16 ILLUMINISMO appunti

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16 ILLUMINISMO appunti
L’ILLUMINISMO
LE PREMESSE DELL’ILLUMINISMO
Nel corso del XVIII secolo avvennero importanti trasformazioni non solo nelle strutture economiche e sociali, ma
anche nella cultura e nella mentalità dell’uomo europeo. Queste trasformazioni culturali furono preparate dalla
moltiplicazione dei mezzi di comunicazione delle idee: la diffusione dei libri a stampa, dei periodici e dei giornali si
intensificò grandemente nel corso del Settecento. Le tipografie aumentarono la tiratura delle pubblicazioni e
produssero libri di formato più maneggevole e di costo più modesto per raggiungere un pubblico sempre più vasto.
Infatti nelle città ormai anche i ceti artigiani erano alfabetizzati (solo gli abitanti delle campagne e i braccianti, che
comunque costituivano ancora la maggior parte della popolazione, non erano raggiunti dalla parola scritta).
C’è anche da notare che, mentre i libri del Seicento erano per lo più di argomento religioso, nel secolo XVIII le
pubblicazioni trattano soprattutto di scienza, di letteratura, di filosofia, di economia ...
Questa situazione favorì l’affermazione, dapprima in Francia e in Inghilterra, e poi in tutta Europa, di una nuova
cultura, di una nuova concezione del sapere, definita “illuminista” dagli stessi intellettuali che contribuirono a
fondarla e a diffonderla.
LA RAGIONE DELL’ILLUMINISMO
Gli intellettuali del XVIII secolo si autodefinirono “illuministi” perché ritenevano di portare finalmente la luce della
ragione all’umanità dopo secoli di tenebre e di oscurantismo. Fuor di metafora, gli Illuministi con l’uso libero e
spregiudicato della ragione volevano liberare l’umanità dai pregiudizi filosofici e morali, dalle superstizioni religiose,
dalle credenze acritiche, dai vincoli assurdi della tradizione, dalle tirannie politiche, dai rapporti disumani,
dall’ignoranza1.
Essi avevano una fiducia assoluta nella ragione umana: erano convinti che l’uomo, seguendo esclusivamente la sua
ragione, avrebbe potuto trasformare il mondo e migliorare progressivamente le condizioni materiali e spirituali
dell’umanità. La filosofia illuminista era ottimista e progressiva: credeva in un progresso continuo e ininterrotto
dell’umanità, e in ciò si manifestava veramente come espressione culturale e ideologica della borghesia in ascesa.
Ma quale idea di ragione hanno gli Illuministi?
La ragione esaltata nell’Illuminismo non è la stessa che fu valorizzata nel Medioevo o nel Rinascimento; la ragione
illuminista è una ragione “empirica”, perché è limitata e controllata dall’esperienza; è quindi la stessa ragione che
Galilei aveva posto a base della ricerca scientifica e che procedeva per “sensate esperienze e necessarie
dimostrazioni” (cioè esperimenti e leggi matematiche).
Tuttavia gli Illuministi, a differenza di Galilei (e degli altri protagonisti della rivoluzione scientifica del Seicento),
pretendono di applicare questa ragione “empirica” non solo ai fatti della natura, ma a tutta la realtà, compresa la
dimensione “spirituale” dell’uomo (storia, morale, politica, religione ecc.). Tutto ciò che non può essere compreso e
giustificato dalla ragione sperimentale o “empirica” vien considerato falso o inesistente. Qui sta la differenza
fondamentale tra gli Illuministi e gli scienziati del Seicento: Galilei e Newton non avrebbero mai pensato di
sottoporre a una verifica sperimentale i fenomeni religiosi, morali, politici... Galilei non pensava che il metodo
scientifico potesse applicarsi a Dio, alla Bibbia, alla morale ecc.
Invece gli Illuministi vogliono sottoporre alla critica della ragione sperimentale tutto ciò .che riguarda l’uomo: la sua
fede religiosa, i suoi comportamenti, le leggi morali, le istituzioni politiche, l’arte ecc.
La ragione illuminista è ragione “empirica” o sperimentale anche in un altro senso: essa non è tanto interessata alla
conoscenza dei principi primi della verità, quanto piuttosto alle conseguenze pratiche di una certa dottrina, ai risultati
di una teoria che devono essere utili, benefici per l’umanità. Da ciò deriva ovviamente un grande entusiasmo per la
scienza e, ancor più, per la tecnica che permette di ricavare vantaggi materiali dalla conoscenza scientifica.
Ma per la felicità terrena dell’uomo non sono meno importanti le scienze che riguardano la vita associata (morale e
politica): e infatti l’illuminismo ha dato i suoi frutti più importanti e duraturi proprio nel campo della filosofia
politica.
Vediamo ora, settore per settore, come si esplica e quali risultati raggiunge la critica illuminista.
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Possiamo riconoscere in Cartesio l’iniziatore di questo atteggiamento critico nei confronti della tradizione e di questo
tentativo di rifondare tutto l’edificio della conoscenza sulla base della ragione. Tuttavia Cartesio aveva limitato
prudentemente le conseguenze pratiche di tale atteggiamento (morale provvisoria), mentre gli illuministi non esitavano a
trarne le conseguenze pratiche più estreme ed eversive; inoltre Cartesio aveva costruito il suo sistema sulle certezze assolute
della ragione (razionalismo), mentre gli Illuministi, come vedremo, avevano un’idea di ragione limitata e controllata
dall’esperienza.
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L’ATTACCO DELL’ILLUMINISMO ALLA “SUPERSTIZIONE” DELLE RELIGIONI POSITIVE
Occorre premettere che dalla seconda metà del Seicento il problema religioso della salvezza eterna non era più sentito
in modo così intenso e drammatico come nei secoli precedenti. La divisione della cristianità, e le conseguenti guerre
di religione, l’intolleranza, gli odi, gli eccidi perpetrati in nome del Cristianesimo da una parte e dall’altra avevano
alla fine provocato disgusto e diffidenza nei confronti delle chiese ufficiali (cattoliche o protestanti).
Anche la scoperta di grandi civiltà americane e asiatiche caratterizzate da religioni diverse aveva fatto dubitare che
una sola religione potesse possedere la verità in esclusiva. Infine l’atteggiamento critico degli scienziati e dei filosofi
nei confronti dell’autorità della tradizione (a partire dal dubbio metodico di Cartesio) si estendeva facilmente dal
campo scientifico e filosofico al campo delle credenze religiose. L’Illuminismo fa un passo avanti in questa direzione:
infatti attacca direttamente le religioni positive (quelle che si fondano su una rivelazione soprannaturale)
sottoponendo al tribunale della ragione tutti gli elementi soprannaturali e misteriosi della fede. Con sprezzante
sarcasmo viene negata la veridicità, anzi la possibilità stessa, dei miracoli, delle profezie e di qualsiasi intervento
divino nella storia. Il peccato originale, l’incarnazione e resurrezione di Cristo, i sacramenti, i dogmi di fede vengono
considerati imposture o leggende create dall’immaginazione e dalla superstizione.
