La religiosità - Mamoiada

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La religiosità - Mamoiada
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USANZE TRAMANDATE
1) L’arbitrato “a omines”
Per dirimere controversie fra due persone o tra due famiglie spesso si affidava la
causa all’arbitrato di tre uomini del paese riconosciuti onesti, seri e giusti.
Ognuna delle parti sceglieva il proprio difensore, cui si esponevano la materia del
contenzioso e le proprie ragioni o presunti diritti. I due sceglievano, a loro volta,
s’omine e mesu, il giudice, una persona che godesse la stima e la fiducia di entrambi e che fosse realmente super partes. Si fissava la data dell’udienza: si sentivano i contendenti, venivano acquisite o sollecitate le prove necessarie.
Non sempre bastava una seduta. La sentenza veniva scrupolosamente rispettata.
Si trattava di sentenze salomoniche, in quanto soddisfacevano l’una e l’altra parte. Le vertenze riguardavano la sfera civile. Per quella penale, purtroppo, non
sempre sono state seguite le vie ordinarie né la logica discussione né sono stati
concessi i termini a difesa. È capitato – così afferma la vox populi – che la parte
lesa abbia fatto giustizia da sé o abbia affidato “il disbrigo della pratica” non a
omines, ma ad hominem. Questo, però, riguarda il privato e non il collettivo mamoiadino, che è indiscutibilmente mansueto, onesto, comprensivo, equilibrato.
(a cura di Pietro Porcu -2000-)
Municipio del paese in una cartolina primi anni ’60
2) Sa Comparìa.
A Mamoiada esistono tre tipi di comparìa, de ozu santu, de leva, de Santu Juvanne. Tra compari ci si dà del voi, non del tu nè del lei.
A) Si diventa compares de ozu santu (olio benedetto) in occasione di un battesimo
o di un a cresima. I genitori del neonato o del cresimato e i padrini prescelti,
compiuta la liturgia sacramentale, scambiandosi i convenevoli di rito, ufficializzano questo nuovo rapporto di parentela, che è considerato più forte e più sacro di
quello naturale e che si manifesta, in seguito, con la solidarietà, con l’aiuto vicendevole, con particolari riguardi verso il figlioccio. Il quale, nelle occasioni liete della sua vita, avrà cura di invitare per primi i padrini e riservare loro il posto
d’onore.
Si usava, in tempi passati, segnarsi col segno della croce passando davanti
all’abitazione di un compare.
B) Tipicamente Mamoiadina è la comparìa che si contrae tra coetanei nei giorni
della visita militare. Nessuna cerimonia particolare. Una forte stretta di mano
comporta la tacita promessa di aiuto reciproco, di rispetto, di duratura amicizia.
Da quel momento, ragazzi e ragazze nati nello stesso anno, diventano compares
de leva.
Un pranzo speciale, poi si va ad offrire un distinto ricordino ad ogni coetanea.
C) Meno comune e meno vincolante è la comparìa detta “de SantuJuvanne”, che si
compie il giorno della festività del Santo, il 24 Giugno, quando in molti paesi della
Sardegna si ripetono riti propiziatori, di origine più profana che sacra. Un nodo al
fazzoletto, un abbraccio, una stretta di mano, ed è fatta sa comparìa.
(a cura di Pietro Porcu -2000-)
3) Incresionzu.
La puerpera usciva da casa per la prima volta 40
giorni dopo il parto e, seguendo una pia e lodevole
consuetudine, si recava in Chiesa (a s’incresiare)
per ringraziare Dio della sua incolumità e per ricevere, per mezzo del sacerdote “in bianca stola”,
una speciale benedizione da quel “Dio onnipotente
ed eterno che col parto della B. V. Maria ha trasformato in gaudio i dolori delle partorienti”, come
è scritto nel Rituale Romano.
Altra visita d’obbligo, la puerpera doveva compierla in casa del padrino e della madrina del neonato,
i quali generalmente erano marito e moglie o fidanzati; a volte, però, venivano scelti da due famiglie diverse; in tal caso le visite erano due.
