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OSSERVATORIO
in collaborazione con il Centro Studi e Formazione ASSIRM – Ricerche di
Mercato, Sociali, di Opinione.
L’inaugurazione (26 gennaio 2007) del primo Master in “Metodi qualitativi per la
ricerca applicata all’indagine sociale di marketing” – realizzato in collaborazione fra
l’Alta Scuola di Psicologia “A. Gemelli” dell’Università Cattolica e L’ASSIRM – ha
offerto l’occasione per un confronto sullo stato e sulle prospettive della Ricerca
Qualitativa in Italia.
Riportiamo qui di seguito i principali contributi proposti dai partecipanti al panel di
discussione: rappresentanti del mondo degli istituti di ricerca e dei committenti/utenti
dei servizi di ricerca.
Introduce la riflessione di Gabriele Calvi che – partendo dagli esordi delle prime
esperienze italiane – si interroga sul senso attuale e prospettico degli approcci qualitativi
applicati alla ricerca di marketing. Alcune testimonianze di ricercatori di istituto che
continuano la riflessione iniziale sul piano storico (Mimma Novelli), dell’attualità
(Carlo Santucci) e con riferimento al quadro internazionale (Clara Origlia). A seguire, i
contributi del mondo della comunicazione pubblicitaria (Roberto Binaghi), dei servizi di
marketing di grandi aziende produttrici di beni (Cinzia Marchetti, Massimo Cealti), e di
area socio-politica (Alessandro Colombo) tematizzano rilevanza e aspettative attribuite
alla ricerca qualitativa a partire dai rispettivi contesti ed esperienze d’uso.
Traccia infine un bilancio provvisorio la nota di A. Claudio Bosio su nodi e snodi di
percorso da considerare entro un’ipotetica agenda mirata a qualificare questa pratica di
ricerca.
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LA RICERCA QUALITATIVA PER IL MARKETING:
LO STATO E LE PROSPETTIVE IN ITALIA
a cura di: G. Graffigna (Centro Studi e Formazione ASSIRM)
contributi di: R. Binaghi, Direttore Centro Studi AssoComunicazione; G. Calvi,
Presidente onorario ASSIRM; M. Cealti, Research Manager Mediterranean Division,
Coca-Cola Italia; A. Colombo, Direttore della Ricerca, IReR; C. Marchetti, Marketing
Research Manager, Barilla; M. Novelli, Chief Advisor Qualitative Research,
MillwardBrown; C. Origlia, Council Member ESOMAR, Fondatore e Direttore di
Market Dynamics International; C. Santucci, Coordinatore Gruppo sulle RQLL di
ASSIRM, Presidente e Direttore Generale di RQL.
Apertura (Gabriele Calvi, Presidente onorario ASSIRM)
La mia esperienza professionale è sicuramente più modesta di quella dei Colleghi, anche
se l’ho maturata, forse, in una più lunga sequenza di anni. È un’esperienza che ha
riguardato inizialmente le “ricerche motivazionali”, quindi una stagione acerba della
ricerca qualitativa (d’ora in poi RQ), un lungo antefatto collocato negli anni ’60 e ’70,
ricco in Italia di entusiasmi, ma povero sia di valutazioni critiche, sia di prospezione
teorica.
Nel 1959, quasi mezzo secolo fa, mi trovai impegnato con Francesco Alberoni
nell’organizzazione della nascente sezione “qualitativa” di “Misura”, un istituto di
ricerca che si era già dotato di una sezione “quantitativa”, affidata a Carlo Carli.
“Misura” era stato creato da Piero Bassetti, tornato dagli Stati Uniti, dopo un periodo di
studi post-laurea, con precisi disegni politici e forte della convinzione che un politico ha
poche chances di affermarsi se privo delle informazioni che solo un’organizzazione per
sondaggi d’opinione gli può fornire costantemente e in forma riservata. Bassetti non
poteva rivolgersi a uno dei pochi istituti già esistenti: ne voleva uno tutto suo, ancorché
capace di conquistare credibilità sul mercato e di autofinanziarsi con servizi a terzi.
Due fra le prime ricerche motivazionali svolte da Alberoni e da me, nel volgere di pochi
mesi, riguardarono il consumo della birra e l’uso degli assorbenti igienici. La birra, in
Italia, doveva conquistarsi uno spazio maggiore fra le bevande alcoliche, vincendo
parecchie resistenze (“ingrassa, è sconveniente per la donna, è tipica del bavarese, con
baffi e pancione”). Quanto agli assorbenti igienici, si dava per scontato che si sarebbero
diffusi soltanto fra le donne che avevano già superato pregiudizi e vincoli posti dai
costumi ancestrali. Si trattava di accertarlo…
Entrambe le ricerche vennero organizzate, in tempi diversi, con fasi di esplorazione
preliminare e con la preparazione di numerosi test di associazione e proiettivi da porre in
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un questionario leggero. Questo era da applicare nel corso di poche centinaia di
interviste semistrutturate, distribuite in alcuni centri del Nord e del Sud Italia. Ricordo
che il nostro entusiasmo di ricercatori neofiti ci spinse anche a far disegnare, per i
questionari, una serie di scene con fumetto, ispirate al test di frustrazione di Rosenzweig.
La ricerca sulla propensione o le resistenze al consumo di birra si concluse assai bene,
malgrado alcune difficoltà dovute alla nostra inesperienza, e i risultati riscossero la
convinta soddisfazione del committente. La ricerca sugli assorbenti igienici fu invece un
mezzo disastro, anche se permise al committente di valutare appieno le difficoltà cui
sarebbe andato incontro nella promozione del prodotto.
Alberoni e Calvi, che avevano impostato e diretto queste ricerche, non potevano certo
staccarsi con un sol balzo dalla loro formazione in psicologia sperimentale e
psicometria, né spingersi molto più innanzi del modello psicoanalitico che Lasarzfeld e
Dichter avevano proposto per le ricerche motivazionali, concepite come strumento per
esplorare aspetti profondi dello psichismo e rilevare le spinte inconsce verso i consumi. I
due ricercatori non erano stati sfiorati dal sospetto che entrambe le ricerche – sulla birra
e sugli assorbenti – avrebbero dovuto cimentarsi nell’esplorazione di mentalità tipiche di
mondi poco conosciuti, quelli di regioni geografiche e strati sociali molto diversi, per
culture, tradizioni e costumi consolidatisi da tempo immemorabile. Mondo che solo
l’antropologia culturale, la sociologia e la psicologia sociale avrebbero potuto
esplorare…
La ricerca su propensioni e resistenze al consumo di birra si concluse in modo positivo,
essendo relativamente ridotto il divario culturale fra l’Italia, specie del Nord, e i Paesi
europei in cui il consumo di birra prevale sul consumo di vino. Ma gli atteggiamenti nei
confronti degli assorbenti igienici si rivelarono immediatamente negativi, specie
nell’Italia del Sud. La maggioranza delle donne interpellate rifiutò l’intervista. Gli
intervistatori non vennero bene accolti: anzi, considerati talora degli “scostumati”,
furono cacciati dalle abitazioni. In breve: perfino l’argomento era tabù. La ricerca si
concluse incompleta, in modo mutilo….
Ho citato episodi che, indipendentemente dal loro esito, lasciano intuire l’esistenza, in
quegli anni, di due dinamiche concorrenti nel favorire il diffondersi delle ricerche
motivazionali: per un verso, la convinzione degli psicologi (autentica o in parte
artificiosa) che l’esplorazione dell’irrazionalità e del mondo inconscio consentisse
davvero di individuare motivazioni o resistenze nei confronti del consumo; per altro
verso, la speranza che accomunava imprenditori, uomini di marketing e pubblicitari,
smaniosi di entrare in possesso – grazie alla conoscenza delle dinamiche psichiche
profonde – degli strumenti indispensabili per una vera e propria manipolazione della
volontà dei consumatori.
In buona sostanza, le ricerche motivazionali dovevano una parte della notorietà e del
successo a coloro che le strumentalizzavano, in cerca sia di un supplemento di credibilità
professionale (come poteva accadere agli psicologi, ma pure ai sociologi che li
scimmiottavano), sia del magico potere di rendere i consumatori totalmente succubi (un
sogno, questo, da apprendisti stregoni).
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A dire il vero, negli anni ’60 si verificavano pure episodi meno peculiari, nei quali lo
sfruttamento della ricerca motivazionale avveniva banalmente. Il caso più ricorrente
riguardava le ricerche intese ad offrire informazioni utili ai creativi di un’agenzia
pubblicitaria, in cerca di nuove idee per una campagna. Ricordo due casi del genere,
l’uno risoltosi con un fiasco, il secondo con un successo consolidatosi nel corso di un
paio di decenni.
Nel primo caso, mi ero trovato a condurre una ricerca – per una società multinazionale
del settore – sui criteri con i quali le massaie sceglievano i detersivi per il bucato. Gli
obiettivi che avrei dovuto perseguire erano talmente banali da indurmi a credere che la
ricerca fosse intesa come una verifica di cose note e arcinote. Invece, chi aveva
sollecitato la ricerca sperava semplicemente che uscissero dalla bocca delle intervistate
un nuovo slogan o una nuova formuletta, bell’e pronti per l’impiego nella campagna che
si stava preparando (e della quale non mi era stato fatto alcun cenno). Poiché nei
colloqui con le massaie non avevo potuto o saputo cogliere alcuna gemma del genere, la
ricerca fu considerata un fallimento.
