to - Queen Of The Tearling Italia

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to - Queen Of The Tearling Italia
Per Christian e Katie
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LIBRO PRIMO
Capitolo 1
IL DECIMO CAVALLO
LA REGINA GLYNN – Kelsea Raleigh Glynn, settima regina dei Tearling. Nota anche come La
Regina Segnata. Cresciuta presso Carlin e Bartholemew (Barty il Buono) Glynn. Madre: Regina
Elyssa Raleigh. Padre: ignoto. Si veda l’appendice XI per teorie al riguardo.
- Storia antica dei Tearling, nella versione di Merwinian
Kelsea Glynn sedeva immobile, guardando i soldati che si avvicinavano alla fattoria. Avanzavano in
formazione militare con gli accompagnatori ai lati. Indossavano le uniformi grigie della guardia reale
dei Tearling. I mantelli ondeggiavano, rivelando armi di pregevole fattura: spade e pugnali corti, tutti in
acciaio di Mortmesne. Uno di loro portava addirittura una mazza: Kelsea ne vedeva la testa chiodata
spuntare dalla sella. Quel cupo incedere verso la casa rendeva chiaro un fatto: non avrebbero voluto
essere là.
Con il cappuccio tirato sugli occhi, Kelsea sedeva sopra i rami di un albero a una trentina di passi
dalla porta. Era vestita completamente di verde scuro: dalla testa alle punte degli stivali era del colore
degli aghi di pino. Al collo le scintillava uno zaffiro che pendeva da una catena d’argento purissimo. Il
gioiello tendeva a uscirle fastidiosamente dalla camicetta ogni volta che lo sistemava, sembrava farlo
apposta quasi sapesse che quel giorno sarebbe stato la causa di tutti i suoi problemi.
Nove uomini, dieci cavalli.
I soldati raggiunsero il piccolo appezzamento di terra di fronte al cottage e smontarono d’arcione.
Quando tolsero i cappucci, Kelsea notò che non avevano affatto la sua età: erano sui trenta,
quarant’anni e avevano un’aria dura e forgiata dalle battaglie. Il soldato con la mazza borbottò
qualcosa e tutti portarono automaticamente mano alle spade.
“È meglio fare in fretta”. Quello che aveva parlato, un uomo alto e magro, il cui tono autoritario
suggeriva fosse a capo del gruppo, avanzò. Bussò tre volte alla porta che si aprì immediatamente,
quasi Barty fosse in attesa. Anche da dove si trovava, Kelsea scorgeva il suo viso rubicondo ma
segnato dalla tensione. Aveva gli occhi rossi, gonfi. Quel mattino l’aveva mandata nel bosco per
risparmiarle di assistere al suo dolore. Kelsea aveva protestato, ma Barty non aveva accettato il suo
rifiuto, finendo per spingerla fuori dalla porta dicendo “Vai a dire addio al bosco, ragazza mia. Non ti
permetteranno tanto presto di passeggiare dove vorrai”.
Allora Kelsea aveva passato la mattinata vagando nella foresta, arrampicandosi sugli alberi caduti e
fermandosi ogni tanto per ascoltare il silenzio del bosco, quella quiete perfetta che contrastava così
tanto con la vita che vi si celava. Giusto per fare qualcosa, aveva anche catturato un coniglio, ma poi
l’aveva lasciato andare: a Barty e a Carlin non serviva la carne, e uccidere non la divertiva di certo.
Mentre guardava il coniglio saltellare via, scomparendo nel profondo del bosco, dove aveva trascorso
gran parte della sua infanzia, Kelsea provò a pronunciare di nuovo quella parola, anche se solo a
dirla le pareva di avere polvere in bocca: Regina. Un termine minaccioso che prevedeva un tetro
futuro.
“Barty”. Il comandante dei soldati lo salutò. “Quanto tempo”.
Barty mormorò qualcosa d’incomprensibile.
“Siamo venuti a prendere la ragazza”.
Barty annuì, s’infilò due dita in bocca e fischiò. Era un suono acuto, penetrante. Kelsea saltò giù
dall’albero senza far rumore e uscì dal bosco, con il cuore che le batteva forte. Sapeva come
difendersi con il coltello da un aggressore, Barty gliel’aveva insegnato. Ma i soldati armati di tutto
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punto la intimidivano. Sentì i loro occhi su di lei. La stavano studiando. Non aveva l’aspetto di una
regina, e lo sapeva bene.
Il comandante, un uomo dai lineamenti duri e con una cicatrice sul mento, s’inchinò profondamente di
fronte a lei. “Sua maestà. Sono Carroll, il capitano delle guardie della defunta regina”.
Passò un istante e poi gli altri lo imitarono. Quello con la mazza si piegò di un pollice al massimo,
abbassando il mento in maniera impercettibile.
“Dobbiamo vedere il segno”, sibilò una delle guardie, un uomo dal volto quasi completamente
nascosto da una gran barba rossa. “E anche il gioiello”.
“Pensi che voglia mentire al regno intero?”, reagì Barty con voce stridula.
“Non assomiglia per niente a sua madre”, rispose bruscamente l’uomo con la barba.
Kelsea arrossì. Secondo Carlin, la regina Elyssa era una vera bellezza Tearling: alta, bionda e snella.
Kelsea era alta, certo, ma aveva la carnagione scura e un viso che, a essere generosi, poteva dirsi
comune. E non era nemmeno statuaria, neanche un po’. Certo, faceva molto esercizio, ma aveva
anche un ottimo appetito.
“Ha gli occhi dei Raleigh”, osservò un altro soldato.
“Preferirei vedere il gioiello e la cicatrice”, rispose il comandante; l’uomo dai capelli rossi annuì a sua
volta.
“Mostraglieli, Kel”.
Kelsea tirò fuori la collana dalla camicetta, sollevandola per mostrarla in piena luce. L’aveva portata al
collo fin da quando aveva memoria ma in quel momento avrebbe solo voluto strapparsela di dosso e
restituirla a quegli uomini. Ma Barty e Carlin le avevano già spiegato che non le sarebbe stato
permesso. Era l’erede al trono dei Tearling e quel giorno era il suo diciannovesimo compleanno: la
data nella quale tutti i sovrani dei Tearling erano saliti al potere, a partire da Jonathan Tear. Le
guardie l’avrebbero accompagnata alla Fortezza, trascinandola a forza se fosse stato necessario, e
l’avrebbero inchiodata al trono, dove sarebbe rimasta seduta, coperta di seta e velluto, fino a quando
non fosse stata assassinata.
Il comandante annuì nel vedere il gioiello. Kelsea scosse il braccio sinistro facendo così scendere la
manica a esporre una lunga cicatrice della forma di una lama di pugnale, che le andava dal polso
all’avambraccio. Uno o due degli uomini mormorarono qualcosa, nel vederla, e per la prima volta dal
loro arrivo, le mani diedero un attimo di tregua alle armi.
“D’accordo, allora”, dichiarò Carroll, burbero. “Partiamo subito”.
“Un momento”. Carlin si avvicinò all’uscio, spostando gentilmente Barty. Lo spinse con i polsi, non
con le dita: evidentemente quel giorno la sua artrite doveva essere particolarmente intensa. Il suo
aspetto era come sempre impeccabile: i capelli candidi raccolti sopra le spalle con un elegante
fermaglio. Kelsea si stupì nel notare che anche i suoi occhi erano leggermente arrossati. Carlin non
era una donna facile alle lacrime; anzi, raramente rivelava le proprie emozioni.
Alcuni soldati, alla vista di Carlin, raddrizzarono la schiena. Un paio fecero addirittura un passo
indietro: tra questi, l’uomo con la mazza. Kelsea aveva sempre pensato che Carlin avesse un aspetto
regale, ma fu sorpresa nel vedere quegli uomini armati provare reverenza di fronte a una donna
anziana.
Grazie a Dio non sono l’unica.
“Provatemi chi siete!”, intimò Carlin. “Come facciamo a sapere che venite davvero dalla Fortezza?”
