Lo studio come lavoro

Transcript

Lo studio come lavoro
ANTONIO BELLINGRERI
Lo studio come lavoro
Preciso subito, in avvio di discorso, che le mie riflessioni si riferiscono innanzitutto allo studio
universitario; e chiarisco che lo intendo come lavoro, sempre e insieme, professionale e culturale. Il
significato specifico del primo di questi due termini forse potrebbe essere espresso meglio se,
articolandolo, si dicesse di un lavoro professionalizzante: si coglierebbe meglio la duplicità di
senso, di uno studio che per un verso prepara e inizia all'esercizio di una determinata professione,
all'interno di un più vasto progetto di vita; per un altro verso è già esso stesso una professione, nella
misura in cui per svolgerlo è necessario acquisire una certa professionalità, che in via preliminare e
ancora genericamente, possiamo chiamare attitudine acquisita allo studio.
Col secondo termine, invece, parlando dello studio che è, sempre e insieme, lavoro culturale,
mi riferisco all'aspetto per cui esso è momento privilegiato di formazione personale; una prassi o
pratica implicante una cura di sé, che, adeguatamente svolta, porta al soggetto una crescita, dei beni
personali e delle qualità relazionali forse non altrimenti raggiungibili. Ciò presuppone, pare ovvio
notarlo, una concezione pedagogica della formazione e della persona nella quale il sé non si risolve
nelle sue produzioni, la sua identità non coincide con un ruolo professionale funzionale.
Desidererei così presentare un contributo alla pedagogia del lavoro intellettuale svolto in
università, sia pure in abbozzo - quasi solo un profilo. L'ancoraggio pertanto, per risultare adeguato,
deve essere empirico: ed io qui scelgo di assumere come punto di partenza le ricerche condotte da
pedagogisti sperimentalisti, sulle modalità concrete secondo le quali è vissuto ed inteso lo studio
universitario, all'interno di una facoltà di Scienze della formazione in un grande ateneo italiano. I
dati che vi emergono non sono dei più incoraggianti: sembrano infatti prevalenti stili di
insegnamento e di apprendimento che non hanno come esito né una preparazione professionale di
qualità, né una formazione culturale autentica 1.
Lo studio su cui si riflette nell'indagine scientifica da me scelta riguarda un po' tutte le attività
che uno studente universitario svolge, quando si iscrive e frequenta dei corsi universitari. È la
frequenza delle lezioni frontali e le modalità con cui vi è presente, prendendo o meno appunti, ad
Il riferimento è a C. Coggi (a cura di) (2004), Una facoltà allo specchio. Contributi di ricerca in una università che
cambia, Pensa Multimedia, Lecce.
1
esempio; è lo studio personale, di lettura di riflessione e di scrittura; è anche la partecipazione alle
attività laboratoriali e a quelle di tirocinio, in cui si tratta piuttosto di praticantato e di operatività e
in cui, soprattutto, l'apprendimento avviene in comunità, più o meno grandi, di ricerca e di azione.
In breve, si tratta di fatto di un lavoro articolato che impegna il soggetto in processi cognitivi e in
pratiche di apprendistato, che per certi versi - lo noto a mo' di ricognizione empirica e problematica
di avvio - sembrano presentare analogie con le attività degli scienziati o dei ricercatori, i quali
hanno acquisito e mettono in atto una specifica competenza d'indagine in un determinato campo del
reale.
A questa notazione ne va aggiunta però subito un'altra: per questi studenti universitari e per la
qualità del loro lavoro, hanno un peso forte, che sembra crescente e viepiù determinante, i saperi
diffusi dei loro mondi vitali, in particolare di quei speciali ambienti di apprendimento che sono le
comunità tra pari e di quelle che reputo si possano denotare con la dizione platee virtuali – i media
in generale, televisione e web in ispecie. Si tratta di complessi curricoli impliciti, che condiziono i
processi cognitivi e conferiscono caratteristiche configurazioni strutturanti agli stili di
apprendimento e a quelli esistenziali.
Questi milieux vanno pertanto tenuti nella debita considerazione; accostati, anzi, a indagini più
ampie sui giovani, come ad esempio quelle condotte dall'Istituto I ARD sulla condizione giovanile in
Italia in questi primi anni del nuovo secolo, aiutano ad avere un'intelligenza più adeguata (meno
inadeguata) sui loro processi di crescita: sulle particolari difficoltà che si incontrano nella
formazione del sé professionale, creativo e autonomo e di una personalità minimente equilibrata e
matura. Come, argomentando, cercherò di mostrare in questo contributo, laddove si registra una
certa perdita del senso del reale, e si smarrisce il senso dell'oggettività conoscitiva, o si deforma il
senso dell'infinito, di fatto si va formando un certo tipo di stile personale che, nello studio
universitario, condiziona in modo non accidentale, il modo di vivere ed intendere tanto il lavoro
professionalizzante quanto il lavoro di formazione del sé 2.
Nella mia prospettiva, formulando una prima ipotesi interpretativa sulla questione, reputo che
lo studio vissuto ed inteso, come sembra prevalente, in modo meccanico e ripetitivo favorisca la
crescita di comportamenti passivi e di personalità non creative. Non si dà mai, a ben vedere,
professione che non esiga, con le specifiche competenze acquisite, doti riflessive, che aiutino il
soggetto a formarsi sempre, apprendendo innanzitutto ogni giorno dalla sua stessa esperienza
professionale e dal contesto lavorativo. Né si può porre in atto un lavoro culturale beninteso che non
implichi la scelta di affrontare la realtà nella sua indefinita complessità, nelle differenze specifiche e
2
Il riferimento è a C. Buzzi, A. Cavalli, A. De Lillo (a cura di) (2002), Giovani del nuovo secolo. Quinto rapporto
IARD sulla condizione giovanile in Italia., il Mulino, Bologna; Id. (a cura di), Rapporto giovani. Sesta indagine
dell’Istituto IARD sulla condizione giovanile in Italia, il Mulino, Bologna, 2007.
nei nessi con la totalità, con un atteggiamento autenticamente razionale ed eminentemente personale
di ricerca del vero. È una scelta che ha immediatamente uno spessore etico, ché l'atteggiamento
veramente umano, buono per l'uomo, è quello di ricerca di un senso ulteriore, che non sia solo
quello cui siamo originariamente consegnati, le opinioni prevalenti i miti e le credenze dei nostri
mondi vitali (oggi anche universi virtuali).