In questa circostanza alla puerpera veniva offerto
l’uovo frullato accompagnato da latte e biscotti.
4) Sa hena pro sos Mortos.
Nella notte tra il l° Novembre, festa di Ognissanti,
Artiande a sa Cucanna in S. Maria
e il 2, Commemorazione dei Fedeli Defunti, le donne di casa, prima di andare a
dormire, lasciavano la mensa imbandita pro sas animas. Si credeva, infatti, che i
familiari defunti, durante una breve visita di circostanza, avrebbero consumato il
pasto prima di rituffarsi nell’Aldilà. Succedeva, però, che, approfittando delle
giornate festive, allegre comitive di amici si attardassero fuori casa anche oltre la
chiusura dei locali pubblici. Allora, senza sciogliere la compagnia, si decideva di
continuare la piacevole conversazione recandosi, come è lodevole usanza dei Mamoiadini, dae domo in domo.
Trovare già pronto tanto ben di Dio costituiva una tentazione invincibile: senza
scrupoli si aggredivano quelle vivande così succulente e così miracolose da far risuscitare i morti. Che torrat su mortu a bida.
(a cura di Pietro Porcu -2000-)
5) S’amihu ‘e posada.
Alla lettera dovrebbe essere “l’amico della sosta”. Un amico da visitare in caso di
necessità. Un punto di riferimento o di appoggio in paesi fuori da quello di residenza. Si riferisce a tempi passati, quando il benessere economico e il progresso
non avevano ancora consentito alle nostre famiglie il possesso di una o più autovetture, con cui allontanarci da casa per il disbrigo di qualche affare: per esempio
l’acquisto di un carro agricolo, di un cavallo. Purtroppo s’amihu ‘e posada serviva
talvolta come punto di partenza per la ricerca e il ricupero di bestiame rubato.
Si viaggiava a piedi, a cavallo o col carro. Non riuscendo a rientrare in giornata, si
sostava presso l’amico. Era consuetudine gradita visitare gli amici di famiglia in
occasione delle feste paesane, che richiamano anche oggi molti festaioli e devoti.
“Cumbidare s’istranzu” (ospitare e invitare il forestiero) è dovere indispensabile,
insostituibile, inviolabile.
S’amihu e posada spesse volte era un ex commilitone (cumpanzu ‘e sordadu). Talvolta questa amicizia risaliva agli antenati ed era, quindi, ereditata.
(a cura di Pietro Porcu -2000-)
6) Appazare.
Appazare ha valore simbolico. Significa segnare con la paglia (paza) un tracciato
nelle vie del paese per unire idealmente due giovani che si frequentano, ma non
hanno ancora ufficializzato il loro rapporto affettivo.
Tutto si compie nottetempo.
Cosicché le persone mattiniere, seguendo con curiosità questa via lattea, che parte dalla casa di Tizio e arriva alla casa di Caia, trovano la conferma che tra i due
c’è veramente del tenero. La notizia diventa in breve di pubblico dominio.
Credo che questa usanza oggi sia solo un ricordo. Il paese si è esteso in tutte le
direzioni. Come si potrebbe appazare, per esempio, Maramele con Terraihos?
Quanta paglia ci vorrebbe? In tempi passati una mansione particolare era affidata
a sa paralimpa, la mediatrice di matrimonio.
Oggi non ha più ragione di esistere, in quanto le distanze fra i giovani dei due
sessi sono di molto ravvicinate: hanno tante occasione di incontrarsi, conoscersi,
frequentarsi e trattare direttamente, cioè senza intermediari, di un eventuale realizzabile matrimonio.
(a cura di Pietro Porcu -2000-)
Matrimonio Gungui-Piras, Settembre 1929
7) Su voinarju.
Su voinarju, da voe (bue), era chiamato il ragazzino che guidava nell’aia i buoi aggiogati per la trebbiatura del frumento.
Una grossa pietra di granito, fatta scorrere a cerchio ripetutamente dal giogo sopra i covoni già stesi, spezzava gli steli fino a ridurli in paglia. Lavoro lento e faticoso, appesantito dalla calura estiva; si accompagnava col tridente (trivuthu) e si
concludeva con una pala di legno, o ventilàbro, che sollevava in alto le spighe battute, le mondava dalla pula (ghilipiu).