“Chi potrebbe sapere dove trovarla proprio in questa data?”, rispose Carroll.
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“Assassini”.
Alcuni soldati ridacchiarono, ma quello che portava la mazza fece un passo avanti mentre cercava
qualcosa sotto il mantello.
Carlin lo fissò per un istante. “Ti conosco”.
“Ho portato la lettera con gli ordini della regina”, disse lui, porgendole una busta spessa e ingiallita dal
tempo. “In caso si fosse dimenticata”.
“Dubito che ci si possa dimenticare di te, Lazarus”, rispose Carlin con la voce piena di
disapprovazione. Aprì rapidamente l’incartamento, anche se, nel farlo, provò fitte di dolore per via
dell’artrite, e scorse la lettera con gli occhi. Kelsea fissò il foglio, affascinata. Sua madre era morta da
molto tempo, ma lì c’era qualcosa che aveva scritto e toccato con le sue mani.
Carlin sembrava soddisfatta. Restituì il foglio alla guardia. “Kelsea deve raccogliere le sue cose”.
“Solo qualche minuto, però, vostra maestà: dobbiamo andare”. Carroll si rivolse direttamente a
Kelsea, inchinandosi di nuovo, come se avesse già escluso Carlin dalle formalità. La donna lo aveva
notato e il volto le era diventato duro come pietra. Kelsea avrebbe preferito che Carlin si arrabbiasse
invece di ritirarsi in quella parte di se silenziosa, fredda e lontana. I suoi silenzi erano terribili.
Kelsea superò i cavalli fermi ed entrò nel cottage. Aveva già riposto i suoi abiti nelle bisacce, ma non
vi si avvicinò nemmeno: andò invece sull’uscio della biblioteca di Carlin. Le pareti erano coperte di
libri. Barty aveva costruito personalmente gli scaffali con legno di quercia del Tearling, e li aveva
regalati a Carlin in occasione del quarto Natale di Kelsea. Non si ricordava molto di quel periodo, ma
nella sua memoria era stata una giornata pura e luminosa. Aveva aiutato Carlin a sistemare i libri
sugli scaffali, e aveva addirittura pianto un po’ quando le aveva permesso di metterli in ordine per
colore. Erano passati tanti anni ma Kelsea amava ancora quei libri, amava vederli lì, uno vicino
all’altro, tutti al loro posto.
Quella biblioteca era stata per lei un’aula scolastica anche se non sempre piacevole. Vi aveva
imparato le basi della matematica, la grammatica, la geografia, e più tardi le lingue delle nazioni
confinanti, trovando i loro strani accenti dapprima complessi e poi sempre più semplici, fino a quando
non era stata in grado, come Carlin, di passare dal Mort al Cadarese fino alla lingua più facile e meno
strutturata dei Tearling senza battere ciglio. Soprattutto aveva imparato la storia, tutta la storia
dell’umanità sin da prima del Crossing. Carlin ripeteva spesso che la storia era la materia più
importante di tutte perché l’uomo, in quanto tale, ripeteva sempre i medesimi errori. Quando diceva
così fissava Kelsea aggrottando la fronte, pronta a dissentire. Carlin era giusta ma severa. Se Kelsea
finiva tutti i compiti prima di cena, come premio aveva il permesso di scegliere un libro dalla biblioteca
e rimanere sveglia a leggerlo fino a quando non l’avesse terminato. Le storie la appassionavano più
di qualunque altra cosa. Erano storie di realtà e creature mai esistite e che la facevano viaggiare con
l’immaginazione ben oltre il piccolo mondo del cottage. Una notte era rimasta sveglia fino all’alba per
finire un romanzo particolarmente lungo, dopodichè le erano stati risparmiati i lavori di casa e le era
stato concesso di dormire tutto il giorno. Ma c’erano anche stati mesi interi nei quali si era stancata
della scuola e aveva semplicemente smesso di studiare. E allora niente storie, niente biblioteca, solo
lavori di casa, solitudine e il biasimo sul volto granitico di Carlin. E, alla fine, Kelsea era sempre
tornata a scuola.
Barty chiuse la porta e le si avvicinò, trascinando un piede. Molto tempo prima era stato una guardia
della regina, ma poi una spada lo aveva colpito dietro al ginocchio lasciandolo zoppo. Le mise una
mano sulla spalla. “Non puoi perdere tempo, Kel”.
Kelsea si voltò e vide che Carlin aveva distolto lo sguardo e osservava qualcosa fuori dalla finestra.
Di fronte al cottage, i soldati sembravano nervosi e lanciavano rapide occhiate in direzione del bosco.
Sono abituati agli spazi chiusi, pensò Kelsea: gli spazi aperti li innervosiscono. Le implicazioni che ne
derivavano riguardo alla vita che l’attendeva alla Fortezza la colpirono nel profondo, proprio quando
aveva pensato di aver finito le lacrime.
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“Sono tempi pericolosi, Kelsea”. Carlin sembrava rivolgersi alla finestra, e la sua voce pareva
distante. “Stai attenta al reggente, anche se è tuo zio: ha desiderato quel trono sin da prima di
nascere. Ma le guardie di tua madre sono senza dubbio uomini fidati e sono certa che si prenderanno
cura di te”.
“Ma non gli piaccio, Carlin”, esclamò Kelsea. “Mi avevi detto che per loro sarebbe stato un onore
scortarmi, ma non hanno nessuna voglia di essere qui”.
Carlin e Barty si scambiarono uno sguardo, e Kelsea vi vide il fantasma di molti vecchi litigi. Il loro era
un matrimonio particolare: Carlin aveva almeno dieci anni più di Barty, ed era ormai vicina ai settanta.
Non servivano sforzi particolari per immaginare che doveva essere stata molto bella, ma con il tempo
quella sua avvenenza si era indurita, scolorando in un volto austero. Barty non era bellissimo. Era più
basso e robusto di Carlin ma aveva una faccia allegra e occhi che sorridevano sotto i capelli grigi. A
Barty non interessavano per niente i libri, e spesso Kelsea si chiedeva di cosa parlassero quando lei
non era presente. Forse di niente; forse Kelsea era l’unico interesse comune che li teneva uniti. E, se
era così, cosa ne sarebbe stato di loro?
Finalmente Carlin rispose. “Abbiamo giurato a tua madre che non ti avremmo raccontato i suoi difetti,
Kelsea, e abbiamo mantenuto quella promessa. Ma alla Fortezza non sarà tutto come immagini.
Barty e io ti abbiamo dato ottimi strumenti, era quello il nostro incarico. Ma una volta sul trono dovrai
essere tu a prendere le decisioni difficili”.
Barty tirò su con il naso in segno di disapprovazione e, zoppicando, andò a prendere le bisacce di
Kelsea. Carlin lo fulminò con lo sguardo, ma l’uomo la ignorò. Quindi lei si rivolse a Kelsea, con le
sopracciglia che s’inarcavano. La ragazza abbassò lo sguardo, sentendo una morsa allo stomaco.
Una volta, molti anni prima, nella foresta, durante una lezione sulle proprietà del muschio rosso, Barty
aveva detto, senza motivo apparente: “Kel, se fosse in mio potere farlo, infrangerei quel dannato
giuramento e ti direi tutto quello che vuoi sapere”.
“E perché non è in tuo potere farlo?”
Barty aveva guardato, impotente, il muschio che teneva in mano, e dopo un istante Kelsea aveva
capito. Nulla nel cottage dipendeva da Barty: era Carlin a tenere le redini di tutto. Carlin era più
intelligente, Carlin non aveva problemi fisici. Barty era meno importante. Carlin non era crudele, ma
Kelsea aveva sentito fin troppo spesso il gelo della sua volontà d’acciaio, e quindi comprendeva
l’amarezza che Barty sentiva, quasi la condivideva. Ma era sempre la volontà di Carlin ad avere il
sopravvento riguardo a questi fatti. Mancavano intere parti della storia e molte delle informazioni
riguardanti il regno di sua madre le ignorava completamente. Era stata tenuta lontana dal villaggio e
dalle risposte che forse avrebbe potuto trovare lì: aveva trascorso l’infanzia in un vero e proprio esilio.
