confronto tra le varie normative su alcuni aspetti specifici

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confronto tra le varie normative su alcuni aspetti specifici
CONFRONTO TRA LE VARIE NORMATIVE SU ALCUNI
ASPETTI SPECIFICI
Un sintetico raffronto su alcuni aspetti specifici della normativa italiana, americana e
della convenzione di Vienna, utile per scegliere la disciplina da applicare negli scambi
Italia-Usa, in un’ottica di tutela dell’esportatore.
1. Garanzie del venditore
Una delle tematiche cruciali (in quanto fonte continua di contenzioso), è certamente
quella delle garanzie del venditore, ovvero degli obblighi che l’esportatore deve
osservare con riferimento alla merce venduta (ad esempio in termini di qualità e di
conformità della merce) per evitare contestazioni da parte dell’acquirente. Strettamente
connesso con questo tema, è quello della possibilità e dei limiti dell’introduzione di
clausole a tutela dell’esportatore, come le clausole di limitazione o esclusione della
responsabilità, oppure quelle che prevedono obblighi di tempestiva contestazione dei
difetti da parte dell’acquirente, a pena di decadenza.
La convenzione di Vienna regola essenzialmente all’art. 35 gli obblighi del venditore
relativi alla consegna di merce esente da difetti (1).
Ai sensi di tale norma, la merce deve in primo luogo essere conforme al contratto,
quindi deve rispondere alle caratteristiche della fornitura come risultano dai documenti
commerciali scambiati tra le parti (eventuale contratto di vendita, ordine e conferma
d’ordine, fatture ecc.) da cui risultano tipologia, quantità, caratteristiche del prodotto –
e/o da eventuali accordi orali tra l’esportatore e il compratore, atteso che, per la
convenzione, sono validi ed efficaci anche i contratti verbali. I criteri elencati al comma
2 dell’art. 35 (vedi sopra) intervengono nel caso in cui non vi sia alcun accordo
specifico in merito.
In base agli artt. 30, 41 e 42 della convenzione, il venditore deve inoltre trasferire al
compratore la proprietà della merce, e deve garantire che la merce stessa sia esente da
diritti o pretese di terzi, ivi compresi diritti di proprietà industriale ed intellettuale.
L’Uniform Commercial Code prevede garanzie tutto sommato simili a quelle stabilite
dalla convenzione di Vienna.
L’Ucc distingue tra garanzie esplicite (express warranties) e garanzie implicite (implied
warranties).
1
Art. 35:
(1) Il venditore deve consegnare beni della quantità, qualità e tipo richiesti dal contratto, e che siano
disposti o imballati nel modo richiesto dal contratto.
(2) Salvo diverso accordo tra le parti i beni non sono conformi al contratto se non:
(a) sono idonei all’uso al quale servono abitualmente beni dello stesso tipo;
(b) sono idonei allo specifico uso esplicitamente o implicitamente portato a conoscenza del venditore
al momento della conclusione del contratto, salvo che le circostanze mostrino che il compratore
non ha fatto affidamento sulla competenza o sulla capacità di valutazione del venditore o che non
era da parte sua ragionevole farvi affidamento;
(c) possiedono le qualità dei beni che il venditore ha presentato al compratore come campione o
modello;
(d) siano disposti o imballati secondo il modo usuale per beni dello stesso tipo o, in difetto di un
modo usuale, in un modo che sia adeguato per conservare e proteggere i beni.
(3) Il venditore non è responsabile, ai sensi delle lettere da (a) a (d) del comma precedente, per un difetto
di conformità dei beni che al momento della conclusione del contratto il compratore conosceva o non
avrebbe potuto ignorare.
Le prime nascono da qualsiasi affermazione, promessa, descrizione fatte espressamente
dal venditore a proposito della merce venduta, oppure dalla consegna di un campione, di
un modello o di un catalogo, sempre che su queste affermazioni o promesse, o sul
modello consegnato, sia stata basata l’operazione commerciale.
Va, per inciso, osservato che, a differenza della convenzione di Vienna, l’Ucc non
ammette che contratti di vendita – o modifiche agli stessi - possano essere stipulati
soltanto oralmente (2).
