Un`atmosfera rilkiana? La pittura di Mario Moretti

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Un`atmosfera rilkiana? La pittura di Mario Moretti
Un’atmosfera rilkiana? La pittura di Mario Moretti
di Alberto Gianquinto
Sebbene sia ormai noto che nella pittura di Moretti la natura - dominante tema - sia ben
altro che natura direttamente letta e creata, en plein air, ma risultato di profonda meditazione
ricostruttiva di esperienze vissute, che a loro volta non hanno una diretta consistenza
‘letteraria’ (nonostante le citazioni e i dovuti richiami da farsi a Giorgio Morandi, soprattutto,
e paralleli possibili, ma pur lontani, da stabilire per esempio con Guccione): sebbene dunque
si sia qui in presenza di una natura, oggetto di una riflessione tutt’altro che letteraria, c’è
invece, nell’Erlebnis, nel vissuto, da cui essa si genera e in quella riflessione sotterranea che
l’accompagna, una presenza più riservata, più nascosta e segreta, e in questo non più
letteraria, ma esistenziale ed anche filosofica, che è un’atmosfera di riferimento, anche se non
necessariamente un nome: Reiner Maria Rilke.
Morandi, per esempio, è indubbiamente riferimento, nella semplificazione delle forme, fino
alla riduzione larvale della realtà, fino al suo prosciugamento in una intuìta essenza della
natura; un riferimento, ma non citazione, nella risoluzione della materia in luce, nella
costruzione di una dimensione letteralmente atmosferica del quadro, che sta però anche al di
là della costruzione di quello ‘spazio’, nel quale soltanto – invece - Morandi poteva dare
collocazione al suo oggetto; se tutto questo è pure richiamo, ma senza citazione esplicita, la
proprietà più profonda e pertinente di questa natura di Moretti è il segreto, quel carattere di
“mistero limpido, non ermetico”, che connota la musica di Claude Debussy, senza restare
impaludato nelle foreste del simbolismo, e che Vladimir Jankélévitch classifica come mistero
del destino, dell’angoscia, della voluttà e della morte (nel Pelléas et Mélisande in primo luogo)
e come mistero del Mezzogiorno (specie nei Préludes, nelle Images e nelle Estampes), dove è
proprio l’ambiente, la sua atmosfera, il segreto in cui la natura stessa (con i suoi oggetti
emergenti) si immerge: sono anamnesi istantanee, eppure profonde come totalità di
esperienza vissuta, allusive di nulla, eppure archetipiche, senza ambiguità, eppure trasversali
e ambie nel passo, e di una verticalità semantica, che appartiene solo a linee polifoniche e di
contrappunto.
E Piero Guccione, ancora per esempio: anche qui un parallelo, ma a distanza; se la
‘fusione’ di mare e cielo, dell’uno, si pone – nell’altro - come ‘tema fusionale’ di terra e cielo
(come domanda aperta), e se l’immobilità di mare, del primo, la si trova trasfigurata in questa
immobilità di dune di Moretti, si tratta però di punti lontani: punto d’incontro di materiale e
immateriale, in Guccione, che diventa incontro di archetipo e presenza fisica, in Moretti. E
così, quel che è stato indicato come nuovo modo di concepire la figurazione, nel primo, nel
secondo si trasfigura invece in nuova ortografia coloristica, che comprende insieme i chiarori
dei diesis ed ombre bemolli: ortografia, che esplicita proprietà quasi meteorologiche della
raffigurazione, con cui cogliere gli istanti svanenti eppure più intensi, le spazialità lontane
eppure osservabili con l’occhio del microscopio, senza alcuna imprecisione, se mai possibile, e
che verrebbe di chiamare, per usare ancora un termine di Jankélévitch su Debussy, ‘pittura di
punti meridiani’. Impressionante continuità dal pastello all’olio, in entrambi, e tuttavia
lontananza fra loro, quanto lontana può essere l’elegia di Guccione dall’assenza di questa in
Moretti, che è magia - piuttosto – d’una natura che si presenta essa stessa come espressività,
come respiro e ritmo immanente, come dimensione plastica del silenzio stesso, come
esplicitazione dell’immutabilità dell’eterno e dell’assenza del tempo: insomma, non elegia, ma
metafisica della natura: anima mundi.
L’ossessione del tema, che in parte può accomunare i tre, Morandi, Guccione e Moretti –
ma nel nostro, più che per una natura morta, ossessione del suo segreto di morta natura –
porta il discorso su Rilke. Come nell’autore delle Elegie duinesi il linguaggio si fa poesia di
meditazione, così la pittura di Moretti è meditazione sulla natura-anima mundi, da cogliere
con gli strumenti del suo altro linguaggio, figurativo, per “dare espressione a un pensiero
difficile e oscuro”: e sono, queste, parole dei traduttori della nuova edizione Feltrinelli di
Rilke (Michele Ranchetti - che da poco ci ha lasciato - e Jutta Leskien), non – come si
potrebbe ben dire – parole a proposito di Moretti.
C’è un compito (è il tema di Rilke, esplicitato nella prima elegia: “Tutto questo era
compito”), implicito nell’opera di Moretti, che è – ma tutto posto attraverso la forma pittorica
– allusione ad un percorso di purificazione: tacita ed implicita allusione ad un sentiero di
riflessione e di autenticità; allusione – forse del tutto consapevole nel pittore - ad una filosofia
post-hegeliana dell’autentico, della rivendicazione della ‘soggettività’ hegelianamente negata,
che è interamente kierkegaardiana, tardo-storicistica, e tema di fondo proprio della poesia di
Rilke. Identificazione di pittura e prassi di vita dell’autentico, nell’intenzionalità di Moretti,
prassi che sa di una presenza oscura, di quell’Angelo rilkiano (ben altro da quello di
Benjamin), che è termine di confronto in un percorso di purificazione, ma che tace e non dà
appigli alla fragilità dell’uomo; angelo, a cui non ha senso chiedere: angelo, che è un Nirgends
(quello che si affaccia nell’ottava elegia), cioè niente più che il metafisico ‘vuoto’ dello spazio
di Moretti, l’uk-topos dell’assoluta purezza. Siamo in presenza di un ‘teatro delle spoglie’ come
rappresentazione di ciò che resta, dell’eros e della vitalità (di cui ci parla – non so più a quale
altro proposito – Bonito Oliva).
Al contrario di Rilke, legato nella poesia ad un impressionismo semantico, Moretti se ne
allontana invece e la sua tematica oltre-estetica, la sua filosofia immanente, è attraversata da
una pittura che la impregna e che, assieme all’impressionismo semantico dei colori, evita
anche l’inevitabile simbolismo pittorico, ma si pone invece come pittura che a se stessa
assegna il compito formale di svelare contenuti impliciti, non indicabili, perché troppo profondi
per poter emergere alla forma iconografica: quelli dell’utopia metafisica dell’astratto, della
purificazione, del vuoto e del rifiuto: le indicazioni, cioè, di un mondo interiore, di un
Weltinnenraum, che appartiene anche allo spazio poetico di Rilke. Essenzialità del visibile, che
scaturisce dall’atto del togliere: ed anche questo sostanzia la poetica di Rilke.
Dove la notte (nei versi rilkiani) s’induna e s’affossa e dove (nelle tele di Moretti) i cespugli
di macchia mediterranea, se mai e quando battuti dal vento, “inducono la linfa verso il basso e
l’alto: ed essa salta dal sonno, quasi senza destarsi”, solo lì, in quei luoghi - nel deserto potrebbero raccogliersi esuli d’una cultura pronti a respingere questa nostra realtà.