In un primo momento tuttavia gli Illuministi non eliminarono completamente la religione, ma sostituirono alle
religioni positive rivelate una religione naturale o razionale, che venne chiamata DEISMO.
Il Deismo è una religione senza misteri e senza riti, una religione che afferma solo quelle verità che possono essere
ammesse e comprese dalla ragione.
E la ragione degli Illuministi deisti ammette solo:
1) l’esistenza di un Dio creatore e ordinatore dell’universo (chiamato preferibilmente Essere Supremo): infatti non si
può spiegare razionalmente l’esistenza e l’ordine del mondo senza una causa superiore.
2) L’esistenza del bene e del male, e di certi doveri naturali, evidenti per tutti (la tolleranza, il rispetto della vita e dei
beni altrui ecc.)
3) Alcuni deisti ammettono anche l’immortalità dell’anima e/o l’esistenza di una vita post-mortem
E’ da notare che secondo i deisti Dio non può intervenire nel mondo perché così facendo infrangerebbe quelle leggi
fisiche che regolano il movimento dell’universo e che sono state create da lui stesso, quindi è esclusa la Provvidenza
divina nelle vicende della storia umana; ricordiamo che la concezione dell’universo dominante nel Settecento è quella
meccanicistica e deterministica mutuata da Cartesio e da Newton: l’universo intero, con tutti i viventi, è concepito
come un unico meccanismo, e alcuni Illuministi giungono a interpretare anche l’uomo come un meccanismo, sia pure
particolarmente complicato.
Il principale teorico e propagandista del Deismo fu il filosofo francese Voltaire (1694-1778) 2.
Ma verso la metà del Settecento altri Illuministi ritennero un “pregiudizio” anche la credenza deista in un Essere
Supremo creatore del mondo: costoro davano un’interpretazione della realtà atea e materialistica: poiché (per loro)
tutta la realtà è costituita solo da materia, non c’è nessun bisogno di un Creatore per spiegare l’esistenza del mondo,
basta considerare eterna la materia stessa.
Proprio perché riconosceva soltanto l’esistenza di ciò che cade sotto il dominio dei sensi, e poneva la sensazione a
base della conoscenza e di tutta l’attività intellettuale umana, il materialismo illuminista fu detto anche SENSISMO.
A differenza del Deismo, il Sensismo non portava a una visione ottimista del mondo; esso non credeva che all’origine
del mondo ci fosse un creatore intelligente che gli conferisse un ordine, un senso razionale; la natura appariva ai
materialisti come un immenso campo di movimenti casuali (sebbene deterministicamente connessi) e senza scopo.
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“Il motivo costante di tutta l’opera di Voltaire fu la lotta contro il fanatismo: contro la pretesa d’imporre ad altri con la
violenza opinioni e costumi propri, spesso alimentati dalla superstizione e dannosi all’umanità. Al servizio di questa
crociata egli mise il suo spirito e le sue grandi capacità di scrittore . E la convinzione che le massime manifestazioni di
fanatismo fossero dovute a credenze religiose subdolamente sfruttate da persone interessate, lo indusse a coinvolgere nella
sua battaglia ogni religione positiva - giudaismo e cristianesimo in particolare -, propugnando una religione puramente
razionale, di stampo deistico. Voltaire non si avvide che il fanatismo non ha che fare con il genuino spirito religioso, se non
come sua contraffazione o perversione; né si rese conto che una religione razionale, costruita a tavolino da un filosofo che,
per di più, escludeva la metafisica nel senso tradizionale, non poteva offrire ciò che il credente suole chiedere alla religione
(...) . Muovendo da un iniziale ottimismo Voltaire, soprattutto attraverso lo studio della storia, si rende sempre meglio conto
della difficoltà di sottoporre alla guida della ragione la vita umana. L’ottimismo “metafisico” di un Leibniz gli appare privo
di senso. Solo attraverso piccoli e contrastati miglioramenti l’umanità potrà, non già liberarsi dei mali, ma porsi nelle
condizioni migliori per sopportarli. Tuttavia Voltaire vede nel proprio secolo “l’aurora della ragione”: cioè il secolo che ha
trovato, quanto meno, il principio per mettersi sulla strada della saggezza; e appunto questa fiducia nella saggezza di una
ragione umana, debole bensì, ma illuminata dalla scienza, fa di Voltaire un tipico rappresentante dell’illuminismo” (Vittorio
Mathieu, Storia della filosofia e del pensiero scientifico)
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Proprio per questo pessimismo e per questa irrazionalità di fondo l’ateismo all’interno del movimento illuminista
ebbe un’influenza e una diffusione minore del deismo.
Comunque gli Illuministi, sia deisti che ateisti, non si limitarono alla speculazione filosofica sulla religione, ma
attaccarono con tutte le armi a loro disposizione - argomentazioni filosofiche, indagine storica, satira e polemica - le
dottrine , le istituzioni e le autorità delle Chiese, e ottennero anche successi importanti come l’espulsione dei Gesuiti
da molti Stati. La Chiesa cattolica reagì mettendo all’Indice i libri degli Illuministi e spesso i governi intervennero
in difesa della religione con repressioni e censure. Voltaire per esempio fu costretto, per un certo tempo, a uscire
dalla Francia e a cercar rifugio presso il re di Prussia.
Per avere un quadro complessivo della situazione religiosa nel Settecento bisogna comunque tener presente che le
idee deiste e l’ateismo fecero breccia negli strati più colti e influenti della società (alta borghesia e nobiltà), ma la
stragrande maggioranza della popolazione rimase fedele alla propria religione e alle proprie autorità ecclesiastiche.
L’ANTROPOLOGIA E L’ETICA DELL’ILLUMINISMO
Il contrasto degli Illuministi con le chiese cristiane non si limitò tuttavia alla teologia (=discorso su Dio), ma investì
anche l’antropologia (=discorso sull’uomo). Infatti l’Illuminismo propose una concezione dell’uomo antitetica a
quella del cristianesimo. Alla base dell’antropologia cristiana stava infatti l’idea del peccato originale .
Secondo questa idea esiste nell’uomo un limite strutturale, una tendenza al male che rende precaria e incerta qualsiasi
realizzazione umana; solo l’intervento redentivo di Gesù Cristo permette all’uomo di superare il proprio male, di dare
piena realizzazione a se stesso e di costruire una società giusta e umana.
Gli Illuministi invece consideravano l’uomo naturalmente e totalmente buono: il male che si incontra nella storia non
discende dal peccato, cioè da una volontà cattiva, ma deriva semplicemente dall’ignoranza. Nel Settecento si
diffonde, fra l’altro, il mito del “buon selvaggio”: gli Illuministi nutrono un grandissimo interesse per i popoli
“primitivi” dell’America e dell’Oceania e credono di vedere in essi la riprova della bontà e della razionalità dell’uomo
“naturale”, che non ha ancora subito condizionamenti culturali e sociali.
Ora, poiché l’uomo è buono, può realizzare se stesso e costruire la società a prescindere da qualsiasi riferimento
religioso e trascendente (l’Illuminismo sta quindi all’origine del fenomeno della secolarizzazione, che caratterizza la
società occidentale contemporanea e che consiste appunto nell’eliminazione di ogni riferimento religioso da tutti gli
aspetti pubblici della vita).
