Tobia SCARPA - CLEAN edizioni
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Tobia SCARPA - CLEAN edizioni
Tobia SCARPA interviste 35 coordinamento di Francesco Cirillo collana di ricerca curata da studenti e giovani architetti, che interrogano protagonisti dell’architettura contemporanea sulle ragioni e il futuro della disciplina interviste pubblicate: 1. Bruno ZEVI • 2. Henri E. CIRIANI 3. Massimiliano FUKSAS • 4. Francesco VENEZIA 5. Franco PURINI e Laura THERMES 6. Jean NOUVEL • 7. Mario BOTTA 8. James Wines president of SITE 9. Christian de PORTZAMPARC • 10. Renzo PIANO 11. Peter EISENMAN • 12. Alessandro ANSELMI 13. Paolo PORTOGHESI • 14. Eduardo SOUTO DE MOURA 15. Alvaro SIZA • 16/17. Vittorio GREGOTTI 18. Carlo AYMONINO • 19. Fumihiko MAKI 20. Arata ISOZAKI • 21. Kazuyo SEJIMA e Ryue NISHIZAWA 22. Umberto RIVA • 23. Ugo SASSO 24. BRAGHIERI/GRAVAGNUOLO/MAGNANI/MONESTIROLI 25. Steven HOLL • 26. David CHIPPERFIELD 27. VSBA Venturi, Scott Brown & A 28. Luciano SEMERANI • 29. Luigi SNOZZI 30. Guido CANELLA • 31. Oriol BOHIGAS 32. Rafael MONEO • 33. Guillermo VAZQUEZ CONSUEGRA 34. Alessandro MENDINI • 35. Tobia SCARPA SAPER CREDERE IN ARCHITETTURA sessanta domande a Tobia SCARPA a cura di Antonello Marotta Copyright © 2009 CLEAN via Diodato Lioy 19, 80134 Napoli telefax 0815524419-5514309 www.cleanedizioni.it [email protected] Tutti i diritti riservati È vietata ogni riproduzione ISBN 978-88-8497-146-3 Editing Anna Maria Cafiero Cosenza Grafica Costanzo Marciano Nota del curatore Antonello Marotta Non si può racchiudere in una intervista un’esistenza. Tra le barche del porto di Alghero, durante le passeggiate prima di entrare in laboratorio, capisco come il design, visto attraverso gli occhi di Tobia Scarpa, sia la somma di un’intelligenza collettiva che si è stratificata nei millenni per arrivare sino a noi. Fisico imponente e curiosità di un giovane, Tobia vede quello che gli altri non riescono ad osservare. In costante bilico tra l’esperienza e la ricerca del nuovo, il suo lavoro racconta il desiderio di fermare l’istante, per donare la sua poesia all’uomo che verrà. Le opere selezionate sono di Tobia Scarpa e Afra Bianchin in copertina: Lampada da tavolo “Jucker”, Flos, 1963 in retrocopertina: Casa Scarpa, Trevignano (Treviso), 1969, schizzo di progetto Antonello Marotta, architetto e dottore di ricerca, ha pubblicato diversi libri sulla teoria compositiva contemporanea. Insegna e svolge attività di ricerca presso l’Università di Architettura di Alghero. Ha collaborato alla realizzazione dell’intervista Luana Gugliotta. 5 Vorrei iniziare questo dialogo partendo dal clima culturale che lei ha respirato, negli anni della sua infanzia, in relazione ad artisti ed intellettuali che frequentavano la sua casa, e come questo abbia poi influenzato la sua formazione. Bisogna rifarsi agli anni della mia giovinezza. L’ambiente nel quale sono vissuto a Venezia era estremamente povero, nel senso che la cultura, quella che poi si è impadronita degli interessi di tutti noi, era ancora lontana a venire. C’era una piccola cultura locale, ma anche persone estremamente vivaci: voglio citare il pittore Mario Deluigi, amico di famiglia, e il poeta Giacomo Noventa, e successivamente artisti e architetti che passavano in occasione della Biennale, ma questo molto più tardi. Se pensiamo a Noventa, di famiglia veneziana, egli studia in Germania, ritorna, ha rapporti con mio 7 padre e io lo incontro spesso e sono amico di suo figlio. È un poeta, un uomo problematico, di grande intelligenza. Ha posto temi che l’Italia non si sognava minimamente di affrontare, nonostante ci fosse il Comunismo, il Socialismo. Era in grado di porti su una sfera intellettuale totalmente diversa da quella che si incontrava nel quotidiano. A volte trovi persone che ragionano diversamente, anche oggi è chiaramente cosi: le punte sono sempre altrove, devi conoscerle, devi farne parte. Mi sembra di capire