Appartiene al passato. Nessuno ormai semina, perciò nessuno miete, nessuno
trebbia. La figura de su voinarju è scomparsa. Nessuno alleva buoi. Inoperosa,
quindi, anche sa macchina pro errare, quel particolare congegno di travi atto a tenere fermo il cavallo o il bue durante la ferratura e che in italiano è chiamato travaglio. Non hanno più motivo di esistere neppure gli abbeveratoi, sistemati, una
volta, alla periferia del paese: una nel rione S. Giuseppe, l’altro a San Sebastiano.
(a cura di Pietro Porcu -2000-)
8) Il gioco de sa murra (la morra).
La Sardegna si può definire la patria del gioco della morra in Italia.
E’ una competizione di antiche origini diffusa in tutta l’area Mediterranea, conosciuto dai popoli Romani, Greci, Egizi, ed Etruschi.
I Romani definivano questo gioco nobilissimus digitorum ludus (prestigioso gioco
delle dita). Sa murra veniva praticata principalmente nelle sagre paesane, ma anche dopo la tosatura delle pecore e la marchiatura del bestiame; molto spesso anche in occasione di matrimoni festeggiati in ampi cortili.
Numerosi sono i tornei e gare regionali che si disputano ogni anno in varie parti
dell’isola, qualcuno anche a carattere internazionale.
In Sardegna, paradossalmente, vige ancora il divieto al gioco imposto dalle leggi
fasciste del 1931, ma quasi dappertutto i giocatori isolani trasgrediscono questo
ormai anacronistico ed assurdo divieto.
L’incontro si disputa normalmente fra quattro maschi (sos murreris), a coppia,
due contro due, disposti uno di fronte all’altro (ultimamente anche le donne
stanno partecipando ai tornei). Essi stendono a turno di due alla volta (uno contro uno) un braccio e mostrano le dita della mano scandendo a voce alta un numero con lo scopo di indovinare il risultato della somma delle dita di entrambi, da
due a dieci.
Sa murra è una competizione di grande abilità e bravura dove è basilare la rapidità dei movimenti, la chiarezza della pronunzia e della mano; un gioco che richiede
riflessi prontissimi. Non è facile giocare a ritmi sostenuti, contemporaneamente
studiare l’avversario e intuire il numero che tirerà fuori. Spesso ci sono delle incomprensioni nell’udire la voce dell’avversario, talvolta il punto equivoco si ripete
sportivamente. Quando qualcuno bara è motivo di dissapori e talvolta piccole rissa fra partecipanti.
La sfida è seguita attentamente da quello che è l’arbitro della gara, su hontadore
(il conta punti) e consta di tre parti: partita, rivincita e bella.
Generalmente per le prime due si contano 16 punti per la vittoria, l’ultima al 21
(a discrezione delle coppie stabilire prima della competizione di conteggiare le partite sempre al 16).
Il gioco della morra nel santuario SS. Cosma e Damiano - Mamoiada (foto Istit. Luce anni ’50)
Certamente il gioco è rumorosissima proprio per la potenza della voce di ciascun
partecipante che, nella foga della sfida, urlano i numeri sovrastando la voce
dell’altro. Il baccano si propaga nell’aria a grandissima distanza e, in lontananza,
queste secche voci umane sembrano potentissimi latrati.
Murreris e hontadore sono disposti in questo modo:
coppia A
A; coppia B
B; hontadore C
C
A
A
C
B
B
Il giocatore che conquista il punto prosegue con l’altro sfidante finché non perde,
quindi, a sua volta, il proprio compagno continua il gioco.
Nelle grandi sfide normalmente la coppia dei giocatori è affiatata e ambedue sono
abili, ma qualche volta capita che ad essere in forma è uno solo, vuoi perché ha
individuato la semplicità del gioco degli avversari, oppure perché gli stessi hanno
schemi abbastanza intuibili, o semplicemente perché è in “stato di grazia”. Ragion
per cui il compagno “cede la mano” facilmente e il punto all’avversario per lasciare libero campo all’amico che ha ritmo e concentrazione maggiore (sa murra la
juhes tue… la morra è tua, cioè oggi sei imbattibile, vai…).
