Julio Velasco - Università degli Studi di San Marino

Transcript

Julio Velasco - Università degli Studi di San Marino
Presentazione del Master per la Gestione delle Risorse Umane in ambito
sportivo. Psicologia e Pedagogia dello sport
28 ottobre 2004
Sala Conferenze Multieventi Sport Domus
Serravalle – RSM
JULIO VELASCO (Commissario tecnico sportivo)
Il ruolo dell’allenatore
Ascoltando l’introduzione del professor Stella, ho preso una pagina di appunti: ci sono tantissimi temi
interessanti che dovrebbero far riflettere chi sta gestendo la Facoltà di Scienze Motorie, vecchia
Educazione Fisica. Stiamo formando professori di Educazione Fisica, laureati in Scienze Motorie, che
teoricamente sanno molte cose, ma non sanno poi fare le cose che vogliono insegnare, non hanno
nemmeno l’habitus mentale di chi fa sport. Tutto ciò provocherà, secondo me, gravissime
conseguenze allo sport italiano nei prossimi anni. Ho partecipato a un dibattito del CONI a Roma,
quando si voleva fare dell’Educazione Fisica un corso di studi a livello universitario; lo dissi allora, in
tempi non sospetti, che vedevo un’eccessiva preoccupazione nel far diventare laurea universitaria
questa carriera. Secondo me la proposta presentava una doppia lettura: la prima, positiva, di elevare a
categoria universitaria un’attività che ormai è una delle più importanti nella società moderna,
soprattutto fra i giovani; la seconda, negativa, perché presenta il rischio di far nascere una sorta di
complesso nei professori di educazione fisica, di farli sentire solo come ‘muscolari’ in un ambiente di
intellettuali. A scuola il professore di Educazione Fisica era quello che si occupava non del corpo ma
esclusivamente del muscolo, mentre i professori di matematica, storia, letteratura, filosofia si
occupavano di qualcosa di ben più prestigioso: lo spirito, la mente, l’intelletto. E’ a partire da qui, che
fra noi, - io sono anche professore di educazione fisica – si è sentita l’esigenza di dimostrare che ci
siamo: anch’io penso, anch’io faccio pensare, e mi occupo di altre disquisizioni che non abbiamo il
tempo di sviluppare in questa sede, e che non hanno tanto creato dei danni, quanto hanno fatto perdere
moltissimo tempo ad atleti giovani che volevano imparare dello sport; perché come per tutte le cose,
quando si esagera esse diventano negative, non perché sono negative in sé, ma perché sono applicate
male. Credo che anche questi siano temi da suggerire per il nascente Master.
In questa prima introduzione sul ruolo dell’allenatore, vorrei dire innanzitutto che c’è una differenza
enorme tra sport individuale e sport di squadra, non solo per il ruolo dell’allenatore, ma per tutti i
ruoli: dirigenti, psicologi, medici… C’è una differenza grandissima non solo perché nello sport di
squadra parliamo di gruppi, ma anche perché la caratteristica di chi fa sport individuale è
completamente diversa da quella di chi fa sport di squadra: le problematiche sono diverse, le
motivazioni sono diverse, le procedure anche. La seconda divisione molto grande, secondo me, è
quella di genere: nello sport, la facilitazione deriva dal fatto che le donne formano squadre di sole
donne e gli uomini di soli uomini (nell’ambiente lavorativo questo è un grossissimo problema, perché
in un’azienda uomini e donne lavorano insieme, e occorre gestirli a livello individuale, anche se poi
però questi soggetti convivono). Nello sport questa convivenza non c’è, almeno tra i giocatori, però ci
può essere nello staff e le differenze sono enormi. Quando allenavo la Nazionale Femminile mi è
naturalmente capitato di applicare metodologie, soprattutto dal punto di vista psicologico; vorrei
chiarire che non sono psicologo, anche se mi “hanno laureato” in tante cose dopo aver ottenuto
diverse vittorie, tra queste in psicologia; ma ho studiato filosofia e non psicologia. Però alcuni principi
di psicologia li applico, anche consapevolmente; quando li ho applicati alle donne – dopo che avevo
avuto riscontri positivi con bambini, adolescenti, giocatori di serie A, giocatori della nazionale, tutti
maschi – questi sono falliti clamorosamente. Allora mi sono dovuto ricredere e ho capito che
occorreva cambiare completamente registro, perché le differenze sono grandissime, sia dal punto di
vista psicologico, sia dal punto di vista delle procedure. Anche i meccanismi di potere che usano i
gruppi femminili sono completamente diversi da quelli usati dai gruppi maschili, nonostante tutti i
gruppi mettano alla prova l’allenatore. Questa è la prima cosa che un allenatore dovrebbe sapere; la
prima cosa che un qualunque gruppo fa - dai bambini di 10 anni a una nazionale, maschile o
femminile - è mettere alla prova il proprio allenatore per vedere chi comanda, così, semplicemente. Il
modo usato dai maschi, soprattutto se sono piccoli, è fare confusione, per vedere se uno è capace di
metterli in condizione di lavorare. Quando sono grandi si mettono davanti all’allenatore come a voler
dire: “Io sono grosso e forte, vediamo se hai il coraggio di affrontarmi!”. A volte lo fanno in modo
psicologico e a volte in modo fisico, comunque lo fanno. Le donne, come le figlie, usano invece la
seduzione. Io ho due figlie, ma conosco anche i meccanismi che regolano i rapporti tra padri e figli
maschi. Il bambino dice al papà: “Lasciami, lasciami andare!”, finché il padre, al limite della
sopportazione, risponde: “Va bene, vai!”. La bambina, invece: “Dai papy…!”, lo seduce, per ottenere
la stessa identica cosa. Non parliamo poi di quello che succede quando le donne sono un gruppo:
usano sempre la seduzione, per cui bisogna superare una prova diversa. Chi riesce facilmente a
fronteggiare il gruppo dei maschi, dei duri, superando brillantemente la prova, può soccombere
completamente di fronte alla seduzione, utilizzata dalle femmine, e questo è l’altro esercizio di potere
che il gruppo femminile applica all’allenatore. Per cui le differenze relative al genere, tanto per dare
