione che si può trarre
dalla sua evoluzione e applicazione nel contesto internazionale.
I contributi che compongono il volume esplorano le diverse potenzialità e le
sfaccettature di una pratica che necessita in Italia di specifici standard e adeguati
percorsi di formazione. L'esame dello sviluppo e l'attuale situazione dei counselor negli Stati Uniti può offrire utili indicazioni sulle azioni da intraprendere nel
nostro Paese.
A partire dal concetto di cura, che dovrebbe accompagnare ogni azione educativa, Luigina Mortari definisce le direzioni e il senso dell'educazione e del
counseling, che condividono l'obiettivo di aiutare la persona ad attualizzare se
stessa nella realizzazione del suo progetto esistenziale. Il paradigma della cura si
traduce nella capacità di aver cura dell'anima, che comprende quattro direzioni
fondamentali: aver cura del pensare, poiché l'attività del pensiero è vita e una vita
senza pensiero non riesce ad attualizzare la sua essenza; aver cura del sentire, cercando di comprendere la qualità dei vissuti e delle esperienze emozionali che
contribuiscono a una buona qualità della vita; aver cura delle parole, per attivare
un linguaggio che stabilisca un'intima relazione con la vera essenza delle cose e
dell'essere della persona; aver cura delle relazioni, promuovendo quell'educazione
alle virtù che favorisce la capacità di con-vivere e fecondare buone relazioni.
Il testo prosegue con il contributo di John Carey, che descrive l'attuale natura
della formazione dei counselor negli Stati Uniti, ne evidenzia i punti di forza e di
debolezza e propone alcune indicazioni per lo sviluppo della formazione dei
counselor in Italia. Dopo aver presentato la complessità della formazione dei
counselor, che riflette la presenza di diversi soggetti (governi, associazioni professionali, università, enti per l'abilitazione, organizzazioni non profit), tre sono i
suggerimenti avanzati per contribuire alle azioni necessarie per far progredire la
professione. Il presupposto è che in Italia il counseling debba essere reinventato
piuttosto che trapiantato.
A partire dalla sua esperienza di docente universitaria di fondamenti della
consulenza pedagogica, Anna Rezzara apre il suo contributo con un riflessione
sull'identità della funzione consulenziale per arrivare a proporre un modo di intendere e di fare consulenza pedagogica. In tal senso, individua le dimensioni
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strutturali e componenti essenziali da considerare per una progettazione pedagogica della consulenza e suggerisce un approccio che si rifà alla Clinica della formazione di Riccardo Massa. L'invito finale è di coltivare la capacità di differire la
soluzione del problema, di stare e sostare nelle domande, nella sospensione, nel
vuoto.
Il saggio di Ian Martin si apre con un breve racconto che mette a confronto la
sua esperienza di schoolcounselor con quella del nonno nei primi anni Cinquanta
e si snoda nella descrizione degli eventi che hanno influenzato lo sviluppo, l'organizzazione generale e lo stato attuale dei programmi di schoolcounseling negli
USA. L'obiettivo è aiutare i professionisti a identificare sviluppi professionali utili
ad aumentare le possibilità che i counselor scolastici diventino una presenza più
attiva nella scuola italiana. Creare programmi e interventi sufficientemente flessibili da essere implementati in altre culture e contesti internazionali rappresenta
una nuova frontiera per lo schoolcounseling, sfida che si dimostra avvincente e
ricca di potenziale.
Maria Grazia Riva esplora la consulenza pedagogica come dispositivo complesso per la sua multiversità e multidimensionalità dovuta alle varie forme che
assume nei diversi contesti, alle plurali metodologie, strumenti e tecniche, oltre
che alla complessità della formazioneche richiede. Presenta un lavoro di consulenza della durata di due anni sviluppato in alcuni Istituti scolastici dell'area lombarda, narrando le fasi di lavoro e gli attori coinvolti e facendo emergere il pensiero e il senso che hanno animato le azioni. Si tratta di un intervento di sistema,
in cui lavorare contemporaneamente su più livelli e con le diverse componenti
del sistema-scuola: insegnanti, allievi e genitori.