Intendo dare il debito spazio, nella mia analisi, a questo secondo aspetto che riguarda lo studio
come lavoro di formazione personale, ché mi pare sia un po' negletto tanto dagli educatori quanto
dai pedagogisti. Nella prospettiva di una pedagogia del sé che ne intenda le potenzialità proprie,
esso può trasformarlo in processo d'acquisizione di una qualità personale preziosa e sempre più
rara: l'attitudine razionale capace di consentire al soggetto il riconoscimento della realtà; si
potrebbe anche dire tale da promuovere in lui l'intelligenza dell'alterità e la percezione del vero. Può
diventare, inoltre, prassi di formazione dell'attitudine etica: è la disposizione della persona al bene,
attratta da ciò che appare desiderabile per sé e insieme interiormente mossa per unirsi ad esso.
Benedetto Croce era solito affermare che, anche nei momenti più gravi della storia nazionale,
egli reputava fosse suo dovere e sua «vocazione», continuare a coltivare, con lo studio, quel
«cantuccio di realtà», scelto e amato durante tutta la vita, quale «verace momento di libertà»; aveva
desiderato morire leggendo e scrivendo e così accade un giorno di fine novembre del 1952. Anche
se non condivido l'orizzonte filosofico e pedagogico complessivo dello storicismo idealistico, trovo
suggestivo questo accostamento tra l'esercizio fecondo del pensiero e la conquista della libertà
personale. Pensare o, come mi sono espresso, riconoscere la realtà ricercando il vero, nasce dal
bisogno fondamentale di significato, desiderio originario dell'autentico «esser desti»; ora, esso
consente di esistere in prima persona: realizza quel vivere bene che è preferibile al semplice
lasciarsi vivere3. Per questo, con ma anche oltre Croce, la vita intima del lavoro intellettuale è lo
spirito.
1. Una ricerca sulla qualità dello studio universitario
C. Coggi ha coordinato una ricerca di pedagogia sperimentale tentando di fotografare, in una
«istantanea di famiglia», la Facoltà di Scienze della formazione dell'Università degli studi di Torino.
Il testo è stato pubblicato nel 2004 e fa seguito ad un altro volume, d'impostazione «storicosequenziale», del 2001, curato da R. Grimaldi e dedicato allo studio dell'evoluzione e del
cambiamento della stessa Facoltà nel decennio precedente. La Coggi, nell'Introduzione, scrive che il
3
Rimando a A. Bellingreri (2010), La cura dell'anima. Profili di una pedagogia del sé, Vita e Pensiero, Milano.
libro «si inserisce nell'ambito della ricerca valutativa sull'efficacia dei sistemi superiori di
istruzione»; tema, questo della valutazione dell'apprendimento, oggetto di analisi, di ricerche
empiriche e di riflessioni più o meno ampie e sistematiche negli ultimi decenni 4.
Il primo capitolo è quello scritto dalla curatrice e presenta una panoramica dei problemi
principali della valutazione degli studenti, dei suoi momenti e degli strumenti necessari. È forse il
più importante del volume perché pone la domanda di senso che ha messo in movimento l'intera
ricerca: che cosa intendiamo quando parliamo di qualità dell'università? E che cosa significa
concretamente produttività dell'università, negli studi e nella ricerca?
Il contesto storico, osserva l'Autrice, è quello di un grande e rapido cambiamento in atto negli
atenei italiani, una sorta di riforma di fatto che a tratti sembra precedere a tratti invece segue quella
di diritto; investe tutto il sistema della formazione universitaria del nostro Paese ed è possibile
registrarlo in modo speciale proprio in una facoltà come quella di Scienze della formazione. Basti,
in questa sede, fare un cenno alla struttura del curricolo integrato: alla importanza attribuita,
accanto ai corsi di lezioni, che in generale forniscono agli studenti gli aspetti teorici di una
disciplina, in primo luogo ai laboratori, che impegnano di più sul piano della operatività; e in
secondo luogo ai tirocini, che costituiscono una vera e propria pratica di apprendistato, in cui
s'impara ad apprendere facendo esperienza diretta dell'insegnamento. Muta di conseguenza anche il
ruolo e la professionalità del docente universitario, che è chiamato, per svolgere al meglio i propri
compiti specifici, a tenere insieme diverse competenze: quella scientifica e quella didatticocomunicativa, innanzitutto; ma anche quella relazionale o empatica e quella organizzativa o
manageriale.
Per la Coggi valutare è un modo notevole di conoscere; e bisogna dire che si comprende bene
se si cerca di valutare sistematicamente ogni momento del percorso degli studi: da quello iniziale
dell'ingresso e della situazione di partenza; a quello in itinere, condotto attraverso le prove d'esame;
a quello conclusivo, che di norma si svolge attraverso le relazioni sintetiche sulle attività di
laboratorio e di tirocinio e la preparazione e discussione della tesi di laurea. Ora, tenendo presenti,
accanto a questo capitolo panoramico della coordinatrice, tutti i dati rilevati e le analisi offerte negli
altri contributi del volume, è possibile farsi una idea abbastanza definita sul come avvenga
l'apprendimento; sugli esiti che si raggiungono di fatto, relativamente all'aspetto professionalizzante
dell'iter della facoltà; e sul significato complessivo che assume lo studio nel processo di formazione
della persona – l'aspetto che ho chiamato culturale simpliciter 5.
C. Coggi, op. cit., pp. 15-16. Cfr. anche R. Grimaldi (2001), Valutare l'università, UTET, Torino.
C. Coggi, «Valutare gli studenti», in Id. (a cura di), Una facoltà allo specchio. Contributi di ricerca in una università
che cambia, Pensa Multimedia, Lecce, 2004, pp. 19-44.
4
5
Sembra, in primo luogo, che sia prevalente un apprendimento «meccanico», nella specifica
comprensione che questo concetto assume quando lo si intende in opposizione alla categoria di
«apprendimento significativo» proposta da D.P. Ausubel. Come è noto - ma qui cito la definizione
che ne propone D. Maccario -, l'apprendimento è significativo quando «il contatto con la realtà o la
conoscenza produce un cambiamento profondo e duraturo nella struttura cognitiva del soggetto».
L'opposto, quello meccanico, è invece un modo di affrontare lo studio più ripetitivo, di concetti di
proposizioni e di ragionamenti, senza preoccuparsi di cercarne il riempimento intuitivo o il nesso e
la consequenzialità logica. Per lo più gli studenti universitari presentano questo limite in ingresso,
così si presentano dopo gli esami di maturità; anche se, va notato, questo non significa che la
situazione di partenza consenta di prevedere (se non con un margine di errore rilevante) il percorso,
i modi i tempi e gli esiti, di ciascuno studente 6.