un esempio, sono enormi; anche il funzionamento dell’autostima e della sfida tra i maschi è diverso. Il
maschio vuole essere più forte dell’altro, vuole vincere con l’altro, si mette in competizione, e lo
stimolo di dire “Io sono meglio di lui” funziona moltissimo, tanto quanto il toccargli l’orgoglio. “Lui
ha detto che tu hai paura!”; “Come! Io non ho paura, adesso gli faccio vedere!”. Queste cose
funzionano quasi sempre. Con le donne non funzionano. Una donna compete prima di tutto con se
stessa, poi con le altre, perché la donna tende a colpevolizzarsi molto più di quanto faccia un maschio,
tende ad avere un rapporto con l’errore bruttissimo, peggio ancora del maschio, per cui quando sbaglia
lo sopporta molto, molto male. La donna è molto applicata, ma meno partecipativa. Quando ho
cominciato ad allenare le donne sono andato a consultarmi con una vecchia amica di università,
preside di una scuola elementare in Argentina. Le ho chiesto: “Come sono da piccoli maschio e
femmina? Quali differenze ci sono?”. Lei mi ha fatto un esempio molto chiaro: “Quando si fanno i
calcoli matematici orali non vince mai una bambina, vince sempre un maschio. Perché? Primo, perché
alla bambina non importa vincere; per lei è sufficiente sapere che ha pensato il risultato giusto, e già
sta bene. Secondo, perché di fronte alla possibilità di dire per prima un risultato sbagliato, la bambina
non sopporta la situazione, per cui preferisce non vincere piuttosto che rischiare la figuraccia di dire
un risultato che non è quello giusto. Il maschio dice dieci volte un risultato sbagliato, e quando
l’undicesima volta lo dice bene urla come se avesse fatto goal, e dice: “Sono bravissimo!”; ma alle
dieci volte che ha sbagliato non ci pensa, basta quell’undicesima in cui l’ha detto bene.” Infatti di
solito quando si allena un maschio, soprattutto se è bravo, in qualunque sport, ma soprattutto nel
calcio, occorre insegnargli che non può pretendere di fare sempre il “Maradona”, bisogna piuttosto
insegnargli a passare la palla subito; e se fa pallacanestro che non deve tirare sempre lui; e se fa
pallavolo che non deve cercare il colpo più difficile. Con le donne è esattamente il contrario: bisogna
incentivarle a sbagliare al fine di sviluppare la loro creatività nello sport, perché tendono a fare sempre
lo stesso colpo, sempre la stessa azione per avere la sicurezza di non cadere nell’errore. Per cui sono
queste le prime diversità fra sport individuale e di gruppo e fra maschio e femmina che mi sento di
sottolineare per il ruolo dell’allenatore.
Tra sport individuale e sport di squadra c’è poi soprattutto un elemento che credo sia molto chiaro,
anche se io non ho mai allenato giocatori di sport individuali: lo sportivo individuale lotta molto
contro il limite, suo o di chiunque altro: deve superare un tempo, deve superare una distanza, e questo
è un elemento straordinario di motivazione del superamento di se stesso e della performance sportiva;
non deve rendere conto a nessuno più di tanto. L’allenatore trova un grande, un fenomeno, e fa anche
la sua carriera, sia come allenatore sia come psicologo; ad esempio un allenatore trova Tomba: non
importa se lo sci italiano in quel momento raggiunge buoni risultati; Tomba li raggiunge e questo
basta! Per dieci, quindici anni passa alla storia come un fenomeno, e con lui il suo allenatore.
Lo sport di squadra è tutta un’altra cosa, perché ci sono dei limiti da superare, ma intanto si vive in
condivisione con gli altri, la mia performance dipende anche dagli altri, e io posso usare questo come
alibi, posso scaricare, o no, sugli altri problematiche che sono mie. Lo sportivo individuale non ha su
chi scaricare i suoi eventuali insuccessi, per cui ha una pressione enorme su di sé, e deve assumersela
nella sua totalità. Un’ulteriore problematica relativa allo sport di squadra è data dalla gestione del
gruppo, delle persone, dei rapporti. In questo senso, siccome si parlava del ruolo dello psicologo, sia
nell’uno che nell’altro caso credo che le differenze siano ancora enormi. Perché mentre nel caso dello
sportivo individuale lo psicologo deve risolvere alcuni aspetti del rapporto allenatore – psicologo medico - dirigente sportivo, negli sport di squadra questa problematica aumenta moltissimo. Infatti,
negli sport di squadra l’allenatore assume il ruolo di leader; è il leader di quel gruppo, ne è il capo.
Uno dei problemi che si presentano nella gestione di un gruppo è che questa leadership sia unica o
comunque condivisa. A volte il dirigente o lo psicologo, molto vicini a una squadra, possono intaccare
la leadership dell’allenatore. La leadership sportiva, come tutte le leadership, non può essere accettata
solo quando è corretta, quando non commette errori; la leadership deve essere accettata sempre, anche
quando il leader sbaglia, perché se non è accettata quando il leader sbaglia, essa va in crisi. Tutti
commettiamo errori: il giocatore sbaglia un rigore, o schiaccia una palla fuori senza muro; anche noi
allenatori commettiamo errori. Però, perché il gruppo funzioni, occorre che tutte le organizzazioni, le
istituzioni, le tattiche, vadano pensate anche per quando le cose dovessero andare male; poi se vanno
bene, tanto meglio. Però, ripeto, vanno pensate anche per l’eventualità che le cose possano andare
male, perché se in quel momento di difficoltà la leadership va in crisi perché il leader ha sbagliato,
allora va in crisi per sempre. Per cui questa integrazione di diverse persone all’interno di uno staff per
la gestione di squadra va coordinata con molta delicatezza. La seconda problematica, quella di
allenare la mente con l’intervento di specialisti, in questo caso gli psicologi, prevede che lo psicologo
conosca profondamente il problema sportivo. Perché dico questo? Mi ricordo quando studiavo
all’università; il tema salute e malattia, negli anni settanta, era di grande attualità e il dibattito tra gli
studiosi di filosofia e psicologia verteva spesso sulle domande: cos’è malattia? Cos’è salute mentale?