Il secondo caso riguarda un olio di semi di mais: l’Olio Cuore. Il caso è ben conosciuto
anche da Claudio Bosio, che fece parte dell’équipe di ricerca. All’ing. Chiari, della
Società Chiari e Forti, non era sfuggito il successo conseguito negli Stati Uniti da un olio
di semi di mais, presentato come prodotto dietetico utile nella prevenzione delle
cardiopatie. Alla metà degli anni ’60, l’ing. Chiari aveva lanciato anche in Italia un
analogo olio di semi di mais, denominandolo “Cuore”. Si era sperato in un grande
successo, che non ci fu. All’inizio degli anni ’70, ossia cinque-sei anni dopo, quest’olio
aveva conquistato una quota di mercato considerata solo modesta. Per tale motivo, si
volevano controllare con un’apposita ricerca motivazionale le propensioni e le resistenze
nei confronti del prodotto. Fra l’altro, si trattava di verificare che cosa si pensava del
nome “Cuore”, dato a un olio di semi.
La ricerca, basata su poche decine di massaie che conoscevano il prodotto avendolo
acquistato, si concluse con un prospetto di risultati sostanzialmente positivo, ma privo di
suggerimenti particolari. Eccetto uno: si faceva notare che alla domanda “perché
quest’Olio si chiama Cuore?” era stata data fra le altre anche questa singolare risposta:
“Perché è fatto con il germe del mais, il ‘cuore’ del seme di mais…”, suggerendo così
un impreziosimento iperbolico del prodotto, al quale nessuno dei retori pubblicitari
aveva pensato. Da questa frase nacque lo slogan che accompagnò parecchie campagne
pubblicitarie successive. Dieci anni dopo, il prodotto, adottato nella cucina quotidiana
non tanto come dietetico, ma come olio leggero e di qualità, aveva raggiunto livelli di
consumo eccezionali… Negli anni ’80 lo slogan suggerito involontariamente nel corso
di un’intervista era ancora in uso….
Non proseguirò oltre, nel rievocare gloriuzze e sconfitte delle ricerche motivazionali:
avrei troppo da dire e troppo noiosamente. Devo invece accennare al modo e al perché è
avvenuto il viraggio dalla moda delle ricerche motivazionali alla RQ.
Dopo un acme di notorietà e di successo, le ricerche motivazionali classiche sono andate
incontro – specie negli anni ’70 e ’80 – ad una progressiva trasformazione in tecniche di
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indagine meglio fondate epistemologicamente e più accettabili dalla critica sociale. A
determinare questa maturazione scientifica e tecnico-professionale hanno concorso due
fattori: il primo rappresentato da una revisione delle premesse da cui era nata la ricerca
motivazionale, oltre che dallo sviluppo di nuovi contributi di varie scienze relativi allo
studio del comportamento umano; il secondo fattore rappresentato invece da una presa di
coscienza di quale fosse stato il vero e sostanziale contributo della ricerca motivazionale,
ossia la via metodologica da essa indicata, a prescindere dalle sue tecniche e dalle
numerose applicazioni. Vi è stato un momento in cui si comprese che l’originalità e il
pregio maggiore consistevano nella sua tensione a cercare di scoprire il nocciolo dei
problemi propri di un comportamento umano, quel nocciolo che è molto più
difficilmente raggiungibile con procedure di ricerca quantitative.
Altrimenti detto, il metodo motivazionale aveva insegnato ad attribuire priorità alla
scoperta della radice del problema posto alla ricerca, più che alla sua analisi o alla sua
descrizione fenomenica; più al significato di un comportamento o di una situazione che
alle loro dimensioni. È stato questo il contributo che più di ogni altro – a mio giudizio ha sollecitato il riconoscimento di una nuova dignità metodologica a tutte le ricerche, di
varia natura e di diversa competenza scientifica, che mirano a cogliere l’essenza
fenomenologica ed esistenziale dei comportamenti umani, ossia le ricerche che oggi
includiamo nella grande area della RQ.
Non sfugge a nessuno quanto sia importante il mutamento culturale avvenuto in quegli
anni. Per effetto del primo fattore si è definitivamente compreso che la ricerca delle
chiavi del comportamento umano non poteva essere chiesta solo alla psicologia (e tanto
meno: solo alla psicoanalisi), ma che ci si doveva rivolgere anche alle altre scienze
umane, in particolare all’etologia (ossia allo studio biologico del comportamento),
all’etnografia e all’antropologia culturale, alla sociologia, ed altre ancora. Con ciò è stata
sancita anche l’esigenza che le competenze del ricercatore che intende studiare le
manifestazioni del comportamento umano siano molto estese, o che sia un’équipe
multidisciplinare a condurre la ricerca. Con il passare degli anni, di queste esigenze si è
divenuti sempre più consapevoli, ma né alla prima, né alla seconda si è potuto rispondere
fino ad oggi in modo adeguato.
Per effetto del secondo fattore, si è progressivamente abbandonata l’insegna ideologica –
o, se si preferisce, l’etichetta commerciale – della “ricerca motivazionale”, avendo
compreso che l’identificazione della radice di un comportamento rappresenta la scoperta
di una sorta di essenza, pertanto di una qualità astratta non immediatamente percepibile.
Tale scoperta costituisce appunto l’oggetto precipuo della RQ, che possiamo definire
come una procedura volta non a descrivere o misurare un fenomeno, bensì a penetrarlo e
comprenderlo.
È interessante osservare, a questo proposito, che l’affermarsi della RQ ha rappresentato
una tendenza opposta a quella che aveva caratterizzato la storia di alcune scienze umane,
in particolare della fisiologia e psicologia sperimentali, portate a tradurre in quantità
tutte le qualità con cui dovevano confrontarsi (ad. es.: la fatica o il dolore), forti del
principio che “se qualcosa esiste, è in qualche modo misurabile”. La ‘qualità’ riscoperta
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grazie alla RQ ha assunto un nuovo potere euristico e una dignità disciplinare che
contestano alle scienze sperimentali la capacità di comprendere in modo esaustivo il
mondo psichico e il comportamento dell’uomo.
Va riconosciuto, in definitiva, che l’autentica comprensione di un comportamento
rappresenta uno stadio della conoscenza qualitativamente più avanzato di quello in cui ci
si limita ad attribuirne l’origine a questa o a quella propensione nascosta nelle profondità
della psiche, a questa o a quella causa biologica, a un costume del clan piuttosto che a
una credenza del gruppo sociale… Comprendere un fenomeno comportamentale
significa riuscire a conferirgli un senso, significa interpretarlo, poterlo esprimere con
un’astrazione o con un simbolo. Significa, sul piano strettamente scientifico, cominciare
a spiegarlo, investendo di significato anche la rete delle relazioni entro le quali il
fenomeno nasce, si sviluppa o si estingue, identificare le condizioni decisive per la sua
comparsa e la sua scomparsa…
Quando si riesca a superare con un colpo d’ala dell’intelligenza, e del metodo di lavoro,
il vallo che separa la descrizione o la misura quantitativa di un fenomeno
dall’interpretazione del suo significato, per giungere fino a comprenderlo, si tocca il
vertice delle potenzialità della ricerca sul comportamento umano. Per questo motivo, noi
oggi diamo alla ricerca che persegue prodigiosamente questo obiettivo il nome di RQ,
una ricerca capace di scoprire un significato come qualità non immediatamente
manifesta, ricerca che pertanto diviene in se stessa sinonimo di qualità, antonimo di
quantità, liberazione dalla contraddittorietà di migliaia di dati bruti e privi di senso
definito, dalla massa ingombrante di informazioni che sfuggono a ogni presa…
Quando si giunga, grazie alla comprensione, a conoscere la radice del fenomeno che si
sta studiando, si è trovata la chiave che apre solitamente vie inattese, sia nel lavoro
scientifico, sia nelle applicazioni professionali. Se il ricercatore ha in mano questa
chiave, persino conducendo sullo stesso fenomeno una ricerca quantitativa ed estensiva è
in grado di conferirle un’insospettata fecondità.
I riconoscimenti e la credibilità che la RQ ha conquistato nel corso degli ultimi decenni
sono la migliore testimonianza del servizio che essa ha reso oggettivamente in tante
occasioni alla comunità scientifica e al corpo sociale.
Di ciò può essere fiera un’intera generazione di ricercatori, che sa quanto è dovuto ai
suoi meriti. Ora, però, è giunto il tempo di far posto in questo lavoro anche a una nuova
generazione di ricercatori e di studiosi, perché nuove energie possano in futuro ampliare
le prospettive e accrescere la fecondità della RQ.
Considerazioni dalla parte degli Istituti di Ricerca
a) La storia (Mimma Novelli, Chief Advisor Qualitative Research MillwardBrown)
– La ricostruzione storica delle ricerche qualitative in Italia può essere scandita in tappe
rappresentate dai diversi decenni.
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Già presente negli anni ’50, la ricerca qualitativa trova la sua prima vera collocazione
nel contesto degli anni ’60, sotto il nome di ricerca motivazionale, o – secondo la
definizione dell’attivissima scuola francese che si presenta molto presto anche in Italia –
di études de motivation. Sono anni di espansione del consumo come chiave di volta della
crescita personale e dell’appartenenza sociale: consumare è bello, la ricerca qualitativa o
motivazionale fa da punto di incontro e di reciproca conoscenza fra chi offre e chi
consuma. E’ una ricerca consumer oriented, che segna le prime fasi di una relazione fra
offerta e consumo fondata sull’entusiasmo e sulla curiosità, secondo il clima dell’epoca.
In embrione negli anni ’60 si trovano già tutte le tecniche e tutti gli orientamenti
metodologici della ricerca qualitativa più avanzata. Coesistono con obiettivi diversi il
modello di rilevazione e di interpretazione di matrice psicologica-clinica, che coinvolge
il territorio individuale, psichico e emotivo, e quello di matrice sociologica che verte
sugli atteggiamenti. Nelle interviste con questionario semistrutturato si applicano
tecniche proiettive molto raffinate, con la proposta di fumetti, disegni, test associativi
preparati con la cura tipica dell’artigianalità. Le analisi del contenuto dei materiali
raccolti sono un trionfo di manualità (taglia e cuci) e di riflessioni accurate: le Aziende
investono tempo e soldi che non mancano, e che consentono livelli di perfezione oggi
impensabili. La formazione di tutti gli addetti alla ricerca – non solo degli intervistatori e
dei ricercatori, ma anche di chi trascrive le registrazioni – è un’area prioritaria: un
grande registratore in mezzo al tavolo e tante ore dedicate a imparare le tecniche. I
clienti per partecipare e assistere al field si camuffano nei gruppi da partecipanti. Si
inventano piccoli happening come input che anticipano le tecniche creative. Si lavora in
sedi familiari, la casa privata o la pasticceria, per favorire il decondizionamento e la
genuinità dei contributi. L’omaggio agli intervistati è una rosa o una bottiglia di Porto.
