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OSSERVATORIO in collaborazione con il Centro Studi e Formazione ASSIRM – Ricerche di Mercato, Sociali, di Opinione. L’inaugurazione (26 gennaio 2007) del primo Master in “Metodi qualitativi per la ricerca applicata all’indagine sociale di marketing” – realizzato in collaborazione fra l’Alta Scuola di Psicologia “A. Gemelli” dell’Università Cattolica e L’ASSIRM – ha offerto l’occasione per un confronto sullo stato e sulle prospettive della Ricerca Qualitativa in Italia. Riportiamo qui di seguito i principali contributi proposti dai partecipanti al panel di discussione: rappresentanti del mondo degli istituti di ricerca e dei committenti/utenti dei servizi di ricerca. Introduce la riflessione di Gabriele Calvi che – partendo dagli esordi delle prime esperienze italiane – si interroga sul senso attuale e prospettico degli approcci qualitativi applicati alla ricerca di marketing. Alcune testimonianze di ricercatori di istituto che continuano la riflessione iniziale sul piano storico (Mimma Novelli), dell’attualità (Carlo Santucci) e con riferimento al quadro internazionale (Clara Origlia). A seguire, i contributi del mondo della comunicazione pubblicitaria (Roberto Binaghi), dei servizi di marketing di grandi aziende produttrici di beni (Cinzia Marchetti, Massimo Cealti), e di area socio-politica (Alessandro Colombo) tematizzano rilevanza e aspettative attribuite alla ricerca qualitativa a partire dai rispettivi contesti ed esperienze d’uso. Traccia infine un bilancio provvisorio la nota di A. Claudio Bosio su nodi e snodi di percorso da considerare entro un’ipotetica agenda mirata a qualificare questa pratica di ricerca. 1 LA RICERCA QUALITATIVA PER IL MARKETING: LO STATO E LE PROSPETTIVE IN ITALIA a cura di: G. Graffigna (Centro Studi e Formazione ASSIRM) contributi di: R. Binaghi, Direttore Centro Studi AssoComunicazione; G. Calvi, Presidente onorario ASSIRM; M. Cealti, Research Manager Mediterranean Division, Coca-Cola Italia; A. Colombo, Direttore della Ricerca, IReR; C. Marchetti, Marketing Research Manager, Barilla; M. Novelli, Chief Advisor Qualitative Research, MillwardBrown; C. Origlia, Council Member ESOMAR, Fondatore e Direttore di Market Dynamics International; C. Santucci, Coordinatore Gruppo sulle RQLL di ASSIRM, Presidente e Direttore Generale di RQL. Apertura (Gabriele Calvi, Presidente onorario ASSIRM) La mia esperienza professionale è sicuramente più modesta di quella dei Colleghi, anche se l’ho maturata, forse, in una più lunga sequenza di anni. È un’esperienza che ha riguardato inizialmente le “ricerche motivazionali”, quindi una stagione acerba della ricerca qualitativa (d’ora in poi RQ), un lungo antefatto collocato negli anni ’60 e ’70, ricco in Italia di entusiasmi, ma povero sia di valutazioni critiche, sia di prospezione teorica. Nel 1959, quasi mezzo secolo fa, mi trovai impegnato con Francesco Alberoni nell’organizzazione della nascente sezione “qualitativa” di “Misura”, un istituto di ricerca che si era già dotato di una sezione “quantitativa”, affidata a Carlo Carli. “Misura” era stato creato da Piero Bassetti, tornato dagli Stati Uniti, dopo un periodo di studi post-laurea, con precisi disegni politici e forte della convinzione che un politico ha poche chances di affermarsi se privo delle informazioni che solo un’organizzazione per sondaggi d’opinione gli può fornire costantemente e in forma riservata. Bassetti non poteva rivolgersi a uno dei pochi istituti già esistenti: ne voleva uno tutto suo, ancorché capace di conquistare credibilità sul mercato e di autofinanziarsi con servizi a terzi. Due fra le prime ricerche motivazionali svolte da Alberoni e da me, nel volgere di pochi mesi, riguardarono il consumo della birra e l’uso degli assorbenti igienici. La birra, in Italia, doveva conquistarsi uno spazio maggiore fra le bevande alcoliche, vincendo parecchie resistenze (“ingrassa, è sconveniente per la donna, è tipica del bavarese, con baffi e pancione”). Quanto agli assorbenti igienici, si dava per scontato che si sarebbero diffusi soltanto fra le donne che avevano già superato pregiudizi e vincoli posti dai costumi ancestrali. Si trattava di accertarlo… Entrambe le ricerche vennero organizzate, in tempi diversi, con fasi di esplorazione preliminare e con la preparazione di numerosi test di associazione e proiettivi da porre in 2 un questionario leggero. Questo era da applicare nel corso di poche centinaia di interviste semistrutturate, distribuite in alcuni centri del Nord e del Sud Italia. Ricordo che il nostro entusiasmo di ricercatori neofiti ci spinse anche a far disegnare, per i questionari, una serie di scene con fumetto, ispirate al test di frustrazione di Rosenzweig. La ricerca sulla propensione o le resistenze al consumo di birra si concluse assai bene, malgrado alcune difficoltà dovute alla nostra inesperienza, e i risultati riscossero la convinta soddisfazione del committente. La ricerca sugli assorbenti igienici fu invece un mezzo disastro, anche se permise al committente di valutare appieno le difficoltà cui sarebbe andato incontro nella promozione del prodotto. Alberoni e Calvi, che avevano impostato e diretto queste ricerche, non potevano certo staccarsi con un sol balzo dalla loro formazione in psicologia sperimentale e psicometria, né spingersi molto più innanzi del modello psicoanalitico che Lasarzfeld e Dichter avevano proposto per le ricerche motivazionali, concepite come strumento per esplorare aspetti profondi dello psichismo e rilevare le spinte inconsce verso i consumi. I due ricercatori non erano stati sfiorati dal sospetto che entrambe le ricerche – sulla birra e sugli assorbenti – avrebbero dovuto cimentarsi nell’esplorazione di mentalità tipiche di mondi poco conosciuti, quelli di regioni geografiche e strati sociali molto diversi, per culture, tradizioni e costumi consolidatisi da tempo immemorabile. Mondo che solo l’antropologia culturale, la sociologia e la psicologia sociale avrebbero potuto esplorare… La ricerca su propensioni e resistenze al consumo di birra si concluse in modo positivo, essendo relativamente ridotto il divario culturale fra l’Italia, specie del Nord, e i Paesi europei in cui il consumo di birra prevale sul consumo di vino. Ma gli atteggiamenti nei confronti degli assorbenti igienici si rivelarono immediatamente negativi, specie nell’Italia del Sud. La maggioranza delle donne interpellate rifiutò l’intervista. Gli intervistatori non vennero bene accolti: anzi, considerati talora degli “scostumati”, furono cacciati dalle abitazioni. In breve: perfino l’argomento era tabù. La ricerca si concluse incompleta, in modo mutilo…. Ho citato episodi che, indipendentemente dal loro esito, lasciano intuire l’esistenza, in quegli anni, di due dinamiche concorrenti nel favorire il diffondersi delle ricerche motivazionali: per un verso, la convinzione degli psicologi (autentica o in parte artificiosa) che l’esplorazione dell’irrazionalità e del mondo inconscio consentisse davvero di individuare motivazioni o resistenze nei confronti del consumo; per altro verso, la speranza che accomunava imprenditori, uomini di marketing e pubblicitari, smaniosi di entrare in possesso – grazie alla conoscenza delle dinamiche psichiche profonde – degli strumenti indispensabili per una vera e propria manipolazione della volontà dei consumatori. In buona sostanza, le ricerche motivazionali dovevano una parte della notorietà e del successo a coloro che le strumentalizzavano, in cerca sia di un supplemento di credibilità professionale (come poteva accadere agli psicologi, ma pure ai sociologi che li scimmiottavano), sia del magico potere di rendere i consumatori totalmente succubi (un sogno, questo, da apprendisti stregoni). 3 A dire il vero, negli anni ’60 si verificavano pure episodi meno peculiari, nei quali lo sfruttamento della ricerca motivazionale avveniva banalmente. Il caso più ricorrente riguardava le ricerche intese ad offrire informazioni utili ai creativi di un’agenzia pubblicitaria, in cerca di nuove idee per una campagna. Ricordo due casi del genere, l’uno risoltosi con un fiasco, il secondo con un successo consolidatosi nel corso di un paio di decenni. Nel primo caso, mi ero trovato a condurre una ricerca – per una società multinazionale del settore – sui criteri con i quali le massaie sceglievano i detersivi per il bucato. Gli obiettivi che avrei dovuto perseguire erano talmente banali da indurmi a credere che la ricerca fosse intesa come una verifica di cose note e arcinote. Invece, chi aveva sollecitato la ricerca sperava semplicemente che uscissero dalla bocca delle intervistate un nuovo slogan o una nuova formuletta, bell’e pronti per l’impiego nella campagna che si stava preparando (e della quale non mi era stato fatto alcun cenno). Poiché nei colloqui con le massaie non avevo potuto o saputo cogliere alcuna gemma del genere, la ricerca fu considerata un fallimento. Il secondo caso riguarda un olio di semi di mais: l’Olio Cuore. Il caso è ben conosciuto anche da Claudio Bosio, che fece parte dell’équipe di ricerca. All’ing. Chiari, della Società Chiari e Forti, non era sfuggito il successo conseguito negli Stati Uniti da un olio di semi di mais, presentato come prodotto dietetico utile nella prevenzione delle cardiopatie. Alla metà degli anni ’60, l’ing. Chiari aveva lanciato anche in Italia un analogo olio di semi di mais, denominandolo “Cuore”. Si era sperato in un grande successo, che non ci fu. All’inizio degli anni ’70, ossia cinque-sei anni dopo, quest’olio aveva conquistato una quota di mercato considerata solo modesta. Per tale motivo, si volevano controllare con un’apposita