Le implied warranties sono garanzie previste dalla legge a carico del venditore
indipendentemente da qualsiasi sua espressa dichiarazione ed anche in assenza di
specifica clausola contrattuale. Le implied warranties sono le seguenti:
ƒ garanzia che il venditore trasferisca al compratore la proprietà della merce senza
vincoli a favore di terzi (warranty of title);
ƒ garanzia che la merce non violi diritti di brevetto, marchio o altri diritti di
proprietà industriale/intellettuale di terzi (warranty against infringement);
ƒ garanzia che la merce sia commerciabile ed idonea all’utilizzo normale per
merce dello stesso tipo, nonché adeguatamente confezionata ed imballata (warranty
of merchantability);
ƒ garanzia che la merce sia idonea all’utilizzo specifico che il compratore abbia
reso noto al venditore al momento della stipulazione del contratto (warranty of
fitness for a particular purpose).
Il Codice civile italiano, da parte sua, dispone le seguenti garanzie: garanzie per “vizi”
(ad esempio, difetti di fabbricazione) e per mancanza di qualità promesse ed essenziali,
garanzia contro l’“evizione” (ovvero, garanzia che venga trasferita al compratore la
proprietà della merce senza vincoli a favore di terzi).
I suddetti regimi, pertanto, prevedono forme di garanzia sostanzialmente tra loro non
dissimili.
Sussistono, peraltro, alcune rilevanti differenze tra la convenzione di Vienna e l’Ucc, di
cui pare opportuno dare conto nei paragrafi che seguono. Come si vedrà, in alcuni casi
la convenzione sembra fornire maggiore tutela alla parte esportatrice.
2. Clausole di esonero o limitazione di responsabilità
La convenzione non pone alcun limite specifico per il venditore, nell’imporre al
compratore clausole di esonero o limitazione di responsabilità; il venditore potrà quindi,
ad esempio, limitare le garanzie dovute ad alcune soltanto tra quelle previste dalla
convenzione, oppure potrà fissare un limite monetario al risarcimento del danno (la
materia delle clausole penali, peraltro, non è trattata dalla convenzione ma è materia di
legislazione statale). La convenzione fissa in ogni caso un criterio di comportamento
secondo buona fede e correttezza commerciale, che deve comunque essere rispettato.
Le suddette clausole di limitazione/esonero non dovranno nemmeno necessariamente
essere redatte in una forma particolare, né sottoposte ad approvazione specifica (la c.d.
“doppia firma” di cui all’art. 1341 del Codice civile); addirittura, potrebbero anche non
essere formulate per iscritto, in quanto la convenzione – come si è già accennato 2
Esistono infatti due regole incompatibili con questa forma di contratto, ovvero, lo statute of frauds (il
quale prevede, in primo luogo, l’inefficacia di un contratto di vendita di merce di prezzo pari o superiore a
500 dollari, che non sia quantomeno dimostrato da un documento scritto, firmato dalla parte contro la
quale si intende far valere il contratto; in secondo luogo, l’obbligo di concordare in forma scritta qualsiasi
modifica al contratto) e la parol evidence rule (regola processuale, secondo la quale non è generalmente
ammissibile la testimonianza orale in merito alle pattuizioni contrattuali e alle loro eventuali modifiche).
Anche il Codice civile italiano, peraltro, impone analoghe limitazioni alla prova testimoniale dei contratti.
consente che venditore e compratore possano concordare il loro contratto anche
oralmente.
Viceversa, l’Ucc fissa diversi limiti, soprattutto di forma. Così, ad esempio, se si
intende escludere la garanzia implicita di commerciabilità (cui si è già fatto cenno),
occorre che la clausola di esclusione contenga la parola merchantability e che l’intera
clausola sia scritta in modo ben visibile (conspicuous): quest’ultima condizione si
ritiene soddisfatta quando la clausola di esclusione/limitazione di responsabilità venga
scritta con modalità che la fanno distinguere dalle altre, ad es. in caratteri maiuscoli o in
grassetto.