Se le coppie degli sfidanti sono bravi le gare avvengono con velocità ma caratterizzate da una bella cadenza. Se una coppia tende ad accelerare il ritmo dopo pochi
punti, i bravi murreris riescono a far rallentare e a far riprendere il ritmo piacevole
iniziale del gioco.
Murra non è altro che il nome del punto derivante dalla massima somma delle dita dei due avversari, cioè 5+5, in quanto deghe (dieci) non si pronunzia mai, ma si
urla, appunto, murra.
A volte la partita è giocata in modo serio e schietto, a volte ilare, ma quasi sempre
i “punti” della morra conquistati sono evidenziati con parole comiche, a volte sarcastiche prendendo in giro l’avversario punzecchiandolo con i vari a mimmi, regollidi, a linna, làssa (…a me, vattene, vai a far legna, lascia stare… che il gioco non
fa per te…) o più incisivamente con rabbiosi sériu, mùdu, non torres, (…sta buono,
zitto, sparisci…). Oppure prolungando il numero vincente cosi che battoro (quattro) diventa baranta; chimbe (cinque) diventa chimbanta; otto ottanta ecc. Tutte
parole che servono a “marcare” il punto preso e bloccare l’avversario zittendolo.
Vi è qualche “licenza poetica”, chiamiamola così, concessa per via del suono cacofonico del numero quando lo si pronunzia velocemente e quindi, ad esempio, il sei
(ses) diventa seghi (sedici, che naturalmente non esiste come punteggio); anziché
duos (due) viene urlato du o du-du.
Curioso il modo di giocare di taluni: certi sembrano che al posto della mano abbiano una scure e, tirando le dita per il punto, la muovono come stessero tagliando un ramo; chi pare stia manovrando il cambio di un’autovettura; chi sembra
uno spadaccino talmente si agita con il braccio contro l’avversario…
Attualmente a Mamoiada sa murra viene praticata maggiormente in occasione
della festa dei SS. Cosimo e Damiano, nel cortile del santuario, spesso si protrae
fino alle ore piccole, superando il freddo della notte con il… riscaldamento “ad alcol” (vinu nigheddu e abbardente).
(Redazione www.mamoiada.org)
9) Su mannalitharju.
Era il pastore delle mannalithas, capre domestiche lattifere. Era chiamato anche su theracu craparju de sa
vidda: il servo pastore a servizio della
comunità paesana.
Pagato dalle singole famiglie, che gli
affidavano una o due capre da condurre ogni giorno, die vona o die mala, ai locali pascoli montani. Attività
ormai scomparsa.
Al punto di raccolta ogni capra arrivava accompagnata dae sa mere, la
padrona. Il pastore doveva seguire il
gregge, difenderlo da eventuali tentativi di abigeato, evitare che le bestie,
piuttosto irrequiete per natura, invadessero il seminato o gli orti.
Inoltre doveva interessarsi di favorire,
la vecchia casa Meloni in stile aragonese
a tempo opportuno, l’accoppiamento
delle singole capre col becco, che era di sua proprietà. Altrimenti perdeva la fiducia, e anche la retribuzione mensile.
All’imbrunire le riaccompagnava fino alla periferia dell’abitato.
Da questo sito ogni mannalitha sapeva orientarsi e raggiungere da sola la casa del
padrone.
Sa mannalitha assicurava il quotidiano fabbisogno del latte e spesso completava,
col maiale da ingrasso (su mannale), il sostentamento di una famiglia.
Chi poteva disporre di un cortile vi accoglieva le bestie, altrimenti nel vasto ambiente della cucina, solitamente a pian terreno, si ricavava uno spazio sia per la
capra, durante la notte, sia per il maiale, notte e giorno.
Indimenticabili mannalitharjos mamoiadini sono stati ziu Papante e ziu Masigula.
Gli anziani li ricordano.
(a cura di Pietro Porcu -2000-)
Usanze – www.mamoiada.org