L’idea della bontà naturale dell’uomo porta anche alla valutazione positiva delle tendenze egoistiche dell’uomo,
soprattutto nell’ambito delle correnti materialistiche e sensiste dell’Illuminismo: molti Illuministi riconoscono infatti
l’egoismo come fattore primario dell’agire umano, e a fondamento della morale pongono l’utilità (=utilitarismo) o il
piacere (=edonismo): secondo queste teorie etiche l’uomo si comporta rettamente quando persegue razionalmente la
propria utilità e il proprio piacere, e nel far questo non danneggia, anzi incrementa, il bene comune perché, come
sosteneva Mandeville, “i vizi privati sono pubbliche virtù”, cioè l’interesse individuale coincide con l’interesse
generale.
IL PENSIERO GIURIDICO E POLITICO DELL’ILLUMINISMO
L’Illuminismo era una cultura essenzialmente pratica, che si proponeva di trasformare la realtà migliorando le
condizioni di vita dell’uomo, era quindi di necessità anche una cultura politica , fortemente impegnata nella critica e
nella trasformazione delle strutture politiche e sociali. Anche in questo campo gli Illuministi posero la ragione a
fondamento delle norme giuridiche e delle concezioni dello Stato; innanzi tutto essi negarono qualsiasi origine e
finalità soprannaturale dello Stato: lo Stato e le leggi sono state creati dagli uomini per mezzo di un contratto, di un
patto comune volto al conseguimento del benessere, della sicurezza e della felicità pubblica. Pertanto il potere dei
sovrani deriva dai cittadini ed è legittimo soltanto finché si esercita a loro favore . In particolare le autorità politiche
non possono ledere i diritti naturali e inalienabili dell’uomo: vita, libertà (personale, economica, di coscienza e
d’espressione), proprietà, sicurezza, eguaglianza giuridica.
L’affermazione dei diritti dell’uomo è uno degli esiti più importanti dell’Illuminismo (con grandi conseguenze
politiche e giuridiche nella Rivoluzione Francese). Occorre però precisare che l’idea di diritti umani era presente
anche nel Medioevo e nell’Umanesimo, ma con un interesse prevalente per i diritti delle comunità, delle corporazioni,
degli ordini ecc. Poi nel Cinquecento e nel Seicento i teorici dell’Assolutismo (Machiavelli, Hobbes), affermando che
il potere del sovrano non deve avere limiti, avevano di fatto negato l’esistenza di diritti umani intangibili.
L’Illuminismo riafferma la dottrina dei diritti naturali dell’uomo, considerati però ora come diritti dell’individuo, del
singolo cittadino (diritti uguali per tutti). Gli Illuministi si ricollegano al pensiero politico di John Locke e affermano
i diritti umani già individuati dallo stesso Locke (libertà, proprietà, sicurezza, uguaglianza); ad essi però aggiungono
il diritto alla felicità che, di per sè, è difficilmente circoscrivibile in termini politici e giuridici, ma che costituisce una
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forte sollecitazione ad agire per eliminare le cause, materiali e spirituali, dell’infelicità: la miseria, l’ignoranza,
l’ingiustizia, ecc.
Per lo più gli Illuministi (fino agli anni Sessanta del XVIII sec.) non trassero da questi principi conseguenze
rivoluzionarie, ma si limitarono a suggerire riforme concrete ai governanti, senza proporsi di scardinare
l’ordinamento politico e sociale. Le riforme proposte miravano generalmente ai seguenti obiettivi: ra-zionalizzazione
dell’ordinamento amministrativo statale (mediante la centralizzazione e la burocratizzazione), eliminazione dei
particolarismi, delle consuetudini, dei privilegi, uniformità e chiarezza delle leggi, abolizione dei privilegi giuridici e
fiscali della nobiltà e del clero, controllo della Chiesa ed eliminazione delle ingerenze ecclesiastiche nel governo,
adozione di procedure penali più razionali (il ché comportava, per esempio, l’abolizione della tortura e della pena di
morte proposta da Cesare Beccaria nel suo celebre trattato “Dei delitti e delle pene”).
C’è da notare che questi programmi di riforma non coinvolgevano mai direttamente le masse popolari; Voltaire
dichiarava: “Tutto per il popolo, nulla per mezzo del popolo”, intendendo che l’opera di riforma poteva essere
attuata solo dall’alto . I problemi sociali delle classi più povere erano tenuti in scarsa considerazione dagli Illuministi,
che anzi guardavano con ostilità e diffidenza alla canaille (così la chiamava Voltaire) ignorante e superstiziosa. I
contadini , anche nei programmi illuministici, rimanevano sottoposti allo sfruttamento dei grandi proprietari; perfino
la tratta e la schiavitù dei negri fu ammessa e giustificata da alcuni Illuministi.
Queste dunque erano le premesse della riflessione politica illuminista, ma gli esiti - pratici e teorici - furono molto
vari, perfino antitetici fra loro.
Secondo alcuni Illuministi questo programma di riforme poteva essere realizzato tramite una collaborazione tra
sovrani assoluti e intellettuali; in questo caso il potere assoluto del monarca veniva accettato come mezzo per
imporre alla società le necessarie riforme. Del resto alcuni sovrani europei (Federico II di Prussia, la zarina Caterina,
l’imperatore Giuseppe II ecc.) assunsero, almeno in parte, il programma illuminista vedendo in esso uno strumento
per consolidare il proprio potere. In questi casi si parlò di dispotismo illuminato.
Altri Illuministi invece prospettarono soluzioni diverse.
Charles de Secondat de Montesquieu (1689-1757) affrontò il problema dello Stato nell’opera “Lo spirito delle
leggi”: lo spirito delle leggi è, per Montesquieu, un nesso unitario che lega le leggi, da un lato tra loro, dall’altro alle
circostanze storico-geografiche (per esempio al clima) in cui sorgono e al tipo di individui a cui si rivolgono.
L’insieme delle leggi e delle istituzioni non si forma arbitrariamente , bensì per un insieme di condizioni che stanno in
rapporti costanti, e che possono esser fatte oggetto di una vera e propria “scienza della società”. Montesquieu
individua tre principi etici differenti che ispirano le leggi e da cui derivano tre diverse forme di governo: il principio
animatore di un governo dispotico è la paura, che rende passivi verso di esso i cittadini; quello di un governo
monarchico l’onore; quello di un governo repubblicano la virtù (o attaccamento al bene comune); tuttavia il governo
repubblicano può esistere soltanto nei piccoli Stati, e quindi la forma di governo propria dei grandi Stati moderni è la
monarchia: il problema è evitare che la monarchia degeneri nell’arbitrio assoluto del re, cioè nel dispotismo e nella
tirannia. L’antidoto a questa degenerazione tirannica risiede, secondo Montesquieu, nella separazione dei poteri, di
cui la monarchia inglese offriva un esempio: il potere di fare le leggi e di votare le imposte deve essere esercitato da
un parlamento, il potere esecutivo da un monarca, il potere giudiziario da un corpo di magistrati indipendenti. In tal
modo ogni potere limita e controlla gli altri impedendo di prevaricare e di agire arbitrariamente.
