Note sui progetti pilota e la valutazione
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Note sui progetti pilota e la valutazione
Note sui progetti pilota e la valutazione di Nicoletta Stame 1. Progetti pilota e riproducibilità Nella pratica recente dell'amministrazione pubblica italiana (e comunitaria) si è andata costruendo una rappresentazione sociale dell'azione amministrativa basata sull'idea del progetto-pilota, che è al tempo stesso fonte di rassicurazione ("si può innovare") ma anche di non poche angosce ("come si fa a generalizzare?"). Questa rappresentazione trae origine da un duplice slittamento linguistico. In primo luogo, l'idea che il nuovo management pubblico lavori "per progetti" che mirano ad ottenere dei "risultati previsti" viene confuso con la messa in opera di "< A HREF="nprogpil.htm">progetti pilota". Quanto a questi ultimi, poi, si auspica regolarmente che abbiano la caratteristica di essere "riproducibili". Paradossalmente è ormai diventato moneta corrente che un progetto pilota realizzato da qualche parte sia riproducibile soltanto perché è stato valutato positivamente, ossia ha avuto "successo". Si assume così che la realtà dell'amministrazione pubblica sia uniforme e che un progetto riuscito possa essere trattato come un frame logico da replicare all'infinito. Un modo "pragmatico" di pensare e di agire come quello della esplorazione di nuove vie tramite tentativi e innovazioni, tipico dell'approccio della "amministrazione che apprende" che dovrebbe ispirare le riforme del nuovo management pubblico, viene così circoscritto entro un ambito di "regolarità" che rischia di irrigidirlo e devitalizzarlo. Ho infatti l'impressione che tale accostamento non permetta né alle amministrazioni che sono riuscite ad innovare di far tesoro delle lezioni apprese, né alle innovazioni di diffondersi tra altre amministrazioni. Forse una ragione di quell'accostamento può trovarsi in un bisogno di tradurre la concezione anglosassone della legislazione per programmi nel linguaggio "normativo" che ancora caratterizza la nostra amministrazione pubblica, ad onta della conclamata modernizzazione amministrativa. E può essere qui utile ricordare che questo scarto linguistico ed operativo trova origine nella differenza tra la tradizione politico-istituzionale statunitense e quella dell'Europa continentale. Uno sguardo alla letteratura statunitense in materia di programmi può comunque aiutarci a muovere qualche passo sulla via della innovazione e dell'apprendimento. 2. Tipi di progetti e forme di valutazione Propongo di partire dal modo in cui la letteratura sulla valutazione, che ha sempre avuto una particolare attenzione al problema della sperimentazione, ha trattato i modelli. In un saggio del 1972 Suchman distingue tra tipi di programmi, al fine di stabilire quale forma di valutazione sia più adatta a ciascuno di essi (egli parla di programmi, ma il discorso è applicabile anche ai progetti, che ne sono una componente gerarchicamente inferiore). I programmi, dunque, possono essere di due tipi: a) dimostrativi, ovvero ancora in fase sperimentale; b) operativi, ovvero a regime. a) I programmi dimostrativi, a loro volta, si distinguono a seconda del grado di conoscenze acquisite sui loro obiettivi e il modo di ottenerli (risultati), e quindi in base al loro stadio di avanzamento: la distinzione comporta dunque anche un ordine temporale. Essi sono così classificati: a1) programmi pilota: si svolgono in un periodo iniziale di trial-and-error, in cui vengono esplorati nuovi approcci e procedure (intorno a obiettivi e fattori strategici per l'amministrazione che li realizza) che vengono riviste rapidamente in modo flessibile. Si impara dall'esperienza e dai problemi che sorgono. Qui ci vuole una valutazione rapida, con grande enfasi sui feedback. Non è possibile basarsi su un disegno sperimentale di valutazione, e ci si affida piuttosto a case studies, osservazioni ecc. a2) programmi modello: è il risultato finale di una serie di progetti pilota che siano stati considerati positivi, quando però non si è ancora sicuri dei passi da prendere. Si sa che il successo è possibile (validità interna), ma non si è ancora certi di voler/poter diffondere il programma su vasta scala. Per farlo, si vuole avere una maggiore certezza sulle condizioni di applicabilità in luoghi e contesti diversi (validità esterna). Qui si prevede un disegno di valutazione di tipo sperimentale, in cui si confronti un gruppo sperimentale cui si somministra il programma