confronto tra le varie normative su alcuni aspetti specifici
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confronto tra le varie normative su alcuni aspetti specifici
CONFRONTO TRA LE VARIE NORMATIVE SU ALCUNI ASPETTI SPECIFICI Un sintetico raffronto su alcuni aspetti specifici della normativa italiana, americana e della convenzione di Vienna, utile per scegliere la disciplina da applicare negli scambi Italia-Usa, in un’ottica di tutela dell’esportatore. 1. Garanzie del venditore Una delle tematiche cruciali (in quanto fonte continua di contenzioso), è certamente quella delle garanzie del venditore, ovvero degli obblighi che l’esportatore deve osservare con riferimento alla merce venduta (ad esempio in termini di qualità e di conformità della merce) per evitare contestazioni da parte dell’acquirente. Strettamente connesso con questo tema, è quello della possibilità e dei limiti dell’introduzione di clausole a tutela dell’esportatore, come le clausole di limitazione o esclusione della responsabilità, oppure quelle che prevedono obblighi di tempestiva contestazione dei difetti da parte dell’acquirente, a pena di decadenza. La convenzione di Vienna regola essenzialmente all’art. 35 gli obblighi del venditore relativi alla consegna di merce esente da difetti (1). Ai sensi di tale norma, la merce deve in primo luogo essere conforme al contratto, quindi deve rispondere alle caratteristiche della fornitura come risultano dai documenti commerciali scambiati tra le parti (eventuale contratto di vendita, ordine e conferma d’ordine, fatture ecc.) da cui risultano tipologia, quantità, caratteristiche del prodotto – e/o da eventuali accordi orali tra l’esportatore e il compratore, atteso che, per la convenzione, sono validi ed efficaci anche i contratti verbali. I criteri elencati al comma 2 dell’art. 35 (vedi sopra) intervengono nel caso in cui non vi sia alcun accordo specifico in merito. In base agli artt. 30, 41 e 42 della convenzione, il venditore deve inoltre trasferire al compratore la proprietà della merce, e deve garantire che la merce stessa sia esente da diritti o pretese di terzi, ivi compresi diritti di proprietà industriale ed intellettuale. L’Uniform Commercial Code prevede garanzie tutto sommato simili a quelle stabilite dalla convenzione di Vienna. L’Ucc distingue tra garanzie esplicite (express warranties) e garanzie implicite (implied warranties). 1 Art. 35: (1) Il venditore deve consegnare beni della quantità, qualità e tipo richiesti dal contratto, e che siano disposti o imballati nel modo richiesto dal contratto. (2) Salvo diverso accordo tra le parti i beni non sono conformi al contratto se non: (a) sono idonei all’uso al quale servono abitualmente beni dello stesso tipo; (b) sono idonei allo specifico uso esplicitamente o implicitamente portato a conoscenza del venditore al momento della conclusione del contratto, salvo che le circostanze mostrino che il compratore non ha fatto affidamento sulla competenza o sulla capacità di valutazione del venditore o che non era da parte sua ragionevole farvi affidamento; (c) possiedono le qualità dei beni che il venditore ha presentato al compratore come campione o modello; (d) siano disposti o imballati secondo il modo usuale per beni dello stesso tipo o, in difetto di un modo usuale, in un modo che sia adeguato per conservare e proteggere i beni. (3) Il venditore non è responsabile, ai sensi delle lettere da (a) a (d) del comma precedente, per un difetto di conformità dei beni che al momento della conclusione del contratto il compratore conosceva o non avrebbe potuto ignorare. Le prime nascono da qualsiasi affermazione, promessa, descrizione fatte espressamente dal venditore a proposito della merce venduta, oppure dalla consegna di un campione, di un modello o di un catalogo, sempre che su queste affermazioni o promesse, o sul modello consegnato, sia stata basata l’operazione commerciale. Va, per inciso, osservato che, a differenza della convenzione di Vienna, l’Ucc non ammette che contratti