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LA SOCIOLOGIA DEL CORPO
Presentazione
Negli ultimi vent’anni si è assistito al consolidamento di un
ulteriore specialismo in seno alla riflessione sociologica: è nata la
così detta sociologia del corpo. Certo, non è corretto sostenere
che la sociologia classica si sia totalmente disinteressata del corpo.
È indubbiamente vero che Durkheim, sulla scorta di quella
metafisica dualistica che caratterizza buona parte del pensiero
occidentale e quello moderno in particolare, rilevava la «doppia
natura» dell’essere umano, distinguendo tra il corpo – che sarebbe
dato e universale - e un livello più alto dell’essere umano – quello
socializzato, definito dai valori e dalla morale (Durkheim 1914).
In tale impostazione, che tanto peso ha avuto nello sviluppo
dell’analisi sociologica, è solo occupandosi di un soggetto morale,
di valori che la sociologia può trovare uno spazio proprio,
affiancandosi alle scienze mediche e biologiche che si occupano
in modo oggettivo di una materia completamente altra, naturale
e pre-sociale. Eppure, in altri classici era già possibile scorgere
spunti importanti per una riflessione propriamente sociologica sulla
corporeità e le pratiche del corpo - basti ricordare le osservazioni
di Simmel sullo sviluppo dell’esperienza sensoria nella modernità,
le descrizioni, peraltro diverse, di Marx e Weber della disciplina
di fabbrica come una razionalizzazione capitalistica dell’essere
umano, la celebre teoria eliasiana del processo di civilizzazione in
cui sono esplicitamente connesse modalità di governo del corpo
e forma del politico (Sassatelli 1999; Shilling 1993; Turner 1987).
In questi lavori però il corpo è oggetto d’analisi implicito e
sussidiario rispetto ad altri quadri di riferimento. Una parte della
sociologia contemporanea ha quindi cercato di rendere espliciti
questi spunti, rovesciando innanzi tutto l’impostazione di Durkheim:
anche il corpo umano può configurarsi come un oggetto d’analisi
RASSEGNA ITALIANA DI SOCIOLOGIA / a. XLIII, n. 3, luglio-settembre 2002
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legittimo in quanto è plasmato e plasmabile dall’organizzazione
sociale.
Situandosi nella linea di tensione che separa le scienze sociali
da quelle biologiche, il corpo non può farsi oggetto sociologico,
senza subire un trattamento epistemologico-teorico appropriato.
Negli ultimi anni, la sociologia ha dunque messo in discussione
proprio gli assunti epistemologici impliciti nella produzione dei
fatti naturali, decentrando il corpo fisico delle scienze biomediche
ed esplorando le implicazioni delle pratiche e delle rappresentazioni sociali del corpo, procedimento reso peraltro sempre più
complesso dall’avvicinamento alle scienze sociali che si sta registrando in alcuni ambiti d’avanguardia delle scienze bio-mediche.
Se il progetto della sociobiologia canonizzato da Wilson (1975)
negli anni settanta era e rimane quello di offrire uno studio
sistematico dei fondamenti biologici di tutti i comportamenti
umani, le scienze sociali hanno specularmente teso a mostrare che
il corpo umano è il prodotto di una costruzione sociale: non può
essere ridotto ad un fatto biologico o fisico, poiché le sue
caratteristiche – o ciò che viene vissuto come tale – variano al
variare delle forme d’organizzazione e classificazione sociali.