Si evidenzia, in secondo luogo, che per lo più, in senso statisticamente prevalente, i
comportamenti degli studenti sono «standardizzati». Qui, viene giustamente osservato, ci si trova di
fronte a modalità di approccio dello studio che non è facile mutare, perché sono spesso fortemente
legati a tratti della personalità; possono pertanto accompagnare durevolmente il percorso formativo
personale. Più nello specifico, si tratta di limiti relativi alla consapevolezza dei propri modi di
apprendere, che riguardano la capacità di autoregolarsi e correggersi; infine e sinteticamente, sono
comportamenti che tradiscono un deficit a livello metacognitivo 7.
In terzo luogo, emerge in prevalenza una motivazione a studiare e ad apprendere che è
«estrinseca». Anche a questo proposito, c'è da dire che ci si trova di fronte ad atteggiamenti
rivelativi di una caratteristica strutturazione della personalità dello studente. E si evince dal rilievo
delle modalità del come si apprende: che è condizionato eccessivamente dagli esiti, sia quelli del
profitto passato sia quelli che possono risultare dal percorso che si sta compiendo; e che limita di
certo le possibilità di apprendimento e di un successo nello studio e nella professionalità che
potrebbe essere di ben altra qualità.
A questa estrinseca si oppone la motivazione «intrinseca», che per formarsi – lo nota proprio
la Coggi – esige un aiuto costante in itinere, grazie alla valutazione continua, al supporto di un tutor
universitario e incentivando l'autovalutazione. L'osservazione sistematica dell'esperienza e gli esiti
di micro-sperimentazioni consentono di affermare che l'introduzione di seminari e di laboratori
specifici funziona bene in tal senso: prendendovi parte attivamente, il soggetto è aiutato a riflettere
sulle mete o dimensioni essenziali di una maturazione umana e culturale adeguate, che possono
D. Maccario, «Strategie metacognitive e studio universitario. Un'esperienza con mappe cognitive», in C. Coggi (a cura
di), op. cit., pp. 163-196.
7
Ibidem.
6
diventare per lui vero motore dell'impegno nello studio; e a maturare, con gradualità, proprio
attraverso un lavoro ben fatto, il suo personale progetto di vita attiva 8.
In quarto luogo, resta ancora dominante, anche tra gli studenti assidui nella frequenza dei corsi
(presenti alle lezioni pur se non obbligati), e nonostante svolgano attività di laboratorio e di
tirocinio, lo studio e l'apprendimento condotto in solitudine. La collaborazione offerta dai tutor
universitari aiuta, almeno in parte, a superare una condizione che tende ad accrescere il disagio e le
frustrazioni, per successi spesso solo momentanei; ma non sempre vi si può fare affidamento: come
è noto, la ristrettezza dei fondi destinati alle università, in questo momento storico, tende a far
sparire questa figura, che pur si riconosce utile sostegno formativo ed orientativo.
In considerazione di questa difficoltà oggettiva, più efficace potrebbe allora risultare
l'introduzione, come modo di studiare e apprendere, del cooperative learning. Si è
sperimentalmente provato, in effetti, che questo metodo è efficace e può in qualche modo sostituire
lo stesso tutorato: a condizione che si scelga di far lavorare in gruppo studenti di livelli diversi e che
hanno acquisito qualità e competenze diversificate 9.
2. Nuove epistemologie professionali
La ricerca curata da C. Coggi, sulla base delle indagini sperimentali e quasi sperimentali condotte
presso l'Università di Torino, ha il grande merito di prendere in esame come aspetto centrale per
valutare la qualità del lavoro universitario l'apprendimento, prima e più dell'insegnamento. Il
concetto di competenza, a parere della curatrice, porta a sintesi, nel dibattito attuale, l'orientamento
docimologico prevalente. Se il fine generale di ogni azione educatrice è il raggiungimento della
maturità umana: apprendere a vivere e a operare «da uomini»; lo studio universitario, considerato
nel suo aspetto di lavoro professionalizzante, ha il fine determinato di formare persone competenti
nel proprio ambito. Ecco come l'Autrice definisce, in prospettiva operativa, questo concetto: la
competenza è l'acquisizione di «un sistema di conoscenze, concettuali o procedurali, organizzato in
schemi operativi [o reti o piani], finalizzati a identificare e risolvere una famiglia di problemi con
un'azione specifica»10.
Altro merito non secondario della ricerca è poi quello di badare non solo agli aspetti
quantitativi, ma valutare anche adeguatamente la qualità del lavoro universitario; movendosi in una
prospettiva docimologica complessiva che è quella della «evaluation»: un certo stile di
C. Coggi, «Valutare gli studenti», op. cit., pp. 19-44.
Cfr. R. Trinchero, «La valutazione della formazione integrata distanza-presenza», in C. Coggi (a cura di), op. cit., pp.
241-266; E. Torre, «Il tutorato in università», in C. Coggi (a cura di), op. cit., pp. 99-128.
10
C. Coggi, «Valutare gli studenti», op. cit., p. 41.
8
9
apprendimento è sempre strettamente connesso ad aspetti della personalità di un soggetto; così
come esso esprime e insieme implementa stili esistenziali corrispondenti («omologhi»).
Se, nello studio universitario, il lavoro consiste solo nell'immagazzinare i dati e collegarli in
modo estrinseco, esso dice di un apprendimento puramente ricettivo e meccanico ed esprime una
personalità per lo più passiva, che tende a reificare ciò che incontra. Se invece, nell'apprendimento,
la prestazione è problem-solving, ossia avviene per scoperta, esso è «meaningful learning»:
significa che lo studio è vivo, l'assimilazione è organica e l'insieme delle conoscenze possedute da
un soggetto formano gradualmente la sua matrice personale, in modo affatto originale e dinamico.
Ciò significa una personalità attiva e creativa, che tende ad assumere un atteggiamento critico e a
non dare mai per scontato di aver compreso una volta per tutte quanto si va scoprendo 11.
Il volume non ha dedicato alcun capitolo che sia interamente consacrato ad una analisi
specifica delle attività degli studenti nei laboratori e a quelle svolte durante i tirocini. Reputo che
un'indagine ad hoc e una valutazione di questi momenti, qualificanti in un curricolo integrato,
avrebbe permesso di mettere «allo specchio», per ricordare il titolo del libro, valore e limiti del
lavoro universitario come percorso professionalizzante. Peraltro, ci troviamo qui di fronte ad un
aspetto non secondario, che ha acquistato nel dibattito pedagogico più recente rilievo oggettivo e
tutta una caratteristica centralità.