Ma più di una volta aveva ascoltato Barty e Carlin discutere durante la notte, quando pensavano che
Kelsea stesse dormendo già da un po’, e aveva capito almeno parte del mistero: per anni le guardie
del reggente avevano setacciato la nazione in cerca di una bambina con la collana e la cicatrice. In
cerca di Kelsea.
“Ti ho lasciato un regalo nelle bisacce”, riprese Carlin, riportandola al presente.
“Che cos’è?”
“Lo scoprirai da sola, quando te ne sarai andata”.
Per un istante, Kelsea sentì la rabbia tornare a galla. Carlin le teneva sempre nascosto qualcosa! Ma
dopo un istante provò vergogna. Barty e Carlin erano molto tristi: non solo perché lei se ne andava
ma anche perché avrebbero perso la loro casa. In quell’istante, probabilmente, i segugi del reggente
stavano seguendo le tracce delle guardie della regina attraverso il Tearling. Barty e Carlin non
potevano restare. Appena Kelsea se ne fosse andata, sarebbero partiti anche loro alla volta di
Petaluma, un villaggio a sud, vicino al confine con Cadare: era lì che Barty era cresciuto. Senza la
foresta sarebbe stato perduto ma, d’altra parte, c’erano altre foreste da imparare a conoscere. Carlin
era quella che stava sacrificando di più: abbandonava i suoi libri. Erano la collezione di una vita,
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volumi salvati e messi da parte al tempo del Crossing, conservati per secoli. Non avrebbe potuto
portarli con sé: sarebbe stato troppo semplice seguire le tracce di un carro. Tutti quei libri, perduti.
Kelsea raccolse la sacca con il necessario per la notte e strinse le spalle, guardando fuori dalla
finestra il decimo cavallo: quello che avevano portato per lei. “Ci sono così tante cose che non so”.
“Sai tutto quello che hai bisogno di sapere”, rispose Barty. “Hai il coltello?”
“Sì”.
“Tienilo sempre a portata di mano. Stai attenta a quel che mangi e sappi sempre da dove proviene”.
Kelsea lo abbracciò. Nonostante fosse un uomo robusto, Barty stava tremando per la fatica. Kelsea si
rese conto di quanta energia aveva speso per educarla e che invece avrebbe potuto conservare per
invecchiare. La strinse, per un istante, fra le sue grandi braccia, poi si allontanò con il fuoco negli
occhi azzurri. “Non hai mai ucciso nessuno, Kel, ed è una cosa buona, ma d’ora in poi sei una preda:
sono stato chiaro? E come tale dovrai comportarti”.
Kelsea si aspettava che Carlin lo contraddicesse: aveva sempre detto che la forza era l’ultimo rifugio
degli stupidi. E invece annuì. “Ti ho educata per essere una regina riflessiva, Kelsea, e lo sarai. Ma
d’ora in poi la sopravvivenza è più importante di qualunque altra cosa. Quegli uomini sono incaricati di
farti arrivare sana e salva alla Fortezza. Da quel momento in poi, è possibile che le lezioni di Barty ti
tornino più utili delle mie”.
Si allontanò dalla finestra e pose delicatamente una mano sulla schiena di Kelsea, facendola
sussultare. Era raro che Carlin toccasse qualcuno. Era capace al massimo di un piccolo buffetto sulla
spalla e, anche in quel caso, era un evento raro almeno quanto una tempesta nel deserto. “Ma non
permettere che, affidandoti alle armi, la tua scaltrezza venga meno. Sei sempre stata saggia: cerca di
non perdere questa tua virtù. È facile che accada quando imbracci una spada”.
Un pugno ferrato bussò alla porta.
“Vostra maestà?”, la chiamò Carroll. “Sta calando la sera”.
Barty e Carlin indietreggiarono. Barty raccolse l’ultima delle sacche che componevano il bagaglio di
Kelsea. Sembravano vecchissimi. Kelsea non voleva abbandonare le due persone che l’avevano
cresciuta, insegnandole tutto ciò che sapeva. Per un istante, il lato irrazionale della sua mente
considerò la possibilità di lasciar cadere il bagaglio e scappare dalla porta sul retro, una tentazione
che sfumò dopo pochi istanti.
“Quando potrò mandarvi un messaggio?”, domandò. “Quando potrete smettere di nascondervi?”
Barty e Carlin si scambiarono un’occhiata che a Kelsea parve furtiva. Alla fine, fu Barty a rispondere.
“Non molto presto, Kel. Vedi…”
“Avrai altre cose di cui preoccuparti,” lo interruppe Carlin. “Pensa ai tuoi sudditi, e a sistemare il
regno. Potrebbe passare molto tempo prima che ci rivediamo”.
“Carlin…”
“È ora di andare”.
I soldati erano già risaliti a cavallo. Quando Kelsea uscì dal cottage la guardarono. Uno o due di loro
le mostrarono una punta di disprezzo. Il soldato con la mazza, Lazarus, non la guardava affatto: stava
fissando un punto distante. Kelsea iniziò a caricare le sacche sulla schiena della cavalla: una roana
che sembrava ben più mansueta dello stallone di Barty.
“Immagino che sappiate cavalcare, altezza”, disse il soldato che le stava tenendo le redini. Pronunciò
la parola altezza come se fosse una malattia. Kelsea gli strappò le redini di mano. “Certo”.
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Se le passò da una mano all’altra mentre infilava e abbottonava il mantello invernale verde poi montò
a cavallo guardando Barty e cercando di affrontare il terribile presentimento che fosse l’ultima volta
che lo vedeva. Era invecchiato prima del tempo, ma non c’era motivo di pensare che non potesse
vivere ancora a lungo. E poi, spesso i presentimenti non si avveravano. Secondo Barty, l’indovino
personale della regina dei Mort aveva previsto che Kelsea non sarebbe arrivata a compiere
diciannove anni, e invece eccola lì.
Sorrise a Barty; sperò di sembrare coraggiosa. “Ti manderò presto a chiamare”.
Barty annuì. Anche il suo sorriso era forzato. Carlin era così pallida che Kelsea temette che potesse
cadere morta, invece fece un passo avanti e tese una mano. Fu un gesto talmente inatteso che
Kelsea la fissò per un istante prima di capire che avrebbe dovuto stringerla. In tutti gli anni che aveva
passato alla fattoria, Carlin non l’aveva mai presa per mano.
“Quando verrà il tempo vedrai”, iniziò Carlin stringendola forte. “Vedrai perché tutto questo è stato
necessario. Stai attenta al passato, Kelsea. Sii una guida”.
Nemmeno in quel momento Carlin parlò in modo diretto. Kelsea aveva sempre creduto di non essere
lei la bambina che Carlin avrebbe voluto educare, era convinta di averla delusa con il suo
temperamento, prestando poca attenzione alle enormi responsabilità che portava sulle spalle. Lasciò
la mano di Carlin, poi guardò Barty e la sua rabbia svanì. Stava piangendo: le lacrime cadevano,
brillando sul viso come gemme chiare. Kelsea sentì i suoi occhi prossimi al pianto, ancora una volta,
ma prese le redini e fece girare il cavallo in direzione di Carroll. “Ora possiamo andare, capitano”.
“Agli ordini”.
Schioccò le redini e si avviò lungo il sentiero. “Tutti, formate un quadrato intorno alla regina”,
comandò a quelli che stavano alle sue spalle. “Proseguiremo fino al tramonto”.
Regina. Di nuovo quella parola. Kelsea cercò di pensare a se stessa come a una regina, ma non ci
riuscì. Mantenne il cavallo al passo con quelli delle guardie, senza guardarsi indietro. Si girò una volta
sola, subito prima della curva, e notò Barty e Carlin ancora in piedi sulla porta della fattoria, che la
guardavano andare via come avrebbero fatto due vecchi taglialegna in una favola antica. Poi, gli
alberi li nascosero alla sua vista.
