Prendi la bomba, ti farò ricco
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Prendi la bomba, ti farò ricco
01-10-95 – Prendi la bomba, ti farò ricco Al tramonto, quando è ancora bello prendere l'aperitivo sulla terrazza del Métro per guardare la rada di Papeete che diventa color malva, il "popaa", l'uomo bianco secondo la gentile lingua del luogo, fatalmente finisce per incazzarsi. Intendiamoci: tutti i requisiti promessi dalle agenzie di viaggio sono mantenuti. Il cielo di Tahiti ispira una dolcezza infinita. Il suono dell'ukulele non manca. Le vahiné, ancorché in versione cameriera, con le loro coroncine di fiori sulla testa, sono morbide come quelle dipinte da Gauguin. I palmizi continuano a specchiarsi nelle acque smeraldine della laguna, dove filano silenziose le piroghe regolamentari. E sullo sfondo, la linea frastagliata delle montagne di Moorea, l'isola sorella, conserva tutto il fascino misterioso che aveva inventato Joseph Conrad. E però, cosa c'è appena sotto questa cartolina postale da Mari del Sud? L'aria puzza come a Milano d'inverno, causa inquinamento da traffico automobilistico che, in coincidenza col dolce tramonto australe, provoca imbottigliamenti spaventosi sulla cintura autostradale che corre attorno a Papeete. Le acque delle lagune sono infette, ed è proibito bagnarsi anche se qualche manina furba ha fatto sparire i cartelli dei divieti. "La Dépèche de Tahiti" pubblica in prima pagina la foto a colori di Miss Tahiti, ma in quelle interne l'attualità è fatta di storie di violenza, piccola delinquenza, droga, alcolismo. Le cascate di fiori ricoprono le baracche delle bidonville cresciute sulle alture attorno a Papeete, però non bastano a nascondere la loro realtà di ordinaria miseria urbana. E non si illudano i turisti che possono pagarsi (quasi un milione a notte) un bungalow dell'hotel Moana Beach di Bora-Bora: il fondo sottomarino che ammirano attraverso la tavola di cristallo è illuminato elettricamente e fatto di corallo trapiantato su rocce artificiali. Senza parlare naturalmente di Mururoa. Anzi Moruroa, come la chiamano gli abitanti del luogo. Da Moru, segreto, e Roa, grande. L'isola del Grande Segreto è appena un puntino perso nell'immensità dell'oceano a più di mille miglia da Papeete, e tuttavia ci pensa la televisione via satellite a far arrivare anche sulla terrazza del Métro, e all'ora dell'aperitivo, l'immagine del suo mare che si alza e ribolle quando scoppia la bomba di Chirac. E allora addio paradiso terrestre: quello immaginato dai geografi del Medioevo, che chissà perché l'avevano collocato in questa Terra Australis Nondum Cognita, e poi l'altro idealizzato da Rousseau come patria della sua utopia del Buon Selvaggio. Va a ramengo persino un mito così contemporaneo com'è quello del Club Méditerranée. Tutto ciò che ha fatto la fortuna dei suoi famosi villaggi, dalla vita nei bungalow al pareo, dal tu obbligatorio per far crollare le barriere sociali alla scomparsa del denaro, e persino una certa permissività dei costumi sessuali, tutto questo era stato ispirato dai modelli di vita correnti nelle isole polinesiane prima dell'arrivo dell'atomo. Solo Diderot non si era sbagliato. «Piangete, infelici tahitiani, piangete... Un giorno torneranno a sottomettervi alle loro stravaganze e ai loro vizi. E voi un giorno servirete sotto di loro, altrettanto corrotti, vili, infelici come loro». La citazione è approssimativa? Chiediamo scusa. Il «Supplément au voyage de Bougainville", da cui è tratta, non si trova nelle librerie di Papeete, né viene letto nelle sue scuole, che pure portano l'insegna della République Francaise. Il padre dell'Enciclopedia in colonia è censurato. Questo non significa che proprio tutti i (200 mila circa) "poveri tahitiani" siano disposti a osservare la sua profezia. Quel sabato 9 settembre, dopo la prima esplosione a Moruroa, si è visto cosa sono capaci di fare i successori del Buon Selvaggio. Mezza Papeete buttata per aria, l'aeroporto distrutto. Volavano le molotov, bruciavano le automobili, sorgevano le barricate. Parigi ha dovuto far ricorso alla Legione Straniera, come ai primi tempi della guerra d'Algeria. I capi apparenti della rivolta, quindici sindacalisti, sono stati messi in carcere. Ma il suo vero ispiratore, Oscar Temaru, no. Troppo potente, "Oscar". E non soltanto perché è il popolarissimo sindaco di Faaa, seconda città dell'isola, e nelle legislative del '93 ha raccolto il 43 per cento dei voti nella sua circoscrizione. Da quando è andato all'arrembaggio di Mururoa coi militanti di Greenpeace, è diventato un eroe planetario. I giornali e le televisioni di tutto il mondo lo hanno intervistato e a tutti lui ha mostrato dove tiene il ritratto ufficiale di Jacques Chirac: nel municipio di Faaa, territorio d'oltremare della Repubblica Francese, il presidente sta sull'uscio del gabinetto delle segretarie. Era ancora un ufficiale delle dogane francesi, Oscar Temaru, quando nel 1977 aveva fondato il Fronte di liberazione della Polinesia. Ma con scarso successo. I tahitiani hanno sempre votato seguendo l'onda che monta nella metropoli: a destra, per i gollisti, oggi; per la sinistra prima, nell'81, ai tempi di Mitterrand. Ed è facile capire perché. E' da Parigi che vengono i soldi, e tanti, soprattutto da quando sono soldi maledetti, avvelenati dall'atomo. E' una