Tutte le guerre del mondo - L.Caputo

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Tutte le guerre del mondo - L.Caputo
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Tutte le guerre del mondo - L.Caputo - Leadershipmedica.com - Gennaio 2003
All’inizio di ogni anno l’istituto per gli Studi Strategici di Londra compila una rassegna dei
conflitti aperti nel mondo, con la stima del numero dei morti che ha causato, della loro incidenza
sul livello di sicurezza globale e del pericolo di ulteriori sviluppi. E’ uno studio molto istruttivo, perché
rivela non solo che gli scontri in corso sono molto più numerosi di quelli riportati regolarmente sui
giornali, ma anche che la loro pericolosità non è sempre commisurata al numero delle vittime. Che dieci
morti nei Balcani facciano più notizia di mille morti in Sierra Leone non è dovuto a una valutazione
arbitraria dei media, ma al fatto che la loro fine può essere foriera di conseguenze politiche molto più
rilevanti. Parafrasando Orwell, si potrebbe dire che tutti i morti sono eguali, ma alcuni sono più eguali
degli altri.
Oggi la nostra attenzione viene giustamente calamitata dal conflitto israeliano-palestinese, che in tre anni
ha fatto circa tremila morti soprattutto tra i civili, dall’Iraq, dove è in gioco il futuro assetto del Medio
Oriente e del mercato petrolifero e dal Kashmir, dove si fronteggiano due potenze nucleari.
Ma le aree di tensione sono molto più numerose: in alcuni casi ci troviamo di fronte a guerre endemiche
che hanno le loro radici nella storia, in altri a conflitti “in sonno” che possono riesplodere da un momento
all’altro, in altri ancora a controversie territoriali affidate per il momento all’arbitrato ma sempre
suscettibili di sviluppi bellici.
A completare il quadro, ci sono anche le contese “virtuali”, come quella che potrebbe scoppiare
nell’ipotesi che le spinte vulcaniche oggi attive intorno alla Sicilia facessero riemergere nel braccio di
mare tra Sciacca e Pantelleria la mitica isola Ferdinandea, che nei suoi soli cinque mesi di vita nel 1831 fu
annessa in rapida successione dal Regno delle Due Sicilie, dalla Gran Bretagna e dalla Francia, e che è
tuttora rivendicata dalle tre potenze interessate. Se è da escludere che Roma, Parigi e Londra scendano
in guerra per il possesso di uno scoglio, altre dispute del genere hanno un carattere più esplosivo.
E’ durato pochi giorni lo scontro tra Spagna e Marocco per il possesso del disabitato isolotto di Perejil, al
largo della costa mediterranea dell’Africa, perché le pressioni americane hanno indotto re Maometto VI a
ritirare i sei poliziotti che aveva mandato a occuparlo, ma il problema delle enclave di Ceuta e Melilla, cui
Madrid non ha alcuna intenzione di rinunciare, continuerà ad avvelenare per chissà quanto tempo i
rapporti tra i due Paesi.
Lo stesso Marocco è impegnato da un quarto di secolo in un duro braccio di ferro con il cosiddetto Fronte
Polisario, che, con l’appoggio malcelato dell’Algeria e un certo sostegno da parte dell’ONU, contesta la
legittimità della sua annessione dell’ex Sahara spagnolo, un territorio pressoché deserto ma ricchissimo di
fosfati. Molte controversie internazionali hanno per oggetto arcipelaghi o singole isole in apparenza prive
di valore, ma le cui acque territoriali comprendono giacimenti sottomarini di idrocarburi o grandi risorse
ittiche.
Un esempio classico è quello delle Falkland, per cui Argentina e Gran Bretagna combatterono vent’anni fa
una guerra sanguinosissima, conclusasi con la disfatta della prima e il successivo crollo della sua dittatura
militare. Il governo di Margaret Thatcher intraprese la riconquista dell’arcipelago soprattutto per ragioni
di principio e a tutela della volontà dei 3.000 abitanti che non volevano saperne di passare sotto la
sovranità di Buenos Aires; forse lo fece anche per risvegliare l’orgoglio nazionale dei suoi cittadini,
alquanto mortificato dalla liquidazione dell’impero, e per dimostrare che la Gran Bretagna aveva ancora,
se non le risorse, almeno lo spirito della grande potenza.
Tuttavia, all’impresa non sono certo state estranee considerazioni economiche, perché il possesso delle
isole permette a Londra di esercitare una forma di controllo su un settore importante dell’Atlantico
meridionale e di avere un accesso agevolato all’Antartico. Per Buenos Aires, invece, si trattava di
soddisfare, con l’annessione di un territorio che, geograficamente, fa parte dell’Argentina, ma che un
capriccio della storia aveva lasciato in mani europee, ataviche spinte nazionaliste. Queste sono così forti
che perfino nella disastrata Argentina di oggi ci sono politici che rivendicano con forza il possesso di
quelle che loro chiamano le Malvinas.