La cavalla sembrava piuttosto robusta: affrontava anche il terreno più impervio con sicurezza. Lo
stallone di Barty aveva sempre avuto problemi nel bosco. Barty insisteva che il suo cavallo era un
aristocratico e che qualunque cosa non fosse una via dritta non gli piaceva. Ma, anche sullo stallone,
Kelsea non si era mai avventurata a più di qualche miglio dal cottage. Quelli erano gli ordini di Carlin.
Ogni volta che dimostrava curiosità per le cose del mondo, Carlin le ricordava l’importanza della
segretezza e del titolo che avrebbe ereditato. Carlin mal sopportava la paura di fallire che
attanagliava Kelsea. Non voleva nemmeno sentir parlare di dubbi. Il lavoro di Kelsea era imparare e
accontentarsi. Non c’era nient’altro: niente bambini o altre persone, non c’era nessun altro mondo di
sorta.
Una volta, a tredici anni, Kelsea si era addentrata nel bosco sullo stallone di Barty, come al solito, ma
si era persa, finendo in una zona che non conosceva. Non ricordava gli alberi né i due torrenti che
aveva oltrepassato. Si era accorta che stava girando in tondo; era tentata di lasciar perdere e
scoppiare in lacrime quando aveva alzato lo sguardo notando il fumo di un camino a qualche
centinaio di passi.
Avvicinandosi, aveva trovato un cottage. Era più povero di quello di Barty e Carlin, di legno invece
che di pietra. Di fronte all’abitazione c’erano due ragazzini, un po’ più giovani di Kelsea. Giocavano
con spade finte. Kelsea era rimasta a guardarli molto a lungo, pensando a qualcosa che non le era
mai venuto in mente prima di quel momento: un’infanzia e una giovinezza completamente diverse
dalle sue. Fino a quell’istante, aveva pensato che più o meno tutti i bambini vivessero nello stesso
modo. I due ragazzini erano vestiti di stracci, ma le loro camicie sembravano comode, con le maniche
corte a lasciare scoperti gli avambracci. A Kelsea era permesso di indossare solamente camicie a
collo alto e con maniche lunghe e strette, in modo che nessun viandante potesse mai vederle il
braccio o scorgere la collana che non poteva togliere. Li aveva ascoltati, rendendosi conto che
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faticavano a parlare correttamente la lingua Tear: nessuno li aveva fatti sedere ogni mattina per
insegnare loro la grammatica. Era pomeriggio inoltrato, ma non erano a scuola.
“Emmet, te fa’ il Mort, e io il Tear”, aveva annunciato il più vecchio dei due con aria fiera.
“No il Mort, i Mort so’ bassi”, aveva protestato il più piccolo. “La mamma ha detto di farmi fare il Tear
ogni tanto”.
“Vabbé, te fa’ il Tear, ma io c’ho poteri magici”.
Dopo averli osservati per un po’, Kelsea si era resa conto della vera differenza o, perlomeno, di ciò
che aveva richiamato la sua attenzione: quei bambini giocavano insieme. In quel momento era a sole
cinquanta iarde di distanza ma la loro amicizia l’aveva fatta sentire lontana come la luna. E la quel
senso di estraneità era aumentato quando la madre, una donna rotondetta che non aveva certo la
grazia maestosa di Carlin, era uscita per chiamarli a cena.
“Ew! Martin! A lavarvi! Su!”
“No!”, aveva risposto il più piccolo. “Dobbiamo finire”.
Raccogliendo un bastone da una piccola catasta a terra, la madre era intervenuta nel loro gioco,
combattendo contro entrambi mentre i ragazzini ridacchiavano e cacciavano qualche urlo. Poi li
aveva sollevati entrambi, stringendoli a sé mentre li portava in casa, un lungo abbraccio. Stava
scendendo la notte e Kelsea sapeva bene che avrebbe dovuto cercare la strada di casa, ma non era
riuscita a staccare gli occhi da quella scena. Carlin non mostrava mai alcun segno d’affetto,
nemmeno nei confronti di Barty, e il massimo che Kelsea poteva sperare di ottenere era un sorriso.
Certo, era l’erede al trono dei Tear e Carlin le aveva detto tante volte di quale enorme onore si
trattasse. Ma, durante la lunga cavalcata verso casa, Kelsea non era riuscita a scrollarsi di dosso
l’impressione che quei due bambini avessero ricevuto un tesoro ben più prezioso del suo.
Quando era finalmente arrivata, l’ora di cena era passata da un pezzo. Barty e Carlin si erano
preoccupati. Barty l’aveva sgridata per un po’, ma Kelsea aveva notato il sollievo nel suo volto e
prima di mandarla in camera sua, l’aveva abbracciata. Carlin si era limitata a fissarla prima di
informarla che per una settimana non le sarebbe stato consentito prendere alcun libro in biblioteca.
Quella notte, nel suo letto, Kelsea aveva capito di essere stata completamente e orribilmente
ingannata. Fino a quel giorno aveva creduto che Carlin fosse almeno la sua madre adottiva, se non
quella vera; ma in quel momento aveva capito di non avere affatto una madre ma solo una vecchia
gelida che pretendeva tutto da lei e poi teneva ogni emozione per sé.
Due giorni dopo, Kelsea aveva infranto di nuovo le regole poste da Carlin, stavolta di proposito, ed
era partita con l’intenzione di ritrovare quel cottage nel bosco. Ma a metà strada aveva lasciato
perdere ed era tornata indietro. Disobbedire non le dava alcuna soddisfazione: anzi, la spaventava
moltissimo. Le era sembrato di sentire lo sguardo di Carlin sul collo. Kelsea non aveva mai più
oltrepassato quel confine: per lei non sarebbe esistito altro mondo al di fuori del bosco che circondava
il cottage, del quale conosceva ogni particolare già a dieci anni. Ora, mentre le guardie si
addentravano nella foresta, Kelsea, che stava in mezzo a loro, sorrise tra sé e sé osservando con
attenzione quei posti che non aveva mai visto.
Erano diretti a sud, attraverso il cuore della foresta di Reddick che copriva centinaia di miglia nella
parte nord-occidentale della nazione. Ovunque, c’erano querce del Tearling, alcune alte cinquanta o
sessanta piedi. Le loro corone formavano una volta verde sopra le teste dei cavalieri. E c’era anche
un sottobosco di cui Kelsea non riconosceva le piante. I rami sembravano quelli della radice
strisciante: ottima per le proprietà sedative e per preparare impacchi. Ma quelle foglie erano più
lunghe, verdi e ricurve, con qualche sfumatura rossastra che faceva pensare alla quercia velenosa.
Kelsea si sforzò di evitare quelle foglie, ma in alcune occasioni non poté farne a meno: il sottobosco
s’infittiva man mano che scendevano. Non erano lontani dal sentiero ma, mentre attraversavano un
tappeto dorato di scricchiolanti foglie di quercia, Kelsea immaginò che il mondo intero avrebbe potuto
sentirli passare.
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Le guardie si erano disposte intorno a lei a diamante, mantenendosi equidistanti nonostante i
cambiamenti di velocità imposti dalle variazioni del terreno. Lazarus, quello con la mazza chiodata,
era alle sue spalle, lontano dalla sua vista. Alla sua destra c’era la guardia con la barba rossa, quello
che non si era fidato di lei. Mentre cavalcavano, Kelsea lo osservava con attenzione. I capelli rossi
erano un gene recessivo, e nei tre secoli passati dal Crossing aveva cominciato a scomparire,
lentamente ma inesorabilmente. Carlin aveva detto a Kelsea che certe donne, e addirittura certi
uomini, si tingevano i capelli di rosso, perché la rarità della cosa lo rendeva un valore aggiunto. Ma,
dopo un’ora di sguardi furtivi, Kelsea si era convinta che quell’uomo avesse i capelli rossi naturali:
non esisteva una tintura così perfetta. Indossava un piccolo crocifisso d’oro che scintillava mentre
cavalcavano. Anche quello fece pensare Kelsea: il crocifisso era il simbolo della Chiesa di Dio, e
Carlin le aveva detto moltissime volte che della Chiesa e dei suoi preti non bisognava fidarsi.