che sia stato un ambiente difficile, come problematico era affermare l’identità dell’artista, il suo ruolo sociale e politico. Ovviamente, spesso si corre insieme alle mode e certi valori devono superare la montagna del tempo per potersi poi sistematizzare. Pensa alla figura di Virgilio Guidi, un pittore cha ha vissuto a Venezia, o all’artista Deluigi, che è stato umiliato dai figli, nel senso che hanno venduto, per pochi soldi, i quadri del padre, invece di farli conoscere. Poi a Venezia, ovviamente, c’era tutta una cultura semiintellettuale o semi-aggiornata: penso a Giuseppe Santomaso. Se si osserva un segno tracciato sul muro, questo porta dietro di sé una serie di vocazioni che non possono essere banali. Così, Arturo Martini è stato per me un punto di riferimento, quando andavo alle scuole elementari. Eravamo 8 nascosti (si fa per dire) in una villa di campagna veneta che Martini aveva acquistato per paura dei bombardamenti, e quindi aveva portato con sé degli amici tra cui anche mio padre, ed io ho fatto le scuole elementari in questo paese che si chiama Rosà. Al liceo ho avuto come insegnante Guido Pusinich, un poeta di origine triestina, certamente stimolante. Insegnava il greco in maniera diversa da come avrebbe potuto insegnarlo chiunque altro e quindi queste esperienze sommate insieme ti fanno guardare le cose da una prospettiva privilegiata. Senza questo bagaglio tu non vedi, non puoi vedere. La scuola non è adatta a fare questo, perché non ha il tempo sufficiente per farlo e quindi c’è una preparazione che il più delle volte si appoggia ad una conoscenza tecnologica meccanica, che è la più semplice, la più materiale, però non dà ai ragazzi quelle grandi possibilità che, in fondo, dovrebbero meritarsi, in quanto rappresentano l’elemento vitale della nostra speranza. Ha iniziato la sua produzione, giovanissimo, verso la fine degli anni Cinquanta. Come viveva allora questo suo bisogno creativo? Nel 1959 ho disegnato il mio primo lavoro: la sedia Pigreco. È un’opera molto condizionata dal tempo che stavo vivendo. Quando, verso la fine del liceo, ho iniziato l’università, mi sono ritrovato in un clima 9 più vivo: ho avuto come amici il compositore Luigi Nono, lo storico dell’arte Giuseppe Mazzariol, l’artista Emilio Vedova, figure ovviamente molto più problematiche degli altri. Con loro potevi prenderti il lusso di rivolgere una critica e credo siano state le persone che più mi hanno arricchito. Luigi Nono mi ha introdotto nel mondo della musica, sono diventato amico di Bruno Maderna, un personaggio straordinario, di Karlheinz Stockhausen e altri musicisti di grande spessore, tra cui Luciano Berio, che era giovane e iniziava allora. Era un mondo di stimoli diversi da quelli da cui tu provenivi, che si rivolgevano alla letteratura, alla pittura, alla scultura. Poltroncina “Pigreco”, Gavina ora Knoll International, 1959/1960 Come nasce la sua passione verso il design e come si pone nei confronti delle domande a cui il progettista è tenuto a rispondere? Se è un sasso, è perché ha una storia e una forma che gli consentono di rotolare giù dalla montagna. Se è a valle deve trovare altre energie che lo spingono. Io mi sono trovato in un ambiente molto fertile, molto vivo e soprattutto in fase di individuazione, di definizione. Mio padre, quando ero bambino, sperimentava un suo percorso e solo verso la fine, quando ha personalizzato e caratterizzato i suoi modi di operare, solo allora è stato facile per gli altri individuarne la poetica. La questione che io 10 11 pongo è diversa, ovvero se ogni volta affronti il problema per quello che è realmente e cerchi di risolverlo per quello che lui richiede, la poetica che tu usi è molto più segreta e meno evidente. Se invece utilizzi degli stilemi e costruisci attraverso schemi, diventa molto più facile, prevedibile visualizzare la comprensione del percorso ed ecco che viene subito conclamata la fortuna di Frank O. Gehry