un`ipotesi di abuso del processo?

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un`ipotesi di abuso del processo?
La contestazione in appello della giurisdizione incardinata in primo grado: un’ipotesi di
abuso del processo?
Sommario: 1. Prefazione. La decisione della Corte di Cassazione a sezioni unite. – 2. I
motivi inerenti alla giurisdizione ai sensi dell’art. 111 della Costituzione. – 3. L’abuso del
processo. – 4. La rilevabilità del difetto di giurisdizione anche in grado di appello al vaglio del
Consiglio di Stato nel periodo anteriore all’entrata in vigore del codice del processo
amministrativo. – 5. Il pensiero del Consiglio di Stato dopo l’entrata in vigore del codice del
processo amministrativo. – 6 Conclusioni.
1. La Corte di Cassazione a sezioni unite con la sentenza del 20 ottobre 2016, n. 21260
torna ad affrontare una questione da lungo tempo oggetto di approfondimento, sia da parte della
giurisprudenza (della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato), che da parte della dottrina.
Il tema riguarda se un ricorrente, soccombente nel merito in primo grado, sia legittimato a
proporre appello, impugnando la sentenza di primo grado per difetto di giurisdizione del Giudice
da lui stesso adito.
La questione origina da una sentenza del 7 febbraio 2014, n. 585, con la quale il Consiglio
di Stato aveva respinto il motivo processuale, richiamando l’orientamento «secondo cui integra
un abuso del processo la contestazione della giurisdizione da parte del soggetto che abbia optato
per quella giurisdizione e che, pur se soccombente nel merito, sia risultato vittorioso, in forza di
una pronuncia esplicita o di una statuizione implicita, proprio sulla questione della
giurisdizione».
Le sezioni unite, innanzitutto, ricordano come, su tale problema, dopo l’entrata in vigore
del codice del processo amministrativo, si sia registrata una differente posizione tra il Consiglio di
Stato e la Corte di Cassazione.
Mentre il primo Giudice si è orientato nel senso di ritenere inammissibile l’appello per
abuso del processo, la Corte di Cassazione, al contrario, ritiene l’impugnazione ammissibile, in
quanto, il difetto di giurisdizione è da ritenersi precluso soltanto nel caso in cui, su tale aspetto, si
sia formato il giudicato esplicito o implicito.
La posizione della Cassazione, ricordano le sezioni unite, si giustifica per la necessità di
tutelare l’interesse ad impugnare del ricorrente, anche se per un profilo di carattere processuale, in
quanto, ne avrebbe, comunque, un vantaggio, dato da una “diminuzione” della soccombenza.
1
Infatti, l’accertamento in appello del difetto di giurisdizione, garantirebbe la possibilità di
proporre nuovamente la domanda al giudice munito di giurisdizione.
Le sezioni unite, poi, ricordano che, di recente, nella giurisprudenza della Cassazione si
sono registrate delle opinioni differenti; in particolare, per effetto di due pronunce delle sezioni
unite.
La prima (sentenza del 19 giugno 2014, n. 13940) riconosce che l’eccezione di difetto di
giurisdizione, sollevata dall’appellante risultato soccombente nel merito, possa valere quale
abuso, tanto che, nel caso concreto, esclude tale ipotesi solo in virtù della complessità della
materia del contendere, che impedisce di considerare illecito il “ripensamento” del ricorrente in
punto di giurisdizione.
La seconda decisione (sentenza del 14 maggio 2014, n. 10414), invece, si allontana ancora
di più dalla tradizionale posizione favorevole, in quanto, dichiara inammissibile l’appello,
proposto da chi era risultato soccombente nel merito in primo grado, per evitare di concedere al
ricorrente “di giocare la carta di un’altra giurisdizione secundum eventum litis, ancorché la parte
stessa non sia affatto soccombente sulla questione di giurisdizione…”.
Fatta questa breve sintesi delle diverse posizioni sul tema, la Cassazione afferma la
necessità di aderire a un nuovo orientamento sulla base di diversi motivi.