Alle spalle del rosso c’era un uomo biondo, così straordinariamente bello che Kelsea si scoprì a
scoccargli qualche sguardo di sottecchi nonostante fosse troppo vecchio per lei: aveva superato i
quarant’anni. Il volto era quello di uno degli angeli raffigurati nei libri di Carlin che parlavano dell’arte
prima del Crossing. Ma aveva un’aria stanca e borse sotto gli occhi, a suggerire che non dormiva da
qualche tempo. Ma, in qualche modo, quell’estrema stanchezza lo rendevano ancora più
affascinante. L’uomo si voltò e vide che Kelsea lo stava fissando; la giovane si girò di scatto, con le
guance in fiamme.
Sulla sua sinistra cavalcava una guardia alta, con i capelli scuri e le spalle ampie. Sembrava il tipo
d’uomo al quale rivolgersi per minacciarne altri. Quello di fronte a lui era molto più basso, quasi
smilzo, con i capelli color castano chiaro. Kelsea lo fissò con attenzione, perché sembrava il più vicino
a lei per età: forse non aveva ancora raggiunto i trent’anni. Cercò di coglierne il nome, ma quando le
due guardie parlavano lo facevano a bassa voce in modo che lei non sentisse.
Carroll, il capo, cavalcava in testa al gruppo. Tutto ciò che Kelsea poteva vedere di lui era il mantello
grigio. Ogni tanto abbaiava un ordine, e tutto il gruppo cambiava direzione mantenendo la
formazione. Avanzava sicuro, senza aver bisogno della guida di nessuno; Kelsea era certa che
l’avrebbe condotta a destinazione. Quell’attitudine al comando era fondamentale per un capitano
delle guardie; Carroll era un uomo di cui avrebbe avuto bisogno per sopravvivere. Ma come avrebbe
potuto conquistarsi la fedeltà anche solo di uno fra loro? Probabilmente la ritenevano debole. Forse
pensavano che tutte le donne lo fossero.
Sopra di loro, un falco gridò; Kelsea si coprì la fronte con il cappuccio. I falchi erano creature
meravigliose ma, se necessario, potevano rivelarsi un ottimo cibo. Barty le aveva insegnato che a
Mormesne, e anche nelle zone di confine del Tear, potevano essere addestrati a uccidere. Lo aveva
detto distrattamente, solo una curiosità, ma Kelsea non l’aveva mai dimenticato.
“Verso sud, ragazzi!”, comandò Carroll, e la compagnia cambiò direzione ancora una volta. Il sole
stava rapidamente tramontando oltre l’orizzonte, e il vento iniziava a portare il gelo della notte
imminente. Kelsea sperava di fermarsi presto ma piuttosto di lamentarsi avrebbe preferito congelare
in sella. La fedeltà cominciava dal rispetto.
“Nessun sovrano ha mai mantenuto il potere a lungo senza il rispetto dei suoi sudditi”, le aveva detto
mille volte Carlin. “I sovrani che tentano di tenere sotto controllo un popolo che non li vuole non
combinano mai niente di buono e spesso finiscono anzi per avere la testa mozzata e piantata su una
picca”.
Il consiglio di Barty era stato ancora più tagliente: “Conquisterai il popolo o perderai il trono”.
Ottimi consigli, e in quel momento Kelsea ne capiva ancora di più la saggezza. Ma non sapeva cosa
fare. Come poteva dare ordini a qualcuno?
Ho diciannove anni: non dovrei più avere paura.
Ma ne aveva.
Strinse più forte le redini, pentendosi di non essersi infilata i guanti. Ma era stata troppo ansiosa di
lasciarsi alle spalle il cottage. E ora aveva le punte delle dita intorpidite e i palmi delle mani scorticati
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e arrossati a causa del cuoio grezzo delle redini. Fece quanto poteva per coprirsi le nocche con le
maniche e continuò a cavalcare.
Un’ora più tardi, Carroll fece fermare la compagnia. Avevano raggiunto una piccola radura, circondata
da querce del Tearling e un fitto sottobosco di radice strisciante e di quella misteriosa pianta dalle
foglie rosse. Kelsea si chiese se una delle guardie per caso sapesse di che pianta si trattasse. Ogni
gruppo di guardie aveva sempre un medico con sé che avrebbe dovuto conoscere le piante. Anche
Barty era stato un medico e anche se non era stato suo compito insegnare a Kelsea la botanica, la
ragazza aveva presto imparato che quasi ogni lezione poteva essere interrotta dalla scoperta di una
pianta interessante.
Le guardie si strinsero intorno a Kelsea e attesero che Carroll tornasse indietro. Si avvicinò a lei,
notando il suo volto arrossato e le mani strette intorno alle redini. “Se lo desiderate, maestà,
possiamo fermarci per la notte. Abbiamo viaggiato abbastanza”.
Con un po’ di fatica, Kelsea abbandonò le redini e tolse il cappuccio dal volto, cercando di non battere
i denti. Quando parlò, la voce le uscì roca e incerta. “Mi fido del suo giudizio, capitano. Avanzeremo
fino a quando lo riterrà necessario”.
Carroll la fissò per un istante, poi si guardò intorno. “Qui può andare, mia signora. Domani dovremo
alzarci molto presto, e abbiamo già cavalcato a lungo”.
Gli uomini smontarono. Kelsea, che non era ancora abituata a rimanere in sella per così tanto tempo,
saltò goffamente a terra, quasi cadendo, poi incespicò fino a riprendere l’equilibrio.
“Pen, la tenda. Elston, Kibb, andate a far legna. Tutti gli altri si occupino delle difese. Mhurn, vai a
caccia, cattura qualcosa da mangiare. Lazarus, il cavallo della regina”.
“Mi prenderò io cura del mio cavallo, capitano”.
“Come desiderate, mia signora. Lazarus vi darà quel che vi serve”.
I soldati si separarono, ciascuno pronto ad adempiere il compito assegnato. Kelsea, chinandosi,
provò sollievo nello sciogliere la schiena. Le gambe le facevano male come se fosse stata colpita più
volte, ma non aveva intenzione di rilassarsi di fronte a tutti quegli uomini. Certo, erano vecchi, troppo
vecchi perché Kelsea li potesse trovare attraenti. Ma erano uomini, e si sentì all’improvviso a disagio
di fronte a loro, come non si era mai sentita con Barty.
Condusse la cavalla fino a un albero sul lato opposto della radura, legando le redini intorno a un
ramo, senza stringere troppo. Le accarezzò delicatamente il collo dal manto lucido come seta ma la
cavalla scosse la testa nitrendo: non voleva gesti d’affetto. Kelsea indietreggiò. “Va bene, ragazza
mia. Evidentemente devo guadagnarmi anche la tua, di fiducia”.
“Maestà”, ruggì una voce alle sue spalle.
Kelsea si girò e vide Lazarus con in mano una spazzola. Non era vecchio come le era sembrato
all’inizio: aveva appena cominciato a perdere i capelli neri, e forse aveva solo passato da poco i
quaranta. Ma aveva il volto molto segnato e un’aria cupa. Le mani erano coperte di cicatrici, ma era la
mazza che portava alla cintura ad attirare la sua attenzione: una palla di ferro coperta di punte
d’acciaio, ognuna di esse aguzza come uno spillo.
Un killer nato, pensò. Una mazza chiodata non era altro che una decorazione se non veniva
impugnata con la ferocia necessaria. Quell’arma avrebbe dovuto farle gelare il sangue nelle vene, e
invece si sentì rassicurata dalla presenza di un uomo come lui, che certamente aveva avuto nella
violenza una compagna di vita. Accettò la spazzola, notando che Lazarus teneva lo sguardo basso.
“Grazie. Non sa, per caso, come si chiama la cavalla?”