Sono gli anni degli slogan e della reclame che utilizza modelli seduttivi e imperiosi.
Preparazione teorica e crescita sul campo si integrano in livelli molto alti di
professionalità, in un’ottica di collaborazione che unisce marketing, ricerca e consumo.
Nel decennio ’70, il contesto cambia totalmente, il consumo come modello sociale entra
in crisi, sostituito da nuovi modelli ideologici. Si consuma – si mangia, ci si veste, ci si
comporta – secondo nuove scale di valore che coinvolgono i modi di pensare. La ricerca
qualitativa deve adeguarsi a un consumatore più complesso e più critico, in una relazione
dialettica che assegna a chi offre e a chi consuma ruoli e spazi diversi, spesso in conflitto
fra loro. Le tecniche di intervista e soprattutto di analisi si affinano: impossibile
prescindere dai contesti in cui si formano atteggiamenti e modi di vivere. Gli individui
non si classificano più soltanto attraverso il livello economico, l’appartenenza
socioculturale, i comportamenti di consumo, ma attraverso criteri tipologici che
richiedono classificazioni più attente. Si sviluppano le ricerche di scenario, si creano
nuove e più accurate tecniche di identificazione e di reperimento delle persone da
intervistare. La ricerca qualitativa inizia le sue prime tappe verso il processo di
“industrializzazione”.
Gli anni ’80 segnano la nuova esplosione del consumo che si presenta in tutte le forme
più opulente e voraci (nella pubblicità di una famosa marca di gelato una figura
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femminile sembra dissolversi nel piacere della morbidezza!). Trionfano i modelli
seduttivi, convolgenti, ammiccanti che mettono chi consuma di fronte a miriadi di
proposte e di possibilità. L’offerta mette a punto strategie di marketing sempre più sottili
mirate a entrare nei meccanismi del consumo guidandone inesorabilmente le scelte.
La ricerca qualitativa è sempre più marketing oriented, i sistemi audiovisivi imperanti
permettono la partecipazione sempre più attiva dei committenti allo svolgimento della
ricerca che in parte cede alla spettacolarizzazione. La difficoltà di cogliere gli elementi
di differenza e le potenzialità offerte da un soggetto consumatore sempre più sazio,
soddisfatto e accerchiato da offerte e possibilità di ogni genere impone nuove svolte
metodologiche, che fanno appello a discipline diverse.
Nascono nuove scuole e nuovi centri di azione, si sviluppano le tecniche di creatività, i
diari di consumo, i panel qualitativi, le interviste etnografiche, le storie di vita. Le analisi
semiotiche rispondono alla necessità di trovare nuovi linguaggi e di muoversi con
sicurezza nel dilagante sistema dei segni.
Negli anni ’90 la ricerca qualitativa è ormai un sistema di controllo del consumo molto
strutturato e gestito dal marketing. Cresce l’importanza della ricerca internazionale e
della scuola anglosassone. Si impongono i criteri di costo, tempo, servizio, che entrano a
far parte della qualità sempre più intesa in senso pragmatico: l’esigenza di actionability
dei risultati si riflette su tutti i processi che tendono alla semplificazione. Vige il
concetto di gruppo e di focus, valutato per numero e durata e strutturato secondo le
regole ferree della guide line che rispecchia la lista degli interrogativi. I debriefing
verbali fanno decadere i processi di analisi, le presentazioni di risultati rispondono ai
principi della visualizzazione favorita dallo sviluppo dei mezzi che spesso sostituisce la
formulazione di concetti. Per la ricerca qualitativa si apre un periodo di grande sfida: da
un lato è indispensabile adeguare mezzi, strumenti e modalità operative alle nuove
esigenze di efficienza e di efficacia, in aumento e non reversibili, dall’altro non si
devono perdere i principi metodologici e deontologici alla base dell’identità
professionale. L’alleggerimento dei modelli di presentazione – visivi, sintetici, operativi
– la decurtazione dei tempi e dei costi e le pressioni sempre più forti del marketing si
accompagnano alla necessità di mantenere ben saldi principi, ruoli e modalità operative,
aumentando se possibile i criteri di professionalità, nella formulazione dei progetti, nelle
scelte metodologiche, nei processi di analisi, nella formazione dei ricercatori. La
banalizzazione delle tecniche – genericamente improntate a criteri di volgarizzazione
specie nei gruppi, il cui dilagare fa da riscontro alla costante diminuzione delle
applicazioni individuali, indipendentemente dagli obiettivi – non aiuta certamente a
conoscere le dinamiche di pensiero e di atteggiamento di target di consumo retribuiti e
sempre più apatici, volubili, pronti a dare il loro assenso o il loro diniego rispondendo a
stimolazioni non sempre corrette.
Non c’è un processo di innovazione strutturale al settore, ognuno cerca di trovare dei
modi per fronteggiare la realtà conciliando rigore e pragmatismo, metodo e
efficientismo, accuratezza dei processi analitici e precisione e completezza di sintesi. E’
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in questo spirito di crisi e di transizione che si svolta nel nuovo decennio: i cambiamenti
sono ormai avvenuti e gli effetti sedimentati.
La ricerca qualitativa deve guardare oggi a una realtà assestata per regole e ruoli e
trovare al suo interno uno spazio e un’identità adeguati a mantenerne la specificità e i
principi rinnovandone i processi. E’ un momento di rifondazione, in cui è necessario
riuscire a dire qualcosa di nuovo che tenga conto dei mezzi, dei vincoli e delle
opportunità del momento, e che sia in grado di contrapporre – all’appiattimento e alla
banalizzazione – nuovi valori di specializzazione, che fanno appello a metodi e principi
da cui derivano. E’ il momento di ridare valore alla ricerca qualitativa qualificando gli
elementi che la contraddistinguono e che la rendono sempre più necessaria quanto più
gli spazi di consumo si frammentano e richiedono di essere colti attraverso la precisione
e la competenza.
Diffondere la cultura della ricerca qualitativa, curare la formazione e mantenere un
principio di qualità che tenga conto delle esigenze dei tempi integrandole con il valore
del metodo e della disciplina è oggi un obiettivo fondamentale in cui inserire anche i
necessari processi innovativi.
b) Il presente (Carlo Santucci, Coordinatore Gruppo sulle RQLL di ASSIRM,
Presidente e Direttore Generale di RQL) - Pur all’interno di tendenze di fondo che
caratterizzano il mercato mondiale delle ricerche di mercato (riconducibili al carattere
sempre più globale e transnazionale degli studi sui consumatori come sarà approfondito
nel contributo di Clara Origlia), sembra possibile individuare alcune specificità dello
stato della ricerca qualitativa (RQ) in Italia.
Al riguardo, sembra oggi possibile parlare di una florida stagnazione, un piccolo
ossimoro che ben riproduce, a mio avviso:
ƒ da un lato la definitiva legittimazione della RQ agli occhi delle imprese, che – nella
gran parte dei casi – hanno inserita stabilmente la RQ nelle loro logiche e pratiche di
conoscenza;
ƒ dall’altro, il permanere – anche fra i più assidui utilizzatori – di un residuale ma
ineliminabile pregiudizio sulla effettiva affidabilità e rappresentatività della
conoscenza (del consumatore) acquisibile con la RQ: dunque sulla affidabilità di una
conoscenza geneticamente priva di quella oggettività (vale a dire veridicità) che solo
il numero sembra garantire (e che impone quasi sempre una validazione/verifica
quantitativa delle indicazioni ottenute dalla RQ).
La RQL appare tuttora confinata – pur nel riconoscimento della sua innegabile utilità –
ad applicazioni per lo più di natura ‘tattica’, vale a dire mirate e circoscritte (ancorché
varie): il pre-test pubblicitario, le promozioni, il brand/product positioning, il product
test, la ricerca di nuovi concetti/idee di prodotto, il brand audit… Raro, al contrario, il
suo utilizzo per intercettare e delineare tendenze di fondo dei e nei consumatori o più
estesamente nella società. Quasi del tutto assente la RQ nelle ricerche condotte dalla
Pubblica Amministrazione…
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La RQ gestisce il (non molto) che sfugge al controllo/alla logica del forecast, della
previsione, della modellizzazione… la RQ si fa carico dell’imprevedibile in una cultura
(manageriale) che, al contrario, ha il mito della prevedibilità. La RQ propone un
paradigma di conoscenza (ancora) troppo distante da quello positivista delle scienze
‘esatte’ a cui invece fa riferimento la Ricerca Quantitativa: la RQ non ha (ancora), agli
occhi di molti dei suoi stessi utilizzatori (e talvolta degli stessi praticanti) lo statuto di
‘scienza’.
La RQ è quindi al tempo stesso ben radicata ma anche ben recintata. Vive bene, ma non
si sviluppa più di tanto:
ƒ assorbe (solo) il 20% della spesa complessiva in Ricerche di Mercato;
ƒ viene svolta da organizzazioni quasi esclusivamente di piccole o piccolissime
dimensioni, con un forte carattere ‘artigianale’ (la logica e la cultura dell’atelier,
anche nei più grandi istituti, dove il dipartimento ‘qualitativo’ è sempre largamente
minoritario);
ƒ con un determinante ruolo delle soggettività dei ricercatori: un fenomeno che
sembra al tempo stesso causa ed effetto di una concezione ‘magica’, guruesca della
conoscenza acquisibile con la RQ, concepita sovente come frutto di peculiari,
irriproducibili doti individuali, e a cui non sono quindi applicabili le logiche della
‘produzione’ ma solo quelle della ‘creazione’ (e infatti gli stessi Istituti che fanno
soprattutto/solo RQ non si vivono quasi mai come aziende..).