L’ontologia costruttivista ha certo sfumature diverse: in linea
generale, essa è stata articolata teoricamente sia in una direzione
tendenzialmente simbolico-comunicativa, sia in una più dichiaratamente pratico-mimetica. Nel primo caso, il corpo appare come
un sistema di segni e simboli, una superficie da iscrivere o iscritta,
un testo. Importanti in questa tradizione sono le osservazioni di
Mary Douglas che, con il suo Natural Symbols, ha mostrato che
il corpo funziona in moltissime culture come un «sistema naturale
di simboli», è per questo un mezzo di espressione individuale
altamente controllato e, allo stesso tempo esprime le pressioni
culturali e sociali cui sottostà (Douglas 1970). Nel secondo caso,
il corpo è visto come il principale veicolo di «acculturazione»
dell’attore sociale: mediante la sua socializzazione concreta e
materiale attraverso tecniche fisiche che riproducono differenze
e gerarchie (di genere, sesso, età, capacità, ecc.) gli esseri umani
imparano vivere in una data cultura. È questo un approccio che
deve molto al classico saggio di Marcel Mauss sulle tecniche del
corpo, laddove esse si configurano come un habitus mimetico
assemblato per l’individuo «da tutta la sua educazione, da tutta
la società di cui fa parte, dal posto che egli occupa al suo interno»
(Mauss 1934, 393).
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In generale, interessata da sempre alla dicotomia natura/
cultura, l’antropologia è stata estremamente importante per legittimare l’analisi sociale del corpo: oltre alle classiche critiche di
Marshall Shalins (1976) alla sociobiologia, molti studi antropologici
hanno rilevato che accanto alle diverse nozioni della persona,
esistono anche diverse nozioni del rapporto tra persona e corpo,
tra corpo umano e natura, tra corpo e sue parti, ecc. – nozioni
di corporeità diverse nelle diverse culture che corrispondono ad
altrettante forme dell’esperienza individuale e che danno luogo ad
una gran varietà di modi di abitare il proprio corpo e con esso
il mondo (Benthall 1976; Douglas 1966; Synnott 1993). Anche la
storia ha avuto un ruolo importante nel proporre il corpo come
oggetto d’analisi, in parte in forza dell’influenza dei lavori di Michel
Foucault sulla follia, la prigione, la sessualità (1963; 1976; 1978).
I corpi hanno acquistato una loro storia e allo stesso tempo sono
divenuti politici non solo perché modellati dagli imperativi produttivi o vincolati dalle regole morali, ma anche perché la loro
«naturalità» è stata ricondotta a pretese di verità che riflettono
differenze di potere (Feher et al. [a cura di] 1989; Porter 1991;
Vigarello 1978). Soprattutto grazie al pensiero femminista (ma cfr.
anche Garfinkel 1967; West e Zimmermann 1987) il genere si è
rivelato un dato socialmente costruito ancorché dai profondi effetti
sociali (cfr. Piccone Stella e Saraceno 1996). Con esso sono state
problematizzate la sessualità e l’eterosessualità (Butler 1990) e
persino l’esistenza di due sessi nettamente distinti è stata messa
in discussione da alcuni studi di storia e sociologia della scienza
che hanno documentato il variare delle dottrine scientifiche sul
sesso e il loro essere profondamente influenzate dalla struttura
sociale di una data epoca e da esigenze retoriche e istituzionali
interne al sistema medico (Jacobus et al. 1990; Laqueur 1990). La
natura come qualcosa di simbolicamente costruito – di mediato
dai simboli e dai segni che utilizziamo per definirla, descriverla
e spiegarla – e allo stesso tempo come qualcosa di cui simbolicamente ci serviamo per costruire i confini del nostro mondo, per
ordinare la nostra esperienza (Haraway 1991).