Anche l’Ucc, inoltre, impone al venditore (come al compratore) di comportarsi secondo
lealtà, diligenza e ragionevolezza; pertanto, le clausole di limitazione di responsabilità
non potranno in ogni caso valere se consentono al venditore un comportamento sleale,
irragionevole o negligente.
Ulteriori limiti, ancor più stringenti, possono derivare dalle singole normative statali,
soprattutto nei casi di vendite a consumatori. Ogni Stato, infatti, dispone di una propria
autonoma normativa a tutela di chi acquista merce per proprio utilizzo personale o
domestico.
3. Contestazione dei difetti
La questione delle contestazioni del compratore è altrettanto cruciale.
Qui occorre innanzitutto notare che, a differenza del Codice civile italiano, il quale fissa
in otto giorni (rispettivamente, dalla consegna della merce e dalla scoperta del difetto, a
seconda che si tratti di difetti riconoscibili alla consegna, oppure di “vizi occulti”) il
termine generale per la contestazione di eventuali mancanze di conformità della merce,
sia la convenzione di Vienna che l’Uniform Commercial Code consentono al
compratore di denunciare i difetti (ove per denuncia si intende la contestazione dei
difetti al venditore) entro un “termine ragionevole” dalla loro scoperta.
Come si può immaginare, questo criterio - seppure ispirato da comprensibili ragioni di
equilibrio tra le posizioni del venditore e del compratore - non fornisce sufficiente
chiarezza circa i diritti e gli obblighi delle parti, e può quindi essere, come in concreto
è, fonte di numerosi litigi.
Va però sottolineato che, fino ad oggi, le Corti che hanno deciso casi in base alla
convenzione, hanno interpretato il termine ragionevole in modo alquanto più restrittivo
rispetto alle decisioni fondate sull’Ucc. Pur facendo presente che la “ragionevolezza”
non può che essere diversamente interpretata a seconda delle circostanze (ad esempio, la
natura del prodotto, le modalità della sua consegna, il fatto che debba essere – oppure
no - a sua volta rivenduto dal compratore), nella media, termini di denuncia superiori a
due o tre mesi possono rischiare, secondo la convenzione, di essere giudicati
irragionevoli (come dimostra, ad esempio, una pronuncia piuttosto recente emessa dal
tribunale di Vigevano).
Uno dei motivi di questa più restrittiva interpretazione, è certamente costituito
dall’obbligo del compratore, in base alla convenzione, di esaminare la merce
acquistata nel più breve tempo possibile, laddove, nell’Ucc, viene detto unicamente
che al compratore deve essere data la ragionevole possibilità di esaminare la merce,
senza porre particolari limitazioni di tempo.
Va anche rilevato che la convenzione obbliga il compratore a contestare i difetti in
modo specifico: una denuncia che contenesse soltanto espressioni come “la merce è
gravemente difettosa”, senza specificare in cosa consistano i difetti, potrebbe quindi non
essere ritenuta valida per la sua genericità.
Anche in questo caso, dunque, la convenzione appare tendenzialmente più favorevole
all’esportatore, di quanto non lo sia l’Uniform Commercial Code.
L’esportatore, tuttavia, a propria maggior tutela e per ovvie esigenze di certezza,
dovrebbe indicare con un’apposita clausola contrattuale, un preciso termine temporale
(normalmente, fissato in un certo numero di giorni dalla consegna della merce oppure
dalla scoperta del difetto, a seconda della sua riconoscibilità o meno al momento della
consegna) entro cui il compratore – a pena di decadenza da qualsiasi diritto ed azione –
dovrebbe far pervenire la propria “denuncia” circostanziata.
Questo accorgimento contrattuale è di norma consentito, sia che al contratto si applichi
la convenzione, sia nel caso di applicazione dell’Ucc.
Qualora il contratto fosse sottoposto al Codice civile italiano, le clausole di
limitazione/esclusione di responsabilità, dovrebbero a pena di inefficacia essere fatte
sottoscrivere all’acquirente due volte, secondo il meccanismo di cui all’art. 1341 Cc.