Solo negli ultimi decenni del Settecento il pensiero politico degli Illuministi assunse posizioni radicali e
rivoluzionarie, che poi ispirarono i programmi e le esperienze politiche della Rivoluzione Francese.
Così Jean Jacques Rousseau, il più geniale degli Illuministi (di cui presenteremo il pensiero più oltre), teorizza
l’idea della sovranità popolare e delinea un modello politico di democrazia egualitaria ; e i pensatori del cosiddetto
utopismo settecentesco (Meslier, Mably e Morelly) propongono modelli e istanze politiche di tipo comunistico ed
anarchico che ispireranno le frange più estremiste della Rivoluzione francese.
LA NASCITA DELL’ECONOMIA POLITICA3
L’idea che il concorso di molte azioni ispirate a fini egoistici possa produrre un risultato utile alla comunità (a cui
abbiamo accennato parlando dell’etica illuminista) sta alla base di una nuova scienza nata in Inghilterra nel
Settecento, l’economia politica. Infatti il principio fondamentale dell’economia politica è questo: in campo
economico l’azione egoistica di ciascun cittadino che tende alla migliore soddisfazione dei propri bisogni produce, a
lungo andare, il risultato di promuovere la ricchezza dell’intera nazione. Chi introdusse, sia pure sotto forma di
paradosso, il principio generale da cui la nuova scienza dipendeva fu l’inglese Bernard de Mandeville (1670-1733),
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tratto da Vittorio Mathieu, Storia della filosofia e del pensiero scientifico
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autore di una Favola delle api in cui si mostrava che nell’alveare, finché ogni ape badava ai propri interessi, tutto
andava bene, mentre quando gli scrupoli morali indussero alla generosità, al disinteresse e alla parsimonia, la
comunità divenne povera e incapace di sostenersi. La Favola delle api stabiliva quindi un’equazione tra “vizi
privati” e “benefici pubblici” che naturalmente suscitò molto scandalo, in quanto sembrava incoraggiare l’egoismo e
il malcostume, ma che fu accolta con entusiasmo dagli Illuministi che avevano auspicato una morale naturale fondata
sull’egoismo
I “Fisiocratici”. L’Illuminismo non poteva non interessarsi fortemente alla nuova prospettiva che l’indagine
economica gli apriva: conciliare l’utile generale con il particolare, secondo leggi del tutto naturali. Così in Francia i
fenomeni economici cominciarono ad essere trattati sistematicamente da una schiera di studiosi (detti “fisiocratici”
perché volevano il “dominio della natura” nelle questioni economiche), spesso direttamente coinvolti negli affari o
nella politica: il Quesnay, il Dupont de Nemours, il Turgot ecc. I Fisiocratici francesi contestarono in primo luogo
l’idea mercantilista che la ricchezza di una nazione consistesse nella quantità di metalli pregiati posseduti; per loro il
vero fondamento della ricchezza di una nazione era l’agricoltura da cui, secondo natura, tutte le risorse produttive
hanno origine; in secondo luogo essi pensavano che quei provvedimenti “mercantilistici” con cui tradizionalmente si
era cercato di migliorare l’economia di un paese proteggendo le industrie, evitando l’esportazione di oro ecc.
ottenevano l’effetto opposto a quello voluto; ancor più dannosi erano quegli impacci di origine feudale, corporativa,
che ostacolavano la libera circolazione dei beni e il libero sviluppo delle attività economiche. Le istituzioni rigide, le
organizzazioni artificiali, non solo non favorivano, ma impedivano quel benessere che sarebbe sorto naturalmente
dall’iniziativa dei soggetti economici, lasciati liberi di scegliere e di agire. L’importante perciò era lasciar fare
(“laissez faire, laissez passer”): gli interventi dall’alto non servono , la natura stessa provvederà ad armonizzare,
secondo le proprie leggi, il vantaggio cercato da ciascuno col bene ottenuto da tutti .
I Fisiocratici gettarono così le basi del liberismo economico. Essi attribuirono la massima importanza alla terra e
all’agricoltura, mentre gli sviluppi successivi della scienza economica, attuati soprattutto da studiosi inglesi, diedero
maggiore importanza al lavoro e all’industria.
Una sistemazione teorica generale della nuova scienza dell’economia politica fu attuata dall’inglese Adam Smith
(1723-1790) con l’opera “Sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni”. Il liberismo economico, così come
venne teorizzato da Adam Smith e dai suoi successori inglesi, affermava, in estrema sintesi, questi principi: la ricerca
individuale della ricchezza produce “naturalmente” benessere e ricchezza per tutta la comunità, per cui lo Stato non
deve in alcun modo limitare o intralciare l’iniziativa economica individuale; il mercato libero (in cui vi sia libera
concorrenza tra i soggetti economici) regola “naturalmente” l’economia, perché seleziona le attività economiche,
promuovendo quelle più utili, convenienti e vantaggiose per la popolazione, eliminando le altre 4: pertanto anche il
commercio, sia nazionale che internazionale, deve svolgersi in condizioni di libertà e parità, perciò gli Stati non
devono ostacolare gli scambi commerciali (libero scambio) con tariffe doganali protettive e non devono proteggere o
favorire alcune imprese economiche a scapito di altre.
Questi principi divennero un elemento importante della concezione liberale della vita associata che, per i suoi aspetti
più propriamente politici, si rifaceva piuttosto al Locke e al Montesquieu. Il principio del “lasciar fare” si
congiungerà facilmente con il principio della tolleranza e della libertà personale, che avevano origini diverse.
Tuttavia l’economia politica troverà, già nell’Ottocento, anche fieri avversari: in coloro che, nelle sue leggi naturali e,
come tali, inderogabili, immodificabili, vedranno solo un pretesto messo innanzi dai ricchi per ostacolare un
riordinamento pianificato della società.
ROUSSEAU: ALLE ORIGINI DELLA DEMOCRAZIA E DEL TOTALITARISMO
L’approccio più originale e interessante al problema politico fu tentato, nella seconda metà del Settecento, dal
filosofo ginevrino Jean Jacques Rousseau (1712-1778). Pur partecipando pienamente della mentalità illuminista,
Rousseau giunse, nelle sue opere pedagogiche e politiche, a metterne in discussione alcuni capisaldi, quali l’idea di
progresso e l’ottimismo verso la ragione. Nel Discorso sulle scienze e sulle arti (1750) e nel Discorso sull’origine
della diseguaglianza tra gli uomini (1754) egli, contro la convinzione illuministica che l’uomo possa progredire
verso la felicità mediante l’uso della sola ragione, affermò che la felicità, e con essa la libertà, era propria dell’uomo
nello “stato di natura” ai primordi dell’umanità. Per Rousseau l’uomo di natura, originariamente integro, era
biologicamente sano e moralmente innocente; è diventato malvagio, ingiusto, oppressore, con il progresso e con la
civilizzazione.