In conseguenza di quanto fin qui analizzato la riflessione – tra gli stessi ‘addetti ai
lavori’ – sulla peculiare epistemologia della RQ è solo all’inizio: ciascun ricercatore
qualitativo ha fino ad oggi elaborato artigianalmente e solipsisticamente un proprio
‘modello’ di conoscenza qualitativa, su cui ha poi costruito il proprio modus operandi.
Di fatto non c’è un condiviso golden standard; né esiste – almeno in modo consapevole
– una scuola italiana alla RQ. Manca un punto comune che delinei – sia pure con
auspicabili differenziazioni – il ruolo del ricercatore qualitativo: egli è semplice
testimone qualificato o piuttosto è un accreditato interprete dei processi psicologici,
sociali e culturali che attraversano il mondo dei consumatori? Manca inoltre un
condiviso modello formativo (quali contenuti, quali fasi, con quali modalità) dei giovani
ricercatori qualitativi: il solo modello finora applicato è stato quello dell’affiancamento;
e manca anche una comune riflessione sul profilo ideale del ricercatore qualitativo in
termini di competenze, sensibilità e abilità (insieme di saperi e di saper fare).
Vi è, infine, una scarsa possibilità – al di là spesso dell’interesse e della volontà dei
ricercatori qualitativi – di innovare: sia perché gli utilizzatori (i clienti) sono poco
propensi a ‘rischiare’ in approcci/strumenti che sembrino sottrarsi troppo al controllo
della razionalità e della quantificabilità; sia perché le esigue dimensioni delle ‘imprese’
che si occupano di RQ non consentono investimenti in R&D.
Ne consegue che oggi fare una RQ resta essenzialmente una ‘faccenda di focus group’
(70% circa del giro d’affari del comparto qualitativo) e/o di colloqui individuali (25%
circa del giro d’affari). Altri approcci (altre ‘prospettive’ di lettura della realtà), pur se da
tempo sul mercato e proposti anche insistentemente dagli Istituti/dai ricercatori
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qualitativi, continuano ad avere un ruolo del tutto marginale (valga per tutti l’esempio
dell’analisi semiotica o dell’osservazione etologica o etnografica).
Inoltre la globalizzazione dei mercati – e conseguentemente delle ricerche di mercato –
sta determinando una banalizzazione del ruolo del ricercatore qualitativo. Gli uomini
d’azienda hanno una crescente necessità di reagire alla sempre maggiore complessità dei
mercati e delle persone/dei consumatori: cercano comprensibilmente di semplificare il
mondo, per poter meglio pianificare le loro azioni (specie se operano in mercati/paesi Æ
culture differenti).
Di qui, una loro crescente propensione a ‘leggere’ autonomamente e immediatamente il
consumatore (ad esempio assistere ai focus groups e redigere immediatamente dei
documenti da far circolare in azienda…), delegando al ricercatore il (solo) compito di
‘far parlare gli intervistati’ (crescente importanza data dalle imprese alla fase della
conduzione dei colloqui), a dotarsi di risorse interne con cui condurre i ‘propri’ focus
groups e a richiedere una risposta immediata ai propri interrogativi, negando il tempo – e
implicitamente il valore – per una analisi più profonda, meditata e criticamente riflessa
delle informazioni raccolte sul campo.
Sembra quindi auspicabile un qualche convinto ‘riscatto’ della RQ: la sua definitiva e
condivisa promozione a strumento privilegiato di accesso a una conoscenza tanto più
necessaria quanto più sfuggente, polimorfo e mutevole (e quindi imprevedibile e non
sempre ‘misurabile’) diviene il consumatore.
c) Il contesto internazionale (Clara Origlia, Council Member ESOMAR, Fondatore
e Direttore di Market Dynamics International) – Il mercato si muove con ottiche,
modalità e obiettivi globali. L’impatto sul mercato delle ricerche, sul tipo di domanda,
sul tipo di output richiesto, sullo stile di lavoro e sulla figura professionale del
ricercatore stesso è diretto. Il cambiamento in atto appare irreversibile.
A livello macro, si registra da tempo:
ƒ uno spostamento (di interesse e di investimenti per la ricerca) su Paesi a forte
sviluppo/emergenti: Asia, principalmente ma anche Europa dell’Est;
ƒ una diminuzione degli investimenti per progetti internazionali in ambito unicamente
Europeo;
ƒ una caduta di interesse per mercati considerati ‘maturi’, per mercati socioeconomicamente e politicamente considerati instabili o per quelli che non si
distinguono per particolare vitalità e non presentano spinte evolutive interessanti.
La globalizzazione del mercato ha moltiplicato le opportunità per progetti di ricerca
multi-country e di più ampio respiro. La ricchezza e varietà di proposte di congressi,
convegni, corsi di formazione, workshop specialistici ha indubbiamente favorito la
condivisione di esperienze e pratiche professionali, la crescita di una vera e propria
‘cultura’ delle ricerche qualitative internazionali. Così come ha agevolato la diffusione
di metodologie di ricerca innovative, e il loro adattamento a contesti culturali diversi. Lo
scambio internazionale – tra ricercatori e clienti – ha rappresentato da sempre un fattore
di arricchimento professionale notevole. Scambio che oggi diventa indispensabile.
11
ESOMAR – ‘The world organisation for enabling better research into markets,
consumers and societies’ – da anni svolge un ruolo determinante nel promuovere lo
scambio e la crescita professionale anche attraverso la messa a punto di una normativa
diventata il riferimento per coloro che operano nel mondo delle ricerche. Come
ESOMAR, si stanno muovendo altre associazioni a livello internazionale e nazionale.
Col crescere di prospettive e linguaggi ‘globali’ si tende tuttavia a sottovalutare
l’importanza di specificità e sfumature culturali. Non solo come patrimonio da
preservare e coltivare, ma come elemento di importanza strategica. Di questo risente non
solo la ricchezza dei risultati a livello interpretativo, ma il processo stesso della ricerca.
Si registra un aumento della domanda per specifiche tipologie di ricerca. Alcuni esempi:
il ‘Fast & Cheap’ con obiettivi di tipo tattico e pratico-operativo, e di immediata
applicazione. Ricerche poco costose, leggere, veloci, di impianto (apparentemente)
semplice e non particolarmente sofisticate: si chiedono risposte e conferme, non insight
illuminanti! Un’opportunità per lo sviluppo di prodotti di ricerca agili, snelli, poco
costosi e al tempo stesso intelligenti.
Da non confondere con la variante ‘All in One’: spesso più ricerche in una, con tempi
stretti e timing non negoziabile; screener che durano un’ora; strumenti di ricerca da
utilizzare in maniera sequenziale e rigidamente strutturata; un numero esagerato di
interlocutori dietro lo specchio; quasi unicamente la richiesta gruppi (però
tassativamente 8-10 partecipanti, a prescindere dal fatto che sia appropriato o no) con
obiettivi da ‘extended group discussions’ ma da gestire come un focus group, (due ore al
massimo … nessuna pausa!); debrief as we go e rapporto subito dopo, o niente rapporto;
una logistica pesante e costosa, impegno elevato… e prezzi all’osso.
Questa soluzione piace poco al ricercatore qualitativo… che si sente sfruttato, frustrato
per l’apporto che potrebbe/vorrebbe dare ma non viene richiesto (anzi!). Lo stile di
lavoro che ne deriva non sempre contribuisce a creare una relazione ricercatore-cliente
serena e arricchente. Né a costruire un rapporto destinato a evolversi nel tempo.
Tuttavia, a fronte di questa tendenza, per fortuna, si osserva un’aumentata richiesta di
ricerche con taglio creativo-strategico. Essenziali per l’esplorazione di grandi temi di
fondo (una tendenza interessante, questa, presso alcuni grossi clienti), per
l’identificazione e lo sviluppo di un potenziale, per la creazione di nuove opportunità, la
valorizzazione e l’utilizzazione ottimale di insights, ricevuti da consumatori o esperti. Si
tratta di ricerche che richiedono, e comunque consentono, approcci di tipo decisamente
creativo-interattivo.
E’ proprio in questo ambito che si riesce a stabilire quella partnership tra ricercatore e
cliente che può garantire:
ƒ l’unicità e la qualità del processo di ricerca, degli strumenti scelti;
ƒ la ricchezza e la profondità interpretativa;
ƒ e un livello di actionability sorprendente (e abbastanza immediata).
C’è un grande ritorno ad approcci di ricerca ‘davvero qualitativi’ che richiedono al
singolo ricercatore una molteplicità di skills (esperienza, comunicazione, interattività,
12
flessibilità, ricchezza e incisività sul piano interpretativo). E consentono l’utilizzo di
‘supporti’ di comunicazione diversi da quelli soliti.
Il marketing cerca ispirazione dalla vita vera, vuole vedere, capire e ‘sentire’ il
consumatore, vederlo agire nel suo contesto naturale. Ritornano l’etnografia, la
semiologia, le più diverse tecniche di osservazione e registrazione di fenomeni e
comportamenti ‘live’. Reportage, foto, diari, videoclip, o documentazione video dal vivo
di gruppi e interviste, video reporting… stanno riportando la vita vera nelle sale
riunione. E sono diventati supporti insostituibili nella creazione, nel cambiamento, nella
definizione delle strategie aziendali.