con uno di controllo cui il programma non viene somministrato. Comunque - avverte Suchman - occorre ancora cautela: anche se l'esperimento è stato positivo non è detto che il programma possa essere messo in pratica su vasta scala. a3) prototipi: è lo stadio in cui il programma è stato testato ampiamente e può essere reso operativo su vasta scala. Qui il disegno della valutazione deve cercare di avvicinarsi al modello sperimentale (attraverso i quasi-esperimenti), tenendo la situazione attuale del programma come gruppo sperimentale e quella dei programmi precedenti come gruppo di controllo. b) programmi operativi. Una volta che il programma sia a regime non è più necessario valutarlo tramite un disegno sperimentale, perché si cerca piuttosto di capire come si può migliorare il programma esistente: lo si farà con un sistema di monitoraggio, e con analisi di processo, con valutazioni continue del personale, ecc. Un primo chiarimento riguarda il primo slittamento linguistico: i normali progetti realizzati da una amministrazione che lavori "per progetti" nel corso della erogazione dei suoi servizi sono progetti operativi, mentre i progetti pilota sono progetti dimostrativi. Un progetto operativo che va bene viene normalmente applicato da varie parti, anche se - come vedremo subito - ciò non significa dire se esso sia esattamente "riprodotto". Un progetto pilota, invece, non può accontentarsi di un solo successo per potersi ritenere riproducibile (siamo così venuti al secondo slittamento linguistico): infatti, tra i progetti dimostrativi solo i prototipi sono - per definizione - considerati riproducibili, mentre i progetti pilota hanno ancora bisogno di verifiche e di decisioni di attuazione. D'altra parte, come si può essere sicuri anche nel tracciare il confine tra programma modello e prototipo? 3. Generalizzazione e apprendimento La logica del passaggio dai progetti dimostrativi ai progetti operativi è una logica di diffusione e generalizzazione: conoscere - tramite la valutazione - gli effetti di una innovazione su piccola scala prima di diffonderla su vasta scala, senza attribuire al contesto locale altra valenza se non quella di essere (per definizione) piccolo: questo comporta, tra l'altro, che eventuali risultati negativi saranno meno perniciosi per l'insieme. Il progetto è visto come soluzione nuova a problemi ricorrenti: si assume che se la sperimentazione è stata fatta bene (le condizioni sono certe e i possibili bias sono sotto controllo) la diffusione sia poi nelle cose. E' una logica che va dal centro alla periferia, e che viene azionata da un ente centrale. Questa logica è stata però fortemente criticata da altri approcci alla valutazione, che si sono posti la domanda "che senso ha generalizzare?". In particolare Cronbach (1980) sostiene che, proprio a causa della importanza del contesto locale e del ruolo giocato dagli attori (decisori, attuatori, beneficiari), ogni programma si sviluppa in modo diverso da quello che si era previsto, e da come si sviluppano programmi analoghi ("l'idea della riproducibilità di un programma è una mera figura retorica"), e il valutatore che segue gli sviluppi di un programma può aiutare gli attori a capire cosa è successo e metterli in condizione di agire usando le proprie capacità. Si ritrovano qui aspetti di un approccio dell'apprendimento applicato allo studio delle organizzazioni, secondo cui l'attore ed il contesto locale riescono a usare le conoscenze generali (o globali) solo se sono in grado di ricontestualizzarle (Rullani, 1995), ed in cui, quindi, il locale è visto come luogo dell'incontro tra contestuale e globale. In effetti, ogni volta che un programma viene "replicato" in un altro luogo, ci si trova in una situazione nuova (e incerta) che va ridefinita da parte degli attori per riappropriarsi dei significati del programma e per poter prendere le decisioni che permettano loro di usare al meglio le proprie capacità palesi (e far emergere quelle nascoste e disperse) nell'attuare il programma. (A questo proposito, si dovrebbero utilizzare di più le analisi che provengono dal filone degli studi sul simbolismo organizzativo - cfr. Czarniawska-Joerges, 1995 - cui contribuisce anche Bruno Latour (1986) quando contrappone al modello della "diffusione" quello della "traduzione", intesa come "spostamento, spinta, innovazione, mediazione, creazione di un nuovo legame"). Invece di generalizzazione di modelli, si tratterebbe piuttosto di esempi da proporre e da imitare. Le varie situazioni