Cosa è normalità?
Lo sport, come l’arte, quando è ad alti livelli diventa di élite, e quindi esce dalla cosiddetta
“normalità”. A volte lo psicologo, il maestro, la famiglia tende a portare la cosiddetta “normalità”
nello sport, ma il rischio è che se riusciamo a farlo diventare “troppo normale”, lo distruggiamo. Ci
sono tanti giocatori sportivi che, grazie a una caratteristica molto vicina alla nevrosi, riescono a essere
campioni, e se gli curiamo troppo quella caratteristica come sportivi li distruggiamo. Quest’ultimo è
un punto difficilissimo, delicato, perché noi allenatori non sappiamo quanto ci dobbiamo servire di
questa caratteristica vicina alla nevrosi per ottenere il risultato, e quanto invece dobbiamo lavorare sui
campioni affinché si creino le condizioni per una loro vita migliore, cercando di fargli superare la
“cosiddetta nevrosi” che però nello sport li rende unici. E’ un tema molto delicato. L’esempio più
evidente è Mike Tyson, l’aggressività che aveva, e che non ha più; Mike Tyson era normale, era in
salute mentale? Era già da trattare? Una cosa è certa: senza quell’aggressività lui non sarebbe mai
stato Mike Tyson. Ci sono giocatori che ho conosciuto (ne ho anche avuto uno, e ovviamente non farò
nomi, che non era esagerato considerare ossessivo!) che potrei definire ossessivi: si allenavano,
dormivano, mangiavano e basta! Erano straordinari da allenare, perché dicevo loro una cosa e bastava
quella volta perché si correggessero. Gli anni passano, e quando gli atleti cominciano a diventare più
adulti questa stessa ossessione può diventare pericolosa per la loro vita personale, perché non si tratta
più solo del ragazzo di vent’anni che gioca e basta, ma è anche il padre famiglia, il marito, e
quest’ossessione può creare dei problemi (lo sportivo può essere così ossessivo che poi non si occupa
dei problemi della famiglia, per cui si comincia a complicare tutto). Però quella caratteristica ossessiva
lo ha portato a essere uno dei migliori del mondo, per cui c’è qualcos’altro da considerare. Primo:
occorre non indebolire la leadership; secondo: occorre considerare il rapporto tra caratteristiche
dell’atleta e performance. Quando parlavo d’indebolimento della leadership mi riferivo al giocatore,
all’atleta in generale, ma soprattutto al giocatore di squadra, con caratteristiche fortemente
adolescenziali. Primo: l’atleta è quasi sempre molto giovane, spesso addirittura un adolescente, e di
questo a volte i tifosi non se ne rendono conto: “Ma lui è un professionista…!” deve saper gestire bene
la situazione, ma ha solo 23 anni, anche se prende 6 miliardi, ha sempre solo 23 anni. (Quando, ad
esempio, Ronaldo è arrivato in Italia aveva 22, 23 anni e doveva gestire tutto.) Secondo: perché vive
sempre in branco, come gli adolescenti; quando una persona diventa adulta non vive più sempre in
gruppo come quando era adolescente. I giocatori hanno anche 30 anni e hanno un papà, che è
l’allenatore o il presidente, che decide per loro, che gli mette dei limiti, cosa che un adulto della stessa
età di solito non ha più. Come tutti gli adolescenti, l’atleta quando si trova in difficoltà fa come con
papà e mamma: se papà gli ha detto di no, lo va a chiedere alla mamma. Se la mamma gli dice di no,
prova con il nonno, se c’è, finché ottiene quel che vuole; se questo succede in una squadra è un
disastro. Può essere un problema anche in una famiglia, però lo è molto di più in una squadra, per cui
così come nella famiglia, credo, dovrebbero mettersi d’accordo il papà e la mamma: se uno dice di no,
l’altro anche deve dire di no, in una squadra questo aspetto è fondamentale. Per cui, secondo me,
quelli che lavorano, che allenano la mente insieme all’allenatore, dovrebbero tenere conto di questo
aspetto. E soprattutto dovrebbero tenere conto che non sempre capire tutto è di per sé positivo. E’ una
frase rischiosa questa che sto dicendo. L’altro giorno ho partecipato a un dibattito di una psicologa
mia amica che ha operato sempre nell’ambito dell’educazione. Le ho fatto una domanda: “Perché
fuori dall’ambiente della psicologia tutti dicono che i peggiori genitori sono gli psicologi?”. Forse non
è vero, però è molto popolare questa affermazione; forse questa idea è nata perché ci si accorge che i
figli degli psicologi non sono semplici. Io mi pongo una domanda: “Non sarà forse perché il genitore
psicologo vuole capire troppe cose? E che a volte è meglio dire: Questo non si fa! Perché? Perché lo
dico io! E basta! Questo non si fa perché io sono tuo padre e ti dico di no! Perché a volte il capire
troppo crea insicurezza, crea troppe varianti, troppe variabili, troppo tutto, che l’adolescente e il
bambino non sono in grado di affrontare”. E’ chiaro che questo significa anche comprendere bene il
ruolo dell’adolescente. La mia generazione, che ha fatto il Maggio Francese e tutto quello che è
venuto dopo, ha combattuto quell’autorità, l’autoritarismo assoluto, senza discussioni, della vecchia
generazione che non teneva in nessun conto le esigenze dell’adolescente, non cercava affatto di
capirlo ma, osservando il mondo degli adolescenti di oggi, dobbiamo constatare che in alcuni casi
sarebbe meglio esercitare di nuovo un’autorità “meno comprensiva”. Per cui, ci sono da capire tante
cose, ma occorre anche vedere come tutto può funzionare dal punto di vista operativo, e non solo
capire le cause, perché altrimenti, e qui ritorno al nostro tema, soprattutto le squadre diventerebbero
solo un gruppo adatto per una ricerca antropologica. In un gruppo di ricerca antropologica ci può
stare, come in tutte le ricerche, il metterci anni e anni per riuscire a capire una cosa, e se dopo 30 anni
di finanziamenti non si riesce a capire, si dice: “Adesso prendiamo un’altra strada della ricerca”. In
una squadra, intanto che cerchiamo le cause, si opera, e se sbagliamo come operare, le conseguenze le
avremo immediatamente. Intanto i fondi non ci saranno più, questo è poco ma è sicuro, e
probabilmente dovremo cambiare strada, ma non in quella squadra, perché se perde molto le
conseguenze saranno quelle dell’eliminazione dal gioco. Detto questo, penso che il primo ruolo
dell’allenatore sia quello di educare. Questa affermazione non deve essere intesa in senso moralistico,
ma credo che sia sostanzialmente vera. Anche perché per un allenatore d’alto livello competitivo ce ne
sono altri cento che formano i giocatori e gli atleti nel settore giovanile, delle polisportive, delle
scuole, ecc. Per cui è da evitare, nell’ambito sportivo, parlare di sport prendendo come unico modello
lo sport ad alto livello, perché numericamente è quello meno praticato. E anche le possibilità di lavoro
di tutti noi - allenatori, psicologi ecc. – saranno maggiori in un ambito non di altissimo livello, che in
uno di altissimo livello. Educare: qual è la prima cosa, secondo me, a cui un allenatore deve attenersi
per educare? La prima in assoluto è quella di educare a rispettare le regole, perché tutti gli sport non
sono altro che giochi con regole molto rigide e numerose. Questa è una caratteristica che molti che
operano nello sport non hanno colto, o non hanno studiato. Ad esempio, prendiamo il calcio, com’è
nato? Il calcio è nato con una palla contesa tra due paesini in Inghilterra, e la squadra che vinceva era
quella che portava via la palla al paese avversario. E lì erano botte…c’era di tutto! Giocava un paese
contro l’altro. Perché si è cominciato a calciare la palla? Perché faceva più metri se uno le dava un
calcione piuttosto che se uno la portava sotto braccio, però c’era anche chi la portava sotto braccio.