Proseguendo nel testo, Erika Nash considera l'ambito dello sviluppo professionale degli schoolcounselor. Tra i vari approcci esistenti (studio di casi, consulenza di problem-solving, coaching, comunità di pratica etc.) propone l'approccio
del learning-team, o gruppo di apprendimento, poiché presenta la caratteristiche
che favoriscono un'efficace risultato: è fatto in loco, è integrato nelle attività di
lavoro, è portato avanti nel tempo, è centrato sull'apprendimento attivo e sul
successo dello studente. La descrizione dell'approccio e i suggerimenti prima di
attuarlo facilitano la comprensione a chi desidera sperimentarlo nel proprio contesto.
Il rapporto scuola-famiglia nella consulenza educativa è il tema preso in considerazione da Domenico Simeone. Il rapporto genitori-insegnanti è certamente
utile per la scuola, ma lo è anche per la famiglia. Agli insegnanti è chiesto di mettere in atto competenze comunicativo-relazionali complesse per costruire relazioni efficaci di collaborazione con le famiglia. La consulenza educativa può essere un utile strumento sia per incrementare tale collaborazione, sia per sostenere le
famiglie che si trovano momentaneamente in difficoltà rispetto al proprio compito educativo. Un positiva collaborazione tra scuola e famiglia, oltre ad avere ef-
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fetti benefici sull'apprendimento e sull'educazione dei ragazzi rappresenta il primo passo verso la costruzione di un sistema educativo efficace.
Claudio Girelli esplora la consulenza educativa in quanto possibilità di innovazione nella scuola. Il saggio ha l'obiettivo di esaminare le logiche di consulenza
utilizzate in relazione al modo di pensare l'organizzazione scuola per individuarne le potenzialità. Attraverso l'approfondimento di concetti come miglioramento
continuo e pratica professionale collaborativa, emerge un'immagine di scuola
come organizzazione specifica, come learningorganization e comunità che apprende. È in questo contesto che viene proposta la consulenza di processo in
quanto modello funzionale nella scuola e vengono indicati alcuni criteri orientativi utili a generare o sostenere l'innovazione.
Il volume si chiude con il contributo di Jessica Bertolani, che approfondisce il
counseling scolastico secondo l'approccio americano e si focalizza sulGuidance
Curriculum, in quanto intervento che presenta spunti di applicazione utili per il
contesto italiano. A partire dalla concezione di schoolcounseling americano, inteso come programma e non come erogazione di servizi isolati, vengono descritte
le componenti dello School Counseling Program e del Guidance Curriculum,
con un esempio di Curriculum attuato dall'autrice. L'augurio è di creare nuove
visioni e modalità d'azione in virtù di un dialogo generativo con i rappresentanti
dello schoolcounseling statunitense.
Il testoCounseling a scuola, grazie alla ricchezza dei contenuti,si pone tra la
ricerca e la formazione ed è indirizzato a tutte le figure professionali che ruotano
attorno al mondo della scuola e a chi desidera approfondire una tematica sempre
più attuale.
Viviana Vinci
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Contini M., Fabbri M., (a cura di), Il futuro ricordato. Impegno etico e progettualità educativa, Edizioni ETS, Pisa 2014, pp. 500.
Parlare di futuro ricordato significa pensare un futuro che inevitabilmente deve
nutrirsi del ricordo, della memoria e della riflessione su quanto di più attuale, e
talora universale, il passato ha lasciato in eredità. Capovolgendo la prospettiva,
significa anche riscontrare l'effettiva realizzazione nel presente, nell'odierno quotidiano che corrispondeva al futuro di cui si parlava anni o decenni fa, di quanto
le menti migliori già presagivano, descrivendo, talvolta profetizzando, quei mutamenti epocali di cui spesso non cogliamo la portata, assuefatti dall'eterno innamoramento per il tempo presente e dall'eccesso di apatia che ci impedisce di
volgerci al passato e di tuffarci con positività e progettualità nel futuro.
La motivazione ad affrontare un futuro ricordato si nutre di esercizio intellettuale ed etico, di approfondimento disciplinare e scientifico, di rigore terminologico
e concettuale, ma, proprio per la sua tenacia nell'attraversare le dimensioni temporali e i profondi mutamenti di contesto, non può non essere alimentata anche
da una sincera e indissolubile componente affettiva e sentimentale.