o di Philippe Starck, o di progettisti di quella natura. Rendono elementare il loro linguaggio attraverso schemi fissi. Se invece ogni volta ti presenti con la soluzione di quello che è necessario, nessuno capisce ciò che stai facendo perché deve prima entrare nella fenomenologia del problema. L’atto della poesia è nel non far nulla, un nulla che ti cambia successivamente la comprensione del mondo. diventato il padrino del mio primo figlio, poi le cose hanno seguito per me un percorso profondamente sofferto e diverso. Io d’abitudine dimentico le cose e cerco di non avere nulla dietro di me. La nostra struttura sociale è complessa, ma ciò nonostante cerco di essere il più semplice che mi riesce, di non avere pesi da nessuna parte, per cui anche la memoria diventa un elemento ingombrante da portarti dietro. Delle volte fai emergere le cose, ma sempre perché hai bisogno di riferimenti o hai desiderio di un momento affettuoso, di un qualche cosa che ti arricchisce nel piano del sentimento e allora vai alla ricerca del passato. Non sempre il presente ti offre quello di cui tu hai bisogno. Può fare un tributo a una persona che per lei è stata fondamentale nella sua identità, che ha mosso qualcosa al suo interno, se esiste? Certo che esiste, mio padre primariamente. Poi Gaetano Cozzi, un uomo di pensiero. Aveva cominciato con un percorso umano diverso, faceva il militare, ma ha avuto un infortunio e si è trovato in carrozzella e questa sfortuna ne ha fatto uno storico. Personaggio bellissimo e importante soprattutto per la storia di Venezia. Gaetano è Come nasce la sua passione nei confronti della cultura orientale e come ha contribuito alla sua visione di designer? Per cultura orientale facciamo riferimento al mondo giapponese che è debitore, in tanti modi, sia alla Corea, come punto di passaggio, sia alla Cina. Però la visione che loro hanno dato della natura è per me basilare e lo è anche per tanti altri fattori. Fanno tutto con una tale eleganza che ti conquistano immediatamente e con materiali molto semplici. Pensiamo alla tradizione del bambù e agli oggetti straordinari che creano, sia nell’invenzione, sia nella continua reiterazione di questo materiale. 12 13 Ma il perché te lo posso dire riprendendo quello che ha scritto una ragazza che è venuta a fare uno stage da noi in studio e che vedeva che elaboravamo e cercavamo molto i rapporti, diciamo, aurei. Il mio interesse è quello di costruire delle relazioni con dei meccanismi che la matematica fa emergere, quando riesce a fotografare aspetti che sono presenti in natura, e lei ha scritto che noi usiamo questi rapporti perché vogliamo rispettare il mondo naturale e quindi non siamo, in nessuna maniera, moderni. È una questione di distanza con cui noi osserviamo le cose. Non è un caso che la cultura romana esprimesse questo concetto attraverso il dio con la doppia faccia, lo mettevano sempre lungo i percorsi per cristallizzare la distanza. Tu facevi una giornata di percorso e ti fermavi là dove c’era questo simulacro di Giano, ti riposavi e riprendevi. Questi mondi antichi sono sicuramente più armoniosi. Il mondo orientale, di cui mi hai chiesto, che si dedica con frenesia alla semplicità, porta l’essenzialità ad una complessità enorme, per cui puoi benissimo lasciare le cose come stanno e accontentarti di guardarle e non ti senti obbligato a capire. Le cose del nostro mondo prima le devi capire, trovare la parola che le rappresenti, per poi dire “allora è questo”. Quando la teiera dell’imperatore si è rotta e l’hanno aggiustata con delle colle d’oro riproponendo lo stesso oggetto, ma improvvisamente diventato più ricco, più stupefacente nella sua reintegrazione, capisci che da quel momento puoi fare mille letture e sono tutte valide. Le fai sempre nell’ambito di un grande canalone che ti porta solo in quella direzione, che è l’amore e la dedizione nei confronti della natura. 