storia che dura dall'inizio degli anni Sessanta. Cacciati dai deserti dell'Algeria divenuta indipendente, i "farani", i francesi, dovevano trovare un altro luogo per far scoppiare le loro bombe. Questione di "indipendenza nucleare", questione di "grandeur". Al potere c'era il generale De Gaulle. «La Francia non ha né amici né nemici, ma solo interessi», amava ripetere il presidente-monarca. Che per questo era disposto a pagare. «Finiti i problemi finanziari per la Polinesia», annunciò. E per favore, «ne pas mégoter», senza lesinare, precisò, testualmente, quando, il 2 luglio 1966, da una nave al largo di Mururoa poté bearsi dello spettacolo del primo fungo atomico. Solo coi soldi, tanti, la Francia poteva allo stesso tempo pagare il prezzo della fine dell'ultimo paradiso terrestre e rovesciare il corso della storia. E' in quegli anni Sessanta che le altre isole del Pacifico, dalle Samoa occidentali a Nauru e poi Figi e Tonga, si affrancano dalla condizione di colonia e raggiungono l'indipendenza costituzionale da Inghilterra, Australia e Nuova Zelanda. In Polinesia l'atomo inverte la tendenza, provoca un autentico «secondo choc coloniale in pieno Ventesimo secolo», per dirla con lo storico Jean Chesneaux. Se sul piano politico il processo di autonomia viene bloccato sul piano sociale la "manna atomica" segna la morte del paradiso terrestre. La presenza del Cep, Centre d'expérimentation du Pacifique, richiama migliaia di funzionari civili e militari, fa nascere centinaia di società che provvedono all'indotto, produce una migrazione di manodopera locale che spopola le isole più lontane, fa morire un'economia basata sull'agricoltura e sul pesce, distrugge gli equilibri di una società che da millenni vive sul clan e sulla famiglia. Nei periodi di sospensione degli esprimenti, quando il flusso del denaro atomico cala, la metropoli provvede ai bisogni della colonia gonfiando l'impiego pubblico (che ancora oggi rappresenta il 55 per cento della massa salariale), lanciando programmi di lavori pubblici che cementificano le isole, richiamando capitali con sgravi fiscali di ogni genere. Risultato? Aprile 1992, quando il presidente Mitterrand annuncia la fine degli esperimenti nucleari, Tahiti si risveglia dal suo "sogno atomico" convinta che, senza l'atomo, sarà la fine. Lo pensa la sua classe politica, alla quale la "gauche" al potere a Parigi ha riconosciuto un'autonomia di governo che significa nella pratica la gestione del denaro pubblico che arriva dalla metropoli e che la mantiene al potere. Lo pensano gli imprenditori e gli uomini d'affari, che temono un giro di vite all'inesauribile fonte dei finanziamenti. Ma lo pensa anche il grosso di una società che campa ormai di impiego pubblico (40 per cento della popolazione attiva), di terziario oppure dei sussidi che la Repubblica elargisce ai suoi "citoyens", compresi quelli dei territori d'Oltremare. Per paradossale che possa sembrare oggi, appena tre anni dopo, la moratoria nucleare era stata considerata come una catastrofe da tutti i notabili polinesiani meno uno: Oscar Temaru. Della sua carica di sindaco di Faaa aveva approfittato per ridare al municipio uno stile oceanico, fatto di stuoie polinesiane ed effigie mahoì, che però non gli impedivano di dotarlo di antenne paraboliche capaci di captare le stazioni anglosassoni: due simboli per rompere, come dice lui stesso, «con il colonialismo culturale francese» che domina l'arcipelago. Intanto, aveva trovato un nuovo nome al suo partito: da Fronte di liberazione della Polinesia, troppo ricco di assonanze legate a un tempo che fu, a Tavini Huiraatira, che grosso modo significa «servire il popolo». Ma quale popolo? Non quello dei dipendenti pubblici ma piuttosto quello dei lavoratori del settore privato che sono condannati a guadagnare due volte di meno e sono gli unici che hanno conosciuto la disoccupazione provocata dalla moratoria nucleare (ufficialmente il 15 per cento della popolazione attiva, in realtà molto di più). Poi il popolo dei poveri, quel buon 20 per cento che vive nelle bidonville, seppure fiorite, di Papeete. Infine i giovani. Più della metà della popolazione. Rifiutati dal mercato del lavoro perché, quattro su cinque, hanno un livello di scolarità inferiore a quello richiesto dalle offerte di impiego. A scuola hanno imparato il francese ma che tra loro parlano mahoì. «Una lingua», spiega un professore dell'Università francese del Pacifico, «che può descrivere molto bene gli elementi della natura, che parla di pesca, di divinità, di inferno. Ma dove, per esempio, la parola "responsabilità" non esiste, e per dire computer bisogna parlare di "una macchina che sembra il cervello e che contiene le informazioni"». Quando si chiede a Oscar Temaru quali siano le sue convinzioni politiche, lui non esita a rispondere «piuttosto socialista». Lo dice in francese, ma chissà se non pensa in mahoì. O in un'altra lingua ancora. Magari in inglese. Perché in realtà i trecentomila polinesiani rappresentano una ben minuscola isola di francofonia in questo vasto oceano abitato da venti milioni di anglofoni. E la distanza Tahiti-Parigi è tre volte superiore a quella con Los Angeles. Con Oscar Tumaru la lotta contro l'atomo si è coniugata con la lotta per l'indipendenza. Ma indipendenza dalla Francia. (Gabriele Invernizzi, L’Espresso)