Agire (in)differente: il coraggio di pensare. “Entro in classe e come

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Agire (in)differente: il coraggio di pensare. “Entro in classe e come
Agire (in)differente: il coraggio di pensare.
“Entro in classe e come tutti i giorni sento il peso degli occhi puntati addosso, dei
sussurri maligni sul mio modo di vestire...cerco un appiglio nel volto di qualcuno che
si possa accorgere di me, ma mi sento invisibile”.
Questa è una scena che si ripete ogni giorno nelle nostre scuole.
Il fenomeno del bullismo si realizza nel momento in cui la maggior parte degli
studenti sembra non volersi fare carico della sofferenza che provano alcuni dei loro
compagni. Sarebbe opportuno valutare le motivazioni che inducono a tale
comportamento d’indifferenza. Alcune di queste potrebbero derivare dalla mancanza
di sensibilità nei confronti di chi soffre o dalla paura di essere coinvolti e sottoposti, a
nostra volta, ad atti di bullismo. Di fronte a tali motivazioni, la persona può scegliere
di lasciare le cose come stanno e permettere così al male di manifestarsi nell'azione
violenta contro la vittima oppure intervenire in prima persona. Anche nel contesto
scolastico, gli effetti dell’indifferenza si manifestano in modi diversi a seconda della
gravità della situazione: un ragazzo che non denuncia un compagno di classe mentre
copia durante un compito non è equiparabile ad una situazione nella quale chi assiste
ad un atto di bullismo tace.
Partendo dal fenomeno del bullismo e dal nostro contesto quotidiano, possiamo
allargare il nostro orizzonte e riflettere attraverso alcune parole di Gramsci.
“Odio gli indifferenti […], l’indifferenza è abulia , è vigliaccheria, non è vita. Perciò
odio gli indifferenti.
L'indifferenza è il peso morto della storia.[…] Opera passivamente, ma opera”.
Guardando al passato, possiamo evincere che comportamenti del genere sono sempre
esistiti anche se in contesti e con effetti diversi, come è stato nel periodo della
Germania nazista, quando l'indifferenza ha permesso che si perpetuassero violenze
indicibili nei confronti degli ebrei.
I carnefici e coloro che hanno fatto finta di non vedere, che sono stati indifferenti,
sono colpevoli allo stesso modo? Forse colpevoli allo stesso modo no, ma
sicuramente colpevoli. E questo vale sia se riflettiamo sulla Shoa, sul bullismo o sui
conflitti che oggigiorno si verificano nel mondo.
Se in questi contesti l’indifferenza è una caratteristica comune, è altrettanto vero che
il propagarsi del male avviene spesso attraverso meccanismi semplici e quasi
inconsapevoli, come mette in evidenza Hannah Arendt nel suo libro “La banalità del
male”.
L’autrice, nata da una famiglia ebraica, partecipò come giornalista al processo di
Adolf Eichmann, gerarca nazista processato per crimini di guerra nel 1960 in Israele.
Seduto al banco degli imputati, Eichmann si definisce non colpevole in quanto ha
compiuto il suo lavoro nel miglior modo possibile: “Sono stato un buon capo delle SS
e ho sempre obbedito, il mio onore si chiama fedeltà”. Dal processo emerge il
complesso di inferiorità che egli provava rispetto al suo comandante, difatti il suo più
grande sogno era quello di essere ricevuto almeno una volta da Hitler e di sentirsi
ringraziare.
È tanto evidente la consapevolezza dell'inumanità dei compiti svolti da Eichmann,
quanto la soddisfazione nell'aver svolto il suo lavoro nel miglior modo possibile: “Se
di quei 10.000.000 e 300 mila ebrei ne avessimo uccisi 10.000.000 e 300 mila mi
riterrei soddisfatto e direi che abbiamo sconfitto un nemico”.
Un altro esempio lo possiamo trovare nel racconto Vanadio dove Primo Levi descrive
lo scambio epistolare intercorso tra lui stesso, internato ad Auschwitz e impiegato nel
laboratorio chimico di Buna, e Muller, nazista responsabile e suo principale. Muller è
convinto che non ci fosse stato alcun rapporto gerarchico tra lui e Levi.