Con la globalizzazione, peraltro, non è cambiata solo la domanda, ma sono cambiati
anche lo stile e le modalità di lavoro, i processi, gli strumenti, i contenuti… la figura
stessa del ricercatore. Dobbiamo, dunque, ridisegnare la nostra professionalità, in
maniera da rispondere alla nuova realtà. Indietro non si torna, però ci si può
reinventare… e questo è il vero challenge.
Il ‘business’ è oggi dominato da pochi gruppi di ricerca ‘globali’ che tendono a muoversi
con un approccio più aggressivo; hanno una politica dei prezzi estremamente
competitiva vista la possibilità di negoziazione a livello davvero globale.
Perlopiù tutti offrono expertise in ‘tutti’ i settori di ricerca e hanno un menu abbastanza
ricco di approcci di ricerca (‘prodotti’) anch’essi ‘globali’. È la soluzione ‘one stop
shopping’ quella che - per policy, per struttura amministrativa interna, per una serie di
ragioni ben ponderate o semplicemente per comodità - molti Clienti privilegiano in
quanto:
ƒ riduce il numero di interlocutori, e di interazioni necessarie (emerge e si rafforza la
figura del planner, o il ruolo del capo progetto);
ƒ consente di delocalizzare l’organizzazione e la gestione della ricerca laddove risulti
più conveniente (poco importa se in un Paese non direttamente coinvolto) 1 ;
ƒ rassicura (grosso cliente si rivolge a grosso gruppo!);
ƒ consente una maggiore delega di responsabilità;
ƒ soddisfa esigenze di ottimizzazione di tempi, denaro e risorse umane;
ƒ sostiene la sensazione di poter annullare le barriere spazio-temporali (se si lavora in
simultanea in più Paesi), e di minimizzare i rischi delle differenze culturali… con un
tranquillizzante senso di efficienza-onnipotenza.
La scelta di questa ‘formula’ può andare a discapito della ricchezza interpretativa, della
valorizzazione delle specificità culturali, della conoscenza profonda del contesto. E non
valorizza la passione, l’esperienza e la conoscenza locale, o l’approccio personale: tutti
ingredienti tipici del prodotto ‘artigianale’, fatto ‘su misura’ 2 .
1
Si registra una progressiva concentrazione del coordinamento di progetti internazionali in Germania, a
svantaggio del Regno Unito che per anni ha detenuto il monopolio del coordinamento delle ricerche ed è
stato interlocutore privilegiato delle grandi multinazionali
2
Anche se si assiste alla nascita di ‘corners’ di alta specializzazione o creatività nei grandi gruppi di
ricerca. Come l’angolo del ‘fresco’ nei supermercati o lo spazio ‘gourmet’ nei grandi magazzini. Tendenza
interessante, da monitorare.
13
La soluzione ‘one stop shopping’ inevitabilmente ha prodotto una contrazione del
business per i piccoli e medi istituti (in metafora ‘speciality store’) e ridotto le possibilità
di esprimersi in ambito internazionale, anche a fronte di una consolidata capacità,
esperienza e reale vocazione in tal senso. La grande distribuzione – resto nella metafora
– è ormai insostituibile. Ma in molti casi decisamente meno appropriata o meno
soddisfacente dello ‘specialty store’. Va anche detto che se lo specialty store vuole
sopravvivere deve valorizzare gli elementi di differenziazione rispetto alla grande
distribuzione. Cioè le aree di autentica specializzazione, l’originalità degli approcci, il
‘su misura’, il livello di competenza (trasversale e non solo verticale), e di
coinvolgimento dei ricercatori. Da valorizzare anche la ricchezza del menu, non tanto
per la quantità delle proposte o la convenienza, ma per la presenza di ricette ‘fresche’,
appetitose, sorprendenti.
L’artigianalità, unita all’attualità ed efficacia di metodologie e strumenti, diventa così un
plus enorme, veicola la valenza più nobile del ‘su misura’, la passione, la capacità
creativa unite all’esperienza. Si profila, o si riscopre, una nuova figura di ricercatore:
creativo, propositivo, direttamente coinvolto, interfaccia appassionata tra cliente e
consumatore (e non formattatore di real life)
Ci sono segnali chiari da parte di alcuni ‘grandi’ clienti: si sta tornando a scegliere ‘le
persone’ anziché la struttura tout court. E non è un caso che questo corrisponda alla
presenza di un team interno di ‘ricerca e sviluppo’ o di ‘consumer insight specialist’ di
grande esperienza e qualità.
In questo panorama mutevole, caratterizzato da fasi di accelerazione euforica e di
stagnazione e incertezza, c’è rischio di sofferenza per gli istituti ‘generalisti’, per chi non
ha sviluppato i propri talenti, per chi non parla lingue straniere, non va in giro, non si
espone. Ci sono invece ottime potenzialità per quelli che hanno qualcosa di speciale da
offrire, uno stile proprio, la libertà, la volontà (il rischio e l’impegno) di essere
propositivi.
Alcuni Clienti lo dicono: non aspettano altro che stimoli e proposte nuove, o che gli si
spieghino i vantaggi di un approccio metodologico diverso da quello richiesto. E’ nostro
dovere, per noi stessi e per la nostra professione, sfruttare questa opportunità. E, per noi
stessi e per i nostri interlocutori, alzare il livello del dialogo e dello scambio
professionale.
Considerazioni dalla parte degli Utenti
a)
La
comunicazione
(Roberto
Binaghi,
Direttore
Centro
Studi
AssoComunicazione) – Negli ultimi anni il rapporto tra il mondo della pubblicità e le
ricerche ha subito una decisa involuzione. Dopo decenni di appassionati
sperimentalismi, a partire dalla prima metà degli anni novanta il terreno si è inaridito ed
ha progressivamente prodotto risultati sempre più modesti e “convenzionali”. Le
ricerche sui contenuti della pubblicità sono sempre più spesso diventate una mera
14
necessità burocratica: pratiche da sbrigare per legittimare scelte già fatte o, sempre più
spesso, per mettersi in regola con le procedure del network internazionale di riferimento.
Le ricerche sui media si sono trasformate in tutto e per tutto in currency dalle quali
dipende il prezzo di vendita della merce pubblicità.
Sull’esempio dell’Auditel (ma anche dell’Audipress e dell’Audiradio) abbiamo assistito
alla proliferazione delle “audi” (dal web all’affissione fino al cinema …) in base ad un
discutibile principio secondo il quale i “dati di audiences ufficiali” porterebbero
automaticamente maggiori fatturati pubblicitari sul mezzo investigato (come dire che
una stazione metereologica potrebbe generare un temporale…).
Ora, però, lo scenario sta cambiando. Negli ultimi 12-18 mesi il mondo dei media ha
vissuto una vera e propri rivoluzione. Le piattaforme multimediali si stanno affermando
incondizionatamente ed i media tradizionali si difendono innovando. Il mercato sta
vivendo una stagione vivace ed interessante. La televisione satellitare serve oggi oltre
sette milioni di famiglie, quattro delle quali abbonate ad almeno uno dei bouquet Sky. Il
digitale cresce del 50% anno su anno da ormai due anni; ed accanto alle applicazioni PC
(web arvertising e motori di ricerca) si stanno sviluppando anche – e soprattutto – le
cosiddette “not only PC devices” ovvero il mondo del viral marketing, degli I-Pod, della
Mobile-Tv.
Ma anche la “vecchia” affissione sta vivendo un momento brillante grazie al ridisegno
dell’arredo urbano delle grandi città in funzione del quale si stanno rendendo disponibili
agli investitori pubblicitari nuovi impianti di ottima qualità. E la stampa, infine, sta
trovando nella free press un importante canale di comunicazione con la parte più
giovane del suo target. Ed in questo segmento, nato per inseguire i grandi numeri, sta
finalmente arrivando ora anche la qualità (da E-Polis al 24’ del Sole…).
Cambiano i mezzi e cambia inevitabilmente l’utente alle prese con una molteplicità di
stimoli sempre ricchi, talvolta contraddittori. E matura di nuovo, come alla fine degli
anni ottanta, il bisogno da parte dei pubblicitari di capire, di orientarsi, di pianificare
azioni efficaci. Non solo di misurare, di contare e di prezzare. Per questo non ci serve
che prolifichino le stazioni metereologiche. Ci serve un bel satellite che dall’alto veda
tutto magari con una definizione non perfetta ma con una visione d’insieme grandiosa.
E ci serve di osservare la gente, di capire davvero come la nostra vita è cambiata grazie
al progresso della tecnologia dei mass-media.
Non è quindi più tempo per le “audi” in senso stretto. O, almeno, non è tempo solo per
loro. Ci servono nuovi strumenti di ricerca che inquadrino i fenomeni nel loro complesso
con un duplice atteggiamento “top-down” e “bottom-up”. Abbiamo bisogno di capire
prima ancora che di misurare. Ed abbiamo una certezza: che non è solo misurando che
capiremo. In questa logica la ricerca qualitativa recupera spazio di attenzione. Il tempo
ci dirà se sarà uno spazio importante. I presupposti, certamente, non mancano.
b) Dal mondo delle aziende: una testimonianza (Cinzia Marchetti, Marketing
Research Manager, Barilla) – Le ricerche di mercato qualitative sono più che mai utili
e necessarie a illuminare le decisioni aziendali, soprattutto per gestire le marche e
15
l’offerta di prodotti facendosi guidare dalla comprensione delle persone che le scelgono,
le utilizzano, le preferiscono, le adottano. Nell’attuale realtà socio-culturale e di mercato
– dove davvero non possiamo più parlare di bisogni di consumo ma solo di desideri e
aspettative – comprendere attitudini, comportamenti, percezioni è diventato molto più
difficile che in passato e le competenze che hanno funzionato finora per assolvere questo
compito non sono più sufficienti.
Per questa ragione è fortemente richiesta un’attività mirata e altamente specializzata di
formazione, sviluppo di professionalità e diffusione culturale che possa portare nuovo
smalto al campo delle ricerche qualitative, rinnovandone la potenza euristica e l’efficacia
operativa: rafforzandone quindi non tanto la chimerica funzione predittiva, ma
soprattutto il ruolo esplicativo e interpretativo.