Allora quello grosso la portava sotto braccio, quello piccolo le dava un calcio. Però non c’erano regole
di nessun tipo, valeva tutto. Se vedete una partita di calcio fiorentino, notate che uno corre con la palla
e ci sono dei gruppetti per terra che si avvinghiano per trattenersi l’un l’altro. Perché? Perché il modo
di giocare è: “Questo è bravo, allora questo che è bravo lo prendiamo in due, lo teniamo tutta la partita
come in una lotta greco-romana”… e gli altri intanto giocano. Poi si è cominciato a mettere delle
regole per farlo diventare un gioco un po’ più interessante finché qualcuno ha detto: “Io vorrei giocare
senza questo contatto fisico”, e si è diviso il rugby dal calcio (quelli del rugby a quelli del calcio
dicono che sono dei delicati che non vogliono il contatto). Nel calcio all’inizio si poteva saltare contro
il centravanti in area, senza nessun problema, infatti i centravanti una volta erano tutti grossi perché
potevano caricare il portiere; finché hanno detto che il portiere non poteva essere caricato in area,
allora sono nati i centravanti più veloci, non grossi. Le regole determinano le caratteristiche di uno
sport; la caratteristica di uno sport è data dalle sue regole, e ogni volta che uno sport cambia le regole
cambia tutto, a partire dal modo di giocare. Insegnare a rispettare le regole, e adattarsi alle regole, è il
primo elemento educativo di cui un allenatore dispone. Ci sono gruppi di ragazzini che alle regole
dello sport si adattano velocemente perché le accettano, le condividono, e magari non si adattano a
regole comportamentali perché non le accettano come fanno per le regole dello sport. Già questo è
uno strumento interessante per lavorare dal punto di vista educativo. Il secondo elemento
fondamentale per educare attraverso lo sport o nello sport, è educare a vincere e a perdere, perché non
è detto che chi vince sa vincere, e non è detto che chi perde sa perdere. Credo che lo sport sia uno
strumento straordinario, intanto per smentire quelle mamme che dicono al proprio bambino che lui è il
più bello, il più intelligente, il più bravo…ecc., perché poi questo bambino esce nel mondo reale e
dice: “Ma come, mia mamma mi ha detto che io ero il più bravo, e risulta che questo sembra più bravo
di me, allora c’è qualcosa che non va!”. Vedo molto spesso, soprattutto nei film americani, una cosa
che sembra molto normale, ma che secondo me è tragica! Il padre che dice al figlio “campione”: è una
cosa terribile; sembra una cosa normale, ma è una cosa terribile! Perché il figlio dovrebbe essere un
campione? Perché mai? “Perché mio figlio è già campione!”. Vediamo però se è davvero campione:
dovrà giocare e vincere per essere considerato tale; se no, non è un campione, anche se è mio figlio.
L’insegnare che ci può essere uno più forte di me non significa che io sia una porcheria! Se io non
sono il migliore, non per questo sono una porcheria: è un credo fondamentale dello sport. Perché c’è
chi vince, ed è il primo; ma c’è chi retrocede, c’è chi è a metà, e c’è chi ha un fisico per arrivare
ultimo e invece riesce ad arrivare penultimo, e allora ha già ottenuto una vittoria contro i suoi limiti;
l’idea, il concetto di cosa significhi vincere o perdere credo sia fondamentale. Oggi sento troppo
spesso dare per scontata l’idea che l’importante è partecipare! No, l’importante è vincere! Intanto
questa famosa frase denota una grande ignoranza di storia sportiva perché Decoubertin, quando diceva
che l’importante è partecipare, non si riferiva alla gara: Decoubertin si riferiva alla partecipazione alle
Olimpiadi, perché oggi tutti vogliono partecipare alle olimpiadi, ma quando lui ha istituito le
Olimpiadi moderne nessuno voleva parteciparvi. Per cui lui, con questa idea di partecipare, diceva ai
Paesi: partecipate, iscrivetevi alle Olimpiadi, l’importante è partecipare! Questa puntualizzazione è
riferita a questa specifica pagina della storia sportiva; il partecipare alle gare è comunque importante.