Innanzitutto, la Corte afferma che, prima, “..il diritto vivente formatosi sull’art. 37 cod.
proc. civ…”, poi, l’art. 9 del codice del processo amministrativo pongono un chiaro limite al
potere d’ufficio del giudice, che può rilevare il difetto di giurisdizione solo fino a quando sul
punto non si sia formato il giudicato (esplicito o implicito).
Questo perché l’accertamento della giurisdizione non è un semplice passaggio interno alla
sentenza, ma rappresenta un capo autonomo della stessa, che, se non impugnato, passa in
giudicato.
Per questo, continua la Cassazione, il ricorrente, che risulta soccombente (solo) nel merito,
non lo sarà anche sul capo che decide sulla giurisdizione; al contrario, su tale capo, sarà vittorioso:
unico soccombente sul capo che decide la giurisdizione sarà il convenuto.
Quindi, il ricorrente (vittorioso) non può essere legittimato a contestare un capo della
sentenza a lui favorevole in un successivo grado di giudizio, nemmeno per garantirsi l’interesse a
“evitare” la soccombenza nel merito.
Le sezioni unite, con ulteriore ragionamento, escludono che tale soluzione sia in contrasto
con la garanzia del giudice naturale precostituito per legge, in quanto, resta fermo il potere del
giudice di accertare anche d’ufficio la propria potestas iudicandi.
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Ancora, secondo la Corte è da escludere anche un contrasto con il principio che vede nel
riparto della giurisdizione non un mero interesse individuale delle parti del giudizio, ma un
interesse superindividuale di ordine pubblico.
Intanto, si afferma che tale valore deve essere bilanciato con l’interesse alla speditezza del
processo.
Quindi, richiamando un proprio precedente (Cass. sez. un. 4 marzo 2016, n. 4248), si
ragiona nel senso che il corretto riparto di giurisdizione non è “…un valore processuale
assolutamente imperativo da garantire a pena di vedere nascere una sentenza inutiliter data…”.
Ancora.
Con ulteriore passaggio, la Corte affronta la presunta disarmonia, che si avrebbe con il
disposto di cui all’art. 41 cod. proc. civ. (richiamato dagli articoli 10 e 16 del codice del processo
amministrativo), che consente alle parti (quindi anche al ricorrente) di proporre regolamento
preventivo di giurisdizione.
La Cassazione risolve la questione escludendo qualsivoglia contrasto.
Infatti, l’art. 41 cod. proc. civ. non riconosce, affatto, un potere di impugnativa alle parti,
ma soltanto un rimedio non impugnatorio, diretto a una pronuncia con efficacia solo panprocessuale. Tanto è vero che il regolamento di giurisdizione è possibile solo fino a quando la
causa non sia decisa nel merito dal giudice adito.
Da tali argomentazioni la Cassazione fa discendere il seguente principio di diritto:
“l’attore che abbia incardinato la causa dinanzi ad un giudice e sia rimasto soccombente nel
merito non è legittimato a interporre appello contro la sentenza per denunciare il difetto di
giurisdizione del giudice da lui prescelto”.
2. Un esame compiuto della problematica impone di svolgere alcune, seppur brevi,
considerazioni in merito alla individuazione dei limiti dei “motivi inerenti la giurisdizione”, che
legittimano, ai sensi del combinato disposto degli artt. 111, comma VIII, della Costituzione e 110
del codice del processo amministrativo, il ricorso per Cassazione contro le sentenze del Consiglio
di Stato.
Peraltro, anche tale aspetto è stato preso in esame dalla sentenza in commento, in quanto la
difesa della contro ricorrente aveva contestato l’ammissibilità del gravame, perché, a suo dire,
mirava a denunciare un mero error in procedendo, non, quindi, la violazione dei limiti esterni
della giurisdizione del giudice amministrativo.
La Cassazione ha respinto l’eccezione, ragionando nel senso che è da ritenere “motivo
inerente la giurisdizione” non solo il giudizio che ha a oggetto l’interpretazione della norma, che
3
attribuisce la giurisdizione, ma anche quello con il quale si discute delle stesse norme, che
disciplinano la deducibilità del difetto di giurisdizione.
La questione, in sostanza, afferisce al difficile tema della esatta individuazione del confine
tra errores in procedendo e motivi attinenti alla giurisdizione.