ricerca motivazionale le propensioni e le resistenze nei confronti del prodotto. Fra l’altro, si trattava di verificare che cosa si pensava del nome “Cuore”, dato a un olio di semi. La ricerca, basata su poche decine di massaie che conoscevano il prodotto avendolo acquistato, si concluse con un prospetto di risultati sostanzialmente positivo, ma privo di suggerimenti particolari. Eccetto uno: si faceva notare che alla domanda “perché quest’Olio si chiama Cuore?” era stata data fra le altre anche questa singolare risposta: “Perché è fatto con il germe del mais, il ‘cuore’ del seme di mais…”, suggerendo così un impreziosimento iperbolico del prodotto, al quale nessuno dei retori pubblicitari aveva pensato. Da questa frase nacque lo slogan che accompagnò parecchie campagne pubblicitarie successive. Dieci anni dopo, il prodotto, adottato nella cucina quotidiana non tanto come dietetico, ma come olio leggero e di qualità, aveva raggiunto livelli di consumo eccezionali… Negli anni ’80 lo slogan suggerito involontariamente nel corso di un’intervista era ancora in uso…. Non proseguirò oltre, nel rievocare gloriuzze e sconfitte delle ricerche motivazionali: avrei troppo da dire e troppo noiosamente. Devo invece accennare al modo e al perché è avvenuto il viraggio dalla moda delle ricerche motivazionali alla RQ. Dopo un acme di notorietà e di successo, le ricerche motivazionali classiche sono andate incontro – specie negli anni ’70 e ’80 – ad una progressiva trasformazione in tecniche di 4 indagine meglio fondate epistemologicamente e più accettabili dalla critica sociale. A determinare questa maturazione scientifica e tecnico-professionale hanno concorso due fattori: il primo rappresentato da una revisione delle premesse da cui era nata la ricerca motivazionale, oltre che dallo sviluppo di nuovi contributi di varie scienze relativi allo studio del comportamento umano; il secondo fattore rappresentato invece da una presa di coscienza di quale fosse stato il vero e sostanziale contributo della ricerca motivazionale, ossia la via metodologica da essa indicata, a prescindere dalle sue tecniche e dalle numerose applicazioni. Vi è stato un momento in cui si comprese che l’originalità e il pregio maggiore consistevano nella sua tensione a cercare di scoprire il nocciolo dei problemi propri di un comportamento umano, quel nocciolo che è molto più difficilmente raggiungibile con procedure di ricerca quantitative. Altrimenti detto, il metodo motivazionale aveva insegnato ad attribuire priorità alla scoperta della radice del problema posto alla ricerca, più che alla sua analisi o alla sua descrizione fenomenica; più al significato di un comportamento o di una situazione che alle loro dimensioni. È stato questo il contributo che più di ogni altro – a mio giudizio ha sollecitato il riconoscimento di una nuova dignità metodologica a tutte le ricerche, di varia natura e di diversa competenza scientifica, che mirano a cogliere l’essenza fenomenologica ed esistenziale dei comportamenti umani, ossia le ricerche che oggi includiamo nella grande area della RQ. Non sfugge a nessuno quanto sia importante il mutamento culturale avvenuto in quegli anni. Per effetto del primo fattore si è definitivamente compreso che la ricerca delle chiavi del comportamento umano non poteva essere chiesta solo alla psicologia (e tanto meno: solo alla psicoanalisi), ma che ci si doveva rivolgere anche alle altre scienze umane, in particolare all’etologia (ossia allo studio biologico del comportamento), all’etnografia e all’antropologia culturale, alla sociologia, ed altre ancora. Con ciò è stata sancita anche l’esigenza che le competenze del ricercatore che intende studiare le manifestazioni del comportamento umano siano molto estese, o che sia un’équipe multidisciplinare a condurre la ricerca. Con il passare degli anni, di queste esigenze si è divenuti sempre più consapevoli, ma né alla prima, né alla seconda si è potuto rispondere fino ad oggi in modo adeguato. Per effetto del secondo fattore, si è progressivamente abbandonata l’insegna ideologica – o, se si preferisce, l’etichetta commerciale – della “ricerca motivazionale”, avendo compreso che l’identificazione della radice di un comportamento rappresenta la scoperta di una sorta di essenza, pertanto di una qualità astratta non immediatamente percepibile. Tale scoperta costituisce appunto l’oggetto precipuo della RQ, che possiamo definire come una procedura volta non a descrivere o misurare un fenomeno, bensì a penetrarlo e comprenderlo. È interessante osservare, a questo proposito, che l’affermarsi della RQ ha rappresentato una tendenza opposta a quella che aveva caratterizzato la storia di alcune scienze umane, in particolare della fisiologia e psicologia sperimentali, portate a tradurre in quantità tutte le qualità con cui dovevano confrontarsi (ad. es.: la fatica o il dolore), forti del principio che “se qualcosa esiste, è in qualche modo misurabile”. La ‘qualità’ riscoperta 5 grazie alla RQ ha assunto un nuovo potere euristico e una dignità disciplinare che contestano alle scienze sperimentali la capacità di comprendere in modo esaustivo il mondo psichico e il comportamento dell’uomo. Va riconosciuto, in definitiva, che l’autentica comprensione di un comportamento rappresenta uno stadio della conoscenza qualitativamente più avanzato di quello in cui ci si limita ad attribuirne l’origine a questa o a quella propensione nascosta nelle profondità della psiche, a questa o a quella causa biologica, a un costume del clan piuttosto che a una credenza del gruppo sociale… Comprendere un fenomeno comportamentale significa riuscire a conferirgli un senso, significa interpretarlo, poterlo esprimere con un’astrazione o con un simbolo. Significa, sul piano strettamente scientifico, cominciare a spiegarlo, investendo di significato anche la rete delle relazioni entro le quali il fenomeno nasce, si sviluppa o si estingue, identificare le condizioni decisive per la sua comparsa e la sua scomparsa… Quando si riesca a superare con un colpo d’ala dell’intelligenza, e del metodo di lavoro, il vallo che separa la descrizione o la misura quantitativa di un fenomeno dall’interpretazione del suo significato, per giungere fino a comprenderlo, si tocca il vertice delle potenzialità della ricerca sul comportamento umano. Per questo motivo, noi oggi diamo alla ricerca che persegue prodigiosamente questo obiettivo il nome di RQ, una ricerca capace di scoprire un significato come qualità non immediatamente manifesta, ricerca che pertanto diviene in se stessa sinonimo di qualità, antonimo di quantità, liberazione dalla contraddittorietà di migliaia di dati bruti e privi di senso definito, dalla massa ingombrante di informazioni che sfuggono a ogni presa… Quando si giunga, grazie alla comprensione, a conoscere la radice del fenomeno che si sta studiando, si è trovata la chiave che apre solitamente vie inattese, sia nel lavoro scientifico, sia nelle applicazioni professionali. Se il ricercatore ha in mano questa chiave, persino conducendo sullo stesso fenomeno una ricerca quantitativa ed estensiva è in grado di conferirle un’insospettata fecondità. I riconoscimenti e la credibilità che la RQ ha conquistato nel corso degli ultimi decenni sono la migliore testimonianza del servizio che essa ha reso oggettivamente in tante occasioni alla comunità scientifica e al corpo sociale. Di ciò può essere fiera un’intera generazione di ricercatori, che sa quanto è dovuto ai suoi meriti. Ora, però, è giunto il tempo di far posto in questo lavoro anche a una nuova generazione di ricercatori e di studiosi, perché nuove energie possano in futuro ampliare le prospettive e accrescere la fecondità della RQ. Considerazioni dalla parte degli Istituti di Ricerca a) La storia (Mimma Novelli, Chief Advisor Qualitative Research MillwardBrown) – La ricostruzione storica delle ricerche qualitative in Italia può essere scandita in tappe rappresentate dai diversi decenni. 6 Già presente negli anni ’50, la ricerca qualitativa trova la sua prima vera collocazione nel contesto degli anni ’60, sotto il nome di ricerca motivazionale, o – secondo la definizione dell’attivissima scuola francese che si presenta molto presto anche in Italia – di études de motivation. Sono anni di espansione del consumo come chiave di volta della crescita personale e dell’appartenenza sociale: consumare è bello, la ricerca qualitativa o motivazionale fa da punto di incontro e di reciproca conoscenza fra chi offre e chi consuma. E’ una ricerca consumer oriented, che segna le prime fasi di una relazione fra offerta e consumo fondata sull’entusiasmo e sulla curiosità, secondo il clima dell’epoca. In embrione negli anni ’60 si trovano già tutte le tecniche e tutti gli orientamenti metodologici della ricerca qualitativa più avanzata. Coesistono con obiettivi diversi il modello di rilevazione e di interpretazione di matrice psicologica-clinica, che coinvolge il territorio individuale, psichico e emotivo, e quello di matrice sociologica che verte sugli atteggiamenti. Nelle interviste con questionario semistrutturato si applicano tecniche proiettive molto raffinate, con la proposta di fumetti, disegni, test associativi preparati con la cura tipica dell’artigianalità. Le analisi del contenuto dei materiali raccolti sono un trionfo di manualità (taglia e cuci) e di riflessioni accurate: le Aziende investono tempo e soldi che non mancano, e che consentono livelli di perfezione oggi impensabili. La formazione di tutti gli addetti alla ricerca – non solo degli intervistatori e dei ricercatori, ma anche di chi trascrive le registrazioni – è un’area prioritaria: un grande registratore in mezzo al