Io credo che il piacere di giocare, di partecipare a una gara sia assolutamente intatto sia in un
professionista che in un bambino. Questo non significa che non importa vincere, ma lo sportivo a cui
non piace esserci non sarà mai un grande campione. Ai miei giocatori dico sempre che non è
sufficiente essere un grande professionista, non è sufficiente per vincere: ci vuole il cuore, ci vuole la
passione, ci vuole il piacere di giocare, ci vuole il piacere di sentire le mani sudate e lo stomaco chiuso
perché abbiamo la possibilità di perdere. Queste emozioni non passano mai, neanche con la più grande
esperienza; prima di una finale anche ai più grandi campioni sudano le mani e lo stomaco si chiude, e
questo gli piace e li caratterizza. E non è poi così difficile capire tutto questo. Ad esempio, prendiamo
spunto dalla vita quotidiana: sono andato una volta sulle montagne russe al luna park, ma non mi
succederà mai più. C’è gente che paga per sentirsi male; almeno gli sportivi vengono pagati per
sentirsi male, perché gli sudino le mani e gli si chiuda lo stomaco; invece c’è molta gente che non
capisce lo sportivo, ma paga per sentirsi male sulle montagne russe… e non mi dicano che è una
sensazione piacevole, perché non ci credo. Non è piacevole, allora cos’è? Perché pagano per andarci?
Perché è emozionante, spiacevole, ma è un’emozione. La gente vuole provare emozioni, perfino
spiacevoli, pur di sentire emozioni. E’ come vedere i film dell’orrore: non mi dite che sia piacevole,
magari alcuni faranno anche ridere perché troppo esagerati, ma altri insomma…uno poi ha gli incubi,
però è un’emozione forte. Ecco, se lo sportivo non ha il piacere della sensazione spiacevole prima di
una gara, non va bene. Gli deve piacere, non basta fare le cose da professionista; per cui vivere quella
sensazione, oltre al risultato, è un elemento caratterizzante lo sportivo. Ci sono tante mamme che
dicono: “Ma com’è possibile! Mia figlia non ha dormito tutta la notte perché domani ha la partita,
allora c’è qualcosa che non va!” Perché mai ci dovrebbe essere qualcosa che non va? Non dorme
perché vive una grande emozione. Alleluia, dico io! L’unica cosa terribile è la noia. “Ha pianto perché
ha perso una partita”: questo non è accettato, né dalle mamme né dalla professoressa di letteratura o di
filosofia; però la professoressa di letteratura vede straordinariamente bello che qualcuno pianga per
una poesia: il pianto per una poesia ha un valore morale, intellettuale, artistico straordinario. Il pianto
dopo aver perso una partita è un sintomo di nevrosi. In realtà i due pianti nascono da una medesima
motivazione: un’emozione. Chi piange per una poesia è perché si emoziona tanto che piange, è
bellissimo! Ma perché è così brutto piangere perché uno ha vinto o ha perso? E’ un’emozione. Il
problema è se quel vincere o perdere finisce lì o ce lo portiamo dietro. Dipende se il fatto di perdere è
associato al fatto che io piango perché mi sento che non valgo niente, o piango perché ho perso quella
partita, ma non per questo non valgo niente. E’ lì che noi dobbiamo intervenire per aiutare.
Un’altra cosa, secondo me fondamentale per gli operatori nello sport, soprattutto quando parliamo di
squadre, è l’idea che una squadra sia fatta da un gruppo e il gruppo composto di individui. Questo tutti
lo dicono ma non sempre poi si ha presente questa caratteristica, nel senso che spesso per fare gioco di
squadra si chiede implicitamente o esplicitamente di non essere fortemente individui; si pensa che una
squadra si crea quando si perde un po’d’identità, in funzione della squadra, e non che una grande
squadra è fatta dal rapporto tra forti individualità. Non è l’individuo che deve perdere la propria
identità, ma è l’allenatore che deve creare una squadra tenendo conto della diversità degli individui,
per cui deve tener conto di come funziona questo individuo con quello, perché se sono troppo simili
non va bene, e forse se sono troppo diversi nemmeno; e l’alchimia necessaria a costruire una squadra è
complessa, difficile, e soprattutto impossibile da conoscere a priori; la giusta alchimia si scopre
solamente strada facendo. Agli allenatori durante i corsi dico sempre che è molto importante leggere
alcuni libri di psicologia generale o anche di psicologia dello sport; però aggiungo che è altrettanto
importante leggere dei romanzi, perché anche nel miglior libro di psicologia dello sport si parla
sempre di stereotipi: il giocatore con queste caratteristiche, introverso o estroverso, sicuro o insicuro,
motivato o meno… si tratta sempre di stereotipi, non rispecchiano mai una persona com’è nella sua
interezza e nella realtà. Invece i personaggi di un romanzo sono persone che hanno caratteristiche più
complesse, non proprio come sono poi nella realtà, ma più simili rispetto allo stereotipo dello
sportivo, perché uno poi quando si trova di fronte un giocatore non si trova solo “l’introverso”,
“l’insicuro”, ma qualcuno con caratteristiche che non sempre possono essere generalizzate. Io ho
avuto giocatori di grandissima personalità in campo, tanto da dire: “Questo è un uomo forte”; magari
le ragazze lo guardavano e pensavano: questo è quello che mi piacerebbe per me! Poi uno lo vedeva
con la moglie… ed era un Boby, si comportava come un cagnolino! Ma è la stessa persona? Era la
stessa persona: in campo leader, forte, e con la moglie un cagnolino che faceva tutto quello che diceva
lei. Capire l’individuo è il primo problema che un allenatore si deve porre, anche se allena una
squadra; se invece allena negli sport individuali per forza deve capire quell’atleta; ma quando è un
gioco di squadra, prima occorre capire gli individui, poi creare con questi un gruppo, e quando si crea
il gruppo già cambia la prospettiva, perché il gruppo non è solo la somma degli individui che lo
compongono, ma una entità diversa, come ben tutti sanno. Il primo problema che ci dobbiamo porre è
capire qual è la caratteristica principale che deve avere un gruppo; qual è la preoccupazione principale
che noi dobbiamo avere nei confronti del gruppo. In base alla mia esperienza posso dire che la
caratteristica principale è l’unione fra i suoi componenti e che noi allenatori non siamo parte del
gruppo. E’ dura dirlo e viverlo, ma noi non siamo parte del gruppo; anche se abbiamo ottimi rapporti
con i nostri giocatori, noi non facciamo parte del gruppo (e se vogliamo essere parte del gruppo
diventiamo come quei genitori che quando fanno la festa con gli amici della figlia o del figlio, si
mettono a ballare insieme a loro per essere molto giovanili e amici dei figli, ma ricordiamo che se c’è
una cosa che i figli non sopportano è proprio quella. I genitori facciano i genitori e i figli facciano i
figli. Noi balliamo tra noi e loro ballino tra loro). Noi siamo fuori dal loro gruppo; quello che noi
possiamo fare è non dividere il gruppo. Questa è la prima cosa che dobbiamo e possiamo fare, nel
senso che è meglio tutto il gruppo unito, perfino contro di noi, che non il gruppo diviso. Questo
implica accettare anche la solitudine del potere, che è un altro tema classico. Per questo sarebbe
importante avere uno staff, se si può, per avere qualcuno su cui appoggiarsi, anche per andare a cena e
chiacchierare raccontando che abbiamo perso quattro partite consecutive. Ci si vede con lo staff e si
parla, ci si sfoga, e si dicono tante cose che poi davanti ai giocatori non si dicono mai, perché con i
giocatori bisogna essere duri, sicuri, ma non sempre uno è davvero sicuro: anche l’allenatore ha i suoi
momenti di sconforto e di indecisione.