Senza pretesa di esaustività, si può affermare che si è di fronte a un error in procedendo
quando il ricorso mira a denunciare un cattivo esercizio da parte del giudice della propria
giurisdizione, cioè, un vizio che attiene all'esplicazione interna del potere giurisdizionale,
conferito dalla legge a quel giudice.
Mentre, si discute di limiti inerenti la giurisdizione quando: 1) il giudice dichiara la
domanda estranea alla sua giurisdizione; 2) il giudice decide con così grave violazione delle
norme di rito, da implicare un evidente diniego di giustizia (in questa seconda ipotesi la
Cassazione parla di sentenza “anomala” o “abnorme”; sul punto, vedi Cass. Sez. un., 26 gennaio
2009, n. 1853; Sez. un., 12 marzo 2012, n. 3854; Sez. un., 8 febbraio 2013, n. 3037; Sez.
un., 24 luglio 2013, n. 17933; Sez. un., 9 settembre 2013, n. 20590; Sez. un., 16 gennaio
2014, n. 774; Sez. un., 27 gennaio 2014, n. 1518).
Ebbene, come anticipato, nel caso in esame, la Cassazione ha ritenuto che sia una
questione inerente la giurisdizione quella di una sentenza che nega l’ammissibilità dell’appello,
proposto dall’originario ricorrente soccombente nel merito per eccepire il difetto di giurisdizione
del giudice amministrativo.
La pronuncia in esame assume tale conclusione senza fare distinzioni di sorta; lasciando,
quindi, intendere, che una tale decisione rientrerebbe sempre tra quelle passibili di ricorso per
Cassazione ex art. 110 codice del processo amministrativo.
Invero, tale interpretazione non è andata esente da critica.
Si fa riferimento al parere reso dall’Ufficio studi e massimario della giustizia
amministrativa sul quesito formulato dalle Sezioni unite civili della Corte di cassazione con
ordinanza 29 febbraio 2016, n. 3916.
In tale sede, si è osservato che, in simili casi, i limiti del sindacato delle sezioni unite sulle
decisioni del Consiglio di Stato non dovrebbero, sempre e comunque, essere passibili di
impugnazione davanti alla Corte di Cassazione.
Al contrario, bisognerebbe distinguere a seconda delle argomentazioni, che supportano le
decisioni impugnate in cassazione.
Il parere, infatti, afferma che Le pronunce che hanno fondamento nell’art. 9 del codice del
processo amministrativo “…e sulla applicazione delle regole puntuali in tema di legittimazione e
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interesse all’appello attengono, in modo più evidente e chiaro, alla interpretazione della
disciplina processuale riservata al giudice amministrativo”.
Al contrario, prosegue il parere, “…la decisioni basate sulla applicazione del principio
generale dell’”abuso del processo” potrebbero porre in rilievo il tema dell’eventuale “diniego”
di giustizia, soggetto ad un sindacato più intenso della Cassazione”.
3. Come anticipato, la sentenza in commento ha dichiarato il comportamento del
ricorrente, che disconosce la giurisdizione del giudice da lui inizialmente adito, come condotta
vietata per abuso del processo.
Si impone, quindi, un breve richiamo al concetto di abuso del processo.
Il dibattito dottrinale su tale concetto ha trovato soluzione nella nozione di “distorsione”
dello strumento processuale; cioè, si ha abuso quando il processo è “piegato” al raggiungimento di
fini ad esso estranei1.
Quindi, non si tratta di comportamenti vietati o illeciti, perché in diretta violazione delle
norme processuali, ma di uso improprio di uno strumento processuale, in sé lecito, che produce
effetti pregiudizievoli sul procedimento2.
Volendo offrire un quadro più chiaro, si possono configurare quattro diverse ipotesi di
abuso del processo:
a) la prima consiste nel c.d. frazionamento del credito 3.