In realtà Rousseau non sostiene che lo “stato di natura” sia esistito di fatto agli albori dell’umanità o in qualche
luogo remoto: lo stato di natura è un’ipotesi di lavoro, suffragata dal sentimento del carattere artificioso e
“innaturale” della civiltà in cui viviamo e dall’ ideale di spontaneità e di semplicità che l’uomo stesso sente
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Adam Smith parla di una “mano invisibile” che armonizza la ricerca individuale ed egoistica del profitto e il benessere
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corrispondente alla sua vera natura; Rousseau scopre lo stato di natura principalmente scavando dentro di sé e
confrontando il proprio sentimento con l’umanità corrotta dalla società e dalla civiltà: “il pittore e apologista della
natura, oggi così sfigurata e calunniata, donde può aver tratto – si chiede Rousseau – il proprio modello, se non
dal proprio cuore? L’ha descritta quale lui stesso sentiva di essere. I pregiudizi non lo soggiogavano, non era
preda delle passioni artificiose: i tratti originari della natura, generalmente dimenticati o misconosciuti, non
erano offuscati ai suoi occhi…” .
In questa condizione naturale originaria l’uomo, secondo Rousseau, non era caratterizzato dalla razionalità, ma
piuttosto dal sentimento e dall’istintività: i suoi istinti primordiali erano l’istinto di conservazione e la pietà intesa
come “naturale ripugnanza a veder soffrire il proprio simile”; l’uomo naturale non era né buono né cattivo, perché
bene e male, virtù e vizio sono prodotti della riflessione razionale di un uomo civilizzato: era piuttosto innocente,
viveva in una condizione di “felice ignoranza”.
Proprio l’organizzazione della civiltà e il progresso delle arti e delle scienze avevano causato l’infelicità . Quella
felicità naturale originaria era data dall’eguaglianza; ma le difficoltà incontrate dall’uomo nel conservare la propria
vita in un ambiente naturale ostile, avevano generato l’istinto di sopraffazione e l’uso della forza , introducendo la
diseguaglianza tra forti e deboli, tra sfruttatori e sfruttati, tra ricchi e poveri. La società, per Rousseau, nacque
quando alcuni si appropriarono dei beni della terra, che prima erano comuni: “Il primo che recinse un terreno e
dichiarò: -questo è mio- e trovò persone tanto semplici da prestargli fede, questi fu il vero fondatore della società
civile.”
La società è nata, dunque, dalla violazione dell’eguaglianza naturale, e leggi e ordinamenti mirano solo a perpetuare
l’ineguaglianza5. E’ qui l’origine del male: “La fonte prima del male è la diseguaglianza; dalla diseguaglianza
sono venute le ricchezze; povero e ricco infatti sono termini relativi, e dovunque gli uomini saranno uguali non ci
saranno mai né ricchi né poveri. Dalle ricchezze sono nati il lusso e l’ozio; dal lusso sono venute le belle arti e
dall’ozio le scienze”.
Dunque il male e la corruzione non appartengono originariamente alla natura dell’uomo, ma sono una nefasta
conseguenza della cultura e della società. Con il suo pessimismo storico, Rousseau distruggeva un’idea portante
dell’Illuminismo: che l’incivilimento fosse di per sé un progresso verso il meglio; il cammino della storia e l’ordine
sociale attuale non avevano fondamento né nelle leggi della natura né in un piano divino: erano opera esclusiva
dell’uomo, anzi dell’impostura umana, e si fondavano sull’oppressione: “La maggior parte dei nostri mali è opera
nostra; li avremmo evitati quasi tutti conservando il modo di vivere semplice, uniforme e solitario che ci era
prescritto dalla natura”.
Una volta smascherata la sua origine, la condizione dell’uomo civile appare inaccettabile. Ma non è nemmeno
possibile tornare indietro: Rousseau non è un “primitivista”, un adoratore dell’uomo primitivo; egli non aveva mai
pensato – rispondeva indignato ai critici – che si dovesse “distruggere la società, sopprimere il tuo e il mio, e
ritornare a vivere nelle foreste con gli orsi”.
Per Rousseau la civiltà ha trasformato gli uomini irreversibilmente, la società è ormai ineliminabile e il ritorno allo
stato di natura è impossibile; pertanto si tratta di ricostituire la felicità, la libertà e l’eguaglianza originarie per mezzo
di una nuova organizzazione statale, che Rousseau descrive nell’opera “Il Contratto sociale” ( 1762)
Il “Contratto sociale” vorrebbe porre le basi di una società in cui “ciascuno unendosi a tutti gli altri, obbedisca
tuttavia soltanto a se stesso, e sia libero come prima”. Il nuovo Stato di Rousseau nasce da un contratto o patto
d’unione fra tutti i membri che lo compongono , i quali rinunciano completamente ai loro diritti naturali e alla loro
libertà individuale a favore, non di un singolo, bensì della comunità, in cui tutti diventano uguali, perché tutti
ugualmente privi di diritti individuali.
In questo modo si costituisce un organismo collettivo, l’unico che abbia diritto di comandare (dottrina della
“sovranità popolare”), in nome di una volontà che non è la volontà di uno o più singoli, e neppure la somma della
volontà di tutti, ma è la volontà generale, priva di finalità egoistiche.
La volontà generale è assoluta (indivisibile, illimitata e inalienabile), non incontra nessuna limitazione nei diritti dei
singoli: però si esercita solo in nome della comunità; quindi non asservisce l’uomo a nessun altro uomo, e i singoli, in
quanto sottomessi solo alla volontà generale, che è la loro stessa volontà collettiva, sono liberi.
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“Le forme della vita associata e civile, così come si sono sviluppate ovunque, e in Europa in particolare, sono un fomite di
discordia, di prepotenze, di lusso, di dissipazione; una gara in cui ciascuno cerca di prevalere sull’altro, di umiliarlo, di
asservirlo ai propri scopi. E lo sviluppo delle qualità intellettuali non fece che fornire armi più efficaci all’esercizio del
sopruso morale. Diritto di proprietà, istituzione delle magistrature, dispotismo, sono le tappe di una progressiva
ineguaglianza , fondata non sulla natura, bensì su un artificio, e resa possibile da un’intelligenza asservita all’egoismo. Se
si paragona codesto quadro alla “natura” dei fisiocratici e dei liberisti - in cui le iniziative dei singoli, per quanto
egoistiche, si armonizzano da sè in un benessere generale - si vede come la concezione del Rousseau sia il rovesciamento di
quella della “favola delle api”. (V.Mathieu, op. cit.)
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Infatti secondo Rousseau il Contratto sociale è stipulato fra uguali e in perfetta reciprocità. I diritti individuali
vengono totalmente ceduti dall’individuo alla comunità nella sua interezza. Ma l’individuo “dandosi a tutti non si dà
a nessuno”: l’individuo entra a far parte della comunità, si identifica con essa e quindi, cedendo tutti i suoi diritti alla
comunità, non fa che cederli a se stesso; la sua volontà coincide con quella degli altri individui che hanno compiuto
una cessione simile dei loro diritti. Dunque per Rousseau il Contratto sociale non comporta una sottomissione a
qualcun altro, ma solo un’unione tra i contraenti del patto. E’ evidente che il presupposto di questo ragionamento è
la convinzione che la vera volontà (spontanea, ispirata dalla natura e dal cuore) dell’individuo coincida con la vera
volontà di tutti gli altri e con la volontà generale. La volontà generale è dunque la volontà unitaria nata dal Patto
sociale: non è la volontà della maggioranza e neppure la volontà di tutti intesa come “semplice somma delle volontà
particolari”, è la volontà generale perché coincide con il bene comune.