tavolo e tante ore dedicate a imparare le tecniche. I clienti per partecipare e assistere al field si camuffano nei gruppi da partecipanti. Si inventano piccoli happening come input che anticipano le tecniche creative. Si lavora in sedi familiari, la casa privata o la pasticceria, per favorire il decondizionamento e la genuinità dei contributi. L’omaggio agli intervistati è una rosa o una bottiglia di Porto. Sono gli anni degli slogan e della reclame che utilizza modelli seduttivi e imperiosi. Preparazione teorica e crescita sul campo si integrano in livelli molto alti di professionalità, in un’ottica di collaborazione che unisce marketing, ricerca e consumo. Nel decennio ’70, il contesto cambia totalmente, il consumo come modello sociale entra in crisi, sostituito da nuovi modelli ideologici. Si consuma – si mangia, ci si veste, ci si comporta – secondo nuove scale di valore che coinvolgono i modi di pensare. La ricerca qualitativa deve adeguarsi a un consumatore più complesso e più critico, in una relazione dialettica che assegna a chi offre e a chi consuma ruoli e spazi diversi, spesso in conflitto fra loro. Le tecniche di intervista e soprattutto di analisi si affinano: impossibile prescindere dai contesti in cui si formano atteggiamenti e modi di vivere. Gli individui non si classificano più soltanto attraverso il livello economico, l’appartenenza socioculturale, i comportamenti di consumo, ma attraverso criteri tipologici che richiedono classificazioni più attente. Si sviluppano le ricerche di scenario, si creano nuove e più accurate tecniche di identificazione e di reperimento delle persone da intervistare. La ricerca qualitativa inizia le sue prime tappe verso il processo di “industrializzazione”. Gli anni ’80 segnano la nuova esplosione del consumo che si presenta in tutte le forme più opulente e voraci (nella pubblicità di una famosa marca di gelato una figura 7 femminile sembra dissolversi nel piacere della morbidezza!). Trionfano i modelli seduttivi, convolgenti, ammiccanti che mettono chi consuma di fronte a miriadi di proposte e di possibilità. L’offerta mette a punto strategie di marketing sempre più sottili mirate a entrare nei meccanismi del consumo guidandone inesorabilmente le scelte. La ricerca qualitativa è sempre più marketing oriented, i sistemi audiovisivi imperanti permettono la partecipazione sempre più attiva dei committenti allo svolgimento della ricerca che in parte cede alla spettacolarizzazione. La difficoltà di cogliere gli elementi di differenza e le potenzialità offerte da un soggetto consumatore sempre più sazio, soddisfatto e accerchiato da offerte e possibilità di ogni genere impone nuove svolte metodologiche, che fanno appello a discipline diverse. Nascono nuove scuole e nuovi centri di azione, si sviluppano le tecniche di creatività, i diari di consumo, i panel qualitativi, le interviste etnografiche, le storie di vita. Le analisi semiotiche rispondono alla necessità di trovare nuovi linguaggi e di muoversi con sicurezza nel dilagante sistema dei segni. Negli anni ’90 la ricerca qualitativa è ormai un sistema di controllo del consumo molto strutturato e gestito dal marketing. Cresce l’importanza della ricerca internazionale e della scuola anglosassone. Si impongono i criteri di costo, tempo, servizio, che entrano a far parte della qualità sempre più intesa in senso pragmatico: l’esigenza di actionability dei risultati si riflette su tutti i processi che tendono alla semplificazione. Vige il concetto di gruppo e di focus, valutato per numero e durata e strutturato secondo le regole ferree della guide line che rispecchia la lista degli interrogativi. I debriefing verbali fanno decadere i processi di analisi, le presentazioni di risultati rispondono ai principi della visualizzazione favorita dallo sviluppo dei mezzi che spesso sostituisce la formulazione di concetti. Per la ricerca qualitativa si apre un periodo di grande sfida: da un lato è indispensabile adeguare mezzi, strumenti e modalità operative alle nuove esigenze di efficienza e di efficacia, in aumento e non reversibili, dall’altro non si devono perdere i principi metodologici e deontologici alla base dell’identità professionale. L’alleggerimento dei modelli di presentazione – visivi, sintetici, operativi – la decurtazione dei tempi e dei costi e le pressioni sempre più forti del marketing si accompagnano alla necessità di mantenere ben saldi principi, ruoli e modalità operative, aumentando se possibile i criteri di professionalità, nella formulazione dei progetti, nelle scelte metodologiche, nei processi di analisi, nella formazione dei ricercatori. La banalizzazione delle tecniche – genericamente improntate a criteri di volgarizzazione specie nei gruppi, il cui dilagare fa da riscontro alla costante diminuzione delle applicazioni individuali, indipendentemente dagli obiettivi – non aiuta certamente a conoscere le dinamiche di pensiero e di atteggiamento di target di consumo retribuiti e sempre più apatici, volubili, pronti a dare il loro assenso o il loro diniego rispondendo a stimolazioni non sempre corrette. Non c’è un processo di innovazione strutturale al settore, ognuno cerca di trovare dei modi per fronteggiare la realtà conciliando rigore e pragmatismo, metodo e efficientismo, accuratezza dei processi analitici e precisione e completezza di sintesi. E’ 8 in questo spirito di crisi e di transizione che si svolta nel nuovo decennio: i cambiamenti sono ormai avvenuti e gli effetti sedimentati. La ricerca qualitativa deve guardare oggi a una realtà assestata per regole e ruoli e trovare al suo interno uno spazio e un’identità adeguati a mantenerne la specificità e i principi rinnovandone i processi. E’ un momento di rifondazione, in cui è necessario riuscire a dire qualcosa di nuovo che tenga conto dei mezzi, dei vincoli e delle opportunità del momento, e che sia in grado di contrapporre – all’appiattimento e alla banalizzazione – nuovi valori di specializzazione, che fanno appello a metodi e principi da cui derivano. E’ il momento di ridare valore alla ricerca qualitativa qualificando gli elementi che la contraddistinguono e che la rendono sempre più necessaria quanto più gli spazi di consumo si frammentano e richiedono di essere colti attraverso la precisione e la competenza. Diffondere la cultura della ricerca qualitativa, curare la formazione e mantenere un principio di qualità che tenga conto delle esigenze dei tempi integrandole con il valore del metodo e della disciplina è oggi un obiettivo fondamentale in cui inserire anche i necessari processi innovativi. b) Il presente (Carlo Santucci, Coordinatore Gruppo sulle RQLL di ASSIRM, Presidente e Direttore Generale di RQL) - Pur all’interno di tendenze di fondo che caratterizzano il mercato mondiale delle ricerche di mercato (riconducibili al carattere sempre più globale e transnazionale degli studi sui consumatori come sarà approfondito nel contributo di Clara Origlia), sembra possibile individuare alcune specificità dello stato della ricerca qualitativa (RQ) in Italia. Al riguardo, sembra oggi possibile parlare di una florida stagnazione, un piccolo ossimoro che ben riproduce, a mio avviso: da un lato la definitiva legittimazione della RQ agli occhi delle imprese, che – nella gran parte dei casi – hanno inserita stabilmente la RQ nelle loro logiche e pratiche di conoscenza; dall’altro, il permanere – anche fra i più assidui utilizzatori – di un residuale ma ineliminabile pregiudizio sulla effettiva affidabilità e rappresentatività della conoscenza (del consumatore) acquisibile con la RQ: dunque sulla affidabilità di una conoscenza geneticamente priva di quella oggettività (vale a dire veridicità) che solo il numero sembra garantire (e che impone quasi sempre una validazione/verifica quantitativa delle indicazioni ottenute dalla RQ). La RQL appare tuttora confinata – pur nel riconoscimento della sua innegabile utilità – ad applicazioni per lo più di natura ‘tattica’, vale a dire mirate e circoscritte (ancorché varie): il pre-test pubblicitario, le promozioni, il brand/product positioning, il product test, la ricerca di nuovi concetti/idee di prodotto, il brand audit… Raro, al contrario, il suo utilizzo per intercettare e delineare tendenze di fondo dei e nei consumatori o più estesamente nella società. Quasi del tutto assente la RQ nelle ricerche condotte dalla Pubblica Amministrazione… 9 La RQ gestisce il (non molto) che sfugge al controllo/alla logica del forecast, della previsione, della modellizzazione… la RQ si fa carico dell’imprevedibile in una cultura (manageriale) che, al contrario, ha il mito della prevedibilità. La RQ propone un paradigma di conoscenza (ancora) troppo distante da quello positivista delle scienze ‘esatte’ a cui invece fa riferimento la Ricerca Quantitativa: la RQ non ha (ancora), agli occhi di molti dei suoi stessi utilizzatori (e talvolta degli stessi praticanti) lo statuto di ‘scienza’. La RQ è quindi al tempo stesso ben radicata ma anche ben recintata. Vive bene, ma non si sviluppa più di tanto: assorbe (solo) il 20% della spesa complessiva in Ricerche di Mercato; viene svolta da organizzazioni quasi esclusivamente di piccole o piccolissime dimensioni, con un forte carattere ‘artigianale’ (la logica e la cultura dell’atelier, anche nei più grandi istituti, dove il dipartimento ‘qualitativo’ è sempre largamente minoritario); con un determinante ruolo delle soggettività dei ricercatori: un fenomeno che sembra al tempo stesso causa ed effetto di una concezione ‘magica’, guruesca della conoscenza acquisibile con la RQ, concepita sovente come frutto di peculiari, irriproducibili doti individuali, e a cui non sono quindi