Questa prima ipotesi di abuso del processo si configurerebbe ogni volta in cui una parte,
pur potendo ottenere un certo risultato giudiziale con un unico processo, perché la fonte del diritto
1
P. Calamandrei, Il processo come giuoco, in Opere giuridiche, I, Napoli, 1965, 537 ss.; M. Taruffo, Elementi per
una definizione di “abuso del processo”, in Studi in onore di P. Rescigno, Milano, 1998, 1127; L.P. Comoglio, Abuso
del processo e garanzie costituzionali, in Riv. dir. proc., 2008, 330; N. Paolantonio, Abuso del processo (dir. proc.
amm.), in Enc. dir., Annali, II, 1, 1; F. Cordopatri, L'abuso del processo nel diritto positivo italiano, in Riv. dir. proc.,
2012, 885; G. Scarselli, Sul c.d. abuso del processo, in Riv. dir. proc., 2012, 1450.
2
M. Taruffo, L'abuso del processo: profili generali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2012, 138. Sul tema, vedi anche G.
Tropea, Diritto Processuale Amministrativo, fasc. 4, 2015, 1262.
3
È quanto ha statuito Cass., sez. un., 15 novembre 2007 n. 23726 secondo cui “è contraria alla regola generale di
correttezza e buona fede, in relazione al dovere inderogabile di solidarietà di cui all'art. 2 Cost., e si risolve in abuso
del processo (ostativo all'esame della domanda), il frazionamento giudiziale (contestuale o sequenziale) di un credito
unitario”.. In senso sostanzialmente conforme v. anche Cass. 27 maggio 2008 n. 13791; Cass. 11 giugno 2008 n.
15476; Cass. 3 dicembre 2008 n. 28719. Per la giurisprudenza di merito conforme v. Trib. Torino, 7 marzo 2011,
Corriere del merito 2011, 699; Trib. Santa Maria Capua Vetere, 10 settembre 2010; Trib. Perugia, 8 giugno 2010;
Trib. Milano, 8 marzo 2010; Trib. Mantova, 3 novembre 2009, in www.ilcaso.it 2009.
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trova origine in un unico rapporto giuridico, attiva due o più processi per ottenere quel medesimo
risultato.
Con la conseguenza di aggravare ingiustificatamente la posizione del debitore, in contrasto
tanto con il principio di correttezza e buona fede, quanto con il principio costituzionale del giusto
processo.
Arresto di notevole interesse perché con essa “l'abuso del processo, considerato ostativo
all'esame della domanda, è stato trasferito dal terreno codicistico del fatto produttivo di
responsabilità, disciplinare o processuale, a quello di condizione di ammissibilità della
domanda”4.
b) Una seconda ipotesi si avrebbe in casi del tutto diversi, quando una parte utilizzi uno
strumento processuale, non per ottenere l'effetto naturale proprio dello strumento, bensì, per
raggiungere un effetto “deviato”5.
c) Una terza ipotesi di abuso del processo scaturirebbe dal mero comportamento non
corretto della parte, ovvero, dinanzi ad ogni attività menzognera, reticente, dilatoria, superflua, o,
comunque, in contrasto "allo standard di diligenza proprio del professionista"6.
Una precisazione. Alcuni autori hanno sostenuto che, in questi casi, maggiormente che in
altri, l'abuso andrebbe ascritto al difensore più che alla parte, e il sistema, dovrebbe provvedere a
"sanzionare direttamente l'avvocato per l'esercizio di difese abusive, anche con riguardo alla
disciplina dell'etica professionale"7.
4
S. Baccarini, Diritto Processuale Amministrativo, fasc. 4, 2015, 1203.
5
Così, è abusivo il comportamento di chi proponga un regolamento preventivo di giurisdizione non per consentire
alla Cassazione di statuire sulla giurisdizione, ma per ottenere l'effetto (dilatorio) della sospensione del processo di
merito ex art. 367 c.p.c., cfr. Cass., sez. un., 3 novembre 1986 n. 6420, in Foro it. 1987, I, 57. E’ abusivo il
comportamento di chi proponga una causa contro un magistrato o contro un terzo non perché ritenga fondatamente di
vantare dei diritti da questi soggetti, ma per poter (ad esempio) ricusare detto giudice in altro giudizio ex art. 51 c.p.c.,
cfr. Trib. Roma, 19 luglio 2000, in Foro it. 2000, I, 3628. E’ abusivo il comportamento di chi, a fronte di una
convalida di sfratto, eccepisca la competenza delle sezioni specializzate agrarie al solo fine di trasferire dinanzi a tale
giudice specializzato, con evidente dispendio di tempo, l'intera controversia, cfr. Cass. 21 maggio 1999 n. 4957. E’
abusivo il comportamento di chi, al fine di deviare la competenza del giudice dal suo luogo naturale, si inventa un
convenuto fittizio e propone contro tutti ex art. 33 c.p.c. la controversia proprio nel luogo di residenza di detto
convenuto fittizio cfr. Cass. 10 maggio 2010 n. 11314.