Vi insiste opportunamente L. Fabbri nel suo recente volume Comunità di pratiche e
apprendimento riflessivo; con riferimento, in particolare, ai testi di J. Lave e di É. Wenger, l'Autrice
prende in esame tutte le conseguenze che ha avuto e può avere la «svolta riflessiva» nel pensare le
nuove epistemologie professionali. Il testo pone al centro della sua analisi le categorie di «comunità
di pratica», di «apprendistato» e di «comunità di ricerca»; non credo che, per pensare
adeguatamente lo studio universitario come lavoro professionalizzante, si possa prescindere da esse,
e, in generale, dalla prospettiva della «formazione situata» 12.
L'affermazione fondante di questa impostazione è che nei più diversi contesti lavorativi sia
possibile realizzare processi di sviluppo professionale e di crescita organizzativa, «attraverso
dispositivi riflessivi». La prima condizione di possibilità è allora di valorizzare, come elemento
rilevante primario, il ruolo della pratica nella costruzione delle conoscenze. Si tratta poi, in secondo
luogo, di concepire ogni azione formativa come «azione situata», in cui sia possibile apprendere
attraverso l'esperienza condotta in prima persona in contesti organizzati, grazie alla riflessione su di
essa. Tutti i processi di apprendistato, in terzo luogo, come nel caso dei tirocini e in qualche modo
anche nei laboratori dei corsi di laurea delle facoltà di Scienze della formazione, a titolo speciale
Ibid., pp. 39-44.
L. Fabbri (2007), Comunità di pratiche e apprendimento riflessivo. Per una formazione situata, Carocci, Roma, pp. 9
sgg.
11
12
vanno considerati processi di apprendimento. Da ultimo e sinteticamente, è nelle comunità di
pratiche che si possono formare delle autentiche comunità di ricerca 13.
In generale, la prospettiva dell'«apprendimento situato» di Lave e Wenger implica una
contestualizzazione storico-sociale dei processi di costruzione delle nostre conoscenze e di quelli di
formazione delle professionalità. Le università pertanto vanno pensate come comunità di ricerca e
insieme come comunità di pratiche; né si può «astrarre» e tenere separato il percorso universitario
dagli altri ambienti formativi, interni ai nostri mondi della vita, oggi in primis le comunità dei pari e
le platee virtuali. Ci troviamo di fronte ad una prospettiva che implica una vera e propria
«descolarizzazione» del lavoro intellettuale; non semplicemente perché le esperienze lavorative
diventano esse stesse risorse per la formazione della persona, ma soprattutto in ragione di una
inedita centralità della pratica: ora intesa spazio sociale e fisico di costruzione del sapere, adeguato
contesto epistemologico e storico 14.
Parlare di contesti lavorativi significa concepire i luoghi di lavoro, le aziende, come soggetti
economici e nello stesso tempo luoghi di umanizzazione. Così come fare riferimento alle esperienze
in tutte le forme che interessano il soggetto, significa tenere nel dovuto conto i saperi diffusi nei
suoi ambiti di vita: aiutandolo a tematizzare i curricoli impliciti, portando ciò che pure in qualche
modo gli è noto sul piano della conoscenza riflessa. Comporta, relativamente al lavoro da svolgere
in università, una vera e propria rottura epistemologica: implica il passaggio dallo studente che
apprende «in solitudine» all'«apprendimento come processo di partecipazione al mondo sociale e
culturale»; in breve, alla diade docente-discente si sostituisce un più vasto «campo d'attori» 15.
Peraltro, anche dalla ricerca che ho scelto come punto di avvio per la mia riflessione emerge
una situazione dello studio e del lavoro universitario, caratterizzati per lo più, in senso statistico, da
insegnamenti decontestualizzati e da saperi deprofessionalizzanti. Allora, come scrive B. Rossi
applicando la nuova epistemologia professionale a questo problema, una riforma dell'università che
sia adeguata alle esigenze della società dell'era post-industriale esige, innanzitutto, di guardare più
ai processi dell' apprendimento che a quelli dell'insegnamento; secondo, di costruire dei corsi di
studio finalizzati a figure professionali capaci di inserirsi nel mondo lavorativo; terzo, di pensare
come centro dell'impresa universitaria, lo studente «critico e costruttivo»: segnato da una cultura
«intraprendente», vero e proprio «self directing learner»16.
La riforma deve essere dunque pensata pedagogicamente, perché lo studio possa risultare
lavoro professionalizzante. Essa deve avere quali suoi punti fermi l'obiettivo, in primo luogo, di
Ibid., pp. 113 sgg.
Cfr. J. Lave, E. Wenger (2006), L'apprendimento situato. Dall'osservazione alla partecipazione attiva nei contesti
sociali, tr. it., Erickson, Trento.
15
L. Fabbri, op. cit., pp. 15 sgg.
16
B. Rossi (2008), «La costruzione dell'identità professionale. Impegni per l'università», in Fabbri , L., Rossi, B. (a cura
di), Franco Angeli, Milano, pp. 39-44.
13
14
formare studenti – meglio, studiosi - definiti dalla propensione ad apprendere sempre, secondo un
progetto formativo che abbia come ideale regolativo quello dell'apprendimento permanente;
l'obiettivo, in secondo luogo, di educare alla formazione di una fisionomia personale, in cui il sé
professionale possa organicamente integrarsi con il sé autentico; l'obiettivo, da ultimo, di maturare
una adeguata cultura del valore del lavoro nella storia umana e nell'esistenza personale 17.
3. Il lavoro scientifico come carriera morale
Lo studio universitario non può però esser pensato solo con queste categorie, qualcosa di essenziale
che lo costituisce nella sua proprietà resterebbe consegnato all'oblio. Scelgo, per articolare il mio
pensiero, di assumere come interlocutore privilegiato il testo della celebre conferenza La scienza
come professione che, come è noto, Max Weber tenne a Monaco di Baviera, nell'autunno del 1917.
È in essa che troviamo contenuta, presente e dominante, la convinzione che la ricerca scientifica sia
una carriera morale: come tale, esige la conquista e il possesso di un atteggiamento di onestà
intellettuale e di probità, che rendono lo studio un impegno di vita, una «chiamata» speciale, nel più
ampio cammino di formazione personale del sé 18.