Sulle ricerche qualitative troppi luoghi comuni sono da abbattere e molte credenze da
stanare: il vituperato ‘focus group’ viene citato nei contesti più disparati per indicare
modalità viziose di gestire le ricerche di mercato; in tanti casi è citato a sproposito e
senza cognizione specifica; purtroppo in alcuni casi a ragione, dove viene effettivamente
praticato da aziende e istituti di ricerche come tecnica di interrogatorio guidato a risposta
scontata o pericolosa, destinata a produrre tanti falsi negativi e falsi positivi,
dimostrando in tal caso tutte le sue insidiose colpe. E’ quindi auspicabile una
rivoluzione della pratica e l’adeguamento delle tecniche alle nuove problematiche di
business, per sfatare i miti negativi e rilanciare un modo di fare ricerche qualitative
ancora molto valido. La ricerca qualitativa è una pratica interpretativa che applica al
marketing e ai fenomeni di consumo le scienze che studiano l’uomo, i suoi
comportamenti, il suo sistema di interazione percettiva e cognitiva con la realtà. Queste
scienze hanno fatto passi enormi negli ultimi anni: il cognitivismo, la teoria della mente,
la semiologia, l’etnografia, la neurolinguistica sono i nuovi serbatoi ricchissimi e
obbligati di chi deve fare attività ricerca&sviluppo nelle ricerche di mercato qualitative,
sono la vera frontiera teorica da cui attingere.
Troppa vendita di ‘gadget’ nel portafoglio di offerta metodologica degli istituti di ricerca
mostra un’attegiamento che si limita a cavalcare la moda e nasconde un’imbarazzante
assenza di competenza, professionalità specifiche e sperimentazione sul campo: l’analisi
semiotica per fare un facile esempio è diventata la ciliegia di tutte le torte, ma troppi
ricercatori non la conoscono e ancora meno la sanno utilizzare in modo efficace, capace
di fare onore a una scienza che ha un potere applicativo enorme nel campo delle ricerche
qualitative. Ai ricercatori che operano in azienda servono nuovi strumenti,
scientificamente fondati, creativamente concepiti, per capire la relazione funzionale,
sensoriale, cognitiva, emozionale, ludica delle persone con le marche e i prodotti: la
natura di questa relazione cambia continuamente nell’evoluzione del contesto sociale,
culturale, di mercato. Bisogna umanizzare le ricerche di mercato qualitative e farne di
nuovo un vero mestiere di strada, incollato alla realtà di come la gente pensa, consuma,
sogna. La miglior ricerca qualitativa sarà un brillante bricolage di tecniche combinate
con rigore metodologico e pura attitudine investigativa, quella che cerca sempre sorprese
16
e non semplici conferme, quella che procede per passi analitici e scatti intuitivi
perfettamente intrecciati.
Fare ricerca qualitativa è un mestiere specialistico, non generalista, che richiede
profondità e grande consapevolezza delle possibilità e limiti delle tecniche descrittive e
interpretative: chi interrogare, cosa chiedergli e come chiederglielo, questa è la ricetta da
reinventare. Le persone che reclutiamo nelle ricerche qualitative hanno poco tempo, si
annoiano in fretta, sono difficili da coinvolgere e complesse da capire; solo un dialogo
empatico ed esperto le può ingaggiare in un’interazione proficua per entrambe le parti e
che sia capace di guidare le aziende verso un’innovazione utile e sorprendente.
La ricerca qualitativa deve tornare a nutrire l’immaginazione e l’ispirazione di chi deve
trasformare la comprensione delle motivazioni delle persone in idee originali che portino
valore sui mercati del futuro.
c) Dal mondo delle aziende: un’altra testimonianza (Massimo Cealti, Research
Manager Mediterranean Division, Coca-Cola Italia) – A fronte della necessità di
determinare il campo d’azione della RQ, le definizioni ufficiali evidenziano la natura
complessa e sensibile di questo approccio di ricerca. Valga per tutte, ad esempio, la
definizione proposta da Assirm 3 : “(la ricerca qualitativa) serve a capire che cosa c'è al
di sotto o all'origine degli atteggiamenti e dei comportamenti, evidenziando i
meccanismi individuali profondi. Andare al di là dei fatti e delle espressioni manifeste
che li giustificano. […] Studia i fenomeni cogliendo gli elementi anche non
immediatamente evidenti che li determinano nel loro processo dinamico e nel sistema di
interazioni in cui si formano”.. La ricerca qualitativa dunque (con la sua amplissima
gamma di tecniche e strumenti) parrebbe particolarmente utile nell’investigare gli
atteggiamenti profondi che orientano il modo di pensare e i comportamenti quotidiani
delle persone.
In questo contesto è opportuno anche tener conto dell’evoluzione degli ambiti di
applicazione delle diverse metodologie di ricerca. Da questo punto di vista si osserva
una progressiva tendenza a sovrapporre gli ambiti di studio, in passato più definiti,
propri della ricerca qualitativa e di quella quantitativa. Per un verso, grazie ai progressi
della tecnologia stanno infatti tornando di attualità tecniche di indagine quantitativa che
non prevedono di utilizzare le testimonianze soggettive degli intervistati: dall’uso del
gps per valutare l’esposizione delle persone ai messaggi in affissione, al meter
elettronico multimediale per la rilevazione dell’esposizione ai media senza dover passare
necessariamente attraverso il ricordo – a volte inevitabilmente fallace – degli intervistati,
fino a sperimentazioni ancor più “ardite”. Per un altro verso, si assiste alla pubblicazione
di saggi che prevedono l’utilizzo del Metodo di simulazione Monte Carlo su materiale
3
Questa definizione, (tratta da ASSIRM “La Ricerca Qualitativa , Principi, definizioni, modalità operative”,
documento disponibile sul sito: www.assirm.it) riecheggia altre definizioni ufficiali quali ad esempio quella di
ESOMAR (crf “Market Research Glossary”, disponibile sul sito: www.esomar.org), quella della American Marketing
Association (cfr. www.marketingpower.com) e quella della British Association for Qualitative Research (cfr.
www.aqr.org.uk.)
17
raccolto nelle discussioni di gruppo! Di fronte a questa convergenza è utile chiedersi
quale sia dunque il ruolo che le tecniche qualitative possono rivendicare come proprio.
A parere di chi scrive, la Ricerca Qualitativa è in grado di offrire contributi originali (nel
senso di non altrimenti ottenibili con tecniche o metodologie alternative)
prevalentemente nel valutare gli aspetti inconsci e non verbali, che vanno sempre
necessariamente al di là delle razionalizzazioni, del “politically correct”, delle
convenzioni sociali, di quello che “è giusto o opportuno dire” e del comportamento
osservabile. Proprio in questo risiede la “core competence”, la capacità distintiva dei
ricercatori che sono formati alla “scuola qualitativa”.
Accade invece abbastanza spesso che i risultati di progetti qualitativi siano ancorati al
piano delle testimonianze soggettive e ci sia solo un limitato accesso alle interpretazioni
del piano “non verbale”. Dal punto di vista di chi scrive, agendo in questo modo i
ricercatori qualitativi che adottano queste modalità operative giungono a negare
implicitamente il valore intrinseco delle loro discipline.
Un secondo aspetto importante che la “scuola qualitativa” dovrebbe prendere
esplicitamente in considerazione riguarda gli aspetti esecutivi dei progetti di ricerca (e
non solo il quadro teorico di riferimento). Nel corso degli oltre 50 anni di storia delle
ricerche qualitative in Italia è stato accumulato un patrimonio straordinario di
conoscenze ed esperienze che riguardano le modalità operative ed organizzative delle
discussioni di gruppo e dei colloqui individuali in profondità. Si fa riferimento qui
all’esperienza nella predisposizione delle “condizioni di contorno” che facilitano il
lavoro del ricercatore e gli consentono di avere accesso al piano non verbale (si possono
ricordare velocemente: il “setting” dell’intervista, gli stimoli, gli strumenti e le tecniche
proiettive).
Esistono ovviamente elementi e condizioni che facilitano il lavoro del ricercatore e altri
che invece lo rendono più difficile se non addirittura impossibile: riportiamo una
testimonianza diretta abbastanza chiara relativa a “qualcosa che non ha funzionato
correttamente” nel predisporre le condizioni di cui sopra, nel caso di un colloquio di
gruppo avvenuto qualche anno fa. Si trattava di una discussione di gruppo mista tra
teenagers, e nel caso specifico il moderatore trascorse la maggior parte del tempo nel
tentativo – spesso vano – di “gestire” il disagio dei partecipanti provocato dal dover
parlare di fronte a rappresentanti dell’altro sesso a scapito della possibilità di
approfondire l’argomento della ricerca (peraltro non particolarmente “sensibile”, come
ad esempio il consumo di un prodotto alimentare di ampia diffusione).
L’esempio fa emergere il fatto che il “patrimonio di esperienze” – la ricerca veniva
condotta da un Istituto di ricerca assolutamente di rilievo e specializzato esclusivamente
in tecniche qualitative – non è a parere di chi scrive sufficientemente “codificato” ma
piuttosto viene “tramandato” in modo non sistematico. Sarebbe opportuno invece che
questi temi fossero oggetto di codifica e fossero altresì materia di formazione per i
ricercatori che vogliano specializzarsi nelle tecniche qualitative.
Il terzo aspetto di rilievo nella valutazione dei contributi che la ricerca qualitativa può
offrire al processo decisionale delle aziende riguarda la meta-ricerca: è necessario
18
rendere operativi gli spunti offerti dalla ricerca di base nelle discipline che informano le
tecniche qualitative come la psicologia e la psicanalisi, la sociologia, la semiotica,
l’estetica, l’etnografia, l’etologia... L’esigenza è quindi quella di portare avanti progetti
di innovazione metodologica, analogamente a quanto accade in tutte le discipline (e in
modo particolare nelle tecniche di ricerca quantitative).