Anche in questo caso, limitazioni più stringenti esistono nel caso in cui la vendita sia
fatta a consumatori finali.
4. Risoluzione del contratto
Un ulteriore e non trascurabile aspetto di maggior favore per l’esportatore della
convenzione di Vienna rispetto all’Ucc, è il seguente: la convenzione limita la
possibilità per il compratore di ottenere la “risoluzione” del contratto di vendita
(rifiutando la merce ricevuta, ed ottenendo quindi la restituzione integrale del prezzo
pagato ed il risarcimento di eventuali danni) soltanto al caso in cui la merce fornita
presenti difetti molto gravi, tali cioè da “privare sostanzialmente il compratore di quanto
egli aveva diritto di attendersi in base al contratto” (così si esprime la convenzione).
Ciò, infatti, costituirebbe una violazione fondamentale del contratto stesso (cosiddetto
fundamental breach). Viceversa, secondo l’Ucc, una qualsiasi difformità della merce
rispetto ai patti contrattuali, darebbe al compratore il diritto di risolvere il contratto. In
altre parole, il compratore ha, in linea di principio, il diritto di rifiutare la merce se
questa non corrisponde perfettamente al contratto, anche se il difetto è di entità non
rilevante (cosiddetta perfect tender rule).
D’altro canto, va anche detto che la convenzione di Vienna prevede un rimedio in più
per il compratore, non previsto dallo Ucc, nel caso di merce difettosa. Trattasi della
possibilità di ridurre unilateralmente il prezzo, proporzionalmente alla differenza tra
il valore della merce difettosa effettivamente ricevuta e quello che la stessa avrebbe
avuto se fosse stata conforme al contratto. Tale riduzione del prezzo, tuttavia, non potrà
essere effettuata se il venditore sia in grado di rimediare al difetto senza ritardo o
inconvenienti per il compratore.
5. Trasferimento della proprietà e passaggio dei rischi
Un fondamentale obbligo del venditore è naturalmente quello di consegnare la merce
venduta al compratore e di trasferire a quest’ultimo la proprietà della stessa. Questo
obbligo è puntualmente previsto sia dalla convenzione di Vienna, sia dallo Ucc.
Qual è il momento in cui il compratore acquista la proprietà della merce? La
convenzione non regola questo aspetto, lasciandolo alla volontà delle parti e alla legge
nazionale applicabile che, in molti casi, è quella del paese in cui la merce si trova.
Nelle condizioni generali di vendita di diversi esportatori italiani, si rinviene la clausola
di “riserva di proprietà”, secondo la quale la proprietà della merce non passa al
compratore fino a quando quest’ultimo non abbia pagato completamente il prezzo.
Una simile clausola viene ritenuta valida sia per la legge italiana che, entro certi limiti,
anche per la legge statunitense. Tuttavia, la sua efficacia appare spesso limitata,
soprattutto nelle ipotesi in cui il compratore rivenda la merce a terzi, oppure fallisca,
senza averne pagato il prezzo. Più precisamente, non è garantita la possibilità per il
venditore non pagato di ottenere la consegna della merce dal terzo acquirente oppure
dagli organi della procedura di insolvenza.
Negli Usa, l’Ucc prevede il cosiddetto security interest. Si tratta di una particolare
forma di garanzia, che consiste sostanzialmente nella facoltà di potersi soddisfare in
via privilegiata rispetto ad altri creditori, su alcuni beni mobili del compratore. Affinché
la garanzia sia efficace tra le parti, occorre che venga concordata per iscritto e che
nell’accordo vengano esattamente indicati i beni destinati a garantire il credito. Inoltre,
per rendere il patto efficace nei confronti dei terzi, occorre un’apposita registrazione
dell’accordo contenente la clausola e di altri documenti, presso le autorità statali e
seguendo una particolare procedura (cosiddetta Ucc filing).
Una questione di estrema importanza nel commercio internazionale - ove la vendita
della merce avviene con il suo trasporto - consiste nello stabilire quando il rischio legato
all’eventuale perdita o deterioramento della merce venduta, ed in particolare se questi
eventi avvengono durante il trasporto, si trasferisce dal venditore al compratore. Tale
momento non necessariamente coincide con quello in cui viene trasferita la proprietà, e
ciò sia per la convenzione di Vienna che per l’Ucc.