È veramente interessante per far crescere la nostra riflessione sul tema sostare su questo testo
di Weber; in particolare, sulla sua convinzione che lo studio, e proprio quando viene inteso come
lavoro professionale, esige che il soggetto acquisisca ed eserciti delle virtù che sono, come cercherò
di mostrare, tanto dianoetiche quanto etiche. Non trascuro il fatto che Weber parla di scienza e di
scienziato, nella sua conferenza, mentre la nostra riflessione è rivolta piuttosto allo studio
universitario, pertanto alla professione dello studente universitario. Reputo però che chi studia
anche solo con un minimo di professionalità, è chiamato a compiere delle operazioni, conoscitive e
pratiche, che presentano un'analogia percepibile con evidenza, con quelle dello scienziato; pertanto,
quando il lavoro è vissuto e inteso in modo autentico, lo studente è chiamato ad essere in qualche
modo uno scienziato, o, anche e soprattutto nel senso prima semantizzato, uno studioso.
La conferenza divenne un piccolo libro e in esso, con l'avvio del discorso, leggiamo che
Weber principalmente si propone di rispondere alla questione relativa alle condizioni, interiori ed
esteriori, che rendano possibile intendere l'attività scientifica una professione. In realtà però,
iniziando la riflessione, egli impegna subito buona parte del suo argomentare nel tentativo di
elaborare una risposta ad un altro grave problema: come, in un mondo che ormai appare
17
18
Ibid., pp. 52-59.
Cfr. M. Weber (2008), La scienza come professione, trad. it. con testo ted. a fronte, Bompiani, Milano, pp. 75-83.
«disincantato», debba caratterizzarsi un discorso scientifico, che è e vuole essere qualitativamente
diverso rispetto alle semplici opinioni.
Un ragionamento rigoroso conduce il nostro Autore a definire la scienza «azione razionale
rispetto allo scopo»; essa è distinta per questo da tutti gli altri tipi di azioni umane e in quanto tale
rappresenta il comportamento oggettivamente, massimamente, razionale. Peraltro, proprio il trionfo
e la supremazia di questo comportamento, avvenuto nella modernità occidentale, ha prodotto come
risultato estremo il «disincantamento del mondo», il superamento delle fedi, delle credenze; in
sintesi, il tracollo di una visione mitica (appunto, non razionale) del reale 19.
Per Weber l'atteggiamento oggettivamente razionale è una scelta che un soggetto compie, così
accade del resto per lui di fronte a qualsiasi valore: questo, oggetto di un giudizio di apprezzamento
positivo e di assenso, è accettato più per una nostra personale decisione libera, che per un
riconoscimento oggettivo. È la condizione che s'impone nel mondo disincantato, che è anche e in
modo speciale il mondo del «politeismo dei valori», degli dèi scesi in terra a lottare tra loro. La
scelta per la ragione scientifica può essere però motivata da criteri che sono comunicabili e possono
essere da tutti condivisibili: il primo è il rigore, che rende le sue affermazioni controllabili; l'altro è
l'oggettività, che per Weber coincide con la intersoggettività, la condivisione di significati e / o di
procedure all'interno della comunità scientifica; da ultimo, la «degnità», l'attenzione rivolta ad
aspetti del realtà che, nell'indefinita complessità dell'universo, appaiono davvero degni di esser
conosciuti20.
Ora, è riflettendo sulle condizioni oggettive e sulle disposizioni soggettive della professione
dello scienziato che probabilmente egli scrive le cose di maggior rilievo per il nostro tema, anche
laddove non tutto appare sempre condivisibile. A proposito delle prime, egli parla infatti della
necessaria «chiarezza» e della «avalutatività» di un discorso che ambisce ad essere «di tutt'altro
genere» rispetto alla opacità e soggettività delle opinioni, apprese per lo più passivamente nei
mondi della nostra vita e legate innanzitutto a valori soggettivi, comunque ad interessi pratici o
strumentali. In relazione alle seconde, Weber parla di attenzione specifica rivolta ad aspetti specifici
del reale con logiche adeguate, termini coi quali egli significa la qualità di un atteggiamento
specialistico nello studio del reale. Scrive inoltre della passione dello scienziato, del necessario
talento e della particolare genialità posseduta in un determinato ambito; dice, da ultimo, in pagine
non prive di commozione, della sua fondamentale onestà intellettuale. Sono soprattutto queste
ultime, le condizioni soggettive, che fanno della scienza una «chiamata», forse si dovrebbe scrivere
una «vocazione» (come peraltro proprio il termine tedesco da lui impiegato suggerisce) 21.
Ibid., pp. 83-91.
Ibid., pp. 85-89.
21
Il titolo originale suona infatti Wissenschaft als Beruf; e, come è noto, il termine tedesco Beruf, professione, ha
un'evidente affinità con Berufung, vocazione. Weber fa ricorso, in questo testo, alla parentela linguistica per evocarne
19
20
Si possono legittimamente avanzare delle riserve critiche a proposito dell'epistemologia
weberiana presentata in abbozzo in questo suo scritto: essa, per limitarci ad una sola osservazione,
oggi a noi appare a tratti timorosa nel dire della «forza» della scienza e nello stesso tempo
tentennante nell'accennare alla sua «debolezza» 22. Merita però di esser ripresa e rimeditata questa
sua ultima lezione, la certezza e le motivazioni che la sostengono, quando egli parla di scelta etica e
di «chiamata». Non trovo distanti queste pagine da altri testi, generati in contesti sensibilmente
diversi, ma che è giusto qui citare per il peso che hanno avuto nella storia dell'educazione, nella
formazione intellettuale di alcune generazioni di studenti universitari; anch'essi intendono lo studio
come lavoro formativo della persona, quando sostenuto da un atteggiamento autenticamente etico e
veritativo.
Ho in mente, nella fattispecie i piccoli libri di A.-D. Sertillanges e di J. Guitton e, più fresco di
stampa, quello di E. Salmann23. È vero, sono testi chiaramente caratterizzati, appartengono alla
storia del personalismo cristiano e ad una tradizione che definirei sapienziale dello studio e del
lavoro intellettuale. Restano però libri vivi, che meritano di essere ripresi perché possono aiutare a
pensare, sulla scia di Weber, lo studio come cultura, lavoro formativo della persona su di sé, e la
professione intellettuale come «vocazione» e responsabilità sociale.