Se si osserva in modo critico l’evoluzione nel recente passato del “corpus” delle tecniche
qualitative nelle loro applicazioni alla ricerca di mercato, molto probabilmente non si
noterà lo stesso “fermento innovativo” che invece ha caratterizzato le tecniche
quantitative. L’imperativo dell’innovazione è ad oggi cogente in ogni disciplina, e la
ricerca qualitativa non fa eccezione di sorta.
Da ultimo, ma non meno di rilievo, è importante che anche i ricercatori qualitativi
sappiano sempre più vestirsi con “l’abito mentale del businessman”, oltre che parlare la
lingua del business. Ciò significa in pratica saper interiorizzare le esigenze del mercato
in termini di compatibilità dei tempi di realizzazione delle ricerche qualitative con le
tempistiche del processo decisionale aziendale ed anche in termini di capacità di
traduzione dei risultati interpretativi in raccomandazioni operative che possano
concretamente “fare la differenza” nel processo di presa di decisioni delle aziende.
Tenendo conto del fatto che la ricerca qualitativa è sempre in bilico tra l’essere in grado
di fornire un ineguagliabile livello di ricchezza e profondità nei dettagli del fenomeno
che si sta studiando (“God is in the Details”, Ludwig Mies Van der Rohe) e il non poter
produrre conclusioni generalizzabili dal punto di vista statistico alle popolazioni di
riferimento, e capitalizzando sui 4 aspetti solo tratteggiati in questo breve intervento i
ricercatori qualitativi saranno in grado non solo di mantenere il loro vantaggio
competitivo nei confronti delle branche di ricerca concorrenti ma anzi di continuare a
rivendicare il posto di rilievo che di diritto spetta loro all’interno delle metodologie a
supporto del processo decisionale aziendale.
d) L’utenza socio-politica (Alessandro Colombo, Direttore della Ricerca IReR:
Istituto Regionale di Ricerca della Lombardia) – Il punto di vista che qui rappresento
non è direttamente quello della politica o dell’ente pubblico, ma quello di chi svolge
ricerca per la politica e per l’amministrazione. Cercherò di descrivere i tratti della
domanda pubblica di conoscenza e le opportunità che intravedo per la ricerca qualitativa.
Una precisazione: io tratterò della domanda di programmazione, cioè quella che deve
implementare, sviluppare, valutare le policy e non della domanda politica, che ha
innanzitutto un problema di consenso (e sulla quale certamente la ricerca qualitativa può
comunque avere un ruolo importante).
Oggi la domanda pubblica ha a che fare più di ieri con la complessità. La considerazione
può essere banale, ma proverò ad esemplificare alcune implicazioni rispetto al nostro
tema.
1. Fino agli anni Ottanta il percorso operativo risultava definito in maniera piuttosto
netta: c’è un problema; il problema determina esplicitamente una domanda di
conoscenza; la conoscenza apre lo spazio per un’azione in risposta al problema.
19
Oggi la complessità ha spezzato la linearità di questa sequenza logico-temporale, perché
ciò che è in questione non è tanto l’individuazione della risposta, ma la definizione
stessa dei problemi. In un contesto complesso, fare ricerca per il governo significa anche
(spesso soprattutto) contribuire a definire i bisogni e, di conseguenza, persino a
formulare le domande di conoscenza coerenti con essi.
2. Un secondo elemento della complessità è la necessità di superare i ragionamenti e gli
approcci settoriali. Tre esempi. Perchè le imprese chiedono semplificazione? Non certo
perchè vogliono meno cose, ma perchè le vogliono immaginate come già unificate. O
pensiamo al tema della sicurezza: i sistemi di intervento di fronte alle calamità
coinvolgono settori che prima non erano connessi, compresi (soprattutto) i sistemi di
comunicazione. O, ancora, pensiamo alle politiche sociali. Se continuiamo a concepire
gli interventi per settori, generiamo disequilibri. Ci sono persone considerate “povere”
che ricevono assistenza e benefici da diversi assessorati. Vi sono altre persone, che
invece non sono abbastanza “povere” per ricevere nemmeno un beneficio o contributo.
Così i primi escono dalla povertà e i secondi vi rimangono. Superare l’approccio
settoriale vuol dire misurare le politiche non solo in termini di contributi erogati, ma
anche di contributi ricevuti dal singolo.
3. Il terzo elemento della complessità è il passaggio dal “government” alla
“governance”. Il pubblico non può più concepirsi come gestore unico, ma come garante.
Il governo centrale non è l’unico attore, ma deve cercare di interagire con gli altri
soggetti che allo stesso modo (alle volte anche meglio) possono esercitare un ruolo
pubblico.
In questo contesto la domanda pubblica sta reagendo abbastanza bene, ma ha bisogno di
essere sostenuta e articolata. La pubblica amministrazione, in positiva reazione alla
complessità, sta faticosamente cambiando pelle: sta passando da una logica burocraticoincrementale (di fronte a un nuovo bisogno si crea una nuova struttura), a una logica
manageriale-organizzativa (di fronte a un nuovo bisogno, si cambia organizzazione).
Tale passaggio non è semplice e richiede tempo. Intanto si soffrono alcuni paradossi: si
coglie l’importanza degli indicatori, ma li si teme e non li si vive in prospettiva
strategica; si chiede conoscenza scientifica approfondita, ma si pretendono risultati
“spot”; si avverte la necessità di partire dai bisogni reali, ma si cede facilmente
all’attrazione del consenso; si scommette sulla governance, ma si è tentati spesso di
imboccare scorciatoie centralistiche.
Per aiutare la domanda pubblica è decisivo il ruolo dell’intermediario. IReR è questo
intermediario. Dico con estrema chiarezza quello che forse alcuni hanno già
sperimentato: non bisogna illudersi di potere efficacemente interagire direttamente con
la pubblica amministrazione. È necessario il nostro contributo. Lo dico senza
presunzione. Anzi, con la convinzione che, soprattutto in Lombardia, siamo in una fase
in cui abbiamo la possibilità di istituzionalizzare un processo di ricerca per la pubblica
utilità che può essere nuovo. E secondo me se lo si fa in Lombardia, lo si fa anche in
Italia.
20
A fronte del quadro appena tracciato, con riferimento più specifico alla RQ, intravedo
una questione generale e due di tipo più particolare.
La questione generale è che la ricerca qualitativa ben condotta, a differenza di quella
quantitativa, fa accedere più direttamente alle proposte di policy. Alla fine la ricerca per
la programmazione deve sempre contenere indicazioni di policy e queste possono
derivare anche dai soggetti portatori del bisogno intervistati, ascoltati, opportunamente
interpellati. Non si tratta di moltiplicare o migliorare i sondaggi, ma di costruire
metodologie forse nuove e certamente rigorose che possano potenziare la capacità di
ascolto di questa pubblica amministrazione in faticosa transizione.
La prima questione più particolare riguarda la valutazione delle politiche. In Italia la
valutazione sconta una fortissima resistenza soprattutto culturale. Prendete il termine
“control”: per gli inglesi vuol dire “guidare”, “tenere il timone”; per noi italiani è
sinonimo di “ispezione”. Al netto di questa fatica culturale, comunque, vi è uno spazio
aperto di sviluppo dei metodi di valutazione delle politiche sul quale la RQ può dare un
contributo. In particolare, rispetto ai modelli di valutazione “partecipata”. Se le
politiche vengono giustamente attuate in una prospettiva di governance, cioè “si
scommette” sui soggetti sociali per realizzarle, allora anche la valutazione può essere
realizzata continuando a scommettere sulla capacità di tali soggetti di rileggere
l’esperienza.
La specificità è quella di come costruire metodi e sistemi di valutazione delle politiche e,
in particolare, metodi e sistemi per far partecipare i soggetti, assegnando loro una
responsabilità anche nel momento della valutazione.
Tra l’altro, in questo caso, qui in Lombardia potremmo inventare una valutazione
italiana, chiaramente distinguibile all’interno di un panorama internazionale. D’altra
parte qualcosa di simile è già avvenuto in passato in Lombardia, quando si è sviluppato
un modello di capitalismo solidale (diverso dal modello weberiano e anglosassone), nel
quale solidarietà ed efficienza produttiva andavano insieme (come la casa e la bottega).
Analogamente, oggi nessuno ci vieta la possibilità di “inventare” un approccio di
valutazione nuovo (forse “italiano”?), seguendo una logica di flessibilità e di
adattamento delle forme.
La seconda questione specifica nella quale la ricerca qualitativa può trovare applicazione
concerne i processi di programmazione partecipata. Già avviene soprattutto negli enti
locali, che piani di sviluppo, scelte infrastrutturali o di bilancio trovino momenti
deliberativi. La Regione si sta in parte orientando in tal senso. Come IReR abbiamo
lavorato in via sperimentale sul tema OGM verificando strumenti di democrazia
deliberativa, come le consensus conference. In generale, il parere informato è questione
interessante e sulla quale occorre lavorare.
In conclusione, se penso alle finalità di questo Master ho in mente una professionalità
capace di lavorare con l’intermediario nell’articolare la domanda pubblica per
contribuire alla conoscenza, intesa come riduzione della complessità.
I nuovi ricercatori qualitativi saranno chiamati non ad aumentare la complessità, ma a
ridurla, consolidando la disciplina sul piano epistemologico, verificando il rigore del
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metodo, sviluppando una professionalità capace di dialogare con le altre discipline. C’è
spazio, quindi, per un contributo sostanziale nel cogliere e interpretare i bisogni reali
sui quali costruire e valutare la programmazione.