Da questo punto di vista, l’Ucc prevede in via generale due tipi di contratto di vendita
con trasporto, ovvero lo shipment contract e il destination contract.
In caso di shipment contract – ipotesi che si applica normalmente, in mancanza di
patto contrario - l’esportatore si impegna a spedire la merce all’acquirente, e pertanto il
rischio di perdite o deterioramenti passa all’acquirente quando la merce è stata
consegnata al trasportatore (vettore) per la spedizione. Il destination contract invece
obbliga l’esportatore a consegnare la merce all’acquirente in un luogo di destinazione
determinato; l’esportatore assume perciò il rischio sulla sorte della merce durante il
trasporto e fino al momento in cui la stessa viene messa a disposizione dell’acquirente
nel luogo convenuto.
La convenzione di Vienna (artt. 66 e seguenti) prevede un sistema sostanzialmente
analogo: il rischio si trasferisce al compratore nel momento in cui la merce è
consegnata al primo vettore, a meno che il venditore non si sia obbligato a
consegnarla in un luogo determinato; in questo secondo caso, il rischio passa al
momento della consegna al vettore in tale luogo.
E’ noto, peraltro, che nella pratica vengono utilizzati termini specifici quali fob, cif, ex
works ed altri, con i quali l’esportatore e l’acquirente intendono regolamentare questioni
come la ripartizione degli oneri in merito al trasporto e all’assicurazione della merce,
ecc.
In un rapporto commerciale con gli Usa, va tuttavia considerato che questi termini
(denominati “termini di resa”), o perlomeno alcuni di essi, sono specificamente
regolamentati dall’Ucc, e che tale disciplina va ben oltre il mero accollo delle spese di
trasporto e/o assicurazione della merce, ma regola ad esempio anche il passaggio del
rischio sulla merce stessa. Inoltre, va tenuto presente che analoghe clausole sono
previste e disciplinate da una specifica codificazione, elaborata dalla Camera di
commercio internazionale (Cci) sulla base degli usi commerciali, denominata
“Incoterms” (la cui più recente edizione è del 2002), e che quindi, gli stessi termini
possono assumere diversi significati a seconda della normativa applicabile.
Per fare un esempio, il termine fob (Free on Board) è previsto sia dagli Incoterms che
dall’Ucc. Per i primi, la clausola fob comporta l’obbligo del venditore di consegnare la
merce a bordo della nave designata dal compratore nel porto di imbarco convenuto. In
base all’Ucc, per contro, in mancanza di diversa specificazione (ad esempio, fob vessel)
il venditore con clausola fob non assume gli oneri e i rischi relativi al caricamento della
merce a bordo della nave. Ancora: secondo gli Incoterms, il venditore fob non deve
assumere a proprio carico il trasporto della merce, mentre l’Ucc consente, mediante il
cosiddetto fob place of destination, che il trasporto fino a destinazione avvenga a cura e
spese del venditore.
Tra gli altri noti termini previsti sia dagli Incoterms che dall’Ucc vi sono le clausole cif
(Cost, Insurance and Freight) e fas (Free Alongside). Molto utilizzata – e spesso
consigliata all’esportatore, in quanto prevede l’ambito minimo di obblighi e oneri per
quest’ultimo, è la clausola exw (ex works, ovvero “franco fabbrica”), espressamente
prevista dagli Incoterms.
Dalle precedenti osservazioni si può comprendere come sia buona norma specificare nel
contratto di vendita, e far accettare dal compratore, lo specifico termine di resa che si
intende applicare, precisando secondo quale normativa lo stesso debba essere
interpretato (3). Ciò a maggior ragione laddove il compratore abbia la propria sede negli
Usa, per i motivi che si sono appena illustrati.