Il Contratto sociale di Rousseau non genera semplicemente una struttura statale, ma avvia anche un processo di
educazione morale dell’uomo: infatti con il contratto l’uomo passa da una libertà individualistica ed egoistica a una
libertà sociale, acquista una coscienza comunitaria, sostituisce nella sua condotta la giustizia all’istinto. Infatti
Rousseau, che era anche un pedagogista, attribuiva al nuovo Stato il compito di educare l’uomo nuovo, di ricreare
l’essere stesso dell’uomo come cittadino.
Si noti che il contratto di Rousseau differisce da quelli di Hobbes e di Locke, perché la rinuncia alla libertà da parte
dei cittadini non avviene a favore di una terza persona, ma a favore della volontà generale amante del bene comune,
quindi in questa rinuncia viene ripristinata l’eguaglianza assoluta (che era la condizione felice dello stato di natura).
La dottrina politica di Rousseau è considerata la base teorica della democrazia contemporanea, in quanto afferma il
principio della sovranità popolare; tuttavia molti filosofi e storici successivi hanno individuato in essa anche
l’ideologia giustificatrice di regimi oppressivi e totalitari, per i seguenti motivi:
1) essa esige una socializzazione totale dell’uomo, per impedire che emergano e si affermino interessi privati. I
contrasti tra interessi privati e interessi comunitari devono essere eliminati, assorbendo i primi nei secondi e
impedendo, grazie alla completa riduzione dell’individuo alla società, che affiorino e rompano l’armonia
complessiva. Non c’è nulla di privato, tutto è pubblico o deve diventarlo; l’uomo è essenzialmente sociale, un
animale politico, il male viene identificato con gli interessi privati. Quindi l’uomo deve obbedire a quella coscienza
pubblica che è lo Stato, fuori del quale non ci sono che coscienze private o individuali, da condannare perché nocive;
scrive infatti Rousseau: “Affinché il patto sociale non sia una vana formula, esso implica tacitamente questo
impegno che solo può dare forza agli altri: che chiunque rifiuterà di obbedire alla volontà generale, vi sarà
costretto da tutto il corpo; ciò non significa altro che lo si obbligherà ad essere libero” La volontà generale,
incarnata nello e dallo Stato, è tutto. E’ il primato della politica sulla morale. La difesa del bene comune è tale da
condurre allo svuotamento dell’individuo, della sua individualità e al suo assorbimento senza resti nel corpo sociale.
In tal modo – annota Sergio Cotta “il contratto sociale dà bensì origine a uno Stato democratico – in quanto che il
potere vi appartiene non più a un principe o a una oligarchia, ma alla comunità (è questo il grande contributo di
Rousseau alla filosofia politica) – ma consacra altresì il dispotismo della maggioranza, che si ammanta dei
caratteri della totalità, per cui la sua volontà non solo è legge ma anche regola del giusto e della virtù. Dal punto
di vista politico, come da quello etico, alla persona umana viene così negata la sua libertà e ad essa, anzi, quando
si trovi in conflitto con la volontà prevalente, viene imposto il dovere di riconoscersi di essersi sbagliata e quindi
di sacrificare integralmente la sua ragione alla volontà collettiva con un vero e proprio atto di fede. Così sospinta
quasi da una fatale necessità, la filosofia come rivoluzione di Rousseau sfocia nello stato etico e totalitario”.
2) Questo rischio di annientamento della libertà individuale risulta ulteriormente aggravato quando si prende in
considerazione il problema dell’esercizio concreto del potere. Infatti la “volontà generale amante del bene comune” è
un concetto astratto; ma qual è la forza detentrice della volontà generale? Chi può farsi interprete del bene comune,
dell’interesse della collettività?
Rousseau considera la democrazia l’unica forma legittima di governo, ma ritiene che l’unica vera democrazia sia
quella diretta, in cui tutto il popolo riunito in assemblea delibera e legifera: ovviamente questo sistema è praticabile
solo in Stati molto piccoli (come le città-stato della Grecia antica o i cantoni svizzeri); quindi nella democrazia
rousseauiana il potere legislativo, esercitato dal popolo, ha la preminenza sugli altri poteri (Rousseau rifiuta la
dottrina liberale della divisione e dell’equilibrio dei poteri); nelle situazioni in cui la democrazia diretta non è
possibile Rousseau auspica che i governanti siano designati dal voto dei cittadini, però avverte che una
rappresentanza elettiva non esprime necessariamente la “volontà generale” (per esempio potrebbe esprimere solo gli
interessi della classe maggioritaria). Perciò la volontà generale potrebbe essere impersonata anche da un gruppo
minoritario di devoti al bene comune che istituiscono una specie di dittatura in nome dell’interesse generale
(addirittura egli afferma paradossalmente che “anche una monarchia può essere una repubblica”) .Questa dittatura
sarà tanto più oppressiva e totalitaria in quanto si eserciterà in nome del bene comune e avrà come fine la formazione
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dell’uomo nuovo; questa dittatura non avrà limiti in quanto non riconoscerà nessun diritto individuale (come abbiamo
detto prima, con il Contratto sociale ogni cittadino rinuncia a tutti i diritti naturali).
Per questo J.J. Rousseau è stato esaltato come il primo e più importante teorizzatore della sovranità popolare e della
democrazia (ispiratore delle rivoluzioni e delle Costituzioni democratiche del Settecento e dell’Ottocento), ma è stato
anche sottoposto a severe critiche da parte di pensatori liberali che hanno visto nella sua dottrina politica una grave
minaccia per la libertà individuale.
CRITICHE LIBERALI AL PENSIERO DI ROUSSEAU
Osserva in proposito il Mathieu: « il corpo politico rimane irrimediabilmente un’astrazione: chi, e in che modo,
potrà arrogarsi il diritto d’interpretarne, in concreto, la “volontà generale”? (…) Ogni atto compiuto in nome
della volontà generale sarà, in realtà, dispotico. I singoli, oppressi in nome di un principio astratto che si
pretende che impersoni la loro collettività, saranno infinitamente meno liberi che sotto l’oppressione di un
despota personale, che altre persone possono sempre, in qualche modo, limitare.»