Altre isole contese sono le Paracelso, per cui litigano Cina e Vietnam; le Spratley, rivendicate, talvolta a
suon di cannonate, dalla stessa Cina e da Malaysia, Taiwan e Filippine; le Curili meridionali, occupate
dall’URSS negli ultimissimi giorni di guerra e mai restituite al Giappone neppure in cambio di ingenti aiuti
economici; i due scogli di Abu Mussa e Tunbs, che controllano l’accesso al Golfo Persico, sottratti con un
colpo di mano dallo Scià agli Emirati arabi e adesso saldamente nelle mani degli ayatollah; l’arcipelago
caribico di San Andrés e Providencia, per cui litigano da un secolo Colombia e Nicaragua; l’isolotto
disabitato di Imia, a quattro miglia dalla costa anatolica nel Mare Egeo, per cui sei anni fa scoppiò un
gravissimo incidente tra gli stati alleati di Grecia e Turchia.
Continente per continente, i punti caldi, in cui si è sparato negli ultimi cinque anni e si potrebbe
ricominciare a sparare, sono un centinaio.
In Europa rimane aperta, nonostante l’intervento della NATO, la ferita del Kosovo, che ha contagiato
anche la vicina Macedonia, e rimane in dubbio l’assetto della Bosnia faticosamente trovato a Dayton.
Grecia e Turchia, nonostante il graduale riavvicinamento degli ultimi anni, non si sono ancora accordate
sulla divisione delle acque territoriali dell’Egeo, né sull’assetto finale di Cipro da trent’anni spaccata in
due.
Tra Moldavia e Ucraina esiste, da ormai dieci anni, lo stato pirata della Transnistria russofona, che
nessuno riconosce e nessuno riconoscerà mai, e che abbandonato a se stesso rischia di diventare un
feudo della malavita internazionale. Ma la vera polveriera del Vecchio Continente è il Caucaso, dove la
Russia cerca invano di riaffermare il proprio controllo sulla Cecenia ribelle, la Georgia è dilaniata dai
secessionisti dell’Abkhazia e dell’Ossezia del sud, e Armenia e Azerbaigian si sono combattuti a lungo per
il possesso del Nagorno-Kharabakh prima di arrivare a una precaria tregua.
Soltanto in questa regione, i morti dell’ultimo decennio sono stati almeno cinquantamila, destinati ad
aumentare ancora.
L’Asia offre un autentico campionario di conflitti, sia in corso, sia latenti, che vengono ad aggiungersi a
quello arabo-israeliano, che a fasi alterne riempie le cronache da oltre mezzo secolo, a quello tra Iraq e
Kuwait, all’origine della crisi attuale, e a quello tra India e Pakistan che risale alla divisione del
subcontinente tra indù e musulmani, messa in atto dalla Gran Bretagna nel ’47.
Iraq e Iran, dopo essersi combattuti ferocemente per quasi un decennio, hanno ancora in piedi una
disputa territoriale per una fetta di territorio a est di Bassora.
I confini dell’Arabia saudita con Kuwait, Yemen, Unione degli Emirati e Sultanato di Oman sono oggetto di
periodici litigi. L’Afganistan rimane, nonostante la liquidazione del regime dei Talebani, il teatro di
continui scontri tra i vari signori della guerra. Nel vicino Tajikistan, non è mai finita la guerra civile tra gli
eredi del potere sovietico e i fondamentalisti islamici.
L’India ha un contenzioso aperto non solo con il Pakistan per il Kashmir, ma anche con il Bangladesh per
una parte del Bengala e con la Cina per fette del Ladakh e dell’Assam.
Lo Sri Lanka è insanguinato, da una generazione, dalla rivolta dei Tamil contro il governo della
maggioranza cingalese che potrebbe portare alla nascita dell’ennesimo staterello etnico nel Nord
dell’isola. Dal Myanmar giungono periodicamente notizie della feroce campagna di repressione contro le
tribù del Nord – i Karen e gli Shan – da sempre in rivolta contro il potere centrale.
La Cambogia non si è ancora liberata del tutto dalla piaga dei Khmer rossi, responsabili negli anni
Settanta dello sterminio di un terzo della popolazione, e il Vietnam è tuttora alle prese con la ribellione
delle tribù dei cosiddetti “Montagnards”, già alleate con gli americani e oggi vittime di un mezzo
genocidio.
L’Indonesia, con le sue migliaia di isole disseminate su un arco di 6000 km, i suoi duecento milioni di
abitanti e la sua variegata composizione etnica e religiosa, è forse il Paese più a rischio di una
disintegrazione di tipo sovietico o jugoslavo. Ha già dovuto concedere, dopo una guerriglia durata
decenni, l’indipendenza alla cattolica Timor Est, strappata nel ’76 al Portogallo, ma deve misurarsi con
altri movimenti secessionisti nella provincia di Aceh – all’estremità occidentale di Sumatra – nelle
Molucche e nell’immenso e selvaggio West Irian. In più, periodici scontri tra musulmani e cristiani
provocano ogni anno centinaia di vittime.