La caratteristica principale che un allenatore deve avere per mantenere unito il gruppo è essere giusto.
Può essere duro, può essere morbido, può essere sergente di ferro, può essere più accondiscendente, le
caratteristiche sono tante, visto che non c’è un solo modo di fare bene l’allenatore. Però l’allenatore,
come il professore ingiusto, divide sicuramente. Se noi ci ricordiamo di quando si andava a scuola
abbiamo tutti in mente professori durissimi, di quelli che ci hanno fatto sudare sette camicie, ma ci
accorgiamo che non se ne parla con odio; se ne può parlare con fastidio (non posso andare a vedere il
calcio, non posso andare a ballare perché devo studiare, mi sta facendo morire), ma non c’è odio.
Quando un adolescente, un giovane parla di un professore o di un allenatore che è ingiusto, che ha
figli e figliastri, che ha due pesi e due misure, che ha antipatie e simpatie, che non è obiettivo, ma non
si propone nemmeno di esserlo, non ne parla con fastidio: ne parla con odio viscerale; gli si gonfiano
le vene del collo quando ne parla, perché sente l’ingiustizia. Per cui noi dobbiamo riuscire anche ad
accettare la rabbia del giocatore che magari dice: “Non mi fa giocare!”, però egli sappia che non ho
figli e figliastri; eventualmente posso aver sbagliato, lo dovevo mettere in squadra e non l’ho messo;
come lui ha “schiacciato fuori”, e non doveva, anch’io “schiaccio fuori” qualche volta, dico proprio
così ai miei giocatori. Però in buona fede, nessuno “schiaccia fuori” perché vuole perdere, nemmeno
io.
Seconda cosa che credo fondamentale oltre all’educare è l’insegnare e qui va fatta, secondo me, una
differenza tra l’insegnare e l’allenare. Si insegnano cose nuove, cose che ancora non si sanno; quando
alleniamo portiamo alla massima possibilità cose che già si conoscono. Anche con le squadre ad alto
livello s’insegna, sempre s’insegna, però ovviamente la proporzione è diversa: con una squadra d’alto
livello si allena molto più di quanto si insegni; con il settore giovanile si insegna molto di più di
quanto si alleni. Parlare poi di stato di forma con bambini o adolescenti non ha nessun senso. Qual è
il migliore stato di forma di una squadra di ragazzi o ragazze di quindici anni? E’ quello dell’ultimo
giorno, perché si suppone che sappiano più cose di un mese fa, di un anno fa perché stanno
imparando; non è una squadra che sa già giocare in un certo modo, e che allenandola la portiamo alla
massima performance. No, semplicemente stanno imparando, quindi sanno di più quanto più tempo
hanno per allenarsi, come uno studente di scuola, quando sa di più? In prima liceo o in quinta? In
quinta sa di più! Non è che in prima liceo è più in forma e sa di più che in quinta; sa di più in quinta
perché ha avuto più tempo per apprendere, semplicemente per questo. Per cui insegnare significa
proprio questo: proporre cose nuove, nuove conoscenze, procedure per andare allo sviluppo dei
concetti. Noi dobbiamo insegnare ad avere queste abitudini, perché poi le abitudini sono importanti
anche nell’attività intellettuale. Come diceva un mio vecchio amico che insegnava metodologia
dell’insegnamento della filosofia: “Tutto molto bene, ma se uno non ha l’habitus di stare sulla sedia
per ore non può studiare, non si può dedicare all’attività intellettuale”. Insegnare le abitudini e
insegnare le cose nuove; il problema per l’allenatore (e qui l’interazione dello psicologo è molto
importante) è nell’aspetto metodologico: come insegniamo nuove cose motorie; dobbiamo tenere
conto, soprattutto nei giochi sportivi, che prevedono l’utilizzo di tattiche diverse e un’interpretazione
di strutture, elaborazione di soluzioni, la riproposta di soluzioni che a loro volta modificano le
strutture che dovevamo capire, perché è questo che succede quando si gioca: non significa applicare
una tecnica, perché la tecnica è solo strumento, mentre il gioco inizia quando ci si confronta nell’agire
dell’uno contro l’avversario. Allora il modo con cui insegniamo, e tramite cui alleneremo, è
determinante per le caratteristiche che avranno i nostri giocatori, perché molti allenatori tendono ad
addestrare, non ad insegnare o ad allenare, ma addestrare, come nei circhi, e noi sappiamo che anche
gli animali sono capaci di fare cose straordinarie, se addestrati. Ma l’addestramento non è un gioco e
dovremmo anche tenere conto che limitandoci ad addestrare potremmo portare notevoli danni
all’individuo che fa sport. L’addestramento sembra dare risultati immediati, e l’insegnamento risultati
solo a lungo termine. Faccio spesso l’esempio ai giocatori che l’apprendimento di certi movimenti è
come quello delle marce della macchina: quando imparo a guidare so che debbo inserire la "prima",
poi la "seconda", e questo deve diventare automatico. Ma non esiste un automatismo per decidere se
accostarmi a destra, a sinistra, frenare; questo cambia ogni volta, mentre l’uso delle marce è
comunque automatico. Taluni elementi sono automatici, vanno addestrati solo per essere usati come
strumento nell’applicazione di cose molto più complesse, dove c’è sempre un’interpretazione della
situazione.