applicabili le logiche della ‘produzione’ ma solo quelle della ‘creazione’ (e infatti gli stessi Istituti che fanno soprattutto/solo RQ non si vivono quasi mai come aziende..). In conseguenza di quanto fin qui analizzato la riflessione – tra gli stessi ‘addetti ai lavori’ – sulla peculiare epistemologia della RQ è solo all’inizio: ciascun ricercatore qualitativo ha fino ad oggi elaborato artigianalmente e solipsisticamente un proprio ‘modello’ di conoscenza qualitativa, su cui ha poi costruito il proprio modus operandi. Di fatto non c’è un condiviso golden standard; né esiste – almeno in modo consapevole – una scuola italiana alla RQ. Manca un punto comune che delinei – sia pure con auspicabili differenziazioni – il ruolo del ricercatore qualitativo: egli è semplice testimone qualificato o piuttosto è un accreditato interprete dei processi psicologici, sociali e culturali che attraversano il mondo dei consumatori? Manca inoltre un condiviso modello formativo (quali contenuti, quali fasi, con quali modalità) dei giovani ricercatori qualitativi: il solo modello finora applicato è stato quello dell’affiancamento; e manca anche una comune riflessione sul profilo ideale del ricercatore qualitativo in termini di competenze, sensibilità e abilità (insieme di saperi e di saper fare). Vi è, infine, una scarsa possibilità – al di là spesso dell’interesse e della volontà dei ricercatori qualitativi – di innovare: sia perché gli utilizzatori (i clienti) sono poco propensi a ‘rischiare’ in approcci/strumenti che sembrino sottrarsi troppo al controllo della razionalità e della quantificabilità; sia perché le esigue dimensioni delle ‘imprese’ che si occupano di RQ non consentono investimenti in R&D. Ne consegue che oggi fare una RQ resta essenzialmente una ‘faccenda di focus group’ (70% circa del giro d’affari del comparto qualitativo) e/o di colloqui individuali (25% circa del giro d’affari). Altri approcci (altre ‘prospettive’ di lettura della realtà), pur se da tempo sul mercato e proposti anche insistentemente dagli Istituti/dai ricercatori 10 qualitativi, continuano ad avere un ruolo del tutto marginale (valga per tutti l’esempio dell’analisi semiotica o dell’osservazione etologica o etnografica). Inoltre la globalizzazione dei mercati – e conseguentemente delle ricerche di mercato – sta determinando una banalizzazione del ruolo del ricercatore qualitativo. Gli uomini d’azienda hanno una crescente necessità di reagire alla sempre maggiore complessità dei mercati e delle persone/dei consumatori: cercano comprensibilmente di semplificare il mondo, per poter meglio pianificare le loro azioni (specie se operano in mercati/paesi Æ culture differenti). Di qui, una loro crescente propensione a ‘leggere’ autonomamente e immediatamente il consumatore (ad esempio assistere ai focus groups e redigere immediatamente dei documenti da far circolare in azienda…), delegando al ricercatore il (solo) compito di ‘far parlare gli intervistati’ (crescente importanza data dalle imprese alla fase della conduzione dei colloqui), a dotarsi di risorse interne con cui condurre i ‘propri’ focus groups e a richiedere una risposta immediata ai propri interrogativi, negando il tempo – e implicitamente il valore – per una analisi più profonda, meditata e criticamente riflessa delle informazioni raccolte sul campo. Sembra quindi auspicabile un qualche convinto ‘riscatto’ della RQ: la sua definitiva e condivisa promozione a strumento privilegiato di accesso a una conoscenza tanto più necessaria quanto più sfuggente, polimorfo e mutevole (e quindi imprevedibile e non sempre ‘misurabile’) diviene il consumatore. c) Il contesto internazionale (Clara Origlia, Council Member ESOMAR, Fondatore e Direttore di Market Dynamics International) – Il mercato si muove con ottiche, modalità e obiettivi globali. L’impatto sul mercato delle ricerche, sul tipo di domanda, sul tipo di output richiesto, sullo stile di lavoro e sulla figura professionale del ricercatore stesso è diretto. Il cambiamento in atto appare irreversibile. A livello macro, si registra da tempo: uno spostamento (di interesse e di investimenti per la ricerca) su Paesi a forte sviluppo/emergenti: Asia, principalmente ma anche Europa dell’Est; una diminuzione degli investimenti per progetti internazionali in ambito unicamente Europeo; una caduta di interesse per mercati considerati ‘maturi’, per mercati socioeconomicamente e politicamente considerati instabili o per quelli che non si distinguono per particolare vitalità e non presentano spinte evolutive interessanti. La globalizzazione del mercato ha moltiplicato le opportunità per progetti di ricerca multi-country e di più ampio respiro. La ricchezza e varietà di proposte di congressi, convegni, corsi di formazione, workshop specialistici ha indubbiamente favorito la condivisione di esperienze e pratiche professionali, la crescita di una vera e propria ‘cultura’ delle ricerche qualitative internazionali. Così come ha agevolato la diffusione di metodologie di ricerca innovative, e il loro adattamento a contesti culturali diversi. Lo scambio internazionale – tra ricercatori e clienti – ha rappresentato da sempre un fattore di arricchimento professionale notevole. Scambio che oggi diventa indispensabile. 11 ESOMAR – ‘The world organisation for enabling better research into markets, consumers and societies’ – da anni svolge un ruolo determinante nel promuovere lo scambio e la crescita professionale anche attraverso la messa a punto di una normativa diventata il riferimento per coloro che operano nel mondo delle ricerche. Come ESOMAR, si stanno muovendo altre associazioni a livello internazionale e nazionale. Col crescere di prospettive e linguaggi ‘globali’ si tende tuttavia a sottovalutare l’importanza di specificità e sfumature culturali. Non solo come patrimonio da preservare e coltivare, ma come elemento di importanza strategica. Di questo risente non solo la ricchezza dei risultati a livello interpretativo, ma il processo stesso della ricerca. Si registra un aumento della domanda per specifiche tipologie di ricerca. Alcuni esempi: il ‘Fast & Cheap’ con obiettivi di tipo tattico e pratico-operativo, e di immediata applicazione. Ricerche poco costose, leggere, veloci, di impianto (apparentemente) semplice e non particolarmente sofisticate: si chiedono risposte e conferme, non insight illuminanti! Un’opportunità per lo sviluppo di prodotti di ricerca agili, snelli, poco costosi e al tempo stesso intelligenti. Da non confondere con la variante ‘All in One’: spesso più ricerche in una, con tempi stretti e timing non negoziabile; screener che durano un’ora; strumenti di ricerca da utilizzare in maniera sequenziale e rigidamente strutturata; un numero esagerato di interlocutori dietro lo specchio; quasi unicamente la richiesta gruppi (però tassativamente 8-10 partecipanti, a prescindere dal fatto che sia appropriato o no) con obiettivi da ‘extended group discussions’ ma da gestire come un focus group, (due ore al massimo … nessuna pausa!); debrief as we go e rapporto subito dopo, o niente rapporto; una logistica pesante e costosa, impegno elevato… e prezzi all’osso. Questa soluzione piace poco al ricercatore qualitativo… che si sente sfruttato, frustrato per l’apporto che potrebbe/vorrebbe dare ma non viene richiesto (anzi!). Lo stile di lavoro che ne deriva non sempre contribuisce a creare una relazione ricercatore-cliente serena e arricchente. Né a costruire un rapporto destinato a evolversi nel tempo. Tuttavia, a fronte di questa tendenza, per fortuna, si osserva un’aumentata richiesta di ricerche con taglio creativo-strategico. Essenziali per l’esplorazione di grandi temi di fondo (una tendenza interessante, questa, presso alcuni grossi clienti), per l’identificazione e lo sviluppo di un potenziale, per la creazione di nuove opportunità, la valorizzazione e l’utilizzazione ottimale di insights, ricevuti da consumatori o esperti. Si tratta di ricerche che richiedono, e comunque consentono, approcci di tipo decisamente creativo-interattivo. E’ proprio in questo ambito che si riesce a stabilire quella partnership tra ricercatore e cliente che può garantire: l’unicità e la qualità del processo di ricerca, degli strumenti scelti; la ricchezza e la profondità interpretativa; e un livello di actionability sorprendente (e abbastanza immediata). C’è un grande ritorno ad approcci di ricerca ‘davvero qualitativi’ che richiedono al singolo ricercatore una molteplicità di skills (esperienza, comunicazione, interattività, 12 flessibilità, ricchezza e incisività sul piano interpretativo). E consentono l’utilizzo di ‘supporti’ di comunicazione diversi da quelli soliti. Il marketing cerca ispirazione dalla vita vera, vuole vedere, capire e ‘sentire’ il consumatore, vederlo agire nel suo contesto naturale. Ritornano l’etnografia, la semiologia, le più diverse tecniche di osservazione e registrazione di fenomeni e comportamenti ‘live’. Reportage, foto, diari, videoclip, o documentazione video dal vivo di gruppi e interviste, video reporting… stanno riportando la vita vera nelle sale riunione. E sono diventati supporti insostituibili nella creazione, nel cambiamento, nella definizione delle strategie aziendali. Con la globalizzazione, peraltro, non è cambiata solo la domanda, ma sono cambiati anche lo stile e le modalità di lavoro, i processi, gli strumenti, i contenuti… la figura stessa del ricercatore. Dobbiamo, dunque, ridisegnare la nostra professionalità, in maniera da rispondere alla nuova realtà. Indietro non si torna, però ci si può reinventare… e questo è il vero challenge. Il ‘business’ è oggi dominato da pochi gruppi di ricerca ‘globali’ che tendono a