6
Dondi-Giussani, Appunti sul problema dell'abuso del processo civile nella prospettiva de iure condendo, in Riv.
trim. dir. proc. civ. 2007, 193 e ss.
7
Dondi, Manifestazione della nozione di abuso del processo civile, Diritto privato 1997, 482.
6
d) Infine, sussisterebbe una quarta ipotesi di abuso del processo, in tutti quei casi, diversi
dai precedenti, nei quali il giudice, discrezionalmente, ravvisi un comportamento da considerare
tale.
Si tratterebbe di una ipotesi di chiusura, in grado di consentire al giudice, in ipotesi non
predeterminate, di ritenere, per ulteriori ragioni, abusivo il comportamento della parte.
Peraltro, è interessante sottolineare il fatto che l’abuso del processo è una figura che
sanziona dei comportamenti assimilabili ad altri, che il legislatore, però, ha voluto condannare
sotto un diverso profilo.
Si intende far riferimento a quelle condotte ritenute in violazione, in primis, dell'art. 88
cod. proc. civ., che stabilisce che la condotta delle parti e dei loro difensori in giudizio deve essere
improntata ai valori della lealtà e probità.
Quindi, di alcune norme del codice deontologico forense, che, ad esempio, vieta
all'avvocato di introdurre nel procedimento o di utilizzare prove, elementi di prova o documenti
che sappia o apprenda essere falsi (art. 50 commi 1 e 2).
Così, è previsto il dovere di verità che, fa obbligo all’avvocato, nella presentazione di
istanze o richieste riguardanti lo stesso fatto, di indicare i provvedimenti già ottenuti, compresi
quelli di rigetto (art. 50 comma 6).
Analogo discorso, inoltre, può farsi per alcune disposizioni che regolamentano le spese.
Si pensi alla condanna alle spese maturate successivamente dalla parte che ha
ingiustificatamente rifiutato la proposta conciliativa (art. 91 c.p.c.), oppure l'esclusione dal
rimborso delle spese eccessive o superflue e la condanna al rimborso delle spese causate dalla
violazione dell'art. 88 (art. 92, comma 1 c.p.c.); la responsabilità processuale aggravata in caso di
lite temeraria (art. 96, comma 1, c.p.c.); la condanna alla sanzione pecuniaria per lite temeraria di
cui all'art. 26, comma 2, c.p.a.
Ebbene, in tutti questi casi, che, come anticipato, potrebbero essere considerati come
ipotesi tipiche di condotta processuale abusiva, “…il legislatore non colpisce l'atto, ma il
comportamento e la sanzione non è l'invalidità (o la irricevibilità o l'inammissibilità) dell'atto ma
il pagamento di una somma pecuniaria”8.
Soluzione giurisprudenziale che non è andata esente da critiche9.
8
G. Verde, Abuso del processo e giurisdizione, in www.judicium.it, par. 6.
9
G. Scarselli, in Sul c.d. abuso, cit., 1457-1458, secondo cui il caso di frazionamento giudiziale del credito, da cui le
Sezioni unite hanno tratto occasione per teorizzare sull'abuso del processo, si sarebbe potuto e dovuto decidere,
invece, secondo l'assorbente principio dei limiti oggettivi del giudicato. In senso conforme, G. Verde, Sulla minima
unità strutturale nel processo (a proposito di giudicato e dottrine emergenti), in Riv. dir. proc., 1989, 573;
7
Ebbene, se in campo civilistico si arriva all’idea che una condotta abusiva renda
inammissibile la domanda, si pone ora il problema di capire quali riflessi tale arresto
giurisprudenziale abbia nel processo amministrativo.