6. Interessi per ritardato pagamento e spese legali
E’ noto che, in base alla legge italiana, il compratore che paga in ritardo il prezzo della
merce acquistata deve al venditore gli interessi per ritardato pagamento (interessi “di
mora”). Il tasso di interesse legale vigente in Italia nel 2004 è pari al 2,5%; inoltre, il
dlgs 231 del 9 ottobre 2002 ha stabilito un tasso specifico per i ritardi di pagamento
nelle transazioni commerciali, sulla base del tasso di riferimento della Banca Centrale
Europea, maggiorato di sette punti (tasso che viene riveduto semestralmente con
provvedimento ministeriale pubblicato nella Gu).
La convenzione di Vienna (all’art. 78) stabilisce il diritto agli interessi del venditore
non pagato tempestivamente, senza peraltro precisare in quale percentuale, né con quale
modalità di calcolo, essi debbano essere in concreto determinati.
Negli Usa, i singoli Stati fissano autonomamente la misura dei cosiddetti pre-judgment
e post-judgment interest. I primi possono essere addebitati in ragione della perdita
economica subìta dal danneggiato durante il tempo del processo e fino all’emanazione
della sentenza di condanna al risarcimento dei danni. I secondi vengono – più spesso addebitati in aggiunta a (e sulla base di) un importo liquidato con una sentenza
giudiziale a titolo di risarcimento dei danni, a partire dalla data della sentenza e fino alla
data in cui il risarcimento viene effettivamente pagato (4).
In tale variegata situazione, come viene regolato l’addebito degli interessi in un
contratto di vendita tra esportatore italiano e acquirente statunitense? Naturalmente, la
soluzione preferibile è quella di concordare anticipatamente, nel contratto di vendita, sia
l’obbligo dell’acquirente di pagare gli interessi in caso di ritardato pagamento, sia il
tasso che verrà applicato.
In mancanza di un accordo in tal senso, nel caso in cui l’esportatore inizi una causa per
il recupero di un credito derivante dal mancato pagamento del prezzo di vendita,
3
Ad esempio, con una clausola del tipo: “Delivery of the product shall be ex works seller’s headquarters.
The term “ex works” shall be interpreted according to the Incoterms 2000 published by the International
Chamber of Commerce”.
4
Gli Stati possono stabilire un tasso fisso (come ad esempio nell’Illinois, a New York, in California, nel
Connecticut, nel Texas), oppure (come in Florida, nel Delaware, nel Nevada, nel New Hampshire) un
tasso variabile collegato ad un parametro ufficiale.
l’autorità investita della controversia, applicando la convenzione di Vienna, dovrebbe
condannare il debitore al pagamento degli interessi. Ma in quale misura? Secondo
l’orientamento attualmente prevalente della giurisprudenza internazionale, gli interessi
verranno stabiliti secondo il tasso in essere nello Stato in cui ha sede il venditore (5).
Per quanto attiene alle spese legali, la rilevante differenza tra il diritto processuale
italiano e quello statunitense, è che mentre la nostra legge prevede come principio
generale l’addebito integrale delle spese di lite alla parte soccombente nel giudizio,
negli Usa ciascuna parte di regola sostiene le proprie spese, essendo l’addebito al
soccombente previsto in casi limitati, a titolo di risarcimento dei danni, specialmente se
tale forma di risarcimento sia stato preventivamente concordata tra le parti.
In tale contesto, sembra quindi opportuno che l’esportatore italiano si cauteli
introducendo nel proprio contratto di vendita con l’acquirente statunitense (oppure nelle
proprie condizioni generali) una clausola che preveda espressamente l’addebito delle
spese legali, a titolo di risarcimento del danno, al soccombente ed in particolare
all’acquirente che violi il contratto.
7. Prescrizione
Sovente, purtroppo, il tema della prescrizione viene trascurato dall’imprenditore. Si
tratta invece di un tema fondamentale, in quanto il decorso di un determinato periodo di
tempo può precludere l’azione in giudizio per far valere un proprio diritto (ad esempio,
per il recupero di un credito), se non ci si attiva tempestivamente.
Anche in questo caso, problemi ulteriori sorgono dato il carattere transnazionale di una
determinata operazione economica.