Il rigore intellettuale con cui Mariagrazia Contini e Maurizio Fabbri hanno curato questo volume, ma anche l'affetto e la riconoscenza, persino la tenerezza,
nei confronti di colui che fu un indiscusso Maestro, o per lo meno il rispetto con
cui vi si approcciano i più giovani, coloro che non lo hanno conosciuto, si percepiscono nella lettura e nello studio delle quasi cinquecento pagine di cui si compone. In tempi di ristrettezze editoriali che impongono pubblicazioni poco voluminose e di ritmi frenetici che tolgono tempo alla possibilità di fermarsi a pensare e ad approfondire, il libro Il futuro ricordato va controcorrente e si caratterizza
per la sua piacevole unicità, per l'ambizione del progetto, per la ricchezza dei
contenuti. Quarantuno pedagogisti e studiosi delle scienze dell'educazione, che
insegnano, studiano e lavorano in città anche lontane tra loro, che appartengono
a generazioni differenti e si sono formati seguendo correnti di pensiero e approcci alla disciplina talvolta in apparente contrapposizione: quarantuno individualità,
quarantuno punti di vista, raccolti in un unico volume. A unirli, intrecciandone i
diversi percorsi, il ricordo e l'insegnamento di Giovanni Maria Bertin, ormai a un
secolo dalla sua nascita e a un decennio dalla sua scomparsa. Quello che sorprende è l'armonia con cui si susseguono i temi trattati, la fitta trama dei rimandi
e delle reciproche conferme, il modo in cui la pluralità dei punti di vista, anche
quando in disaccordo, riesce a dare corpo a un discorso unitario e coevo, a una
sorta di grande mappatura degli sviluppi che, in modo diretto o indiretto, il pensiero del Problematicismo pedagogico ha intrapreso, mostrando di non essersi
esaurito con la scomparsa del suo ideatore, bensì di continuare a progredire, a
evolversi a stretto contatto con gli stravolgimenti sociali e culturali che stiamo
vivendo, contaminandosi con antichi e nuovi linguaggi, contenuti, forme.
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Tra le pagine del volume, si riflette e si dibatte sulle tensioni e sulle sfide
dell'utopia, sulla necessità del cambiamento e l'inevitabilità del rischio, vere e
proprie sfide per una ragione proteiforme e divergente, ma si parla anche di disincanto, di suggestioni letterarie, di possibilità e impossibilità, di incompletezza
ed educabilità, di etica e futuro, di fede e responsabilità, di crisi, emancipazione e
società complessa, di individuo e comunità, di differenza e pluralismo, di mezzi
di comunicazione, di politica, di cura e formazione, di affetti e seduzione, di poeti e povertà, di infanzia, gioventù, età adulta e vecchiaia, di demonismo e progettualità educativa.
Nel nome di Giovanni Maria Bertin, la pedagogia italiana dà prova di vitalità e
profonda eterogeneità, e mostra come e quanto più potenti possano essere i suoi
messaggi, quando proferiti a più voci e non imprigionati nei confini e nelle logiche accademiche, ma lasciati liberi di penetrare e farsi penetrare dal mondo circostante. Questa è la strada, questo insegnava Giovanni Maria Bertin.
Federico Zannoni
500
Zinant L., Seconde generazioni e nuove tecnologie. Una ricerca pedagogica, ETS, Pisa 2014,
pp. 190
Il volume di Luisa Zinant Seconde generazioni e nuove tecnologie. Una ricerca pedagogica (ETS, Pisa 2014) affronta un tema specifico e ancora non molto studiato
nell'ambito della ricerca pedagogica interculturale – il rapporto dei figli e delle
figlie di genitori migranti con le nuove tecnologie e le potenzialità di quest'ultime
in prospettiva interculturale – ma offre poi, a partire da questo tema così mirato,
alcune prospettive che possono essere preziose anche nell'ambito di alcune questioni più ampie che sono oggi al centro della pedagogia interculturale. Tra le altre, per esempio: le sfide che i "nuovi italiani" pongono alle modalità con cui viene tradizionalmente pensata la formazione (scolastica, ma non solo) dei futuri
cittadini; le dimensioni interculturale e transnazionale sempre più presenti nei
percorsi di tutti i soggetti in formazione, siano essi migranti, postmigranti o autoctoni; il sempre più stretto rapporto fra apprendimenti formali, non formali e
informali di cui potrebbe avvalersi una lettura in prospettiva interculturale dei
curricoli e delle competenze.