Sertillanges, riflettendo sulla vita intellettuale, la sua anima, le sue condizioni e i suoi metodi,
ne parla come «arte di vivere secondo lo spirito», che insegna a comunicare con tutti gli uomini,
attraverso la ricerca della verità24. Guitton parla invece più spesso del diletto che muove la mente di
uno studioso che, leggendo scrivendo comunicando, apprende a diventare discepolo e insieme
maestro di sé; la mente è mossa da ciò che l'attrae, da un bene che si presenta alla persona come
desiderabile e al quale cerca pertanto di unirsi25. Salmann parla dello studio come una lunga «ascesi
dell'intelligenza»; esso, quando è bene inteso, è costitutivamente dialogico: è comunicazione con sé
stessi e costante scoperta di aspetti del nostro secretum personale; è insieme ricerca comune del
vero con gli altri, con tutti gli uomini. Crea contatti di prossimità nella distanza; aiuta a scoprire
parentele nuove, di tipo elettive; ci dona la capacità di un rapporto obiettivo, di «giustizia» con ogni
aspetto del reale. Infine, al pari della musica e della vita spirituale in senso proprio, ci fa diventare
sensibili all'essenziale, accostandoci al mistero e alla sua ineffabilità 26.
una semantica e concettuale.
22
Come opportunamente sottolinea, nella sua «Introduzione», il curatore dell'edizione qui citata della conferenza
weberiana, P. Volonté (in M. Weber, op. cit., pp. 45-47).
23
Cfr. A.-D. Sertillanges (1966²), La vie intellectuelle. Son esprit ses conditions ses méthodes, Éditions du Cerf, Paris; J.
Guitton (1970), Il lavoro intellettuale, tr. it., Alba, Paoline; E. Salmann (2009), Scienza e spiritualità. Affinità elettive,
Edizioni Dehoniane, Bologna.
24
A.-D. Sertillanges, op. cit., pp. 5-17.
25
J. Guitton, op. cit., pp. 7 sgg.
26
E. Salmann, op. cit. , pp. 40-49.
Credo che si possa sintetizzare questa posizione che sto descrivendo, affermando che lo studio
come lavoro culturale esige e incrementa un'attitudine spirituale; è il senso dell'indisponibilità
dell'essere, che è ineffabile ma che forse per questo esige il massimo di esattezza – quel rigore, il
controllo e l'oggettività di cui parla Weber.
4. Lo studio come ascesi spirituale
Ho avuto consuetudine, nel tempo, con gli autori e con i testi della fenomenologia, in particolare
con quelli del «maestro» Edmund Husserl. Da questa frequentazione ho appreso innanzitutto un uso
critico della ragione, il cui nucleo centrale è una sorta di ascesi dell'intelligenza e della volontà;
potrebbe essere chiamato semplicemente il metodo per educare, in primo luogo, un'attenzione
affinata ed esatta rivolta ad ogni ambito del reale, percepito sempre come infinitamente complesso;
e, in secondo luogo, la docilità, la disposizione a lasciarsi istruire «dalle cose stesse» e ad
apprendere sempre.
Se tentiamo di approfondire questo metodo, possiamo trovare una lezione sul senso della
specifica attitudine spirituale che il lavoro intellettuale può esprimere e far crescere: il senso di ciò
che lo rende processo formativo dell'attenzione e della docilità, virtù insieme dianoetiche
(dell'intelligenza, appunto) ed etiche (del volere, ma forse si potrebbe scrivere senz'altro del cuore).
Parlando di virtù, intendo affermare che il soggetto, vivendo lo studio anche come lavoro su di
sé, conquista, di fronte alla realtà, uno sguardo nuovo, in qualche modo inedito, che è atto
eminentemente personale, vigile presenza di sé a sé. Disposizione nuova, anche se non si tratta di
un atteggiamento innaturale, contrario alla nostra natura; tutt'altro: orientata dal metodo e
dall'educazione così come li intende la fenomenologia, la riflessione lo scopre piuttosto come modo
d'essere «originario», confacente a ciò che è proprio della persona, quando si pone in una relazione
autentica con sé, con l'altro, con gli altri (e, per chi mette a tema l'intenzionalità assoluta costitutiva
della coscienza, con l'Altro)27.
La fenomenologia parte dalla convinzione, presente già alla nostra riflessione immediata con
una certa evidenza, che la quasi totalità degli uomini, innanzitutto (in senso temporale) e per lo più
(in senso statistico), sono consegnati ad un modo di esistere, pertanto di pensare e di agire, che è
inautentico, ossia non propriamente umano. Ciascuno riceve infatti dai mondi della vita ai quali
appartiene una certa comprensione dell'esistenza e dell'essere, con cui interpreta già da sempre la
realtà che vive e in cui s'imbatte. Si tratta delle nostre certezze «spontanee», ma non si tratta di
27
Cfr. A. Bellingreri (2007), Scienza dell'amor pensoso. Saggi di pedagogia fondamentale, Vita e Pensiero, Milano.
convinzioni che abbiamo elaborato in proprio, con uno studio e una riflessione personale. Le
abbiamo apprese in situazioni e attraverso incontri che, innanzitutto e per lo più, ci hanno trovati
«oggetti», ossia in un atteggiamento passivo, piuttosto che «soggetti», persone che pensano in
prima persona la realtà, e che maturano pertanto un atteggiamento di fondo che consenta di esistere
come protagonisti, attori e forse anche un po' autori, della propria vita. È, in sostanza, quella
condizione che noi stessi spesso siam soliti denotare con l'espressione «lasciarsi vivere»; e che si
traduce, tra l'altro, proprio in quelle modalità inautentiche, meccaniche e ripetitive, d'intendere lo
studio, sopra prese in esame.
Un evento speciale che si percepisce immediatamente carico di significato; un incontro
«magisteriale», soprattutto perché sembra promettere un certo compimento e una vita «più viva»,
può destarci dal letargo dell'esistenza inautentica. Si può sperimentare allora una gioia prima
sconosciuta, forse perché inespressa: è il gaudio dell' esser desti, poter vivere trovando e scegliendo
un significato delle cose che pensiamo o facciamo. È la scoperta della dimensione di un'esistenza
autentica, vissuta in prima persona, che si presenta desiderabile nella misura in cui appare una vita
gustosa, sapida o, come detto prima, «più viva». È l'inizio della personalizzazione dell'esistenza,
forse l'avvenimento più sorprendente che possa verificarsi in rerum natura: quell'esercizio attivo ed
autonomo dell'essere ricevuto con l'inizio della nostra vita fisica, che ci rende appunto persone
vere28.