di vendita – o modifiche agli stessi - possano essere stipulati soltanto oralmente (2). Le implied warranties sono garanzie previste dalla legge a carico del venditore indipendentemente da qualsiasi sua espressa dichiarazione ed anche in assenza di specifica clausola contrattuale. Le implied warranties sono le seguenti: garanzia che il venditore trasferisca al compratore la proprietà della merce senza vincoli a favore di terzi (warranty of title); garanzia che la merce non violi diritti di brevetto, marchio o altri diritti di proprietà industriale/intellettuale di terzi (warranty against infringement); garanzia che la merce sia commerciabile ed idonea all’utilizzo normale per merce dello stesso tipo, nonché adeguatamente confezionata ed imballata (warranty of merchantability); garanzia che la merce sia idonea all’utilizzo specifico che il compratore abbia reso noto al venditore al momento della stipulazione del contratto (warranty of fitness for a particular purpose). Il Codice civile italiano, da parte sua, dispone le seguenti garanzie: garanzie per “vizi” (ad esempio, difetti di fabbricazione) e per mancanza di qualità promesse ed essenziali, garanzia contro l’“evizione” (ovvero, garanzia che venga trasferita al compratore la proprietà della merce senza vincoli a favore di terzi). I suddetti regimi, pertanto, prevedono forme di garanzia sostanzialmente tra loro non dissimili. Sussistono, peraltro, alcune rilevanti differenze tra la convenzione di Vienna e l’Ucc, di cui pare opportuno dare conto nei paragrafi che seguono. Come si vedrà, in alcuni casi la convenzione sembra fornire maggiore tutela alla parte esportatrice. 2. Clausole di esonero o limitazione di responsabilità La convenzione non pone alcun limite specifico per il venditore, nell’imporre al compratore clausole di esonero o limitazione di responsabilità; il venditore potrà quindi, ad esempio, limitare le garanzie dovute ad alcune soltanto tra quelle previste dalla convenzione, oppure potrà fissare un limite monetario al risarcimento del danno (la materia delle clausole penali, peraltro, non è trattata dalla convenzione ma è materia di legislazione statale). La convenzione fissa in ogni caso un criterio di comportamento secondo buona fede e correttezza commerciale, che deve comunque essere rispettato. Le suddette clausole di limitazione/esonero non dovranno nemmeno necessariamente essere redatte in una forma particolare, né sottoposte ad approvazione specifica (la c.d. “doppia firma” di cui all’art. 1341 del Codice civile); addirittura, potrebbero anche non essere formulate per iscritto, in quanto la convenzione – come si è già accennato 2 Esistono infatti due regole incompatibili con questa forma di contratto, ovvero, lo statute of frauds (il quale prevede, in primo luogo, l’inefficacia di un contratto di vendita di merce di prezzo pari o superiore a 500 dollari, che non sia quantomeno dimostrato da un documento scritto, firmato dalla parte contro la quale si intende far valere il contratto; in secondo luogo, l’obbligo di concordare in forma scritta qualsiasi modifica al contratto) e la parol evidence rule (regola processuale, secondo la quale non è generalmente ammissibile la testimonianza orale in merito alle pattuizioni contrattuali e alle loro eventuali modifiche). Anche il Codice civile italiano, peraltro, impone analoghe limitazioni alla prova testimoniale dei contratti. consente che venditore e compratore possano concordare il loro contratto anche oralmente. Viceversa, l’Ucc fissa diversi limiti, soprattutto di forma. Così, ad esempio, se si intende escludere la garanzia implicita di commerciabilità (cui si è già fatto cenno), occorre che la clausola di esclusione contenga la parola merchantability e che l’intera clausola sia scritta in modo ben visibile (conspicuous): quest’ultima condizione si ritiene soddisfatta quando la clausola di esclusione/limitazione di responsabilità venga scritta con modalità che la fanno distinguere dalle altre, ad es. in caratteri maiuscoli o in grassetto. Anche l’Ucc, inoltre, impone al venditore (come al compratore) di comportarsi secondo lealtà, diligenza e ragionevolezza; pertanto, le clausole di limitazione di responsabilità non potranno in ogni caso valere se consentono al venditore un comportamento sleale, irragionevole o negligente. Ulteriori limiti, ancor più stringenti, possono derivare dalle singole normative statali, soprattutto nei casi di vendite a consumatori. Ogni Stato, infatti, dispone di una propria autonoma normativa a tutela di chi acquista merce per proprio utilizzo personale o domestico. 