14 15 Ma la natura oggi sembra uno spazio sempre meno rasserenante. Prevale una logica di sfruttamento. Quando lavoravo con Afra, credo di avere appuntato un pensiero che sosteneva che questa enorme, bellissima struttura dove noi viviamo, questo nostro tempio, in fondo, continuiamo a saccheggiarlo. Ad un certo punto non sarà più così bello e capace di resistere nella sua integrità, crollerà. Mentre l’uomo antico aveva un rispetto verso le cose di reciprocità, noi le stiamo progressivamente perdendo. Le cause sono legate a molti fattori: uno è certamente il grande numero e l’altro, parallelo, è che di questo grande numero noi tentiamo di organizzarne una unicità, il grande mondo commerciale, considerato ormai come un paese globale. Quando mai si può ipotizzare che 7 miliardi di persone si possano considerare un paese? Evidentemente fa comodo pensare in questi termini e più mi addentro nelle riflessioni più mi accorgo che gli uomini pensano in maniera sbagliata, soprattut- to banalmente utilitaristica. Siccome sono costretto a riferirmi anche alla qualità del mio mestiere, che è quello di fare l’architetto e il designer, mi ritrovo perplesso sui valori che normalmente si tende a comunicare. La domanda riguarda cosa sia la bellezza, in relazione al tuo quesito sulla cultura orientale. È un rapporto armonico fra te e l’universale, fra te e la natura, fra te e la dedica che lei ti fa da artista. Sai meglio di me come sono critico davanti a tutti gli architetti famosi di questo periodo e come io non desideri propormi, in nessuna maniera, come architetto di fama, neanche se ne avessi la statura e l’occasione. Quello che contano oggi sono le occasioni quindi, inversamente a ciò, è determinante continuare a mantenere un corretto assetto, come una nave che sta bene in mare rispetto a tante navi che non fanno una buona rotta. Non è facile: è un atto di tale superbia da celare una assoluta umiltà, tanto è vero che quando guardo i miei lavori non riesco a decifrarli se non dopo molto tempo. Io non mi accorgo se un lavoro che sto facendo è giusto o è bello. Mi interessa di più che sia bello piuttosto che sia propriamente giusto, ma certamente una cosa e l’altra sono il risvolto della stessa medaglia. Applique “Ariette”, Flos, 1973 Come possiamo definire la forma? È un tema centrale sia per l’architettura che per il design ed 16 17 è, ancora oggi, una questione rimasta aperta. Mi può offrire la sua definizione di cosa sia la forma in relazione alla funzione? Il rapporto tra forma e funzione è complicato solo se ti metti sopra un piedistallo e vuoi osservare le cose naturali da distante. Se ti metti dal punto di vista della natura, la forma è il figlio che nasce. Perché il bambino nasca ha bisogno di tutta una sequenza di fenomeni che la natura ha ben pensato di organizzare e di mettere a segno, affinché la specie possa progredire. Lo stesso vale per un oggetto, che nasce attraverso la necessità dell’uomo di prolungare le sue caratteristiche: l’orecchio diventa il telefono, l’occhio diventa la camera fotografica, oppure la televisione, e così via. La falce, ad esempio, è uno strumento antichissimo e ha subito continue modifiche sino a quando è diventata l’elemento che conosciamo, non è perfetta, perché la perfezione non esiste, ma nei confronti di questo strumento non possiamo chiedere di più e quindi, da un certo punto di vista, è un elemento fermo e la forma che consegue è il prodotto di una lunga gestazione: ha compiuto un lungo percorso per arrivare a determinarsi. Cosa comporta questo ragionamento che sembra un po’ astratto, che tu non puoi applicare la tua volontà oltre il limite in cui la natura ti permette di esistere. Quando noi pretendiamo, da qui nasce il concetto della moder18 Poltrona “Coronado”, B&B, 1966 19 nità, di fare tutto attraverso le macchine, in realtà nessuno si sofferma sul fatto che dobbiamo prendere dalla natura i dati e le informazioni necessarie. Non siamo capaci di creare qualcosa dal