Prosegue il Mathieu: “...Trent’anni dopo l’apparire del Contratto sociale (Amsterdam 1762), la rivoluzione
francese farà di quell’ipotesi astratta una realtà; che manifesterà, tuttavia, l’astrattezza e l’impossibilità del
proprio principio annientando e divorando se medesima. Chi rappresenta la volontà generale: l’assemblea della
Convenzione Nazionale? Certo; ma anche (perché no?) una frazione di essa: poniamo, i giacobini; o ancora
(perché no?) un singolo individuo, ad es. Robespierre. La volontà generale non è meno distinta da quella di
“tutti” che da quella di uno solo. Però chiunque la impersoni non tollererà nemmeno il sospetto che un individuo
qualsiasi possa far valere, di fronte ad essa, la propria singola volontà privata; e instaurerà il Terrore. D’altro
canto, chiunque a volta a volta impersoni la volontà generale, non avrà alcun fondamento per impersonarla lui,
piuttosto che un altro; e perciò sarà ogni volta decapitato, perdendo, con la testa, il principio di quella volontà
individuale che non ha diritto di ergersi di fronte alla volontà collettiva. Si può dire che raramente un’idea abbia
trovato nella storia un fenomeno che la rappresentasse con altrettanta evidenza” (Vittorio Mathieu, op. cit.)
Il possibile esito dispotico del Contratto sociale, e il suo legame con i regimi totalitari del Novecento (in particolare
con i regimi comunisti che, non a caso, si definivano “democrazie popolari”)
è stato analizzato in un testo
considerato oramai un classico della storia delle ideologie politiche: “Le origini della democrazia totalitaria” dello
storico ebreo-polacco Jacob Talmon: il volume comparve nel 1952, dunque in un periodo nel quale la cultura
occidentale si stava interrogando su che cosa avesse determinato la nascita di ideologie e regimi totalitari. E Talmon
si inseriva in quel filone di studi in modo originale, cercando nel pensiero di Rousseau, dei giacobini, di Babeuf, le
radici di una forma di democrazia alternativa a quella liberale: la democrazia totalitaria, appunto. Entrambe
esaltavano la libertà, ma la concepivano in modi radicalmente differenti. Per la democrazia liberale la libertà è
anzitutto assenza di coercizione; per quella totalitaria essa coincide con la realizzazione di un fine collettivo, giusto e
perciò indiscutibile. Mentre la prima ha un’idea intrinsecamente imperfetta dell’agire politico, la seconda concepisce
la politica come strumento per attuare la Verità e il Bene. Per conseguenza, le opinioni differenti, che costituiscono il
sale della democrazia liberale, finiscono col rappresentare un crimine nella visione democratico-totalitaria. Secondo
Talmon, accanto alla democrazia di tipo liberale è esistita, fin dalle origini nel Settecento, una tendenza verso una
democrazia "totalitaria", un’aspirazione messianica a realizzare una società perfetta.
Al principio dell’ 800 il liberale Benjamin Constant si era chiesto come mai Rousseau, "genio sublime che era
animato dal più puro amore della libertà", avesse fornito "pretesti funesti a più di un tipo di tirannia".
Talmon si poneva in fondo il medesimo interrogativo e cercava di dare una risposta analizzando le antinomie del
pensiero giacobino, la sua concezione “assolutista” della politica, la contraddizione irrisolvibile tra l’esaltazione della
libertà e la volontà di attuare un fine collettivo fissato razionalmente e dunque indiscutibile.
Ambedue gli esiti teorici della dottrina rousseauiana trovarono pratica realizzazione nella Rivoluzione francese che,
alla fine del secolo dei Lumi, sconvolse le strutture politiche e sociali dell’Ancien Régime e inaugurò una nuova
stagione della storia europea.
L’ILLUMINISMO E LA STORIA
La storia è uno dei grandi temi affrontati dall’Illuminismo, che se ne vanta come di una propria scoperta originale.
In effetti gli Illuministi, con Pierre Bayle, autore del “Dizionario storico e critico”, danno inizio alla moderna
storiografia, che si basa sull’accer-tamento dei fatti mediante l’analisi e il confronto delle fonti, delle testimonianze e
del maggior numero possibile di notizie. Infatti per Bayle il dovere dello storico è quello di raccontare i fatti,
lasciando da parte le opinioni personali e i pregiudizi.
Con gli Illuministi la ricostruzione storica diventa semplice connessione di eventi empirici, secondo il rapporto di
causa ed effetto, ed esclude ogni causalità e finalità trascendente. Tuttavia anche la ricerca storica illuminista appare
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spesso orientata e diretta da un criterio: molti Illuministi (per esempio lo stesso Voltaire) vogliono rintracciare nella
storia il progressivo emergere della ragione e la vittoria della razionalità umana sull’ignoranza e sulla superstizione.
Perciò essi non esitano a condannare in blocco tutta l’età medievale come età dell’oscurantismo e del fanatismo,
mentre esaltano l’età classica e il Rinascimento in quanto età razionali. Per questo atteggiamento l’Illuminismo è
stato accusato, soprattutto dai Romantici, di astrattezza e di antistoricismo, perché ha preteso di giudicare tutte le età
della storia in base a un principio estrinseco e metastorico (il progresso razionale), e si è reso quindi incapace di
cogliere la peculiarità e la ricchezza di ogni civiltà umana.
Un altro aspetto del razionalismo settecentesco si manifesta nel cosmopolitismo: gli Illuministi, poiché fondano
l’umanità esclusivamente sulla ragione (si è uomini perché si è razionali), non attribuiscono importanza ai legami
creati dalla tradizione e dall’appartenenza etnica, e quindi non attribuiscono importanza alle differenze e alle identità
nazionali, all’idea di nazione: essi si sentono prima di tutto cittadini del mondo, cioè cosmopoliti.
L’ENCICLOPEDIA
L’Illuminismo, proprio per il suo carattere operativo, per la sua tendenza a trasformare la realtà, non poteva
rimanere una teoria riservata a una élite di intellettuali; esso esigeva di diffondersi, di raggiungere e di persuadere il
pubblico, di educare la parte istruita della popolazione. C’è dunque nell’Illuminismo una forte tensione pedagogica e
propagandistica. (La plebe analfabeta però ne resta esclusa: Voltaire scriveva: “Mi sembra essenziale che vi siano
dei pezzenti ignoranti; non sono i braccianti che bisogna istruire, è il buon borghese, è l’abitante della città.
Quando il popolo pretende di ragionare tutto è perduto”, e Diderot ribadiva: “I progressi dei lumi sono limitati,
non raggiungono i sobborghi, dove il popolo versa in una irrimediabile condizione di brutalità. Il numero della
canaglia resta quasi sempre immutato. La massa è bestiale e ignorante”).
Fra gli strumenti di diffusione della cultura illuminista fu particolarmente importante l’ENCICLOPEDIA.
L’Enciclopedia era il primo tentativo di mettere a disposizione del pubblico un repertorio sistematico di tutte le
conoscenze umane. Essa presentava, in ordine alfabetico, i risultati della ricerca illuminista nel campo della filosofia,
della scienza sperimentale, della tecnica, della religione, della politica e dell’economia, della critica letteraria e
artistica, della storia. L’Enciclopedia, diretta da Denis Diderot e Jean D’Alembert (vi collaborarono anche Voltaire,
Montesquieu e Rousseau) fu pubblicata in Francia dal 1750 al 1772, con molte interruzioni e difficoltà per gli
ostacoli frapposti dalla censura. Quando venne finalmente portata a termine l’Enciclopedia comprendeva 17 volumi
più 11 volumi di tavole illustrative: l’immediato successo (anche finanziario) fu reso palese dalle numerose ristampe
e traduzioni.