3. Contestazione dei difetti La questione delle contestazioni del compratore è altrettanto cruciale. Qui occorre innanzitutto notare che, a differenza del Codice civile italiano, il quale fissa in otto giorni (rispettivamente, dalla consegna della merce e dalla scoperta del difetto, a seconda che si tratti di difetti riconoscibili alla consegna, oppure di “vizi occulti”) il termine generale per la contestazione di eventuali mancanze di conformità della merce, sia la convenzione di Vienna che l’Uniform Commercial Code consentono al compratore di denunciare i difetti (ove per denuncia si intende la contestazione dei difetti al venditore) entro un “termine ragionevole” dalla loro scoperta. Come si può immaginare, questo criterio - seppure ispirato da comprensibili ragioni di equilibrio tra le posizioni del venditore e del compratore - non fornisce sufficiente chiarezza circa i diritti e gli obblighi delle parti, e può quindi essere, come in concreto è, fonte di numerosi litigi. Va però sottolineato che, fino ad oggi, le Corti che hanno deciso casi in base alla convenzione, hanno interpretato il termine ragionevole in modo alquanto più restrittivo rispetto alle decisioni fondate sull’Ucc. Pur facendo presente che la “ragionevolezza” non può che essere diversamente interpretata a seconda delle circostanze (ad esempio, la natura del prodotto, le modalità della sua consegna, il fatto che debba essere – oppure no - a sua volta rivenduto dal compratore), nella media, termini di denuncia superiori a due o tre mesi possono rischiare, secondo la convenzione, di essere giudicati irragionevoli (come dimostra, ad esempio, una pronuncia piuttosto recente emessa dal tribunale di Vigevano). Uno dei motivi di questa più restrittiva interpretazione, è certamente costituito dall’obbligo del compratore, in base alla convenzione, di esaminare la merce acquistata nel più breve tempo possibile, laddove, nell’Ucc, viene detto unicamente che al compratore deve essere data la ragionevole possibilità di esaminare la merce, senza porre particolari limitazioni di tempo. Va anche rilevato che la convenzione obbliga il compratore a contestare i difetti in modo specifico: una denuncia che contenesse soltanto espressioni come “la merce è gravemente difettosa”, senza specificare in cosa consistano i difetti, potrebbe quindi non essere ritenuta valida per la sua genericità. Anche in questo caso, dunque, la convenzione appare tendenzialmente più favorevole all’esportatore, di quanto non lo sia l’Uniform Commercial Code. L’esportatore, tuttavia, a propria maggior tutela e per ovvie esigenze di certezza, dovrebbe indicare con un’apposita clausola contrattuale, un preciso termine temporale (normalmente, fissato in un certo numero di giorni dalla consegna della merce oppure dalla scoperta del difetto, a seconda della sua riconoscibilità o meno al momento della consegna) entro cui il compratore – a pena di decadenza da qualsiasi diritto ed azione – dovrebbe far pervenire la propria “denuncia” circostanziata. Questo accorgimento contrattuale è di norma consentito, sia che al contratto si applichi la convenzione, sia nel caso di applicazione dell’Ucc. Qualora il contratto fosse sottoposto al Codice civile italiano, le clausole di limitazione/esclusione di responsabilità, dovrebbero a pena di inefficacia essere fatte sottoscrivere all’acquirente due volte, secondo il meccanismo di cui all’art. 1341 Cc. Anche in questo caso, limitazioni più stringenti esistono nel caso in cui la vendita sia fatta a consumatori finali. 