nulla e, probabilmente, neanche in natura, nelle sfere più alte, ciò è possibile. Questo vuol dire che dobbiamo rimetterci in una casellina più modesta e ragionare in maniera umile. Giacomo Noventa ha tradotto in veneto una poesia di Machado, in maniera strepitosa, e io l’ho fatta mia e se dovessi avere una bandiera sarebbe questa poesia. Dice sostanzialmente che la cultura è un accumulo di conoscenze, di riflessioni e di scelte, ma comunque alla base c’è sempre qualche cosa che ti è stato donato e se tu non lo restituisci, in qualche maniera, quale è il senso del tuo operare e del tuo stare nel mondo? racconta di percorsi e viaggi in culture antiche come quella dell’Australia o dell’America meridionale, ne Le vie dei canti, o In Patagonia. Quando dice che per gli Aborigeni quello che conta è la pista che uno lascia camminando e che questo camminare mantiene un profumo, la dice lunga su ciò che tu uomo devi fare per poterti guardare allo specchio. Ha la possibilità di parlare ad un giovane studente e offrirgli un testo. Quale sarebbe il libro che gli consiglierebbe? Ogni occasione di questo genere è singolare e il rapporto è unico, quindi posso consigliare un libro che è servito a me, sperando che le stesse attitudini operino anche per quell’altra persona: Ananda Kentish Coomaraswamy Il grande brivido, pubblicato in Italia da Adelphi, oppure può leggere Bruce Chatwin, un viaggiatore con occhi da scrittore che In relazione al libro di Coomaraswamy, può dirmi qualcosa in più? Coomaraswamy è molto più sofferto: è un indiano credo di Ceylon che va poi in America e fa il curatore per i grandi musei di arte orientale. Ha scritto un testo bellissimo sul romanico francese, impressionante dal punto di vista della vitalità, della libertà di non seguire schemi determinati, e sempre giustificandolo dentro un sistema ireneico e racconta la spiritualità nei momenti della grande partecipazione. Quando vai in una chiesa romanica, la cosa straordinaria è che ti senti unito a tutti coloro che sono passati lì a pregare e, anche se non ci sono fisicamente, percepisci che sono presenti, perché l’architettura pretende questo. Quando vedi la mano aperta di Le Corbusier a Chandigarh e vai a Orcival la ritrovi nell’impegno di tutti i visitatori che si appoggiano alla colonna della cripta per pregare, dove la mano che si adagia alla colonna è un 20 21 atto di riflessione. Le Corbusier la vede e ne fa un un emblema personale. Lei parla agli studenti della necessità di far proprio un mondo tecnologico, di prenderne coscienza. Ma che cosa è la tecnologia? In fondo lei la piega, la utilizza per rappresentare qualcosa di più complesso, profondo. La rappresentazione della parte meccanica è la dedica che tu fai alla persona che verrà dopo, ed è una forma di scambio di intelligenza, del godimento del piacere intellettuale di una struttura. Una struttura elaborata dall’ingegnere, in grado di sorreggere tonnellate di peso, è solo tecnologica, una ripetizione della logica. Invece, una pensata da un poeta ha la forza evocatrice di creare una soluzione spaziale innovativa. Quando nelle grotte c’era il carboncino, un po’ di grasso, un po’ di polvere colorata più o meno cotta, questa tecnologia elementare veniva usata con maggiore sapienza di quanto noi oggi usiamo il computer, perché la materia era povera, era poca e ogni sviluppo avveniva con uno sforzo notevole. Oggi sembra che per costruire un’astronave sia sufficiente pigiare un bottone, trovo che la cosa non sia esattamente così. La tecnologia di questi anni produce cose apparentemente meravigliose, invece, col passare del tempo, sono subito obsolete. Entriamo nella fase in cui lei ha iniziato ad operare e produrre oggetti per grandi case. Come era il clima politico e sociale in quegli anni? Penso anche alle figure dei Castiglioni, di Joe Colombo. Io non ho avuto molti rapporti con i Castiglioni. Joe Colombo l’ho conosciuto di vista, non c’era una