Lo sfondo pedagogico su cui si sviluppa la ricerca documentata nel volume
sembra essere – nel senso più ampio – il passaggio da una prospettiva di ricerca e
intervento centrata soprattutto sull'"integrazione" (scolastica o extrascolastica, in
generale: sociale) delle persone migranti, ad una prospettiva che valorizza prima
di tutto l'"interazione" fra tutti i soggetti in formazione nei contesti educativi a
prescindere da quali siano i loro retroterra, e a un focus infine sulla progettazione
di ambienti che siano "inclusivi" per tutti/e.
Un passaggio che è ben scandito dalle linee di azione già proposte dal documento La via italiana per la scuola interculturale (Ministero della Pubblica Istruzione
2007) e che – anche per quanto poi attiene i presupposti del lavoro di ricerca sviluppato da Zinant – si evidenzia in particolare nella quinta linea di azione di quel
documento che invita a promuovere relazioni di qualità nel tempo scolastico ed
extrascolastico. È proprio in questa prospettiva che Zinant esplora le nuove tecnologie: per descriverne, comprenderne e orientarne il ruolo nella promozione di
interazioni quotidiane significative fra ragazzi e ragazze sia migranti che autoctoni, sia a scuola che sul territorio, e sempre in una prospettiva consapevolmente
pedagogica.
I primi capitoli del libro sono dedicati a tratteggiare quelli che risultano essere
i principali orizzonti teorici della ricerca svolta da Zinant: le possibili declinazioni
interculturali di una ricerca pedagogica intesa come «pedagogia della complessità
e nella complessità» (p. 49); l'analisi della dimensione transnazionale degli odierni
flussi di persone, di immagini e di tecnologie; la centralità anche pedagogica dei
mezzi di comunicazione come «filatoi del mondo moderno» (John Thompson,
Mezzi di comunicazione e modernità. Ed. orig. 1995, trad. it. Il Mulino, Bologna
1998).
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Per accostarsi in chiave pedagogica a questa complessità, Zinant sceglie come
osservatorio alcuni contesti educativi sia formali (scuola media) che non formali
(centro di aggregazione) in un quartiere ad alta presenza migratoria di una cittadina del Nord-Est italiano (Udine). Optando per una strategia multimetodologica (accuratamente descritta nel capitolo quarto, dedicato al disegno di
ricerca), l'autrice attinge a diversi ambiti disciplinari, tra i quali gli studi sulle nuove literacies, l'etnografia urbana e dei consumi mediali, la sociologia visuale. Diversi sono anche gli strumenti di ricerca utilizzati (questionari, focus group, griglie di
osservazione), che il lettore interessato agli aspetti metodologici potrà trovare
nella ricca sezione di allegati che correda il volume.
I risultati della ricerca di Zinant trovano spazio nei capitoli conclusivi del libro, dove vengono presentati e analizzati i punti di vista di ragazzi e ragazze sia
migranti che autoctoni, nonché dei loro insegnanti ed educatori, anche nel quadro di quelle che sono alcune buone pratiche di utilizzo delle nuove tecnologie in
prospettiva pedagogica interculturale che l'autrice analizza e collega alle azioni da
lei sviluppate sul campo. Il filo rosso pedagogico che può collegare fra loro questi diversi aspetti viene infine presentato nelle pagine conclusive, dove – senza
tacere criticità e punti di debolezza – vengono prospettate alcune piste di lavoro
che pongono al centro dell'intervento educativo non tanto le nuove tecnologie in
quanto tali, ma il loro utilizzo situato e pedagogicamente orientato, nel contesto
di una forte attenzione per gli spazi fisici e metaforici entro cui le nuove tecnologie possono divenire opportunità condivisa di espressione e aggregazione e per il
ruolo strategico di insegnanti ed educatori che, come sottolinea l'autrice richiamando le parole di don Lorenzo Milani, sappiano «scrutare i segni dei tempi» anche nelle scuole e nei quartieri ad alta presenza migratoria e nelle pratiche quotidiana dei ragazzi e delle ragazze che vi si formano.
Davide Zoletto
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