“Siete voi la regina, mia signora. Potete chiamarla come più vi piace”. I suoi occhi privi d’espressione
incrociarono, per un istante, quelli di Kelsea, poi distolse lo sguardo.
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“Non ho il diritto di darle un nuovo nome. Come si chiama?”
“È vostro diritto fare ciò che desiderate”.
“Come si chiama? Per favore”. Kelsea iniziava a innervosirsi. Tutti gli uomini sembravano avere una
pessima opinione di lei: perché?
“Non ha un vero nome, mia signora, ma io l’ho sempre chiamata May”.
“Ti ringrazio. È un bel nome”.
L’uomo iniziò ad allontanarsi. Kelsea inspirò, facendosi coraggio, poi disse, con tono gentile: “Non ti
ho detto che potevi andartene, Lazarus”.
L’uomo si girò, con il volto ancora impassibile. “Perdonatemi. Desiderate qualcos’altro, mia signora?”
“Perché mi avete portato una cavalla mentre voi montate stalloni?”
“Non eravamo certi che sapeste cavalcare, mia signora”, rispose. Stavolta la derisione nella sua voce
era palese. “Non sapevamo se sareste stata in grado di controllare uno stallone”.
Gli occhi di Kelsea divennero fessure. “Cosa diavolo pensavate che avessi fatto qui nel bosco per tutti
questi anni?”
“Pensavamo a giochi con le bambole, mia signora. O pettini o magari vestiti”.
“Ti sembro la tipica ragazzina, Lazarus?”. Kelsea si accorse di aver alzato la voce. Varie teste si
erano girate a guardarli. “Ti sembro una che passa le ore della propria giornata davanti allo
specchio?”
“Per nulla”.
Kelsea sorrise: lo fece debolmente, quasi le costasse fatica. Barty e Carlin non avevano mai avuto
specchi nel cottage, e per lungo tempo Kelsea aveva pensato che avessero deciso così per evitare
che si lasciasse prendere dalla vanità. Ma un giorno, a dodici anni, aveva visto il suo riflesso nella
pozza dietro al cottage e aveva capito fin troppo bene: aveva un volto banale come l’acqua nella
quale si stava specchiando.
“Ora posso andare, mia signora?”
Lo fissò per un istante, riflettendo, poi rispose: “Dipende, Lazarus. Ho una bisaccia piena di bambole
e vestitini con cui giocare. Hai voglia di pettinarmi un po’?”
L’uomo rimase immobile per un istante, con un’espressione indefinibile negli occhi. Poi,
inaspettatamente, fece un inchino, così profondo ed esagerato da risultare falso. “Potete chiamarmi
Mazza Chiodata, se lo desiderate, maestà. Lo fanno quasi tutti”.
Poi se ne andò, il suo mantello grigio scomparve nelle ombre del crepuscolo. Kelsea si ricordò di
avere in mano una spazzola e si girò per occuparsi della cavalla. Mentre si dava da fare, si
abbandonò ai pensieri della mente.
Forse essere audace li conquisterà.
Non guadagnerai mai il rispetto di questa gente: sarai fortunata se sopravvivrai fino alla Fortezza.
Forse sì, ma devo tentare qualcosa.
Come se avessi scelta. Non puoi fare altro se non quello che ti dicono loro.
Sono la regina, non devo sottostare ai loro ordini.
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È quello che pensa la maggior parte delle regine, finché non le viene tagliata la testa.
A cena mangiarono cervo. La carne era stopposa, appena commestibile anche dopo essere stato
arrostita sul fuoco. L’animale doveva essere stato molto vecchio. Attraversando Reddick, Kelsea
aveva notato solo pochi uccelli e qualche scoiattolo, ma la vegetazione era lussureggiante: di sicuro
non mancava l’acqua. Avrebbe voluto chiedere agli uomini perché non c’erano animali, ma temeva
che la prendessero per una lamentela riguardo al cibo. Quindi masticò in silenzio la carne dura e fece
del suo meglio per non fissare le guardie che la circondavano o le armi che pendevano dalle cinture.
Le guardie non parlavano, e Kelsea non poté fare a meno di pensare di essere lei la causa di quel
silenzio, negando agli uomini una piacevole conversazione.
Dopo cena, le tornò in mente il regalo di Carlin. Prese una delle lanterne accese e andò a recuperare
la sacca per la notte, appesa alla sella. Due guardie, Lazarus e quello alto con le spalle larghe che
aveva notato durante il viaggio, abbandonarono il falò seguendola fino al recinto, senza fare rumore.
Kelsea si rese conto che, dopo anni di isolamento, non l’avrebbero più lasciata sola. Forse quell’idea
avrebbe dovuto confortarla, ma invece le diede la sensazione di avere uno scudo di ghiaccio sullo
stomaco. Ripensò a un fine settimana di tanti anni prima, quando aveva sette anni: Barty si stava
preparando ad andare fino al villaggio per vendere carne e pellicce. Lo faceva ogni tre o quattro mesi,
ma, in quell’occasione, Kelsea si era impuntata a voler andare a tutti i costi con lui, al punto che
pensava sarebbe morta se non avesse potuto accompagnarlo. Aveva fatto una vera e propria
scenata sul tappeto della biblioteca, con tanto di urla e piantu. Aveva pestato i piedi per la
frustrazione.
Carlin non aveva pazienza per quel genere di cose. Inizialmente aveva cercato di ragionare con
Kelsea, poi era sparita nella sua biblioteca. Era stato Barty ad asciugarle le lacrime sul viso,
prendendola sulle ginocchia fino a quando non aveva smesso di piangere.
“Sei preziosa, Kel”, le aveva spiegato. “Sei più preziosa del cuoio e dell’oro. Se qualcuno scoprisse
che sei qui con noi, ti rapirebbe. Non vuoi essere rapita, vero?”
“Ma se nessuno sa che sono qui allora resterò sola”, aveva risposto lei fra i singhiozzi. Era un
concetto che aveva ben chiaro nella mente: nessuno sapeva di lei e dunque era completamente sola.
Barty aveva scosso il capo sorridendo. “È vero, Kel. Nessuno sa che sei qui. Ma tutto il mondo sa chi
sei. Pensaci per un minuto. Come fai a essere sola se tutto il mondo pensa a te ogni giorno?”
Nonostante avesse solo sette anni, Kelsea aveva considerato la risposta di Barty fin troppo vaga. Era
stata sufficiente a farla smettere di piangere e a cancellare la rabbia, ma spesso nelle settimane
successive si era arrovellata su quella frase, cercando l’inganno che celava. Solo un anno più tardi,
leggendo uno dei libri di Carlin, aveva scoperto che la parola su cui aveva rimuginato per tutto quel
tempo non era sola, ma anonima. L’avevano relegata nell’anonimato per anni e, a lungo, aveva
pensato che Carlin, se non Barty, la nascondesse per crudeltà. Ma in quel momento, con quei due
uomini alti che la seguivano, si chiese se quell’anonimato non fosse stato un dono. Se lo era stato,
era comunque perduto.
Gli uomini avrebbero dormito intorno al fuoco, ma avevano piantato una tenda per Kelsea a una
ventina di passi di distanza, al limite della radura. Entrò e chiuse la tenda alle sue spalle; udì le due
guardie prendere posizione ai lati dell’ingresso, quindi calò il silenzio.
Lasciata cadere a terra la sacca, Kelsea frugò tra i vestiti fino a trovare una candida busta di carta
pergamena: uno dei pochi lussi che Carlin si concedeva. Al suo interno, qualcosa si mosse. Kelsea si
sedette sul giaciglio fissando la lettera, nella speranza che contenesse tutte le risposte che le
servivano. Era stata portata via dalla Fortezza quando aveva appena un anno, e non le era rimasto
alcun ricordo di sua madre. Con il passare degli anni era riuscita a scoprire qualcosa riguardo alla
regina Elyssa: era bellissima, non le piaceva leggere ed era morta a ventotto anni. Kelsea non
sapeva come fosse morta: quello era terreno proibito. Ogni volta che cominciava a fare domande
riguardo a lei, finiva sempre nella stessa maniera. Carlin scuoteva la testa mormorando:“Ho
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promesso”. Forse adesso Carlin era stata finalmente sciolta dalla sua promessa. Kelsea fissò la busta
ancora per qualche istante, poi sollevò l’orlo piegato, spezzando il sigillo di Carlin.