muoversi con un approccio più aggressivo; hanno una politica dei prezzi estremamente competitiva vista la possibilità di negoziazione a livello davvero globale. Perlopiù tutti offrono expertise in ‘tutti’ i settori di ricerca e hanno un menu abbastanza ricco di approcci di ricerca (‘prodotti’) anch’essi ‘globali’. È la soluzione ‘one stop shopping’ quella che - per policy, per struttura amministrativa interna, per una serie di ragioni ben ponderate o semplicemente per comodità - molti Clienti privilegiano in quanto: riduce il numero di interlocutori, e di interazioni necessarie (emerge e si rafforza la figura del planner, o il ruolo del capo progetto); consente di delocalizzare l’organizzazione e la gestione della ricerca laddove risulti più conveniente (poco importa se in un Paese non direttamente coinvolto) 1 ; rassicura (grosso cliente si rivolge a grosso gruppo!); consente una maggiore delega di responsabilità; soddisfa esigenze di ottimizzazione di tempi, denaro e risorse umane; sostiene la sensazione di poter annullare le barriere spazio-temporali (se si lavora in simultanea in più Paesi), e di minimizzare i rischi delle differenze culturali… con un tranquillizzante senso di efficienza-onnipotenza. La scelta di questa ‘formula’ può andare a discapito della ricchezza interpretativa, della valorizzazione delle specificità culturali, della conoscenza profonda del contesto. E non valorizza la passione, l’esperienza e la conoscenza locale, o l’approccio personale: tutti ingredienti tipici del prodotto ‘artigianale’, fatto ‘su misura’ 2 . 1 Si registra una progressiva concentrazione del coordinamento di progetti internazionali in Germania, a svantaggio del Regno Unito che per anni ha detenuto il monopolio del coordinamento delle ricerche ed è stato interlocutore privilegiato delle grandi multinazionali 2 Anche se si assiste alla nascita di ‘corners’ di alta specializzazione o creatività nei grandi gruppi di ricerca. Come l’angolo del ‘fresco’ nei supermercati o lo spazio ‘gourmet’ nei grandi magazzini. Tendenza interessante, da monitorare. 13 La soluzione ‘one stop shopping’ inevitabilmente ha prodotto una contrazione del business per i piccoli e medi istituti (in metafora ‘speciality store’) e ridotto le possibilità di esprimersi in ambito internazionale, anche a fronte di una consolidata capacità, esperienza e reale vocazione in tal senso. La grande distribuzione – resto nella metafora – è ormai insostituibile. Ma in molti casi decisamente meno appropriata o meno soddisfacente dello ‘specialty store’. Va anche detto che se lo specialty store vuole sopravvivere deve valorizzare gli elementi di differenziazione rispetto alla grande distribuzione. Cioè le aree di autentica specializzazione, l’originalità degli approcci, il ‘su misura’, il livello di competenza (trasversale e non solo verticale), e di coinvolgimento dei ricercatori. Da valorizzare anche la ricchezza del menu, non tanto per la quantità delle proposte o la convenienza, ma per la presenza di ricette ‘fresche’, appetitose, sorprendenti. L’artigianalità, unita all’attualità ed efficacia di metodologie e strumenti, diventa così un plus enorme, veicola la valenza più nobile del ‘su misura’, la passione, la capacità creativa unite all’esperienza. Si profila, o si riscopre, una nuova figura di ricercatore: creativo, propositivo, direttamente coinvolto, interfaccia appassionata tra cliente e consumatore (e non formattatore di real life) Ci sono segnali chiari da parte di alcuni ‘grandi’ clienti: si sta tornando a scegliere ‘le persone’ anziché la struttura tout court. E non è un caso che questo corrisponda alla presenza di un team interno di ‘ricerca e sviluppo’ o di ‘consumer insight specialist’ di grande esperienza e qualità. In questo panorama mutevole, caratterizzato da fasi di accelerazione euforica e di stagnazione e incertezza, c’è rischio di sofferenza per gli istituti ‘generalisti’, per chi non ha sviluppato i propri talenti, per chi non parla lingue straniere, non va in giro, non si espone. Ci sono invece ottime potenzialità per quelli che hanno qualcosa di speciale da offrire, uno stile proprio, la libertà, la volontà (il rischio e l’impegno) di essere propositivi. Alcuni Clienti lo dicono: non aspettano altro che stimoli e proposte nuove, o che gli si spieghino i vantaggi di un approccio metodologico diverso da quello richiesto. E’ nostro dovere, per noi stessi e per la nostra professione, sfruttare questa opportunità. E, per noi stessi e per i nostri interlocutori, alzare il livello del dialogo e dello scambio professionale. Considerazioni dalla parte degli Utenti a) La comunicazione (Roberto Binaghi, Direttore Centro Studi AssoComunicazione) – Negli ultimi anni il rapporto tra il mondo della pubblicità e le ricerche ha subito una decisa involuzione. Dopo decenni di appassionati sperimentalismi, a partire dalla prima metà degli anni novanta il terreno si è inaridito ed ha progressivamente prodotto risultati sempre più modesti e “convenzionali”. Le ricerche sui contenuti della pubblicità sono sempre più spesso diventate una mera 14 necessità burocratica: pratiche da sbrigare per legittimare scelte già fatte o, sempre più spesso, per mettersi in regola con le procedure del network internazionale di riferimento. Le ricerche sui media si sono trasformate in tutto e per tutto in currency dalle quali dipende il prezzo di vendita della merce pubblicità. Sull’esempio dell’Auditel (ma anche dell’Audipress e dell’Audiradio) abbiamo assistito alla proliferazione delle “audi” (dal web all’affissione fino al cinema …) in base ad un discutibile principio secondo il quale i “dati di audiences ufficiali” porterebbero automaticamente maggiori fatturati pubblicitari sul mezzo investigato (come dire che una stazione metereologica potrebbe generare un temporale…). Ora, però, lo scenario sta cambiando. Negli ultimi 12-18 mesi il mondo dei media ha vissuto una vera e propri rivoluzione. Le piattaforme multimediali si stanno affermando incondizionatamente ed i media tradizionali si difendono innovando. Il mercato sta vivendo una stagione vivace ed interessante. La televisione satellitare serve oggi oltre sette milioni di famiglie, quattro delle quali abbonate ad almeno uno dei bouquet Sky. Il digitale cresce del 50% anno su anno da ormai due anni; ed accanto alle applicazioni PC (web arvertising e motori di ricerca) si stanno sviluppando anche – e soprattutto – le cosiddette “not only PC devices” ovvero il mondo del viral marketing, degli I-Pod, della Mobile-Tv. Ma anche la “vecchia” affissione sta vivendo un momento brillante grazie al ridisegno dell’arredo urbano delle grandi città in funzione del quale si stanno rendendo disponibili agli investitori pubblicitari nuovi impianti di ottima qualità. E la stampa, infine, sta trovando nella free press un importante canale di comunicazione con la parte più giovane del suo target. Ed in questo segmento, nato per inseguire i grandi numeri, sta finalmente arrivando ora anche la qualità (da E-Polis al 24’ del Sole…). Cambiano i mezzi e cambia inevitabilmente l’utente alle prese con una molteplicità di stimoli sempre ricchi, talvolta contraddittori. E matura di nuovo, come alla fine degli anni ottanta, il bisogno da parte dei pubblicitari di capire, di orientarsi, di pianificare azioni efficaci. Non solo di misurare, di contare e di prezzare. Per questo non ci serve che prolifichino le stazioni metereologiche. Ci serve un bel satellite che dall’alto veda tutto magari con una definizione non perfetta ma con una visione d’insieme grandiosa. E ci serve di osservare la gente, di capire davvero come la nostra vita è cambiata grazie al progresso della tecnologia dei mass-media. Non è quindi più tempo per le “audi” in senso stretto. O, almeno, non è tempo solo per loro. Ci servono nuovi strumenti di ricerca che inquadrino i fenomeni nel loro complesso con un duplice atteggiamento “top-down” e “bottom-up”. Abbiamo bisogno di capire prima ancora che di misurare. Ed abbiamo una certezza: che non è solo misurando che capiremo. In questa logica la ricerca qualitativa recupera spazio di attenzione. Il tempo ci dirà se sarà uno spazio importante. I presupposti, certamente, non mancano. b) Dal mondo delle aziende: una testimonianza (Cinzia Marchetti, Marketing Research Manager, Barilla) – Le ricerche di mercato qualitative sono più che mai utili e necessarie a illuminare le decisioni aziendali, soprattutto per gestire le marche e 15 l’offerta di prodotti facendosi guidare dalla comprensione delle persone che le scelgono, le utilizzano, le preferiscono, le adottano. Nell’attuale realtà socio-culturale e di mercato – dove davvero non possiamo più parlare di bisogni di consumo ma solo di desideri e aspettative – comprendere attitudini, comportamenti, percezioni è diventato molto più difficile che in passato e le competenze che hanno funzionato finora per assolvere questo compito non sono più sufficienti. Per questa ragione è fortemente richiesta un’attività mirata e altamente specializzata di formazione, sviluppo di professionalità e diffusione culturale che possa portare nuovo smalto al campo delle ricerche qualitative, rinnovandone la potenza euristica e l’efficacia operativa: rafforzandone quindi non tanto la chimerica funzione predittiva, ma soprattutto il ruolo esplicativo e interpretativo. Sulle ricerche qualitative troppi luoghi comuni sono da abbattere e molte credenze da stanare: il vituperato ‘focus group’ viene citato nei contesti più disparati per indicare modalità viziose di gestire le ricerche di mercato; in tanti casi è citato a sproposito e senza cognizione specifica; purtroppo in alcuni casi a ragione, dove viene