simpatia umana che potesse avvicinarmi. Diciamo che sono molto critico e severo in queste cose, poi l’ambiente milanese non è che mi piacesse particolarmente. Ho cominciato a lavorare da Venini, al posto di Massimo Vignelli che vi lavorava, ma poi è andato in America: aveva vinto una ricerca alla Barton di Boston. Si è inserito bene nel mondo americano, diventando sostanzialmente un grafico molto rigoroso nell’ambito della modernità, tra i migliori per quanto riguarda la grafica classica. Quando è partito per l’America ho preso il suo posto a Murano. Forse ero già sposato e vuol dire che era dopo il 1959. Prima di sposarmi avevo disegnato la Pigreco che era una sedia che mi interessava progettare, l’ho realizzata per la scuola, nel corso di Arredamento tenuto da Franco Albini, ma poi è stata presentata alla Triennale di Milano: insomma ha avuto un itinerario un po’ stravagante. Era una fase in cui avevo il timore e l’incapacità di dialogare con le imprese. Io vedevo le imprese come dei mostri che volevano solo guadagnare; era un periodo di maggior povertà 22 23 rispetto agli anni successivi e quindi la gente era molto più esigente in termini di rendimento e questo mi spaventava perché il profitto deve essere ovviamente mediato dagli obiettivi che ti poni, non puoi avere solo rendimento. Nel 1959 c’era molta aspettativa nella mia vita personale. Avevo circa 25 anni e mi aspettavo di essere capace di realizzare molte cose. Quando ho cominciato a progettare ho visto che avevo una velocità e una capacità di capire certe situazioni che ad altri mancavano. Quali capacità sentiva sue? Per esempio legare i problemi di prodotto al mercato. Altri non riuscivano a collegare le due cose e quindi restavano sempre stupiti quando un prodotto emergeva, in quanto la sua vendibilità era maggiore e questo, dal mio punto di vista, non era controindicato nei confronti del progetto, della forma e della qualità. Probabilmente ciò ha determinato nei più “postmoderni”, virgolettato perché in realtà non è che lo fossero, una specie di astio profondo, in quanto ritenevano che mi mettessi a fare prodotti per il mercato. Ma l’azienda vive per realizzare prodotti per il mercato, altrimenti ti comporti come Memphis che vende tre pezzi al museo e poi hai finito. È assurdo: tu vivi per la società, la fai crescere, la fai star meglio e contribuisci nella misura delle tue capacità. Non devi avere la super24 bia e dire realizzo oggetti geniali che restano nel tempo, anche perché non ne hai veramente la capacità. Cosa sarà tra 2.000 anni? E poi gli oggetti hanno una vita più breve, non sono quelli di bronzo dei Romani o gli oggetti particolarmente importanti, che venivano costruiti con l’intenzione di attraversare il tempo. Devi saper costruire degli oggetti che eccitino il desiderio e l’amore per essere conservati. Le cose che resistono di più sono paradossalmente i tracciati delle strade: sono quelle che hanno subito meno modifiche. In America, quando il valore del territorio supera l’interesse per la manutenzione dell’edificio che sta sopra, lo abbattono per farne uno più grande, che produce maggiore redditività. È giusto che sia così, una città può benissimo continuare a modificarsi, sempre che questa trasformazione rappresenti dei valori, non solo interessi economici. Oggi è come se stessimo mangiando prodotti imperfetti: il cibo è preparato bene perché il cuoco è bravissimo, però alla fine qualcosa ti rimane in gola. Mi può fare un ritratto di Dino Gavina, del suo importante laboratorio di idee, in cui la produzione si rivolgeva agli artisti e designer? Con Dino Gavina ho avuto un percorso difficile all’inizio, perché cercavo occasioni per crescere e per vivere e lui era molto attivo, ma non ti dava il 25 risultato delle cose fatte. I Cassina in quel periodo mi hanno preso con loro. Gavina è un personaggio che a lungo, nel maturare, ha scoperto probabilmente delle verità assolute, almeno dal