Una situazione in un certo senso speculare è riscontrabile nelle Filippine, dove ci sono i cristiani al potere
e i musulmani, foraggiati da Al Qeada, in rivolta per costituire uno stato indipendente nell’isola di
Mindanao e nell’arcipelago delle Sulu. Anche qui attentati, rapimenti e scontri tra ribelli ed esercito sono
pressoché quotidiani, e dei morti si è perso perfino il conto.
Se queste guerre possono essere ricondotte, almeno in parte, all’incipiente “scontro di civiltà” tra
Cristianesimo ed Islam, la Corea deve misurarsi con l’ultima eredità della guerra fredda.
La penisola è divisa da quasi 60 anni da un vallo quasi insuperabile, in cui neppure i tentativi di
riavvicinamento degli ultimi anni e un molto pubblicizzato scambio di visite tra i due leader ha fatto molta
breccia. Il Nord è stalinista e miserabile, ma ha un milione di soldati sotto le armi, un formidabile
arsenale missilistico e probabilmente un paio di atomiche; il Sud è capitalista e democratico, ma dipende
per la sua sicurezza dall’ombrello americano: ogni tanto si sparano addosso, ogni tanto inseguono il
sogno della riunificazione. Tutto è ancora possibile.
Il quadro dei conflitti asiatici è completato dalla rivendicazione della Cina su Taiwan, che considera una
“provincia ribelle” e di cui ha ottenuto, già ai tempi di Nixon, l’espulsione dalle Nazioni Unite. Di fatto se
non di diritto, Taiwan è ormai un prospero stato di 22 milioni di abitanti e un reddito pro capite venti
volte superiore a quello della Repubblica popolare, che non ha nessuna intenzione di rinunciare alla
propria indipendenza.
Dopo la crisi del 1998, in cui gli Stati Uniti dovettero schierare una squadra navale nello stretto di
Formosa per dissuadere Pechino da un’invasione dell’isola, la tensione si è gradualmente allentata e tra le
due Cine si è stabilito una specie di modus vivendi, in base al quale la “madrepatria” ha rinunciato
all’opzione militare e Taiwan investe ogni anno miliardi di dollari nell’economia della terraferma. Ma il
contenzioso rimane in piedi, e potrebbe tornare a infiammare la regione in qualsiasi momento.
L’ultimo capitolo (in tutti i sensi) riguarda l’Africa, dove i conflitti mietono il maggior numero di vittime
ma richiamano la minore attenzione, perché – finita la guerra fredda che permetteva ai contendenti di
cercare la sponsorizzazione dell’uno o dall’altro dei due blocchi - hanno un impatto solo locale.
Perfino un semplice elenco delle principali guerre combattute negli ultimi cinque anni, ancora in corso o
“congelate” senza che ne siano state eliminate le cause, richiede moltissimo spazio, e non a caso, la
maggior parte dei Paesi dove la Farnesina sconsiglia di recarsi, perché troppo pieni di pericoli, si trova
proprio nel Continente nero.
Partiamo dall’Algeria, dove la guerra tra il governo e i fondamentalisti, ufficialmente terminata nel ’99,
riesplode periodicamente con episodi di indicibile violenza. Proseguendo in senso orario, troviamo il
Sudan, dove la lotta senza quartiere tra i musulmani del Nord, detentori del potere, e i cristiano-animisti
del Sud ha fatto nel corso di una generazione due milioni di morti. Appena a Est, ecco Etiopia ed Eritrea,
recenti protagoniste di un’insensata guerra senza esito per una striscia di deserto, che ha dissanguato
entrambe le nazioni costringendole a chiedere una volta di più l’elemosina internazionale.
La stessa Etiopia continua a combattere una guerra nascosta nell’Ogaden, non contro una Somalia che da
anni è in preda al caos e non ha più un governo centrale, ma contro tribù di nomadi per il possesso dei
pochi pozzi d’acqua.
Per un Mozambico e un’Angola che, dopo vent’anni e più di guerra civile con morti e profughi a milioni,
sembrano infine avere ritrovato la pace, c’è una Repubblica democratica del Congo che da quasi un
decennio vive nel caos, aggredita e rapinata delle sue ricchezze dai vicini, piena di movimenti ribelli e
dilaniata dagli odi tribali.
Le lotte tra Tutsi e Hutu che hanno devastato Ruanda e Burundi sono per il momento in fase di stanca,
ma potrebbero riprendere da un momento all’altro.
Alla ribalta della cronaca c’è in questo momento soprattutto l’Africa occidentale, con la Nigeria e la Costa
d’Avorio in preda a una specie di guerra di religione tra musulmani e cristiani e Sierra Leone e Liberia
succubi della follia dei loro capi tribali.
Ma neppure gli altri Paesi della regione, in particolare Senegal, Togo e Niger, sono immuni dal contagio.