effettivamente praticato da aziende e istituti di ricerche come tecnica di interrogatorio guidato a risposta scontata o pericolosa, destinata a produrre tanti falsi negativi e falsi positivi, dimostrando in tal caso tutte le sue insidiose colpe. E’ quindi auspicabile una rivoluzione della pratica e l’adeguamento delle tecniche alle nuove problematiche di business, per sfatare i miti negativi e rilanciare un modo di fare ricerche qualitative ancora molto valido. La ricerca qualitativa è una pratica interpretativa che applica al marketing e ai fenomeni di consumo le scienze che studiano l’uomo, i suoi comportamenti, il suo sistema di interazione percettiva e cognitiva con la realtà. Queste scienze hanno fatto passi enormi negli ultimi anni: il cognitivismo, la teoria della mente, la semiologia, l’etnografia, la neurolinguistica sono i nuovi serbatoi ricchissimi e obbligati di chi deve fare attività ricerca&sviluppo nelle ricerche di mercato qualitative, sono la vera frontiera teorica da cui attingere. Troppa vendita di ‘gadget’ nel portafoglio di offerta metodologica degli istituti di ricerca mostra un’attegiamento che si limita a cavalcare la moda e nasconde un’imbarazzante assenza di competenza, professionalità specifiche e sperimentazione sul campo: l’analisi semiotica per fare un facile esempio è diventata la ciliegia di tutte le torte, ma troppi ricercatori non la conoscono e ancora meno la sanno utilizzare in modo efficace, capace di fare onore a una scienza che ha un potere applicativo enorme nel campo delle ricerche qualitative. Ai ricercatori che operano in azienda servono nuovi strumenti, scientificamente fondati, creativamente concepiti, per capire la relazione funzionale, sensoriale, cognitiva, emozionale, ludica delle persone con le marche e i prodotti: la natura di questa relazione cambia continuamente nell’evoluzione del contesto sociale, culturale, di mercato. Bisogna umanizzare le ricerche di mercato qualitative e farne di nuovo un vero mestiere di strada, incollato alla realtà di come la gente pensa, consuma, sogna. La miglior ricerca qualitativa sarà un brillante bricolage di tecniche combinate con rigore metodologico e pura attitudine investigativa, quella che cerca sempre sorprese 16 e non semplici conferme, quella che procede per passi analitici e scatti intuitivi perfettamente intrecciati. Fare ricerca qualitativa è un mestiere specialistico, non generalista, che richiede profondità e grande consapevolezza delle possibilità e limiti delle tecniche descrittive e interpretative: chi interrogare, cosa chiedergli e come chiederglielo, questa è la ricetta da reinventare. Le persone che reclutiamo nelle ricerche qualitative hanno poco tempo, si annoiano in fretta, sono difficili da coinvolgere e complesse da capire; solo un dialogo empatico ed esperto le può ingaggiare in un’interazione proficua per entrambe le parti e che sia capace di guidare le aziende verso un’innovazione utile e sorprendente. La ricerca qualitativa deve tornare a nutrire l’immaginazione e l’ispirazione di chi deve trasformare la comprensione delle motivazioni delle persone in idee originali che portino valore sui mercati del futuro. c) Dal mondo delle aziende: un’altra testimonianza (Massimo Cealti, Research Manager Mediterranean Division, Coca-Cola Italia) – A fronte della necessità di determinare il campo d’azione della RQ, le definizioni ufficiali evidenziano la natura complessa e sensibile di questo approccio di ricerca. Valga per tutte, ad esempio, la definizione proposta da Assirm 3 : “(la ricerca qualitativa) serve a capire che cosa c'è al di sotto o all'origine degli atteggiamenti e dei comportamenti, evidenziando i meccanismi individuali profondi. Andare al di là dei fatti e delle espressioni manifeste che li giustificano. […] Studia i fenomeni cogliendo gli elementi anche non immediatamente evidenti che li determinano nel loro processo dinamico e nel sistema di interazioni in cui si formano”.. La ricerca qualitativa dunque (con la sua amplissima gamma di tecniche e strumenti) parrebbe particolarmente utile nell’investigare gli atteggiamenti profondi che orientano il modo di pensare e i comportamenti quotidiani delle persone. In questo contesto è opportuno anche tener conto dell’evoluzione degli ambiti di applicazione delle diverse metodologie di ricerca. Da questo punto di vista si osserva una progressiva tendenza a sovrapporre gli ambiti di studio, in passato più definiti, propri della ricerca qualitativa e di quella quantitativa. Per un verso, grazie ai progressi della tecnologia stanno infatti tornando di attualità tecniche di indagine quantitativa che non prevedono di utilizzare le testimonianze soggettive degli intervistati: dall’uso del gps per valutare l’esposizione delle persone ai messaggi in affissione, al meter elettronico multimediale per la rilevazione dell’esposizione ai media senza dover passare necessariamente attraverso il ricordo – a volte inevitabilmente fallace – degli intervistati, fino a sperimentazioni ancor più “ardite”. Per un altro verso, si assiste alla pubblicazione di saggi che prevedono l’utilizzo del Metodo di simulazione Monte Carlo su materiale 3 Questa definizione, (tratta da ASSIRM “La Ricerca Qualitativa , Principi, definizioni, modalità operative”, documento disponibile sul sito: www.assirm.it) riecheggia altre definizioni ufficiali quali ad esempio quella di ESOMAR (crf “Market Research Glossary”, disponibile sul sito: www.esomar.org), quella della American Marketing Association (cfr. www.marketingpower.com) e quella della British Association for Qualitative Research (cfr. www.aqr.org.uk.) 17 raccolto nelle discussioni di gruppo! Di fronte a questa convergenza è utile chiedersi quale sia dunque il ruolo che le tecniche qualitative possono rivendicare come proprio. A parere di chi scrive, la Ricerca Qualitativa è in grado di offrire contributi originali (nel senso di non altrimenti ottenibili con tecniche o metodologie alternative) prevalentemente nel valutare gli aspetti inconsci e non verbali, che vanno sempre necessariamente al di là delle razionalizzazioni, del “politically correct”, delle convenzioni sociali, di quello che “è giusto o opportuno dire” e del comportamento osservabile. Proprio in questo risiede la “core competence”, la capacità distintiva dei ricercatori che sono formati alla “scuola qualitativa”. Accade invece abbastanza spesso che i risultati di progetti qualitativi siano ancorati al piano delle testimonianze soggettive e ci sia solo un limitato accesso alle interpretazioni del piano “non verbale”. Dal punto di vista di chi scrive, agendo in questo modo i ricercatori qualitativi che adottano queste modalità operative giungono a negare implicitamente il valore intrinseco delle loro discipline. Un secondo aspetto importante che la “scuola qualitativa” dovrebbe prendere esplicitamente in considerazione riguarda gli aspetti esecutivi dei progetti di ricerca (e non solo il quadro teorico di riferimento). Nel corso degli oltre 50 anni di storia delle ricerche qualitative in Italia è stato accumulato un patrimonio straordinario di conoscenze ed esperienze che riguardano le modalità operative ed organizzative delle discussioni di gruppo e dei colloqui individuali in profondità. Si fa riferimento qui all’esperienza nella predisposizione delle “condizioni di contorno” che facilitano il lavoro del ricercatore e gli consentono di avere accesso al piano non verbale (si possono ricordare velocemente: il “setting” dell’intervista, gli stimoli, gli strumenti e le tecniche proiettive). Esistono ovviamente elementi e condizioni che facilitano il lavoro del ricercatore e altri che invece lo rendono più difficile se non addirittura impossibile: riportiamo una testimonianza diretta abbastanza chiara relativa a “qualcosa che non ha funzionato correttamente” nel predisporre le condizioni di cui sopra, nel caso di un colloquio di gruppo avvenuto qualche anno fa. Si trattava di una discussione di gruppo mista tra teenagers, e nel caso specifico il moderatore trascorse la maggior parte del tempo nel tentativo – spesso vano – di “gestire” il disagio dei partecipanti provocato dal dover parlare di fronte a rappresentanti dell’altro sesso a scapito della possibilità di approfondire l’argomento della ricerca (peraltro non particolarmente “sensibile”, come ad esempio il consumo di un prodotto alimentare di ampia diffusione). L’esempio fa emergere il fatto che il “patrimonio di esperienze” – la ricerca veniva condotta da un Istituto di ricerca assolutamente di rilievo e specializzato esclusivamente in tecniche qualitative – non è a parere di chi scrive sufficientemente “codificato” ma piuttosto viene “tramandato” in modo non sistematico. Sarebbe opportuno invece che questi temi fossero oggetto di codifica e fossero altresì materia di formazione per i ricercatori che vogliano specializzarsi nelle tecniche qualitative. Il terzo aspetto di rilievo nella valutazione dei contributi che la ricerca qualitativa può offrire al processo decisionale delle aziende riguarda la meta-ricerca: è necessario 18 rendere operativi gli spunti offerti dalla ricerca di base nelle discipline che informano le tecniche qualitative come la psicologia e la psicanalisi, la sociologia, la semiotica, l’estetica, l’etnografia, l’etologia... L’esigenza è quindi quella di portare avanti progetti di innovazione metodologica, analogamente a quanto accade in tutte le discipline (e in modo particolare nelle tecniche di ricerca quantitative). Se si osserva in modo critico l’evoluzione nel recente passato del “corpus” delle tecniche qualitative nelle loro applicazioni alla ricerca di mercato, molto probabilmente non si noterà