possono infatti parlarsi paragonando realtà diverse per convergenza e divergenza: un'esperienza non può essere replicata in un'altra, ma può ispirarne un'altra. La ricostruzione di come qualcosa sia riuscito a funzionare in un mare di inefficienza è una lezione straordinaramente importante per le tante altre situazioni di inefficienza, ma poi queste ultime dovranno saper cogliere ciò che si adatta alla loro situazione e farne il perno della propria innovazione. Siamo così giunti a distinguere tra sperimentazione e esplorazione. Se non ci sono regole da generalizzare (dopo la sperimentazione) ci sono però lezioni che possono essere apprese (con un procedimento esplorativo), e che possono essere riappropriate altrove. In questo caso, però, il processo non dipende unicamente da un impulso del centro, ma da un incontro tra centro e periferie, o tra diverse località e situazioni. Da questo punto di vista, si può dire che i tre tipi di programmi dimostrativi di Suchman non si distinguano solo per la temporalità o per lo stadio di avanzamento, ma anche per la logica: infatti i progetti-pilota si basano su una logica esplorativa, della scoperta, che può essere utilizzata da delle amministrazioni periferiche che apprendono, mentre sia i progetti-modello che i prototipi si basano su una logica sperimentale, di verifica, che viene azionata dal centro. 4. Buon governo e progetti innovativi Una interessante riflessione sull'uso dei modelli nell'analisi delle innovazioni amministrative è contenuta nell'ultimo lavoro di Judith Tendler che ha il significativo titolo di Good Government in the Tropic (1996): esso riporta i risultati di una ricerca su una serie di progetti innovativi nello stato del Cearà (Brasile), che riguardano lo sviluppo della piccola impresa, l'irrigazione, l'ambiente, i servizi sanitari. I punti più rilevanti per il presente ragionamento mi sembrano quelli in cui la Tendler sottolinea il modo in cui i casi da lei analizzati contraddicano la teoria tradizionale sui modelli. Di solito si ritiene che qualcosa si sperimenti e si perfezioni nel piccolo e poi lo si riproduca su vasta scala. Nel Cearà, invece, le idee innovative si sono diffuse prima che i modelli fossero perfezionati; e non vi è stata solo una diffusione dal centro, ma un'attuazione da parte delle provincie che avevano saputo cosa si stava facendo altrove e hanno voluto imitare. Di solito si ritiene che un modello può funzionare bene solo se lo si applica tutto intero (come era stato sperimentato e testato). Invece, nel Cearà non si è applicato il modello in generale (in certi casi, si è capito che per alcune componenti c'erano dei limiti), ma solo quella parte che si riteneva adatta alla propria situazione, e che spesso era semplicemente quella che si vedeva fare alla provincia vicina. Di solito si ritiene che il campanilismo sia una caratteristica negativa. Invece qui ha funzionato da stimolo: "voglio anch'io quello che hanno fatto gli altri" - rivendicavano le varie amministrazioni locali. Si può quindi dire così che nei casi analizzati dalla Tendler i progetti pilota non hanno atteso la fase del prototipo per potersi "diffondere"; tuttavia, essi non sono stati "generalizzati", ma la loro logica esplorativa è stata ripresa da altri che volendo a loro volta "innovare", hanno "adattato". 5. Flessibilità e oscillazione A conclusione di questo ragionamento, ci si potrebbe chiedere se la mancata ripetibilità non sia in contraddizione con la aspirazione al buon governo ed alla direzione per programmi, oltre che alla valutazione. Ma la risposta non potrebbe che essere negativa: prendere atto di quella impossibilità può essere indispensabile per superare le frustrazioni riguardo alla mancata ripetizione e affrontare con realismo i problemi. In effetti, il nuovo management pubblico che punta alla diffusione delle innovazioni non deve tanto preoccuparsi di sperimentare dei prototipi che difficilmente verranno riprodotti altrove nella loro completezza, ma piuttosto di: - inventare modi nuovi di affrontare i problemi, che liberino le energie esistenti, chiamandole a raccolta e organizzandole; - proporre l'esempio ad altri, evitando però che diventi un obbligo imposto dall'esterno, un ipse dixit; favorire invece che altri adottino le novità in modo autonomo; - imparare ad usare la valutazione come strumento per muoversi tra questi due compiti, favorendo il potenziamento delle energie individuali e locali, per un cambiamento che tenga conto dell'interesse generale. Bibliografia