Per la fenomenologia si tratta di una vera e propria «conversione», paragonabile a quella
religiosa. È in primo luogo una conversione dell'intelligenza: questa infatti appare ora ingombra di
concetti, affermazioni e, in generale, di convinzioni che abbiamo ricevuto senza averle saggiate o
pensate veramente. Costituiscono il nostro mondo e quello che possiamo chiamare il nostro
vocabolario personale; non possiamo far altro, nella nostra vita quotidiana che partire da esso e
affrontare la realtà facendo leva su ciò di cui siamo certi. Ma – ecco ora la domanda inedita che ci si
può presentare – ciò di cui siamo certi è poi anche vero? Come stanno realmente o veramente le
cose?
Il dubbio è preludio spesso alla disperazione, quando ad esser investiti da queste domande
sono certezze che hanno avuto ed hanno un peso nella nostra vita morale. Se troviamo il coraggio di
sopportare questo peso e decidiamo di andare alla ricerca del vero, in ogni momento della nostra
esistenza, ma innanzitutto nello studio, possiamo sperare di sperimentare una dimensione nuova,
più umana dell'esistenza. In particolare, col lavoro intellettuale, si tratta di saper mettere tra
parentesi tutto quello che sappiamo, non perché si possa diventare d'un tratto ignoranti con un colpo
28
Cfr. Id., La cura dell'anima. Profili di una pedagogia del sé, Vita e Pensiero, Milano, 2010.
di spugna; semplicemente perché decidiamo di non dar più eccessiva importanza alle cose che
sinora abbiamo reputato «ovvie» e «naturali».
L'intelligenza, con lo studio, è chiamata a convertirsi per saper riconoscere ciò che le s'impone
in ragione della sola sua evidenza, quando scegliamo di fare esperienza diretta di ogni cosa. È una
vera e propria ascesi e l'allieva e prima assistente di Husserl, Edith Stein, la descrive dicendo di un
ritorno al candore dell'infanzia: saper aprire gli occhi di fronte alla realtà quasi noi vedessimo il
mondo e le cose che stiamo studiando per la prima volta; così in effetti accade al bambino che si
desta alla vita cosciente, attratto da ciò che gli si offre alla vista e che ora apprende a conoscere e a
riconoscere29.
Ma è una ascesi che tocca anche il volere: ora sappiamo che nella dimensione dell'esistenza
inautentica, siamo per lo più mossi da interessi pratici, misuriamo la convenienza a noi di ciò che
incontriamo, innanzitutto nel senso dell'utilità che qualcosa o qualcuno possono avere per il
raggiungimento dei nostri fini; di tal guisa, le cose e le persone, nonostante le buone intenzioni,
possono diventare tutte semplici mezzi. La conversione fenomenologica implica l'ascesi della
volontà perché ora si desidera e si sceglie di esser mossi, nella nostra ricerca, dalla conquista del
vero, non dal raggiungimento di un interesse e dal risultato efficace perché utile. È l'inizio di un
cammino in cui vogliamo che la ricerca sia definita dalla volontà di verità, piuttosto che dal mito
dell'efficacia (dell'efficienza) o dalla volontà di dominio (del potere).
Reputo si debba aggiungere che qui si tratta della volontà attratta e mossa dalla percezione
del bene; non può esser diversamente: il volere è questa tensione consapevole, più o meno libera, di
quanto, a ragione o a torto, è percepito come un bene, in sé e/o per me. E qui si presenta
desiderabile un modo di conoscere e un atteggiamento esistenziale qualitativamente (per qualità
umana) differente e oggettivamente preferibile rispetto alle semplici opinioni, al quieto «lasciarsi
vivere» e ad un opaco «esser pensati»; desiderabile, in breve, perché intuiamo possa trattarsi di quel
«vivere bene», che stimiamo migliore del semplice vivere 30.
Dagli autori del metodo fenomenologico apprendiamo che la vita intellettuale e l'ascesi
spirituale che implica sono percorsi accidentati, non proprio facili. Per parte mia, tendo a credere
che essi diventino in qualche modo improbabili, se non accade mai d'incontrare qualcuno (o
qualcosa, a volte anche solo un testo) che ci attragga per la sua magisterialità: mettendoci in
movimento in ragione del suo esemplare rapporto con la verità, che l'intelligenza ricerca e alla
quale il volere vuole unirsi.
29
E. Stein (1998), Introduzione alla filosofia, tr. it., Roma, Città Nuova, p. 36.
Cfr. L. Mortari (2008), A scuola di libertà. Formazione e pensiero autonomo, Raffaello Cortina Editore, Milano, pp.
XI-XVIII. Cfr. anche R. De Monticelli (2004), L'allegria della mente. Dialogando con Agostino, Bruno Mondadori,
Milano, pp. 1-20.
30
Questa relazione esemplare è la relazione docetica, con la quale qualcuno, che ora siamo
disposti a riconoscere come un maestro, ci comunica una verità, anche solo un frammento o una
traccia, relativamente al «cantuccio di realtà» che coltiviamo. È un'esperienza speciale, quella che
rende lo studio una «libera azione felice», così Aristotele la definiva: ora l'aspetto del reale cui
siamo applicati ci si offre quasi fosse un dono - proprio come un dono. Con il linguaggio della
fenomenologia si dice che è la «donazione del senso»: la realtà ha un senso che è offerto
all'intelligenza; e questa, studiando, lo coglie e cerca di esprimerlo attraverso la parola, il primo
potere di significazione di cui è dotata 31.
Mi si potrebbe obiettare che trovare le parola adeguate per intendere il reale, la parola vera che
è il nome proprio di ogni realtà, è piuttosto compito dei poeti. Rispondo che non ci sarebbero né
poeti né parole vere, se l'intelligenza non si rendesse umile: attenta, che significa disposta ad
ascoltare; e docile, disposta a lasciarsi istruire, adeguandosi a ciò che appare e che, mostrandosi, si
dona e si dice. Un dono, che è il senso dell'essere delle cose, è offerto; ma questa offerta non si dà,
se non c'è un donatario, per così dire, un soggetto che quel dono è disposto a ricevere e a custodire.
Il grande Paul Claudel forse per questo ha scritto della percezione della verità come una «conaissance», una comune nascita dell'oggetto e del soggetto: dell'oggetto, che si mostra per la sua
intrinseca intelligibilità o, metaforicamente, per la sua luce; e del soggetto, che quel senso intende,
grazie all'intelligenza, che alla luce è connaturale, e grazie alla parola che lo significa in una forma
comunicabile (in qualche aspetto luminosa) 32.