Con la mia squadra uso spesso queste espressioni: interpretare la situazione, che non è mai uguale ad
un’altra, elaborare una soluzione per quella determinata situazione, realizzare quella soluzione in
modo corretto. Solo nella fase di realizzazione ci sono alcuni elementi, dipende dal tipo di sport, in
alcuni di più in altri di meno, che possono essere addestrati, ma il processo del gioco è molto più
complesso, e comunque la realizzazione non è mai solo addestramento, perché cambia secondo la
circostanza. Infine, l’allenatore ha spesso un ruolo di capo dello staff, e questo ruolo a volte appare
giusto che sia così, ma molte volte no, e chi dovrà operare in questo settore deve essere molto
consapevole di ciò. Immaginiamo che un medico o uno psicologo vadano a lavorare in una squadra
dove c’è un allenatore: di fatto l’allenatore è il capo dello staff. Lo è per due motivi: sia perché
risponde direttamente ai dirigenti dei risultati, sia perché lui è il capo del gruppo di giocatori. Mai uno
psicologo o un medico rispondono per le vittorie o per le sconfitte, è l’allenatore ad averne la piena
responsabilità, è lui che risponde di fronte al dirigente, al presidente con cui ha fatto il contratto,
all’opinione pubblica. E lui è il capo dei giocatori, perché è quello che decide che gioco si deve fare,
chi gioca, chi non gioca, chi cambia, a chi rinnoveranno il contratto, è lui che decide, per cui lui è il
capo. Questo gli dà l’autorità di essere il capo anche dello staff, ma non sempre il medico e lo
psicologo si ritroveranno un allenatore con cui possono parlare; ci saranno allenatori a cui non piace
parlare più di tanto, che decidono e fanno. E spesso,se accettano l’aiuto del medico o dello psicologo
o del fisioterapista, utilizzano queste professionalità quasi come fossero dei maghi che servono solo a
risolvere i problemi del momento. A un giocatore che è un po’ in crisi mentale gli si consiglia di
andare dallo psicologo e dopo una settimana tutto deve tornare a posto! Questo succede spesso.
Oppure questo giocatore non rende fisicamente, allora qual è il problema? Lo chiedono al preparatore.
Qual è il problema? Se si sapesse così facilmente qual è il problema… ma non si sa, non è che il
preparatore sappia sempre qual è il problema! Allora i preparatori si inventano quattrocento milioni di
test, dei quali il 98% non è attendibile, secondo la mia opinione, per poter rispondere a questa
domanda. Adesso fanno test di velocità, ad esempio, che se fossero così esatti come si pretende, allora
i centometristi partirebbero sempre in maniera impeccabile. E invece un centometrista parte sempre in
modo diverso; fa solo quello nella vita, eppure parte male e perde l’Olimpiade. C’è molto positivismo
nello sport, oggi. Positivismo inteso proprio come la corrente filosofica dell’Ottocento, che di fronte
alla rivoluzione della scienza sosteneva di poter spiegare tutto con la scienza! Non possiamo spiegare
tutto, e meno male! Certe cose non le sappiamo. Siamo più vicini alla soluzione con questa
convinzione di non sapere, piuttosto che quando inventiamo delle risposte che non hanno nessun
fondamento; però molti allenatori vogliono dai loro collaboratori la risoluzione immediata e quasi
magica del problema. Il presidente mi chiede: qual è il problema? E’ mentale, fisico o tecnico? Qual è
il problema? Siccome è quello che fa i contratti, gli dobbiamo dare una risposta. Sicuramente non
diciamo tecnico, questo è chiaro; siamo allenatori e sicuramente diremo che è fisico o mentale. "E’
mentale!", allora prendiamo uno psicologo! Mandiamo lo sportivo dallo psicologo che deve trovare la
soluzione. E’ dura riuscire a integrare lo staff con la consapevolezza della complessità di questi
problemi, perché è molto complicato capire perché, qual è la soluzione, e se c’è una soluzione. Non
sempre c’è una soluzione. Chi si approccia al mondo sportivo, competitivo, e in questo caso mi
riferisco agli psicologi, dovrebbe non solo avere la consapevolezza di studiare i metodi per avere un
buon approccio con i giocatori, ma prima di tutto studiare come avere un buon approccio con
l’allenatore. Perché dipenderà da lui, questa è la realtà, e non dipenderà dai giocatori il successo
dell’inserimento dello psicologo; deve riuscire a conquistarselo, lo deve sedurre intellettualmente, lo
deve convincere, deve stabilire anche un rapporto affettivo, di conoscenza, deve aiutarlo, ed evitare
assolutamente, anche inconsciamente, di fargli vivere situazioni di difficoltà con i giocatori. Questo è
molto difficile. Come fa uno psicologo di fronte a un giocatore che si lamenta del suo rapporto con
l’allenatore, della situazione che sta vivendo, e contemporaneamente aiutarlo senza intaccare l’autorità
dell’allenatore? Non è facile. Questa è una caratteristica particolare del mondo sportivo che non si
verifica, almeno credo, nel resto delle situazioni. Quando lavoro in una squadra devo tener conto di
questo nei rapporti: da una parte il giocatore, ma dall’altra l’allenatore che non può perdere né autorità
né leadership nei confronti dei suoi giocatori; questo, credo, è uno degli aspetti più complessi che non
permette di arrivare alla meta così semplicemente. Per ultimo, quando parliamo di allenare la mente
dobbiamo partire da un concetto che per me nello sport è fondamentale: dobbiamo avere vera fiducia
nei nostri giocatori. Significa che io devo credere che loro sono in grado di sviluppare risorse
straordinarie che nemmeno sanno di avere. E di questo sono certo fin da quando studiavo psicologia al
liceo. Mi è rimasto impresso, infatti, ciò che il professore raccontava parlando di situazioni limite;
l’esempio di mamme che sollevano pesi straordinari per tirar fuori il figlio che è intrappolato. Perché?