La ricerca qualitativa per il marketing: fra nodi e snodi (A. Claudio Bosio, direttore
Centro Studi e Formazione ASSIRM) – Le riflessioni sviluppate negli interventi
precedenti – in coerenza con le finalità del panel – hanno focalizzato il tema
dell’indagine qualitativa come pratica professionale al servizio del marketing, lasciando
sullo sfondo altri aspetti relativi al suo statuto di disciplina scientifica.
Parto da questa prospettiva – apparentemente “fuori tema” – nella rilettura dei contributi
del panel per ricordare che:
1. da alcuni decenni gli approcci di ricerca qualitativi hanno registrato una crescita
straordinariamente vivace nell’ambito delle scienze sociali, a cui è corrisposta
un’offerta sempre più ricca e articolata di teorie, metodi, tecniche e strumenti
impegnati nei più svariati campi di indagine (per dare una dimensione intuitiva del
fenomeno, ad oggi i giornali scientifici focalizzati sulla RQ sono più di 130);
2. questa tendenza ha significativamente interessato anche la ricerca sui consumi
dedicata al marketing. Segnali importanti in questo senso sono la nascita nel 1998
della rivista Qualitative Market Research e il riorientamento tematico di altri
periodici (fra questi: Journal of Consumer Research, Journal of Marketing, Journal
of Marketing Research); in parallelo l’uscita di un nutrito numero di libri e manuali,
fra cui l’opera in sette volumi Qualitative Market Research: principles and practices
curata da G. Ereaut, M. Imms e M. Callingham per la Sage (2002).
Esiste, dunque, un’attenzione scientifica sulla RQ applicata all’analisi del consumo e dei
problemi del marketing ormai ben sviluppata e diffusa anche presso segmenti di
studiosi-ricercatori tradizionalmente più in sintonia con altri approcci di ricerca (mi
riferisco, ad esempio, alla crescente presenza in ambito qualitativo di ricercatori di
formazione economica).
Con questa evoluzione della RQ è ormai arrivato il tempo di fare i conti anche in Italia…
anzi, soprattutto in Italia, perché – a dispetto di una pratica di ricerca di lungo corso, non
priva di lustro e meriti, come testimoniano gli interventi di Gabriele Calvi e Mimma
Novelli – la RQ si è mantenuta nel nostro Paese entro una prevalente dimensione di
artigianalità, per lo più fondata sul postulato dei talenti innati (il famoso “occhio” del
ricercatore qualitativo) e dell’apprendimento per esperienza diretta.
Non voglio – sia chiaro – negare i valori connessi alla dimensione “della bottega” entro
cui la RQ è cresciuta in Italia: molte case histories e figure di ricercatori rappresentano
un’evidenza indiscutibile al riguardo. Osservo, però, che il fenomeno di una dimensione
“da bottega” non ha, ad esempio, favorito la costruzione di una “scuola italiana” (come
invece è capitato in Francia o in Inghilterra): ciascun ricercatore ha finito per selezionare
pratiche di ricerca consonanti con le proprie idiosincrasie e abilità piuttosto che in
relazione alla domanda di mercato o agli sviluppi scientifici della disciplina;
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paradossalmente (ma non più di tanto) il successo professionale ha facilitato la
selezione/ripetizione delle pratiche vincenti piuttosto che l’ampliamento/diversificazione
delle competenze; in definitiva, i percorsi professionali si sono organizzati in modo
prevalentemente autoreferenziato e sul “prestigio dei singoli” piuttosto che sul
confronto, lo scambio e la crescita di una cultura professionale di riferimento.
Operare una revisione di questo approccio alla RQ oggi si può, si deve, è opportuno.
Tento di giustificare qui di seguito l’uso di questi tre verbi e di illustrarne il significato.
a) Si può. Oggi è possibile fare un salto di qualità nella pratica professionale della RQ
in Italia sulla base di almeno due evidenze di contesto.
Da un lato, lo statuto scientifico della RQ è molto cresciuto negli ultimi decenni.
Come già ricordavo prima, oggi disponiamo di una varietà di teorie e metodi – per
altro ancora ampiamente in sviluppo – in grado di interpretare in modo sempre più
preciso e raffinato le più diverse domande di ricerca. Approcci di tipo descrittivo si
affiancano a strategie di ricerca di tipo esplicativo o ideativo-creativo; analisi
focalizzate sul funzionamento psichico del consumatore (cognitivo o dinamico) si
integrano con altre centrate sulle costruzioni sociali dei comportamenti di consumo
(cfr. le applicazioni etnografiche, ad esempio), sui linguaggi (siano essi testi,
narrazioni, discorsi, conversazioni… ) o sugli artefatti che popolano il nostro mondo
quotidiano; l’impiego delle varie tecniche di ricerca (si pensi ad esempio, a Internet
come mezzo di rilevazione) si precisa sempre meglio nelle sue potenzialità e nei suoi
limiti. Tutto ciò è potenzialmente foriero di una nuova crescita professionale per il
ricercatore qualitativo di marketing, a patto di fare i conti con l’aumentata
complessità del quadro teorico-metodologico di riferimento.
D’altro lato (e questa è la seconda evidenza) l’aumentata complessità del frame di
conoscenze-competenze disponibili può oggi essere più facilmente gestita rispetto a
qualche tempo fa sulla base degli orientamenti assunti dal sistema formativo
universitario; primo fra questi, la ricerca di una sinergia sempre più stretta fra
formazione accademica (ormai chiaramente multilivello) e mondi professionali di
riferimento. L’avvio di un master – quale quello all’origine di questo panel di
discussione – sui metodi qualitativi per la ricerca sociale e di mercato, gestito in
collaborazione fra un’alta scuola universitaria e l’associazione professionale degli
istituti di ricerca italiani, rappresenta una testimonianza in questo senso, nonché
l’assunzione concreta di un modello di crescita professionale basato sulla
fertilizzazione reciproca fra “comunità di saperi” e “comunità di pratiche”.
b) Si deve. Un “dialogo forte” con le opportunità offerte dagli sviluppi teoricometodologico della RQ – oltre che possibile – si configura anche come una sorta di
atto dovuto, posto che la pratica della RQ voglia qualificarsi come “professione”
piuttosto che come “mestiere”.
I sociologi del lavoro (ho presente in particolare le analisi di Eliot Freidson)
sottolineano che ciò che qualifica distintivamente una professione nel variegato
panorama delle forme-lavoro è il suo rapporto con un sapere scientifico di
riferimento: una professione priva di fondazione scientifica – nella costruzione delle
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sue conoscenze e nella regolazione dei processi formativi che le trasmettono –
semplicemente è una contraddizione in termini, almeno sul piano storico.
Se ciò è vero per tutte le professioni, lo è ancora di più per una professione che situa
la sua core identity nell’attività più tipica della scienza: la ricerca.
Su questo punto – a mio parere – oggi si gioca una verifica ormai non più eludibile:
in Italia, ma non solo in Italia. Se per “ricerca di mercato” – qualitativa o
quantitativa, non importa – si intende un’attività professionale di produzione di
informazioni sui fenomeni di consumo:
■
metodologicamente fondata (quindi “mostrabile” sul piano inter-soggettivo e non
puramente suggestiva)
■
focalizzata sulla dimensione della conoscenza (conoscenza augurabilmente utile
per orientare le decisioni e le azioni di marketing ma non coincidente con il
livello pragmatico di queste)…
…allora converrà coltivare un rapporto sempre più stretto anche con le sorgenti
scientifiche che nutrono e legittimano l’indagine di mercato come attività di ricerca.
c) E’ opportuno. Al di là dell’obbligo, resta alla fine una ragione di opportunità per
tessere un rapporto sempre più stretto fra pratiche professionali e conoscenze
scientifiche.
Leggo negli interventi che mi hanno preceduto una sorta di doppia richiesta alla RQ
non priva di una certa carica di paradosso.
Da un lato, alla RQ si chiede di “andare oltre”: oltre il numero, le dimensioni o la
pura apparenza di un fenomeno, , oltre il già noto sul piano teorico e metodologico;
alla ricerca di un senso profondo che sostenga una comprensione anche prospettica
(e, quindi, una nuova possibilità di prefigurazione) del reale.
Da un altro lato, a fronte di questa “visione alta” della RQ, si oppongono pratiche di
lavoro che ne erodono il senso e la rilevanza:
■
un uso piatto e appiattente della RQ (nella logica “fast and cheap” come
sottolinea Chiara Origlia);
■
la tendenza al mono-metodo (quasi solo focus group, ricorda Carlo Santucci) e al
conservatorismo metodologico;
■
una standardizzazione al ribasso di procedure e risultati quale conseguenza
dell’internazionale dei processi di ricerca;
■
l’assunzione acritica di nuove “mode di ricerca”.
Non è questa la sede per trasformare un’analisi delle criticità in attribuzione di
responsabilità; né mi pare utile. Il paradosso insito in questa doppia domanda è palese e
va gestito nella quotidianità delle pratiche, piuttosto che nella ricerca di composizioni
astratte e universali.
E’ di tutta evidenza che professionisti della RQ sempre più ricchi di teorie e metodi,
capaci di orientarsi in modo duttile nel repertorio degli strumenti per identificare la
migliore risposta al problema del cliente, aggiornati sulle innovazioni offerte dalla loro
disciplina di riferimento possono avere più peso e voce in capitolo nell’orientare la
negoziazione di ricerca verso una “visione alta”. E’ questa, peraltro, la richiesta comune
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e condivisa degli utenti (Roberto Binaghi, Cinzia Marchetti, Massimo Cealti) qui
intervenuti.
In questa prospettiva, non sottovaluterei la sfida insita nella nuova utenza socio-politica
(cfr. la testimonianza di Alessandro Colombo): un’utenza agli esordi ma già portatrice di
istanze assolutamente peculiari, tali da richiedere il ripensamento di molti dei nostri
assunti di base, a cominciare dall’esigenza di riconfigurare il rapporto fra opinioneinformazione-consenso.
C’è lavoro per tutti. A tutti, buon lavoro!
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