Ne uscì un gioiello blu con una catenina d’argento.
Kelsea prese la catenina e se la lasciò pendere dalle dita, fissandola alla luce della lanterna. Era
uguale alla collana che portava al collo da sempre: uno zaffiro con taglio a smeraldo e una delicata
catenina d’argento. Lo zaffiro rifulgeva, riempiendo l’interno della tenda di cangianti bagliori.
Kelsea guardò nella busta, in cerca di una lettera. Nulla. Cercò dappertutto. Sollevò la busta
mettendola in controluce, e vide una sola parola scritta sotto al sigillo, con la grafia di Carlin.
Attenta
Dal falò giunse una risata improvvisa, che la fece sussultare. Con il cuore in gola, rimase in ascolto
per sentire cosa avrebbero fatto le due guardie fuori dalla tenda, ma non accadde nulla.
Si sfilò il pendente e lo guardò vicino all’altro. Erano davvero identici, gemelli perfetti, perfino nei
dettagli della catenina. Sarebbe stato fin troppo facile confonderli. Si rimise in fretta il suo.
Tenne ancora in mano il nuovo gioiello, guardando il pendente oscillare avanti e indietro. Era
perplessa. Carlin le aveva detto che ogni erede al trono dei Tearling indossava lo zaffiro sin dalla
nascita. Una leggenda popolare raccontava che proteggesse dalla morte. Quando era piccola, Kelsea
aveva pensato più di una volta di sfilarlo, ma il potere della superstizione si era dimostrato più forte: e
se un fulmine l’avesse incenerita immediatamente? E quindi non aveva mai osato toglierlo. Carlin non
aveva mai parlato di un secondo gioiello, ma evidentemente era stato in suo possesso per tutto quel
tempo. Segreti… tutto ciò che riguardava Carlin era un segreto. Kelsea non sapeva perché era stata
affidata a lei, né chi fosse stata prima di allora. Di certo doveva trattarsi di una persona importante, si
comportava con troppa grandeur per vivere in un cottage. Anche la presenza di Barty sembrava
sfumare quando Carlin entrava in una stanza.
Kelsea osservò la parola scritta sulla busta: Attenta. Era un’altra raccomandazione per quella nuova
vita che stava per affrontare? Non pensava che lo fosse: aveva sentito tutto quello che c’era da
sentire a quel riguardo nelle settimane precedenti. Le sembrava più probabile che quel nuovo
pendente fosse in qualche modo diverso, forse addirittura pericoloso. Ma come? Il suo non lo era
affatto, altrimenti Barty e Carlin non le avrebbero certo consentito di indossarlo ogni giorno.
Fissò il secondo gioiello: pendeva con la luce fioca che ne faceva scintillare le facce. Sentendosi
sciocca, s’infilò il pendente nella tasca anteriore del mantello. Forse alla luce del giorno sarebbe stato
più semplice cogliere qualche differenza. Infilò la busta nella lanterna e guardò le fiamme divorare la
carta spessa. L’ira le faceva pulsare il cervello: tipico di Carlin, fare domande senza dare risposte.
Si distese, guardando la tela della tenda sopra di sé. Nonostante gli uomini lì fuori, si sentiva
completamente sola. In ogni altra notte della sua vita, era stata consapevole della presenza di Barty e
Carlin al piano di sotto, svegli, Carlin con un libro in mano e Barty intento a intagliare il legno o a
dilettarsi con una pianta appena colta, usandola per preparare un anestetico o un antibiotico. Ma ora
Barty e Carlin erano lontani, diretti a sud.
Sono sola.
Un’altra risata tuonò dal falò. Per un istante Kelsea pensò di uscire per tentare almeno di parlare con
le guardie, ma poi decise di no. Di certo parlavano di donne, o di battaglie, o forse di vecchi
compagni… la sua presenza non sarebbe stata gradita. E poi era esausta a causa della cavalcata e
del freddo, e i muscoli delle cosce le facevano un male terribile. Spense la lanterna girandosi su un
fianco, in attesa d un sonno inquieto.
Il giorno successivo cavalcarono più lentamente, perché il tempo era peggiorato. L’aria non era più
tagliente, ma una bruma sottile e malevola sembrava impregnare qualunque cosa, avvolgendo i
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tronchi degli alberi e galleggiando in banchi ben visibili. Il terreno si faceva sempre più pianeggiante, i
boschi meno fitti; gli alberi lasciavano spazio a una vegetazione fatta di arbusti. Iniziarono a
comparire altri animali, la maggior parte dei quali sconosciuti a Kelsea: scoiattoli molto piccoli e
creature somiglianti ai lupi ma molto più mansuete, tanto da fuggire alla vista delle guardie. Ma non
videro un solo cervo. Al termine della mattinata Kelsea comprese quale fosse l’altra causa della sua
crescente inquietudine: non sentiva il canto degli uccelli.
Anche le guardie sembravano soggiogate da quell’atmosfera. Durante la notte Kelsea era stata
svegliata in più di un’occasione dalle loro risate, tanto da chiedersi se avrebbero mai fatto silenzio,
andando a dormire. Ma ora tutta la loro allegria sembrava sparita come il bel tempo. Con il proseguire
del giorno, Kelsea notò che si sambiavano occhiate spaventate, anche se lei non vedeva che alberi.
Verso mezzogiorno, si fermarono per far abbeverare i cavalli a un torrente che tagliava a metà il
bosco. Carroll tirò fuori una mappa e si chinò su di essa, insieme ad alcune delle altre guardie. Dai
frammenti di conversazione che colse, Kelsea capì che la nebbia stava causando problemi perché
rendeva difficile identificare i punti di riferimento.
Zoppicò fino a una grossa pietra piatta vicino al torrente. Sedersi le fece molto male, quando piegò le
ginocchia le parve che i muscoli delle anche si volessero staccare dalle ossa. Con un po’ di
attenzione riuscì a sedersi a gambe incrociate, solo per scoprire che le facevano male anche i glutei a
causa delle ore passate in sella.
Elston, la gigantesca guardia dalle spalle larghe che le aveva cavalcato al fianco durante la maggior
parte del viaggio, la seguì fino alla pietra, fermandosi a cinque passi di distanza. Quando Kelsea alzò
lo sguardo, Elston rispose con un sorriso sgradevole, mostrando una bocca piena di denti spezzati.
Tentò di ignorarlo e allungò una gamba, piegandosi poi come a volersi afferrare il piede. I muscoli
delle cosce le regalarono un dolore lancinante.
“Fa male?”, le chiese Elston. Parlava male, a causa dei denti: Kelsea faticò a capire cosa avesse
detto.
“Neanche un po’”.
“Cavoli, riuscite a malapena a muovervi”. Ridacchiò, poi aggiunse: “Mia signora”.
Kelsea allungò il braccio e si prese le dita del piede. I muscoli delle cosce parvero urlare, a Kelsea
sembrava di essere in carne viva, ferite che si aprivano sanguinando all’interno del suo corpo. Si
tenne le dita per circa cinque secondi, poi lasciò andare. Quando guardò di nuovo Elston, vide che
aveva ancora quel sorriso spezzato in volto. La guardia non disse altro, limitandosi a rimanere
dov’era fino a quando non giunse il momento di rimettersi in sella.
Si accamparono quasi al tramonto. Kelsea era appena scesa di sella quando qualcuno le tolse di
mano le redini. Si girò e vide Mazza Chiodata che conduceva la cavalla. Aprì la bocca per protestare,
poi ci ripensò e tornò a voltarsi verso le altre guardie, che avevano iniziato a dedicarsi ai loro compiti.