SULLE ORIGINI ILLUMINISTE DEL RAZZISMO MODERNO
Un atteggiamento critico esige che i movimenti storici e culturali, così come i protagonisti della storia, vengano
compresi nella loro complessità, evidenziando anche quegli aspetti ambivalenti o contraddittori che spesso
accompagnano l’esperienza umana; accade invece che certi periodi, movimenti e personaggi vengano ridotti e
presentati, in modo semplicistico, come modelli da esaltare o da rifiutare in toto (si tratta di operazioni ideologiche e
propagandistiche, che poco hanno a che fare con la storiografia “seria”). L’Illuminismo costituisce appunto, assai di
frequente, un “caso” di esaltazione incondizionata. E’ incontestabile che l’Illuminismo abbia dato un contributo
importante alla civiltà europea, ma tale contributo non è privo di ombre e di contraddizioni: abbiamo già accennato
sopra alle riflessioni sulle “origini della democrazia totalitaria” di Talmon e alla “dialettica dell’Illuminismo” di
Adorno e Horkeimer; in questo capitolo segnaliamo anche il fatto che l’antropologia illuminista ha posto le basi del
razzismo biologico moderno.
Le origini illuministe delle teorie razziali sono state indagate in profondità da George Mosse in “Il razzismo in
Europa”.
Accenno qui brevemente ai termini della questione: l’illuminismo, interessato ad affrontare
“scientificamente” il problema “uomo”, si è anche interrogato sulle differenze somatiche tra le razze umane (colore
della pelle, conformazione del cranio, corporatura ecc.); su questo punto si sono fronteggiate due teorie:
1) quella monogenetica, che attribuisce un’origine comune a tutti gli esseri umani, e che quindi considera le
differenze come effetti di trasformazioni prodotte da ambienti e climi diversi (questa teoria fra l’altro concorda con la
Bibbia, che considera Adamo ed Eva progenitori di tutti gli uomini);
2) quella poligenetica, che afferma che esistono differenze originarie e sostanziali tra le razze umane, differenze non
riconducibili ad adattamenti all’ambiente (infatti la concezione fissista delle specie, sostenuta dal naturalista svedese
Linneo (1707-1778), non ammetteva nessun tipo di evoluzione e di adattamento all’ambiente); pertanto le razze
umane hanno diverse origini. Nel secolo dei Lumi le ricerche anatomiche sui negri si moltiplicano e sembrano
confermare questa tesi: la pigmentazione dei negri non dipende dagli influssi climatici, i negri presentano sotto
l’epidermide un “reticolo mucoso” assente nei bianchi ecc.; insomma fra i negri e i bianchi c’è una barriera biologica.
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Pertanto, nel corso del Settecento, la teoria che viene accettata quasi universalmente è quella poligenetica, e
certamente tra le ragioni del suo successo c’è anche il fatto che essa è funzionale alla polemica anticristiana degli
Illuministi (in quanto contraddice la Bibbia), e che può essere utilizzata per giustificare lo schiavismo (nel Settecento
la tratta dei negri è ancora intensamente praticata).
Infatti dalla teoria poligenetica molto facilmente si desume una gerarchia biologica e una gerarchia di valore. Spinge
in questa direzione anche l’antica idea della “catena dell’essere”: secondo questa idea c’è un ordine cosmico per cui
tutte le creature sono disposte gerarchicamente dal cielo alla terra, da Dio e dagli angeli fino agli organismi più
bassi, senza soluzioni di continuità. Scrive G.Mosse: “Il mito potente della catena dell’essere spiega perché gli
scienziati si siano tanto preoccupati di trovare l’ «anello mancante» della creazione che unisse l’uomo agli
animali in una ininterrotta catena della vita. E in realtà, durante il secolo XVIII, l’animale posto più in alto, che
di solito si pensava fosse la scimmia, era collegato con il tipo di uomo posto più in basso, di solito ritenuto essere
il nero. Così il concetto della catena fu conservato anche quando fu negata l’esistenza degli angeli e quando si
pensò che Dio fosse innato nell’uomo e nella natura. La «catena dell’essere» ora cominciava e finiva sulla Terra”
.
Tra i più accesi sostenitori del razzismo biologico e gerarchico c’è anche Voltaire, che desume dalle varietà e dalle
differenziazioni «scientificamente sperimentate» dei convinti giudizi di valore. Per Voltaire le enormi differenze
esistenti tra le razze umane sono incontestabili, e poiché hanno dato origine a civiltà di diverso livello, occorre trarne
classificazioni gerarchiche: i vari gradi di umanità corrispondono ai vari gradi di civiltà, e Voltaire non esita a
definire “animali” i negri, i lapponi e altri gruppi umani (scrive, per esempio: «i bianchi barbuti, i negri lanosi, i
gialli criniti e gli uomini dalla faccia gialla non discendono dal medesimo uomo», e «i Negri e le Negre,
trasportati nei paesi più freddi, continuano a produrvi animali della loro specie»). In modo del tutto conseguente
giustifica lo schiavismo (nel Saggio sui costumi: «I negri sono, per natura, gli schiavi degli altri uomini») e investe
parte del suo cospicuo patrimonio nelle azioni di una compagnia di navigazione che esercita la tratta dei negri.
Del resto il razzismo di Voltaire non si limita ai popoli cosiddetti selvaggi, ma si estende anche agli ebrei, che nel
Dizionario filosofico vengono definiti “popolo ignorante e barbaro, che unisce la più sordida avarizia alla più
detestabile superstizione e all’odio incrollabile per tutti i popoli che li tollerano e li fanno arricchire”. Secondo lo
storico dell’antisemitismo Léon Poliakov è un mistero che «Voltaire resti nel ricordo degli uomini come il
principale apostolo della tolleranza, a dispetto di uno spietato esclusivismo occidentale a cui non si saprebbe dare
altro nome che quello di razzismo. Nessuno come lui ha tanto diffuso e ampliato le aberrazioni della nuova età
della “scienza”».
Naturalmente nell’Illuminismo ci sono state anche altre tendenze che hanno riconosciuto e valorizzato l’umanità dei
popoli non-europei (vedi per esempio il mito del “buon selvaggio) e molte voci si sono levate contro la tratta e la
schiavitù. Tuttavia le teorie razziste settecentesche sono state largamente condivise (anche da Kant e da
Montesquieu, p.e.) e sono confluite, nel secolo successivo, nell’antropologia positivista e poi, da questa, nelle
ideologie razziste, nazionaliste e antisemite del XX secolo.
Oggi gli scienziati respingono unanimemente e totalmente le teorie razziste e sostengono che tutti i popoli umani
appartengono ad un’unica specie e si differenziano per aspetti marginali, prodotti dalle influenze ambientali; ma non
dimentichiamo che nel Settecento queste teorie venivano sostenute in quanto “scientifiche”: ciò ci induce a riflettere
sul problema della verità scientifica, sui suoi limiti, le sue pretese e la sua fallibilità.
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