Si nota qui immediatamente una delle inevitabili complessità
della sociologia del corpo: il corpo è un oggetto sociologico
difficile, perché richiede una continua negoziazione dei confini
disciplinari tra sociologia, storia, antropologia, psicologia e scienze
biologiche. Forse anche per questo la sociologia ha presto sentito
l’esigenza di problematizzare la nozione di corporeità stessa, cioè
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il modo in cui esperiamo e definiamo che cosa significa avere ed
essere un corpo (Crossley 1996). Questo filone deve molto alle
riflessioni di Merelau-Ponty (1945). Merleau-Ponty mette l’accento
sul fatto che l’organizzazione anatomica del corpo lascia aperta una
gran quantità di possibilità, che il modo d’impiego del corpo non
è mai determinato una volta per tutte, che i suoi significati e le
sue reazioni sono sempre da interpretare: «non è possibile supporre
nell’uomo un primo strato di comportamenti che chiameremmo
“naturali” ed un mondo spirituale e culturale fabbricato. Tutto è
fabbricato e tutto è naturale nell’uomo» (1945, 220). I diversi usi
del corpo sono naturali (poiché sono resi possibili da dispositivi
fisiologici) e sociali (in quanto arbitrari e convenzionali). La
corporeità non è dunque un attributo del soggetto, è piuttosto
fondamentalmente «l’esserci degli esseri umani nel mondo», il dato
da cui essi partono per esperirlo, ed è a partire da tale esperienza
che occorrerebbe ripensare all’attore sociale e alle sue azioni.
Se non tutti sono disposti a seguire l’approccio fenomenologico
di Merleau-Ponty, le riflessioni teorico-sociali contemporanee si
sono presto dirette oltre ciò che possiamo definire «politica del
corpo», oltre l’idea che il corpo potesse essere un oggetto di studio
importante in se stesso in quanto «costruito» socialmente e
plasmato dai meccanismi di potere, per cominciare invece a
considerare che l’attore sociale intorno al quale erano stati fondati
innumerevoli modelli d’analisi è, a tutti gli effetti, un soggetto
incorporato, un embodied subject e che l’embodiment (che possiamo
rendere in italiano con «incorporamento» o «corporeità») è una
condizione imprescindibile dell’azione sociale. E la corporeità è a
sua volta parsa come uno degli espedienti per cercare di integrare
agire strumentale (o almeno prudenziale) e struttura sociale, spazi
di libertà soggettiva e determinazione sociale, come nella teorizzazione dell’habitus in Pierre Bourdieu (1980) che riprende e
sviluppa le classiche osservazioni di Mauss.
Nonostante il fiorire di studi empirici e teorici influenti e
l’evidente istituzionalizzazione di una specializzazione sub-disciplinare – basti pensare all’istituzione di alcune riviste settoriali di
ampia risonanza internazionale, da «Body and Society» a «Sexualities», nonché alla grande diffusione di libri di testo sulla sociologia
del corpo, specialmente in ambito angloamericano – la «sociologia
del corpo» è e rimane un’etichetta scomoda anche e soprattutto
per chi se ne occupa. Scomoda innanzi tutto perché sembra
accettare ed anzi ipostatizzare un significante, «corpo», che in
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qualche modo essa stessa vuole problematizzare. Parlare di sociologia del corpo, senza qualificazioni ulteriori, può evocare lo
spettro di formulazioni dualiste, rendere il corpo un oggetto a se
stante, un feticcio. La sociologia del corpo è in effetti una sociologia
delle rappresentazioni e delle pratiche del corpo: per essere
veramente oggetto sociologico il corpo deve forse poter rimanere
un punto interrogativo e un «concetto-strumento» che ci aiuti a
proporre prospettive nuove e maggiormente articolate sull’azione
e le pratiche sociali. Più che da una teoria della corporeità o della
percezione alla Merleau-Ponty quindi la sociologia del corpo è
definita da un’analisi teorico-empirica dell’organizzazione sociale
degli usi e delle percezioni del corpo. I suoi confini tendono inoltre
a sfumarsi nella misura in cui essa riesce a proporsi come qualcosa
di più che una moda sociologica o una nuova cartina di tornasole
per osservare sotto luce diversa molteplici fenomeni sociali. Laddove la sociologia del corpo riesce a convincere la teoria sociale
contemporanea che l’azione umana è irrimediabilmente incorporata, essa tende a trascendere i propri confini sub-disciplinari e
a porsi come strumento d’innovazione teorico-sociale. In quest’ottica non bisogna insomma dare un corpo all’attore quanto partire
da un diverso modello d’attore, un attore che vive necessariamente
nello spazio e nel tempo, che occupa spazio e tempo, e che
rappresenta a se stesso e agli altri una parte dei propri limiti come
limiti naturali.