Notò che il più giovane stava estraendo la sua tenda dalle bisacce.
“Ci penso io!”, esclamò attraversando la radura a grandi passi e tendendo le mani per ricevere
qualche attrezzo, o magari un’arma, non aveva importanza: non si era mai sentita così inutile.
La guardia le consegnò un martello con la testa piatta, dicendo: “Per montare la tenda sono
necessarie due persone, maestà. Mi permettete di aiutarvi?”
“Certamente”, rispose Kelsea, soddisfatta.
Con una persona che teneva fermi i vari elementi e un’altra che li piantava con il martello, montare la
tenda fu semplice, quindi Kelsea finì per parlare con la guardia mentre lavorava. Si chiamava Pen, ed
era piuttosto giovane: non sembrava avere più di trent’anni, e il suo viso non presentava nessuna
delle rughe o dei segni del tempo che scavavano solchi sui volti degli altri. Era bello, con i capelli neri
e un’espressione allegra, aperta. A pensarci bene erano tutte belle le guardie di sua madre, anche
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quelle sopra i quarant’anni, perfino Elston, se teneva la bocca chiusa. Di certo sua madre non poteva
averli scelti solo per il loro aspetto…
Scoprì di essere a proprio agio quando parlava con Pen. Quando gli chiese quanti anni avesse, lui
rispose che quattro giorni prima ne aveva compiuti trenta.
“Sei troppo giovane per essere stato una dei soldati di mia madre”.
“È vero, mia signora: non l’ho mai incontrata”.
“E allora perché ti hanno portato in questa spedizione?”
Pen scosse le spalle indicando la spada.
“Da quanto tempo sei una guardia?”
“Mazza Chiodata mi ha trovato quando avevo quattordici anni, mia signora, e da allora ho cominciato
ad allenarmi”.
“Senza nessun sovrano presente? Sei stato tra le guardie di mio zio?”
“No, mia signora”. Un’ombra di disgusto attraversò il volto di Pen, così rapidamente che forse Kelsea
l’aveva solo immaginata. “Il reggente ha le sue guardie”.
“Ho capito”. Finì di piantare un picchetto, poi si alzò in piedi, stiracchiandosi con una smorfia; si sentì
la schiena schioccare.
“Vi state abituando a questo ritmo, maestà? Immagino che non abbiate intrapreso molti lunghi viaggi
a cavallo prima d’ora”.
“Il ritmo va bene, e mi sembra di capire che sia necessario”.
“È vero, mia signora”. Pen abbassò la voce e si guardò intorno. “C’è qualcuno sulle nostre tracce”.
“Come fai a saperlo?”
“I falchi”. Pen indicò il cielo. “Ci hanno seguiti fin da quando abbiamo lasciato la Fortezza. Ieri siamo
arrivati tardi perché abbiamo fatto diverse deviazioni nella speranza di confondere gli inseguitori. Ma i
falchi non si possono beffare, e chi li controlla, chiunque sia, ora è certamente alle nostre spalle…”
Pen fece una pausa. Kelsea prese un altro picchetto e notò: “Oggi non ho sentito alcun verso di
falco”.
“I falchi del Mort non emettono alcun grido, mia signora, vengono addestrati per rimanere in silenzio.
Ma, ogni tanto, li si può vedere in volo, a patto di cercarli con attenzione. Sono incredibilmente veloci”.
“Perché non ci attaccano?”
“Per via del nostro numero”. Pen tese l’ultimo lembo della tenda per permettere a Kelsea di piantare i
picchetti. “I Mort addestrano i falchi come se fossero soldati, e quindi non attaccherebbero mai
qualcuno superiore in forze: cercheranno di prenderci uno alla volta, se possibile”.
Pen smise di parlare, e Kelsea agitò il martello nella sua direzione. “Non aver paura di spaventarmi.
Qualunque sia la storia che decidi di raccontarmi, temo comunque la morte”.
“Può darsi, mia signora, ma la paura può fa vacillare chiunque”.
“Questi inseguitori sono stati mandati da mio zio?”
“È probabile, mia signora, ma la presenza dei falchi fa pensare che vostro zio abbia qualche aiuto”.
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“Spiegati meglio”.
Pen si guardò intorno, sussurrando: “Me l’avete ordinato voi, maestà ed è quello che dirò a Carroll se
mi chiederà spiegazioni. Sono anni che vostro zio ha contatti con la regina rossa. C’è chi afferma che
abbiano stretto un’alleanza segreta”.
La regina di Mortmesne. Nessuno sapeva chi fosse né da dove venisse ma era diventata potente; il
suo regno sanguinario durava da oltre un secolo. Carlin considerava Mortmesne una minaccia:
un’alleanza con il regno confinante sarebbe stata una buona cosa. Prima che Kelsea potesse porre
altre domande, Pen continuò. “Ai Mort non è permesso vendere armi ai Tear, ma chiunque abbia a
disposizione abbastanza denaro può acquistare falchi dei Mort sul mercato nero. Secondo me i nostri
inseguitori sono Caden”.
“La corporazione degli assassini?”
Pen sbuffò. “Corporazione. Mia signora, chiamarla così significa attribuire loro un grado di
organizzazione che non hanno affatto. Comunque sì, si tratta di assassini molto competenti. Si dice
che vostro zio abbia offerto una grossa taglia a chiunque sia in grado di rintracciarla. E i Caden
vivono per sfide come questa”.
“E loro saranno fermati dal nostro numero?”
“No”.
Kelsea rifletté su quella risposta, guardandosi intorno. Al centro dell’accampamento, tre guardie
stavano attorno a un mucchio di legna appena raccolta; imprecavano continuamente, perché
sembrava quasi rifiutarsi di ardere. Gli altri disponevano tronchi tagliati intorno all’accampamento,
tentando di creare una sorta di rudimentale fortino. Lo scopo di tutte quelle misure difensive, ora, le
era chiaro, e Kelsea non poté evitare di provare un fremito di paura e senso di colpa. Nove uomini, e
tutti erano, come lei, bersagli.
“Signore!”
Carroll emerse dalla foresta con passo pesante. “Cosa c’è?”
“Un falco, signore. Da nordovest”.
“Complimenti per averli notati, Kibb”. Carroll si strofinò la fronte e, dopo averci pensato per un istante,
si avvicinò alla tenda.
“Pen, vai ad aiutare a preparare la cena”.
Pen fece un sorriso sbarazzino in direzione di Kelsea, un’espressione che sembrava suggerire
gentilezza, poi sparì nel crepuscolo.
Gli occhi di Carroll erano cerchi neri. “Stanno per attaccarci, mia signora: siamo inseguiti”.
Kelsea annuì.
“Siete in grado di combattere?”
“So difendermi con il coltello contro una sola persona, ma me ne intendo molto poco di spade”. E poi,
si rese conto all’improvviso, era stata istruita da Barty il quale non aveva certo i riflessi di un
ragazzino. “Non sono una guerriera”.
Carroll piegò la testa: per un istante i suoi occhi scuri furono attraversati da una luce divertita. “Non
saprei, mia signora: vi ho osservato durante questo viaggio e siete brava a fare buon viso a cattivo
gioco. Ma sta per giungere il momento…”. Carroll si guardò intorno e abbassò la voce, poi riprese:
“…sta per giungere il momento in cui potrei avere bisogno di dividere i miei uomini per sfuggire ai
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nostri inseguitori. Se accadrà, la scelta di chi vi accompagnerà dipenderà molto anche dalle vostre
capacità”.
“Leggo molto in fretta e faccio un ottimo stufato”.
Carroll annuì in segno di approvazione. “Avete un grande senso dell’umorismo in una situazione così
pericolosa, mia signora: vi servirà. La vita che state per iniziare è irta di ostacoli”.
“State tutti correndo un grosso rischio per scortarmi fino alla Fortezza, però, vero?”
“Vostra madre ci ha affidato questo incarico, mia signora”, rispose Carroll irrigidendosi. “Il nostro
onore non ci permetterebbe di fare di meno”.
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