Muller cerca di “farsi perdonare” spiegandogli quali erano le sue vere intenzioni,
dicendo che l'intera fabbrica di Buna-Monowitz era stata costruita per proteggere gli
ebrei e che egli stesso aveva esplicitamente scelto lo scrittore come suo dipendente
per proteggerlo. Levi scrive che non ricorda niente di amicale nel rapporto con
Muller, fa intendere quanto l'altro avesse rimosso quasi del tutto le brutalità
commesse per crearsi così un “passato di comodo”.
Questo è un processo psicologico di autodifesa, studiato da Freud, che scatta alla
presenza di un comportamento negativo che procura un senso di vergogna,
pentimento e dolore. Tutto questo deriva dalla consapevolezza della colpa che
scaturisce internamente. Si potrebbe spiegare così il comportamento di Muller che,
sentendosi in colpa, si autoconvince di non aver commesso atti inumani e gravi.
Paragonando i comportamenti di Eichmann e Muller si deduce che vi sono due
elaborazioni personali differenti.
Nel primo caso, Eichmann è cosciente delle azioni commesse e rimane convinto della
correttezza delle sue azioni. L'imputato non si sforza di nascondere le sue colpe
perché in esse non trova niente di sbagliato. Siamo di fronte ad un caso di
colpevolezza manifesta ed evidente.
Nel secondo caso, Muller giustifica i suoi comportamenti mascherandoli con azioni
benevole nei confronti di Levi. Questo ci mostra la consapevolezza della sua
colpevolezza e il tentativo di deresponsabilizzarsi dal ruolo e dagli atti commessi.
Si può paragonare il caso di Eichmann all'azione compiuta e diretta da un bullo nei
confronti della vittima. Egli, cosciente dei suoi atti, difende la sua posizione
definendo corretto il suo agire. Come Eichmann, il bullo è mosso da un senso di
inferiorità e insicurezza.
Invece, il caso di Muller è paragonabile all'indifferenza di un membro del gruppo
amicale del bullo che, osservando la scena, non reagisce ma, per paura, lo asseconda
diventando a sua volta complice.
Così Norberto Bobbio: “Un regime di libertà non si crea neppure con le passioni
scatenate, anche se sublimi, ma con la moderazione del giudizio, con il controllo di
sé con la disciplina mentale; e neppure con l’indifferenza ma con la partecipazione
attiva ai problemi del nostro tempo.”
E ancora Gramsci: “Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi da fastidio il
loro piagnisteo da eterni innocenti.
Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e
gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto.
E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover
spartire con loro le mie lacrime.”
Entrambi affermano la necessità di acquisire una consapevolezza e una coscienza che
permetta agli individui di estraniarsi dalle fuorvianze del contesto sociale e che
stimoli a credere e portare avanti gli ideali per cui valga la pena lottare. Hanno
puntato il dito contro l’incapacità di pensare in maniera profonda in relazione alla
realtà che ci circonda, lasciando libera la strada al fluire degli eventi e quindi alla
realizzazione e diffusione del male. Quest’ultimo si propaga anche e soprattutto con
azioni “banali” come quella dell’esecuzione degli ordini. Questo è il punto su cui si
sofferma il pensiero della Arendt.
Il concetto di “banalità del male” è riconducibile all’incapacità di pensare e di
acquisire la consapevolezza delle azioni che quindi vengono svolte in maniera
meccanica. Esse sono dettate esclusivamente da un sistema gerarchico in cui ognuno
di noi potrebbe essere Eichmann: questa prospettiva suscita un senso di terrore e di
impotenza.
La manifestazione del pensiero obbliga l’uomo a riflettere e dare un giudizio
autonomo.
È possibile constatare che l’indifferenza è presente in ogni individuo ed è un
sentimento remoto che con la capacità di pensare è possibile sovrastare.
Urge l’intervento della scuola per favorire un’educazione ai sentimenti allo scopo di
riflettere tutti insieme sulla nostra difficoltà a prendere coscienza degli altri e a farsi
carico del loro dolore.
Elaborato prodotto all'interno del Laboratorio di Scrittura
Classi 4^ e 5^ dell'Istituto Professionale