I saggi che vengono qui presentati tentano tutti di fare i conti
esplicitamente con i più recenti sviluppi della sociologia del corpo,
proponendosi ciascuno a suo modo di offrire suggerimenti teorici
nel contesto di specifici fenomeni empirici, calando insomma
diversi approcci sociali al corpo nelle concrete pratiche dei corpi.
Il numero si apre con il saggio di Bryan Turner e Steven
Wainwright sulla danza e il ruolo giocato dagli infortuni nella
costruzione l’atteggiamento dei ballerini verso il proprio corpo.
Turner e Wainwright mostrano che gli infortuni sono mediati dai
legami sociali che costituiscono la compagnia di ballo professionista
e quindi persino accettati come segno vocazionale e, allo stesso
tempo, utilizzano la loro ricerca per mostrare i limiti di quella
particolare forma di costruttivismo che tende a considerare il corpo
come un testo. Anche Jennifer Hockey e Allison James tentano
di fare i conti con alcune versioni del costruttivismo, cercando,
come sempre più spesso avviene in sociologia della medicina, di
trovare all’interno del paradigma sociologico uno spazio per la
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materialità del corpo. Il loro contributo si concentra sull’intrecciarsi
di corso della vita, differenze d’età e sessualità per mostrare, con
l’aiuto di numerosi esempi, i limiti – teorici e politici – sia delle
visioni cronologiche del corso di vita, sia di quelle postmoderne,
fluide e volontaristiche. Un’altra differenza tra i corpi, quella legata
al genere è una delle dimensioni cruciali del contributo di Victoria
Pitts sulle trasformazioni volontarie del corpo. Provenendo da studi
femministi, Pitts utilizza diversi esempi di trasformazione volontaria
del corpo per discutere criticamente il rapporto tra intenzionalità
e determinazione tecnologica. Il saggio di David Le Breton si
occupa di altre, non meno spettacolari, trasgressioni fisiche: quelle
di coloro che si cimentano negli sport estremi. Concentrandosi sui
narratives dei praticanti, Le Breton mostra che tali sport sono
costruiti come momenti di piena realizzazione di sé, rovesciando
i dettami della così detta società del rischio e riproducendo in
forme nuove una versione del dualismo corpo/sé. Chi scrive prende
spunto da quelle pratiche fisico-ricreative assai più comuni e meno
estreme che si cristallizzano nella cultura del mantenersi in forma
per interrogare e fare interagire alcune delle più influenti teorizzazioni sul corpo, mostrando l’utilità di un’integrazione tra le
nozioni di habitus, coinvolgimento e disciplina per concepire
effettivamente l’azione come una pratica incorporata. Utile per
coloro che vogliono avere una panoramica più completa sulla
sociologia del corpo è anche la rassegna di Ken Plummer sulla
sessualità e il corpo, inclusa sempre in questo volume. Plummer,
che si occupa da anni di queste tematiche, rileva che, se i primi
lavori sulla sessualità dovevano necessariamente allontanarsi dal
sesso e dal corpo poiché miravano ad accreditare lo studio della
sessualità come fatto sociale e simbolico; negli ultimi anni è
diventato non solo possibile ma anche importante riconsiderare più
da vicino gli aspetti più propriamente corporei della sessualità.
Nella loro diversità i contributi qui raccolti mostrano molto bene
quanto la sociologia del corpo possa contribuire a valutare la
portata delle peraltro articolate posizioni costruttiviste, i loro
vantaggi e i loro limiti, spingendo la riflessione sociologica a
confrontarsi con aspetti spesso ignorati dell’azione sociale.
ROBERTA SASSATELLI
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