4. Risoluzione del contratto Un ulteriore e non trascurabile aspetto di maggior favore per l’esportatore della convenzione di Vienna rispetto all’Ucc, è il seguente: la convenzione limita la possibilità per il compratore di ottenere la “risoluzione” del contratto di vendita (rifiutando la merce ricevuta, ed ottenendo quindi la restituzione integrale del prezzo pagato ed il risarcimento di eventuali danni) soltanto al caso in cui la merce fornita presenti difetti molto gravi, tali cioè da “privare sostanzialmente il compratore di quanto egli aveva diritto di attendersi in base al contratto” (così si esprime la convenzione). Ciò, infatti, costituirebbe una violazione fondamentale del contratto stesso (cosiddetto fundamental breach). Viceversa, secondo l’Ucc, una qualsiasi difformità della merce rispetto ai patti contrattuali, darebbe al compratore il diritto di risolvere il contratto. In altre parole, il compratore ha, in linea di principio, il diritto di rifiutare la merce se questa non corrisponde perfettamente al contratto, anche se il difetto è di entità non rilevante (cosiddetta perfect tender rule). D’altro canto, va anche detto che la convenzione di Vienna prevede un rimedio in più per il compratore, non previsto dallo Ucc, nel caso di merce difettosa. Trattasi della possibilità di ridurre unilateralmente il prezzo, proporzionalmente alla differenza tra il valore della merce difettosa effettivamente ricevuta e quello che la stessa avrebbe avuto se fosse stata conforme al contratto. Tale riduzione del prezzo, tuttavia, non potrà essere effettuata se il venditore sia in grado di rimediare al difetto senza ritardo o inconvenienti per il compratore. 5. Trasferimento della proprietà e passaggio dei rischi Un fondamentale obbligo del venditore è naturalmente quello di consegnare la merce venduta al compratore e di trasferire a quest’ultimo la proprietà della stessa. Questo obbligo è puntualmente previsto sia dalla convenzione di Vienna, sia dallo Ucc. Qual è il momento in cui il compratore acquista la proprietà della merce? La convenzione non regola questo aspetto, lasciandolo alla volontà delle parti e alla legge nazionale applicabile che, in molti casi, è quella del paese in cui la merce si trova. Nelle condizioni generali di vendita di diversi esportatori italiani, si rinviene la clausola di “riserva di proprietà”, secondo la quale la proprietà della merce non passa al compratore fino a quando quest’ultimo non abbia pagato completamente il prezzo. Una simile clausola viene ritenuta valida sia per la legge italiana che, entro certi limiti, anche per la legge statunitense. Tuttavia, la sua efficacia appare spesso limitata, soprattutto nelle ipotesi in cui il compratore rivenda la merce a terzi, oppure fallisca, senza averne pagato il prezzo. Più precisamente, non è garantita la possibilità per il venditore non pagato di ottenere la consegna della merce dal terzo acquirente oppure dagli organi della procedura di insolvenza. Negli Usa, l’Ucc prevede il cosiddetto security interest. Si tratta di una particolare forma di garanzia, che consiste sostanzialmente nella facoltà di potersi soddisfare in via privilegiata rispetto ad altri creditori, su alcuni beni mobili del compratore. Affinché la garanzia sia efficace tra le parti, occorre che venga concordata per iscritto e che nell’accordo vengano esattamente indicati i beni destinati a garantire il credito. Inoltre, per rendere il patto efficace nei confronti dei terzi, occorre un’apposita registrazione dell’accordo contenente la clausola e di altri documenti, presso le autorità statali e seguendo una particolare procedura (cosiddetta Ucc filing). Una questione di estrema importanza nel commercio internazionale - ove la vendita della merce avviene con il suo trasporto - consiste nello stabilire quando il rischio legato all’eventuale perdita o deterioramento della merce venduta, ed in particolare se questi eventi