Nella fattispecie, in una vendita di merce da un esportatore italiano ad un acquirente
statunitense, la situazione normativa appare più complicata.
La convenzione di Vienna non prevede infatti alcun termine generale di prescrizione
per far valere in giudizio diritti che dalla stessa convenzione derivano. Prevede una
simile limitazione soltanto per determinati tipi di azione: in particolare, ai sensi dell’art.
39, il compratore perde il diritto di far valere il difetto di conformità della merce
ricevuta, se non lo denuncia al venditore al più tardi entro due anni dalla data in cui la
merce stessa gli fu effettivamente consegnata (salvo il caso in cui il venditore abbia
concesso al compratore una garanzia di durata superiore).
Non prevede alcun termine, ad esempio, per il venditore che voglia recuperare un
credito nei confronti di un acquirente situato in un altro paese che fa parte della
convenzione di Vienna.
In Italia, esiste un termine di prescrizione generale di dieci anni (art. 2946 del Codice
civile) che decorre dalla data in cui il diritto poteva essere fatto valere per la prima volta
(ad esempio, nel caso di recupero del prezzo di una vendita, dalla data in cui il termine
di pagamento concordato è scaduto). Il termine di prescrizione può essere interrotto
(con la conseguenza che esso riprende a decorrere dall’inizio), con l’avvio di una causa
oppure con l’invio di una intimazione ad adempiere.
Negli Usa, l’Ucc fissa un termine generale di quattro anni per le azioni legali promosse
per far valere una violazione del contratto di vendita. Il termine decorre di norma dal
5
In un caso giudicato dalla Us District Court, Northern District di New York (Corte federale) nel 1994, l’acquirente
italiano al quale venne concesso il risarcimento dei danni a seguito della fornitura di prodotti difettosi da parte di un
venditore statunitense, venne applicato – a titolo di pre-judgment interest - il tasso applicabile per i titoli di
Stato americani (Us Treasury Bills).
giorno in cui si è verificata la violazione. Tuttavia, i singoli Stati non sempre hanno
adottato il termine generale suddetto (6).
La Louisiana, come si è detto, non ha adottato l’Ucc; in tale Stato vige un termine di
prescrizione di dieci anni.
Va rimarcato che i termini di prescrizione appena elencati sono di carattere generale e
che, in relazione a fattispecie determinate (ad esempio, gli open accounts) la disciplina
statale potrebbe stabilire una diversa scadenza.
Occorre inoltre precisare che, in alcuni casi, le leggi statali permettono di derogare per
contratto ai suddetti termini.
In linea generale, si può sostenere che la prescrizione è regolata dalla legge dello Stato
nel quale la causa dev’essere intentata. Pertanto, soprattutto qualora si intenda agire
negli Usa, occorrerà tenere presente il termine di prescrizione in vigore nel singolo Stato
in cui la causa verrà radicata.
In tale contesto, per esigenze di certezza, l’esportatore può considerare l’opportunità di
introdurre, nel contratto di vendita con una controparte statunitense, una clausola che
stabilisca espressamente un termine di prescrizione per le azioni derivanti dal contratto.
a cura di M. Gardenal e C. Montana per Commercio Internazionale-Quindicinale
di diritto e pratica degli scambi con l'estero, Ipsoa Editore
6
Si discostano dal modello Ucc, in particolare, l’Arizona (6 anni), il Colorado (3 anni), il Connecticut (6
anni), la Florida (5 anni), lo Iowa (10 anni), il Kansas (5 anni), il Maine (6 anni), il Massachusets (6 anni), il
Mississippi (3 anni), il Montana (8 anni), il Nebraska (5 anni), il Nevada (6 anni), il New Mexico (6 anni), la
North Carolina (3 o 6 anni a seconda che il contratto sia stipulato in forma semplice o under seal , ovvero
pubblica), l’Ohio (15 anni), l’Oklahoma (5 anni), l’Oregon (6 anni), la South Carolina (3 anni), il Tennessee
(6 anni), lo Utah (6 anni), il Vermont (6 anni), lo Stato di Washington (6 anni), il Wisconsin (6 anni), il
Wyoming (10 anni).