Purtroppo i nostri concetti scientifici, frutto spesso di durissima fatica, sono in ultima istanza
inadatti a comprendere qualsivoglia aspetto del reale, così complesso e sempre così traboccante di
significato. Ogni aspetto del reale si tiene unito alla totalità: presenta una relazione reale alla totalità
del reale, ciò che lo rende sempre carico di mistero. I nostri concetti perciò sempre, mentre rivelano,
un po' anche nascondono le cose che intendono. Sembra poi perdano del tutto il loro senso,
diventando quasi fantasmi che volteggiano nel vuoto, se restano isolati dal contesto originario in cui
sono state elaborati per la prima volta. Nello studio meccanico e «reificato» diventano proprio
lettere morte, se non sono riferite allo spazio esistenziale e al contesto di lavoro in cui sono stati
formulati per la prima volta; è solo il loro specifico «riempimento intuitivo» che ce li fa percepire
nella loro «giustezza».
In generale, bisogna aggiungere, lo studio malinteso ci lascia in eredità parole che rischiano di
restare in-sensate, senza senso, se noi non sappiamo innanzitutto e originariamente ascoltarle, se il
silenzio non precede la parola: se ci manca, in breve, la virtù etica e dianoetica dell'attenzione al
31
P. Ricoeur (1986), À l’école de la phénoménologie, Paris, Vrin, pp. 7-18. Cfr. anche E. Husserl, Idee per una
fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica [I-II-III] (19652), tr. it., Einaudi, Torino.
32
H. U. von Balthasar (1978), Gloria. Un’estetica teologica 1. La percezione della forma, tr. it., Jaca Book, Milano,
passim.
reale. È questa virtù, infatti, nella logica del discorso qui svolto in dialogo con la fenomenologia,
che ci rende donatari, capaci di accogliere il senso quando ci si offre proprio come un dono.
Si può affermare che oggi, tra gli studenti universitari e nel modo di vivere il lavoro culturale,
questa logica e questo discorso siano percepibili nella loro significatività originaria? Non parlano
molti autori (spesso proprio gli epigoni della fenomenologia di Husserl), di «nascondimento del
senso» nella cultura oggi prevalente segnata da un conseguente disorientamento esistenziale? di
esistenze opache, fratte e incompiute, segnate piuttosto dalla dominanza di una percezione culturale
«relativistica» dei significati del reale? In effetti, per portare un solo esempio, le indagini sulla
condizione giovanile nel nostro Paese «all'inizio del nuovo secolo», ci parlano della prevalenza di
una disposizione soggettivistica e di conseguenza di un atteggiamento individualistico di fronte al
reale e nella percezione del senso: non è certo - così si ragiona - che si possa andare oltre ciò di cui
si è certi; allora resta solo ciò di cui siam certi – ciò di cui siam certi è la sola verità 33.
Anche l'indagine empirica da cui ha preso avvio la riflessione che ho proposto, ci conferma
che, innanzitutto e per lo più, nei nostri atenei, lo studio non è inteso e vissuto come lavoro
autenticamente culturale, momento di formazione dell'attenzione come virtù. Questo giudizio,
questo deficit mi pare renda ancora più povero un tempo già così povero. Credo, per parte mia, che
la ragione di fondo sia la mancanza di maestri autentici del senso connesso al lavoro culturale:
testimoni del rapporto essenziale tra vita intellettuale e attitudine spirituale, nell'investigazione
scientifica del reale. Avere dei maestri è una fortuna ed è una grazia; anche se, bisogna aggiungere,
è forse insieme un merito: i maestri dobbiamo in qualche modo meritarceli, apprendendo a
riconoscerli e amando il loro aiuto.
È la docilità, virtù etica e dianoetica dello studioso, volontà di lasciarsi definire dal desiderio
d'apprendere sempre, afferrando la mano che ci viene offerta e imparando a ricevere; un'altra faccia
dell'attenzione e un grande gesto di libertà liberante.
33
V. Mancuso (2009), La vita autentica, Raffaello Cortina Editore, Milano, pp. 141-150.
Orientamenti bibliografici
Balthasar, (Von), H. U. (1978), Gloria. Un’estetica teologica 1. La percezione della forma, tr. it.,
Jaca Book, Milano.
Bellingreri, A. (2010), La cura dell'anima. Profili di una pedagogia del sé, Vita e Pensiero, Milano.
Buzzi, C., Cavalli, A., De Lillo, A. (a cura di) (2007), Rapporto giovani. Sesta indagine dell’Istituto
IARD sulla condizione giovanile in Italia, il Mulino, Bologna.
Coggi, C. (a cura di) (2004), Una facoltà allo specchio. Contributi di ricerca in una università che
cambia, Pensa Multimedia, Lecce.
De Monticelli, R. (2004), L'allegria della mente. Dialogando con Agostino, Bruno Mondadori,
Milano.
Fabbri, L. (2007), Comunità di pratiche e apprendimento riflessivo. Per una formazione situata,
Carocci, Roma.
Grimaldi, R. (2001), Valutare l'università, UTET, Torino.
Guitton, J. (1970), Il lavoro intellettuale, tr. it., Alba, Paoline.
Husserl E., Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica [I-II-III] (19652),
tr. it., Einaudi, Torino.
Lave J., Wenger, E. (2006), L'apprendimento situato. Dall'osservazione alla partecipazione attiva
nei contesti sociali, tr. it., Erickson, Trento.
Mancuso, V. (2009), La vita autentica, Raffaello Cortina Editore, Milano.
Mortari L. (2008), A scuola di libertà. Formazione e pensiero autonomo, Raffaello Cortina Editore,
Milano.
Ricoeur, P. (1986), À l’école de la phénoménologie, Paris, Vrin.
Rossi, B. (2008), «La costruzione dell'identità professionale. Impegni per l'università», in Fabbri ,
L., Rossi, B. (a cura di), Franco Angeli, Milano, pp.19-73.
Salmann, E. (2009), Scienza e spiritualità. Affinità elettive, Edizioni Dehoniane, Bologna.
Sertillanges, A.-D. (1966²), La vie intellectuelle. Son esprit ses conditions ses méthodes, Éditions du
Cerf, Paris.
Stein E. (1998), Introduzione alla filosofia, tr. it., Roma, Città Nuova.
Weber, M. (2008), La scienza come professione, tr. it. con testo ted. a fronte, Bompiani, Milano.