suo punto di vista, in relazione alle forme, alla bellezza, alla singolarità, al legame fra queste cose. Per questo si è mantenuto dentro un filone molto corretto, avendo rapporti umani difficili, con le riviste, con i giornalisti, con gli artisti che non fossero dalla sua parte. Lui coglieva nell’artista quella qualità che desiderava fosse diffusa al grande pubblico. Era importante per lui che il designer fosse appassionato della sua idea. Gavina era un uomo innamorato del suo lavoro e dell’atto artistico. Letto “Vanessa”, Gavina ora Knoll International, 1962 Abbiamo citato la Pigreco. Possiamo parlare del divano Bastiano, prodotto da Gavina nel 1961. Ha avuto una straordinaria fortuna di vendita. Il nucleo forte di quella esperienza innovativa è stato l’assemblaggio. Mi può descrivere alcuni aspetti salienti? Ci sono dei requisiti necessari: se tu produci per far costar meno la produzione devi avere l’abilità di individuare che cosa fare affinché il processo diventi più facile. Il Bastiano è il primo prodotto guardato con occhio industriale: cuscini separati, molto analoghi se vogliamo all’immagine della poltrona lecorbusieriana, che però ha una natura 26 27 diversa; per lui è una specie di messaggio ideale, mentre per me era un semplice prodotto. Ho cercato di umanizzare i materiali, riproponendo la pelle, che all’epoca nessuno si sognava di utilizzare. In America, un paese più opulento del nostro, si faceva tutto con la pelle, probabilmente perché aveva una durata superiore agli altri materiali. Nel caso del Bastiano il problema era quello di creare un mix di soluzioni, per esempio che diventasse letto, che fosse divano, che fosse gradevole, che avesse quelle misure ridotte, adatto anche ai giovani che hanno delle capacità fisiche che gli anziani non hanno. I vecchi hanno bisogno di una seduta alta mentre i giovani possono benissimo stare seduti per terra. Abbiamo fatto un divano che era una via di mezzo, con i caratteri di un linguaggio educato e non particolarmente orientato, nel senso che poteva essere accettato da tutti. Un preminimalismo se si vuole. Il minimalismo è un fenomeno che va e viene dal Pacifico. Si è diffuso proprio perché offre la semplificazione e quindi la riduzione di certi oneri consolidati. Gli edifici antichi, anche quelli storici che venivano costruiti nell’Ottocento in America, erano realizzati con getti di cemento raffinatissimi, lavorati a mano, per dare l’impronta di qualità, grazie a sculture, decori. Poi quando è arrivato il pensiero della modernità, attraverso gli esordi dalla Germania, queste archi- tetture, tutto sommato più semplici, più facili e meno onerose, hanno vinto sull’altro sistema costruttivo. Rispondevano meglio a tanti requisiti desiderabili. 28 29 Parliamo di opere come Fantasma e Nuvola, 1961-62. Come nasce l’interesse per queste nuove materie e gli elementi in tensione, che anche Munari, e per vie diverse Calder, avevano iniziato a sperimentare anni prima? Quel materiale è stato usato, per la prima volta, da Isamu Noguchi. Il materiale è militare, sono due resine. Mi interessava questa relazione scultorea ma, al tempo stesso, che comunicava una morbidezza materica. Ho sempre cercato nel mio progettare che l’aspetto formale derivasse da una sequenza di atti necessari, perché solo così credo non ci sia bisogno di una giustificazione teorica. Quando abbiamo progettato quelle lampade, intanto c’era il problema della misura: io volevo farla grande. Va innanzitutto distinto il progetto del Fantasma da quello della Nuvola. Per la Nuvola c’è l’intervento di mio padre che ha voluto farla così e io l’ho aiutato. Adesso va sotto il nome mio e suo ma, in realtà, devo dire che io non l’avrei disegnata e realizzata allo stesso modo, anche perché c’erano le lampade dei Castiglioni, più piccole, ma con la stessa idea costruttiva, che era quella usata da a sinistra Lampada “Fantasma”, Flos, 1961 Lampada “Nuvola”, Flos, 1962 31