lo stesso “fermento innovativo” che invece ha caratterizzato le tecniche quantitative. L’imperativo dell’innovazione è ad oggi cogente in ogni disciplina, e la ricerca qualitativa non fa eccezione di sorta. Da ultimo, ma non meno di rilievo, è importante che anche i ricercatori qualitativi sappiano sempre più vestirsi con “l’abito mentale del businessman”, oltre che parlare la lingua del business. Ciò significa in pratica saper interiorizzare le esigenze del mercato in termini di compatibilità dei tempi di realizzazione delle ricerche qualitative con le tempistiche del processo decisionale aziendale ed anche in termini di capacità di traduzione dei risultati interpretativi in raccomandazioni operative che possano concretamente “fare la differenza” nel processo di presa di decisioni delle aziende. Tenendo conto del fatto che la ricerca qualitativa è sempre in bilico tra l’essere in grado di fornire un ineguagliabile livello di ricchezza e profondità nei dettagli del fenomeno che si sta studiando (“God is in the Details”, Ludwig Mies Van der Rohe) e il non poter produrre conclusioni generalizzabili dal punto di vista statistico alle popolazioni di riferimento, e capitalizzando sui 4 aspetti solo tratteggiati in questo breve intervento i ricercatori qualitativi saranno in grado non solo di mantenere il loro vantaggio competitivo nei confronti delle branche di ricerca concorrenti ma anzi di continuare a rivendicare il posto di rilievo che di diritto spetta loro all’interno delle metodologie a supporto del processo decisionale aziendale. d) L’utenza socio-politica (Alessandro Colombo, Direttore della Ricerca IReR: Istituto Regionale di Ricerca della Lombardia) – Il punto di vista che qui rappresento non è direttamente quello della politica o dell’ente pubblico, ma quello di chi svolge ricerca per la politica e per l’amministrazione. Cercherò di descrivere i tratti della domanda pubblica di conoscenza e le opportunità che intravedo per la ricerca qualitativa. Una precisazione: io tratterò della domanda di programmazione, cioè quella che deve implementare, sviluppare, valutare le policy e non della domanda politica, che ha innanzitutto un problema di consenso (e sulla quale certamente la ricerca qualitativa può comunque avere un ruolo importante). Oggi la domanda pubblica ha a che fare più di ieri con la complessità. La considerazione può essere banale, ma proverò ad esemplificare alcune implicazioni rispetto al nostro tema. 1. Fino agli anni Ottanta il percorso operativo risultava definito in maniera piuttosto netta: c’è un problema; il problema determina esplicitamente una domanda di conoscenza; la conoscenza apre lo spazio per un’azione in risposta al problema. 19 Oggi la complessità ha spezzato la linearità di questa sequenza logico-temporale, perché ciò che è in questione non è tanto l’individuazione della risposta, ma la definizione stessa dei problemi. In un contesto complesso, fare ricerca per il governo significa anche (spesso soprattutto) contribuire a definire i bisogni e, di conseguenza, persino a formulare le domande di conoscenza coerenti con essi. 2. Un secondo elemento della complessità è la necessità di superare i ragionamenti e gli approcci settoriali. Tre esempi. Perchè le imprese chiedono semplificazione? Non certo perchè vogliono meno cose, ma perchè le vogliono immaginate come già unificate. O pensiamo al tema della sicurezza: i sistemi di intervento di fronte alle calamità coinvolgono settori che prima non erano connessi, compresi (soprattutto) i sistemi di comunicazione. O, ancora, pensiamo alle politiche sociali. Se continuiamo a concepire gli interventi per settori, generiamo disequilibri. Ci sono persone considerate “povere” che ricevono assistenza e benefici da diversi assessorati. Vi sono altre persone, che invece non sono abbastanza “povere” per ricevere nemmeno un beneficio o contributo. Così i primi escono dalla povertà e i secondi vi rimangono. Superare l’approccio settoriale vuol dire misurare le politiche non solo in termini di contributi erogati, ma anche di contributi ricevuti dal singolo. 3. Il terzo elemento della complessità è il passaggio dal “government” alla “governance”. Il pubblico non può più concepirsi come gestore unico, ma come garante. Il governo centrale non è l’unico attore, ma deve cercare di interagire con gli altri soggetti che allo stesso modo (alle volte anche meglio) possono esercitare un ruolo pubblico. In questo contesto la domanda pubblica sta reagendo abbastanza bene, ma ha bisogno di essere sostenuta e articolata. La pubblica amministrazione, in positiva reazione alla complessità, sta faticosamente cambiando pelle: sta passando da una logica burocraticoincrementale (di fronte a un nuovo bisogno si crea una nuova struttura), a una logica manageriale-organizzativa (di fronte a un nuovo bisogno, si cambia organizzazione). Tale passaggio non è semplice e richiede tempo. Intanto si soffrono alcuni paradossi: si coglie l’importanza degli indicatori, ma li si teme e non li si vive in prospettiva strategica; si chiede conoscenza scientifica approfondita, ma si pretendono risultati “spot”; si avverte la necessità di partire dai bisogni reali, ma si cede facilmente all’attrazione del consenso; si scommette sulla governance, ma si è tentati spesso di imboccare scorciatoie centralistiche. Per aiutare la domanda pubblica è decisivo il ruolo dell’intermediario. IReR è questo intermediario. Dico con estrema chiarezza quello che forse alcuni hanno già sperimentato: non bisogna illudersi di potere efficacemente interagire direttamente con la pubblica amministrazione. È necessario il nostro contributo. Lo dico senza presunzione. Anzi, con la convinzione che, soprattutto in Lombardia, siamo in una fase in cui abbiamo la possibilità di istituzionalizzare un processo di ricerca per la pubblica utilità che può essere nuovo. E secondo me se lo si fa in Lombardia, lo si fa anche in Italia. 20 A fronte del quadro appena tracciato, con riferimento più specifico alla RQ, intravedo una questione generale e due di tipo più particolare. La questione generale è che la ricerca qualitativa ben condotta, a differenza di quella quantitativa, fa accedere più direttamente alle proposte di policy. Alla fine la ricerca per la programmazione deve sempre contenere indicazioni di policy e queste possono derivare anche dai soggetti portatori del bisogno intervistati, ascoltati, opportunamente interpellati. Non si tratta di moltiplicare o migliorare i sondaggi, ma di costruire metodologie forse nuove e certamente rigorose che possano potenziare la capacità di ascolto di questa pubblica amministrazione in faticosa transizione. La prima questione più particolare riguarda la valutazione delle politiche. In Italia la valutazione sconta una fortissima resistenza soprattutto culturale. Prendete il termine “control”: per gli inglesi vuol dire “guidare”, “tenere il timone”; per noi italiani è sinonimo di “ispezione”. Al netto di questa fatica culturale, comunque, vi è uno spazio aperto di sviluppo dei metodi di valutazione delle politiche sul quale la RQ può dare un contributo. In particolare, rispetto ai modelli di valutazione “partecipata”. Se le politiche vengono giustamente attuate in una prospettiva di governance, cioè “si scommette” sui soggetti sociali per realizzarle, allora anche la valutazione può essere realizzata continuando a scommettere sulla capacità di tali soggetti di rileggere l’esperienza. La specificità è quella di come costruire metodi e sistemi di valutazione delle politiche e, in particolare, metodi e sistemi per far partecipare i soggetti, assegnando loro una responsabilità anche nel momento della valutazione. Tra l’altro, in questo caso, qui in Lombardia potremmo inventare una valutazione italiana, chiaramente distinguibile all’interno di un panorama internazionale. D’altra parte qualcosa di simile è già avvenuto in passato in Lombardia, quando si è sviluppato un modello di capitalismo solidale (diverso dal modello weberiano e anglosassone), nel quale solidarietà ed efficienza produttiva andavano insieme (come la casa e la bottega). Analogamente, oggi nessuno ci vieta la possibilità di “inventare” un approccio di valutazione nuovo (forse “italiano”?), seguendo una logica di flessibilità e di adattamento delle forme. La seconda questione specifica nella quale la ricerca qualitativa può trovare applicazione concerne i processi di programmazione partecipata. Già avviene soprattutto negli enti locali, che piani di sviluppo, scelte infrastrutturali o di bilancio trovino momenti deliberativi. La Regione si sta in parte orientando in tal senso. Come IReR abbiamo lavorato in via sperimentale sul tema OGM verificando strumenti di democrazia deliberativa, come le consensus conference. In generale, il parere informato è questione interessante e sulla quale occorre lavorare. In conclusione, se penso alle finalità di questo Master ho in mente una professionalità capace di lavorare con l’intermediario nell’articolare la domanda pubblica per contribuire alla conoscenza, intesa come riduzione della complessità. I nuovi ricercatori qualitativi saranno chiamati non ad aumentare la complessità, ma a ridurla, consolidando la disciplina sul piano epistemologico, verificando il rigore del 21 metodo, sviluppando una professionalità capace di dialogare con le altre discipline. C’è spazio, quindi, per un contributo sostanziale nel cogliere e interpretare i bisogni reali sui quali costruire e valutare la programmazione. La ricerca qualitativa per il marketing: fra nodi e snodi (A. Claudio Bosio, direttore Centro Studi e Formazione ASSIRM) – Le riflessioni sviluppate negli interventi precedenti – in coerenza con le finalità del panel – hanno focalizzato il tema dell’indagine qualitativa come pratica professionale al servizio del marketing, lasciando sullo sfondo altri aspetti relativi al suo statuto di disciplina scientifica. Parto da questa prospettiva – apparentemente “fuori tema” – nella rilettura dei contributi del panel per ricordare che: 1. da alcuni decenni gli approcci di ricerca qualitativi hanno registrato una crescita straordinariamente vivace nell’ambito delle scienze sociali, a cui è corrisposta un’offerta sempre più ricca e articolata di teorie, metodi, tecniche e strumenti impegnati nei più svariati campi di indagine (per dare una dimensione intuitiva del fenomeno, ad oggi i giornali scientifici focalizzati sulla RQ sono più di 130); 2. questa tendenza ha significativamente interessato anche la ricerca sui consumi dedicata al marketing. Segnali importanti in questo senso sono la nascita nel 1998 della rivista Qualitative Market Research e il riorientamento tematico di altri periodici (fra questi: Journal of Consumer Research, Journal of Marketing, Journal of Marketing Research); in parallelo l’uscita di un nutrito numero di libri e manuali, fra cui l’opera in sette volumi Qualitative Market Research: principles and practices curata da G. Ereaut, M. Imms e M. Callingham per la Sage (2002). Esiste, dunque, un’attenzione scientifica sulla RQ applicata all’analisi del consumo e dei problemi del marketing ormai ben sviluppata e diffusa anche presso segmenti di studiosi-ricercatori tradizionalmente più in sintonia con altri approcci di ricerca (mi riferisco, ad esempio, alla crescente presenza in ambito qualitativo di ricercatori di formazione economica). Con questa evoluzione della RQ è ormai arrivato il tempo di fare i conti anche in Italia… anzi, soprattutto in Italia, perché – a dispetto di una pratica di ricerca di lungo corso, non priva di lustro e meriti, come testimoniano gli interventi di Gabriele Calvi e Mimma Novelli – la RQ si è mantenuta nel nostro Paese entro una prevalente dimensione di artigianalità, per lo più fondata sul postulato dei talenti innati (il famoso “occhio” del ricercatore qualitativo) e dell’apprendimento per esperienza diretta. Non voglio – sia chiaro – negare i valori connessi alla dimensione “della bottega” entro cui la RQ è cresciuta in Italia: molte case histories e figure di ricercatori rappresentano un’evidenza indiscutibile al riguardo. Osservo, però, che il fenomeno di una dimensione “da bottega” non ha, ad esempio, favorito la costruzione di una “scuola italiana” (come invece è capitato in Francia o in Inghilterra): ciascun ricercatore ha finito per selezionare pratiche di ricerca consonanti con le proprie idiosincrasie e abilità piuttosto che in relazione alla domanda di mercato o agli sviluppi scientifici della disciplina; 22 paradossalmente (ma non più di tanto) il successo professionale ha facilitato la selezione/ripetizione delle pratiche vincenti piuttosto che l’ampliamento/diversificazione delle competenze; in definitiva, i percorsi professionali si sono organizzati in modo prevalentemente autoreferenziato e sul “prestigio dei singoli” piuttosto che sul confronto, lo scambio e la crescita di una cultura professionale di riferimento. Operare una revisione di questo approccio alla RQ oggi si può, si deve, è opportuno. Tento di giustificare qui di seguito l’uso di questi tre verbi e di illustrarne il significato. a) Si può. Oggi è possibile fare un salto di qualità nella pratica professionale della RQ in Italia sulla base di almeno due evidenze di contesto. Da un lato, lo statuto scientifico della RQ è molto cresciuto negli ultimi decenni. Come già ricordavo prima, oggi disponiamo di una varietà di teorie e metodi – per altro ancora ampiamente in sviluppo – in grado di interpretare in modo sempre più preciso e raffinato le più diverse domande di ricerca. Approcci di tipo descrittivo si affiancano a strategie di ricerca di tipo esplicativo o ideativo-creativo; analisi focalizzate sul funzionamento psichico del consumatore (cognitivo o dinamico) si integrano con altre centrate sulle costruzioni sociali dei comportamenti di consumo (cfr. le applicazioni etnografiche, ad esempio), sui linguaggi (siano essi testi, narrazioni, discorsi, conversazioni… ) o sugli artefatti che popolano il nostro mondo quotidiano; l’impiego delle varie tecniche di ricerca (si pensi ad esempio, a Internet come mezzo di rilevazione) si precisa sempre meglio nelle sue potenzialità e nei suoi limiti. Tutto ciò è potenzialmente foriero di una nuova crescita professionale per il ricercatore qualitativo di marketing, a patto di fare i conti con l’aumentata complessità del quadro teorico-metodologico di riferimento. D’altro lato (e questa è la seconda evidenza) l’aumentata complessità del frame di conoscenze-competenze disponibili può oggi essere più facilmente gestita rispetto a qualche tempo fa sulla base degli orientamenti assunti dal sistema formativo universitario; primo fra questi, la ricerca di una sinergia sempre più stretta fra formazione accademica (ormai chiaramente multilivello) e mondi professionali di riferimento. L’avvio di un master – quale quello all’origine di questo panel di discussione – sui metodi qualitativi per la ricerca sociale e di mercato, gestito in collaborazione fra un’alta scuola universitaria e l’associazione professionale degli istituti di ricerca italiani, rappresenta una testimonianza in questo senso, nonché l’assunzione concreta di un modello di crescita professionale basato sulla fertilizzazione reciproca fra “comunità di saperi” e “comunità di pratiche”. b) Si deve. Un “dialogo forte” con le opportunità offerte dagli sviluppi teoricometodologico della RQ – oltre che possibile – si configura anche come una sorta di atto dovuto, posto che la pratica della RQ voglia qualificarsi come “professione” piuttosto che come “mestiere”. I sociologi del lavoro (ho presente in particolare le analisi di Eliot Freidson) sottolineano che ciò che qualifica distintivamente una professione nel variegato panorama delle forme-lavoro è il suo rapporto con un sapere scientifico di riferimento: una professione priva di fondazione scientifica – nella costruzione delle 23 sue conoscenze e nella regolazione dei processi formativi che le trasmettono – semplicemente è una contraddizione in termini, almeno sul piano storico. Se ciò è vero per tutte le professioni, lo è ancora di più per una professione che situa la sua core identity nell’attività più tipica della scienza: la ricerca. Su questo punto – a mio parere – oggi si gioca una verifica ormai non più eludibile: in Italia, ma non solo in Italia. Se per “ricerca di mercato” – qualitativa o quantitativa, non importa – si intende un’attività professionale di produzione di informazioni sui fenomeni di consumo: ■ metodologicamente fondata (quindi “mostrabile” sul piano inter-soggettivo e non puramente suggestiva) ■ focalizzata sulla dimensione della conoscenza (conoscenza augurabilmente utile per orientare le decisioni e le azioni di marketing ma non coincidente con il livello pragmatico di queste)… …allora converrà coltivare un rapporto sempre più stretto anche con le sorgenti scientifiche che nutrono e legittimano l’indagine di mercato come attività di ricerca. c) E’ opportuno. Al di là dell’obbligo, resta alla fine una ragione di opportunità per tessere un rapporto sempre più stretto fra pratiche professionali e conoscenze scientifiche. Leggo negli interventi che mi hanno preceduto una sorta di doppia richiesta alla RQ non priva di una certa carica di paradosso. Da un lato, alla RQ si chiede di “andare oltre”: oltre il numero, le dimensioni o la pura apparenza di un fenomeno, , oltre il già noto sul piano teorico e metodologico; alla ricerca di un senso profondo che sostenga una comprensione anche prospettica (e, quindi, una nuova possibilità di prefigurazione) del reale. Da un altro lato, a fronte di questa “visione alta” della RQ, si oppongono pratiche di lavoro che ne erodono il senso e la rilevanza: ■ un uso piatto e appiattente della RQ (nella logica “fast and cheap” come sottolinea Chiara Origlia); ■ la tendenza al mono-metodo (quasi solo focus group, ricorda Carlo Santucci) e al conservatorismo metodologico; ■ una standardizzazione al ribasso di procedure e risultati quale conseguenza dell’internazionale dei processi di ricerca; ■ l’assunzione acritica di nuove “mode di ricerca”. Non è questa la sede per trasformare un’analisi delle criticità in attribuzione di responsabilità; né mi pare utile. Il paradosso insito in questa doppia domanda è palese e va gestito nella quotidianità delle pratiche, piuttosto che nella ricerca di composizioni astratte e universali. E’ di tutta evidenza che professionisti della RQ sempre più ricchi di teorie e metodi, capaci di orientarsi in modo duttile nel repertorio degli strumenti per identificare la migliore risposta al problema del cliente, aggiornati sulle innovazioni offerte dalla loro disciplina di riferimento possono avere più peso e voce in capitolo nell’orientare la negoziazione di ricerca verso una “visione alta”. E’ questa, peraltro, la richiesta comune 24 e condivisa degli utenti (Roberto Binaghi, Cinzia Marchetti, Massimo Cealti) qui intervenuti. In questa prospettiva, non sottovaluterei la sfida insita nella nuova utenza socio-politica (cfr. la testimonianza di Alessandro Colombo): un’utenza agli esordi ma già portatrice di istanze assolutamente peculiari, tali da richiedere il ripensamento di molti dei nostri assunti di base, a cominciare dall’esigenza di riconfigurare il rapporto fra opinioneinformazione-consenso. C’è lavoro per tutti. A tutti, buon lavoro! 25