avvengono durante il trasporto, si trasferisce dal venditore al compratore. Tale momento non necessariamente coincide con quello in cui viene trasferita la proprietà, e ciò sia per la convenzione di Vienna che per l’Ucc. Da questo punto di vista, l’Ucc prevede in via generale due tipi di contratto di vendita con trasporto, ovvero lo shipment contract e il destination contract. In caso di shipment contract – ipotesi che si applica normalmente, in mancanza di patto contrario - l’esportatore si impegna a spedire la merce all’acquirente, e pertanto il rischio di perdite o deterioramenti passa all’acquirente quando la merce è stata consegnata al trasportatore (vettore) per la spedizione. Il destination contract invece obbliga l’esportatore a consegnare la merce all’acquirente in un luogo di destinazione determinato; l’esportatore assume perciò il rischio sulla sorte della merce durante il trasporto e fino al momento in cui la stessa viene messa a disposizione dell’acquirente nel luogo convenuto. La convenzione di Vienna (artt. 66 e seguenti) prevede un sistema sostanzialmente analogo: il rischio si trasferisce al compratore nel momento in cui la merce è consegnata al primo vettore, a meno che il venditore non si sia obbligato a consegnarla in un luogo determinato; in questo secondo caso, il rischio passa al momento della consegna al vettore in tale luogo. E’ noto, peraltro, che nella pratica vengono utilizzati termini specifici quali fob, cif, ex works ed altri, con i quali l’esportatore e l’acquirente intendono regolamentare questioni come la ripartizione degli oneri in merito al trasporto e all’assicurazione della merce, ecc. In un rapporto commerciale con gli Usa, va tuttavia considerato che questi termini (denominati “termini di resa”), o perlomeno alcuni di essi, sono specificamente regolamentati dall’Ucc, e che tale disciplina va ben oltre il mero accollo delle spese di trasporto e/o assicurazione della merce, ma regola ad esempio anche il passaggio del rischio sulla merce stessa. Inoltre, va tenuto presente che analoghe clausole sono previste e disciplinate da una specifica codificazione, elaborata dalla Camera di commercio internazionale (Cci) sulla base degli usi commerciali, denominata “Incoterms” (la cui più recente edizione è del 2002), e che quindi, gli stessi termini possono assumere diversi significati a seconda della normativa applicabile. Per fare un esempio, il termine fob (Free on Board) è previsto sia dagli Incoterms che dall’Ucc. Per i primi, la clausola fob comporta l’obbligo del venditore di consegnare la merce a bordo della nave designata dal compratore nel porto di imbarco convenuto. In base all’Ucc, per contro, in mancanza di diversa specificazione (ad esempio, fob vessel) il venditore con clausola fob non assume gli oneri e i rischi relativi al caricamento della merce a bordo della nave. Ancora: secondo gli Incoterms, il venditore fob non deve assumere a proprio carico il trasporto della merce, mentre l’Ucc consente, mediante il cosiddetto fob place of destination, che il trasporto fino a destinazione avvenga a cura e spese del venditore. Tra gli altri noti termini previsti sia dagli Incoterms che dall’Ucc vi sono le clausole cif (Cost, Insurance and Freight) e fas (Free Alongside). Molto utilizzata – e spesso consigliata all’esportatore, in quanto prevede l’ambito minimo di obblighi e oneri per quest’ultimo, è la clausola exw (ex works, ovvero “franco fabbrica”), espressamente prevista dagli Incoterms. Dalle precedenti osservazioni si può comprendere come sia buona norma specificare nel contratto di vendita, e far accettare dal compratore, lo specifico termine di resa che si intende applicare, precisando secondo quale normativa lo stesso debba essere interpretato (3). Ciò a maggior ragione laddove il compratore abbia la propria sede negli Usa, per i motivi che si sono appena illustrati. 