Perché è una mamma, e di fronte al figlio in pericolo le mamme fanno delle cose assolutamente
straordinarie; lo hanno fatto anche in Argentina, le mamme di Plaza de Majo, hanno fatto cose che i
papà di Plaza de Majo non hanno saputo fare. Ci ho ripensato tante volte, se una mamma fa così per il
figlio chiunque potrebbe fare altrettanto se costretto in simili condizioni; bisogna a volte creare
situazioni di quel tipo perché la squadra o l’atleta sia costretto a tirare fuori le sue prestazioni
straordinarie. Non è vero che l’aiutare nel percorso nello sport agonistico sia sempre positivo; molte
volte gli psicologi che lavorano nello sport sbagliano perché vogliono aiutarli troppo, e aiutandoli
troppo non permettono di creare il meccanismo che sollecita le risorse straordinarie. E’ un po’ come
fanno le mamme troppo protettive con i bambini: quando arriva il freddo si vedono questi bambini che
sembrano astronauti, non si possono muovere da quanto sono coperti, e se si muovono: “Non sudare,
che ti ammali!”, dice la mamma. Lo fanno per amore, ma in realtà i bambini non si ammalano se
hanno anticorpi, non se non sudano. Il concetto fondamentale è: creiamo gli anticorpi! Noi dobbiamo
fare lo stesso con gli atleti. La situazione è dura, dolorosa, difficile: prendiamo l’atleta per mano e lo
aiutiamo con la sicurezza che gli stiamo facendo un favore o facciamo finta che non possiamo
prenderlo per mano, e lo lasciamo scontrarsi contro le difficoltà, finché mette in moto le sue risorse
straordinarie? Infatti poi, durante la partita difficile, quando ci sono venticinquemila che gli urlano
contro, quando c’è l’arbitro che gli fischia contro, in queste situazioni non li possiamo prendere per
mano, sono soli in campo. Non c’è niente da fare: o li educhiamo a saltare fuori da soli, o nei momenti
di difficoltà non avranno queste capacità e questi anticorpi. Per cui, fuori dal campo, quando invece
non sono soli, non possiamo sempre prenderli per mano; e questo lo deve sapere il dirigente, il
manager, lo psicologo, il medico, gli allenatori, gli aiutanti…tutti. Quanto li possiamo lasciare soli e
quanto non dobbiamo? Anche qua, a rischio di apparire troppo empirico e poco scientifico, faccio un
esempio: a me piace cucinare, allora chiedo alla nonna, che è un’ottima cuoca, la ricetta per fare un
piatto che a lei riesce benissimo. Cento grammi di questo, trecento di quello, due foglie di alloro, dieci
grammi di pepe nero… lo faccio, e nel migliore dei casi si mangia. Quello stesso piatto lo fa la nonna
ed è straordinario. Allora si va dalla nonna a chiederle qual è il suo segreto. Come fai nonna, quanto
pepe hai messo? E la nonna dice: quanto basta! E infatti la nonna quando cucina fa così: si ferma un
attimo e prende un po’ di più, il “quanto basta”, ecco il segreto, e perché ha preso di più? Perché non
bastava il primo pugno? Ha preso di più! E’ un problema di intuizione: la nonna ha l’intuizione. Ha
sentito che doveva metterne un po’ di più. La nonna ricorda (e forse qui gli psicologi possono spiegare
bene i meccanismi della memoria), non consapevolmente magari, com’ è tutto il processo, e ricorda
che l’ultima volta il piatto è venuto un po’ insipido. Le torna in memoria che l’altra volta quando ha
fatto così ne mancava un poco e che era insipido, perché? Perché lo ha assaggiato; la nonna ha
assaggiato miliardi di volte quella roba lì, e quando lo ha assaggiato è la prima a dire: è venuto
insipido! E se non è sicura chiede alla figlia un giudizio. E la figlia, vendicandosi magari anche di
tante altre cose le dice: è venuto insipido! Non lo chiede agli ospiti com’è venuto, perché cosa farebbe
un qualsiasi ospite? Direbbe che è venuto buonissimo! Noi allenatori cosa facciamo? Prepariamo il
piatto, lo porgiamo ai giocatori, e chi non lo mangia con gusto pensiamo che non abbia la mentalità
giusta. Noi nemmeno lo assaggiamo: siccome l’abbiamo fatto noi, è buono per definizione, è il
migliore possibile. Non lo assaggiamo, non chiediamo a nostra figlia com’è. E se non piace cambiamo
il giocatore. Così è comunque molto difficile sapere quanto di questo e quanto dell’altro, quanto
aiutare il giocatore e quanto lasciarlo solo: se non assaggiamo, non siamo in grado di giudicare. Allora
quando una persona vive situazioni di difficoltà, la prima cosa è “assaggiare” a tutte le ore, vedere se
quello che si è cucinato va bene, perché quello che andava bene per un’altra occasione può darsi che
per questa non vada bene, e non ha nessuna importanza se lo avevamo affermato durante una nostra
conferenza, perché il ruolo dell’allenatore è molto semplice: noi dobbiamo guidare, aiutare, educare,
gestire un gruppo perché vinca. Per cui, se mi devo anche contraddire, mi contraddico volentieri,
perché non stiamo parlando delle leggi della fisica (e anche nelle leggi sulla fisica ci sono delle
discussioni che sembrano quelle delle squadre di calcio; tra fisici non è che tutti dicano la stessa
cosa!). Non stiamo cercando la verità universale; nel migliore dei casi ci avviciniamo a cose che
funzionano, basta che funzionino, non è detto che siano la verità. E se non funzionano dobbiamo
cambiarle affinché funzionino. E questo deve anche essere il linguaggio dello staff: funziona o non
funziona? Perché all’università ho sì studiato i comportamenti….., ma quello che debbo chiedermi è:
nella mia squadra funziona tutto se davvero applico quanto ho studiato o non funziona? Perché se non
funziona, non serve. Vi ringrazio per l’attenzione.