6. Interessi per ritardato pagamento e spese legali E’ noto che, in base alla legge italiana, il compratore che paga in ritardo il prezzo della merce acquistata deve al venditore gli interessi per ritardato pagamento (interessi “di mora”). Il tasso di interesse legale vigente in Italia nel 2004 è pari al 2,5%; inoltre, il dlgs 231 del 9 ottobre 2002 ha stabilito un tasso specifico per i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, sulla base del tasso di riferimento della Banca Centrale Europea, maggiorato di sette punti (tasso che viene riveduto semestralmente con provvedimento ministeriale pubblicato nella Gu). La convenzione di Vienna (all’art. 78) stabilisce il diritto agli interessi del venditore non pagato tempestivamente, senza peraltro precisare in quale percentuale, né con quale modalità di calcolo, essi debbano essere in concreto determinati. Negli Usa, i singoli Stati fissano autonomamente la misura dei cosiddetti pre-judgment e post-judgment interest. I primi possono essere addebitati in ragione della perdita economica subìta dal danneggiato durante il tempo del processo e fino all’emanazione della sentenza di condanna al risarcimento dei danni. I secondi vengono – più spesso addebitati in aggiunta a (e sulla base di) un importo liquidato con una sentenza giudiziale a titolo di risarcimento dei danni, a partire dalla data della sentenza e fino alla data in cui il risarcimento viene effettivamente pagato (4). In tale variegata situazione, come viene regolato l’addebito degli interessi in un contratto di vendita tra esportatore italiano e acquirente statunitense? Naturalmente, la soluzione preferibile è quella di concordare anticipatamente, nel contratto di vendita, sia l’obbligo dell’acquirente di pagare gli interessi in caso di ritardato pagamento, sia il tasso che verrà applicato. In mancanza di un accordo in tal senso, nel caso in cui l’esportatore inizi una causa per il recupero di un credito derivante dal mancato pagamento del prezzo di vendita, 3 Ad esempio, con una clausola del tipo: “Delivery of the product shall be ex works seller’s headquarters. The term “ex works” shall be interpreted according to the Incoterms 2000 published by the International Chamber of Commerce”. 4 Gli Stati possono stabilire un tasso fisso (come ad esempio nell’Illinois, a New York, in California, nel Connecticut, nel Texas), oppure (come in Florida, nel Delaware, nel Nevada, nel New Hampshire) un tasso variabile collegato ad un parametro ufficiale. l’autorità investita della controversia, applicando la convenzione di Vienna, dovrebbe condannare il debitore al pagamento degli interessi. Ma in quale misura? Secondo l’orientamento attualmente prevalente della giurisprudenza internazionale, gli interessi verranno stabiliti secondo il tasso in essere nello Stato in cui ha sede il venditore (5). Per quanto attiene alle spese legali, la rilevante differenza tra il diritto processuale italiano e quello statunitense, è che mentre la nostra legge prevede come principio generale l’addebito integrale delle spese di lite alla parte soccombente nel giudizio, negli Usa ciascuna parte di regola sostiene le proprie spese, essendo l’addebito al soccombente previsto in casi limitati, a titolo di risarcimento dei danni, specialmente se tale forma di risarcimento sia stato preventivamente concordata tra le parti. In tale contesto, sembra quindi opportuno che l’esportatore italiano si cauteli introducendo nel proprio contratto di vendita con l’acquirente statunitense (oppure nelle proprie condizioni generali) una clausola che preveda espressamente l’addebito delle spese legali, a titolo di risarcimento del danno, al soccombente ed in particolare all’acquirente che violi il contratto. 7. Prescrizione Sovente, purtroppo, il tema della prescrizione viene trascurato dall’imprenditore. Si tratta invece di un tema fondamentale, in quanto il decorso di un determinato periodo di tempo può precludere l’azione in giudizio per far valere un proprio diritto (ad esempio, per il recupero di un credito), se non ci si attiva tempestivamente. Anche in questo caso, problemi ulteriori sorgono dato il carattere transnazionale di una determinata operazione economica. Nella fattispecie, in una vendita di merce da un esportatore italiano ad un acquirente statunitense, la situazione normativa appare più complicata. La convenzione di Vienna non prevede infatti alcun termine generale di prescrizione per far valere in giudizio diritti che dalla stessa convenzione derivano. Prevede una simile limitazione soltanto per determinati tipi di azione: in particolare, ai sensi dell’art. 39, il compratore perde il diritto di far valere il difetto di conformità della merce ricevuta, se non lo denuncia al venditore al più tardi entro due anni dalla data in cui la merce stessa gli fu effettivamente consegnata (salvo il caso in cui il venditore abbia concesso al compratore una garanzia di durata superiore). Non prevede alcun termine, ad esempio, per il venditore che voglia recuperare un credito nei confronti di un acquirente situato in un altro paese che fa parte della convenzione di Vienna. In Italia, esiste un termine di prescrizione generale di dieci anni (art. 2946 del Codice civile) che decorre dalla data in cui il diritto poteva essere fatto valere per la prima volta (ad esempio, nel caso di recupero del prezzo di una vendita, dalla data in cui il termine di pagamento concordato è scaduto). Il termine di prescrizione può essere interrotto (con la conseguenza che esso riprende a decorrere dall’inizio), con l’avvio di una causa oppure con l’invio di una intimazione ad adempiere. Negli Usa, l’Ucc fissa un termine generale di quattro anni per le azioni legali promosse per far valere una violazione del contratto di vendita. Il termine decorre di norma dal 5 In un caso giudicato dalla Us District Court, Northern District di New York (Corte federale) nel 1994, l’acquirente italiano al quale venne concesso il risarcimento dei danni a seguito della fornitura di prodotti difettosi da parte di un venditore statunitense, venne applicato – a titolo di pre-judgment interest - il tasso applicabile per i titoli di Stato americani (Us Treasury Bills). giorno in cui si è verificata la violazione. Tuttavia, i singoli Stati non sempre hanno adottato il termine generale suddetto (6). La Louisiana, come si è detto, non ha adottato l’Ucc; in tale Stato vige un termine di prescrizione di dieci anni. Va rimarcato che i termini di prescrizione appena elencati sono di carattere generale e che, in relazione a fattispecie determinate (ad esempio, gli open accounts) la disciplina statale potrebbe stabilire una diversa scadenza. Occorre inoltre precisare che, in alcuni casi, le leggi statali permettono di derogare per contratto ai suddetti termini. In linea generale, si può sostenere che la prescrizione è regolata dalla legge dello Stato nel quale la causa dev’essere intentata. Pertanto, soprattutto qualora si intenda agire negli Usa, occorrerà tenere presente il termine di prescrizione in vigore nel singolo Stato in cui la causa verrà radicata. In tale contesto, per esigenze di certezza, l’esportatore può considerare l’opportunità di introdurre, nel contratto di vendita con una controparte statunitense, una clausola che stabilisca espressamente un termine di prescrizione per le azioni derivanti dal contratto. a cura di M. Gardenal e C. Montana per Commercio Internazionale-Quindicinale di diritto e pratica degli scambi con l'estero, Ipsoa Editore 6 Si discostano dal modello Ucc, in particolare, l’Arizona (6 anni), il Colorado (3 anni), il Connecticut (6 anni), la Florida (5 anni), lo Iowa (10 anni), il Kansas (5 anni), il Maine (6 anni), il Massachusets (6 anni), il Mississippi (3 anni), il Montana (8 anni), il Nebraska (5 anni), il Nevada (6 anni), il New Mexico (6 anni), la North Carolina (3 o 6 anni a seconda che il contratto sia stipulato in forma semplice o under seal , ovvero pubblica), l’Ohio (15 anni), l’Oklahoma (5 anni), l’Oregon (6 anni), la South Carolina (3 anni), il Tennessee (6 anni), lo Utah (6 anni), il Vermont (6 anni), lo Stato di Washington (6 anni), il Wisconsin (6 anni), il Wyoming (10 anni).