4. Nonostante in ambito civile, come visto, si sia, da tempo, fatto strada il concetto
dell’abuso del processo, ciò, per quanto qui interessa, non ha avuto effetto nel pensiero della
giurisprudenza amministrativa, almeno per il periodo anteriore all’entrata in vigore del codice del
processo amministrativo.
Infatti, in questa fase si riteneva ammissibile l’appello per difetto di giurisdizione anche se
proposto dall’originario ricorrente, soccombente nel merito.
Il ragionamento si basava sulla combinata lettura dell’art. 30 della legge n. 1034/1971 e
dell’art. 37 cod. proc. civ., dalla quale si ricaverebbe la necessità di verificare, anche in grado di
appello, la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo, indipendentemente dalla
circostanza che la sentenza del TAR abbia affrontato il tema in modo espresso (Nello stesso
senso, era orientata anche la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Cassazione)10.
Questa posizione è presente anche nella decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di
Stato n. 42/1980, ritenuta una delle decisioni che ha sviluppato in modo più compiuto e articolato
il principio della rilevabilità d’ufficio del difetto di giurisdizione anche in grado di appello11.
Soluzione che si spiega con l’idea che la questione di giurisdizione abbia una valenza di
ordine pubblico, anche in funzione del rispetto del principio del giudice naturale, che “impone”
che la questione di giurisdizione debba rimanere sottratta alla disponibilità delle parti.
Tra i rari precedenti, che affrontano, specificamente, il tema de qua si evidenzia anche la
decisione del Consiglio di Stato, sez. IV, 24 febbraio 2000, n. 999, che ammette l’appello per
l’interesse dell’originario ricorrente a far venire meno la soccombenza nel merito, derivante dalla
decisione appellata.
Successivamente, si registra la progressiva emersione di tre filoni interpretativi in ordine
alla rilevabilità d’ufficio del difetto di giurisdizione in grado di appello, così sintetizzabili:
Cossignani, Improponibilità della domanda frazionata e limiti oggettivi del giudicato, in Riv. trim. dir. proc. civ.,
2009, 1495.
10
Tale orientamento, poi, si basava sulla convinzione che il Consiglio di Stato dovesse svolgere con pienezza la
propria funzione nomofilattica, garantendo la corretta delimitazione dell’ambito di cognizione attribuito al giudice
amministrativo, evitando sconfinamenti negli ambiti attribuiti dalla legge alla giurisdizione ordinaria o alle
giurisdizioni speciali, vedi S. Baccarini, Diritto Processuale Amministrativo, cit.
11
E’ opportuno sottolineare che nella decisione del 1980 non emerge il tema specifico della deducibilità del difetto di
giurisdizione del giudice amministrativo da parte dell’originario ricorrente soccombente nel merito dinanzi al TAR.
8
I) la sempre più rara conferma dell’indirizzo dell’Adunanza Plenaria n. 42/1980;
II) la tesi secondo cui il giudice di appello non può rilevare il difetto di giurisdizione
amministrativa, per effetto della preclusione derivante dal giudicato, anche implicito, sulla
giurisdizione, conseguente alla mancata impugnazione, sul punto, della sentenza del TAR;
III) la tesi “intermedia”, secondo la quale solo il giudicato esplicito preclude la rilevabilità
d’ufficio in appello.
Il contrasto è risolto dalla decisione dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n.
4/2005, che aderisce all’indirizzo “intermedio” per l’idea di dover valorizzare lo svolgimento del
processo in primo grado e l’intervenuta valutazione della questione di giurisdizione da parte del
TAR.
In particolare, l'Adunanza Plenaria arriva a tale conclusione valorizzando la lettura
coordinata del primo e del secondo comma dell' art. 30 della legge n. 1034 del 1971: il primo
dispone la rilevabilità d'ufficio del difetto di giurisdizione, il secondo che ”avverso le sentenze che
affermano o negano la giurisdizione è ammesso ricorso al Consiglio di Stato”.
In sostanza, secondo l'Adunanza Plenaria, ne deriva che, nel caso di statuizione espressa, il
giudice di appello può conoscere della questione di giurisdizione solo in presenza di apposito
gravame.
Nel caso, invece, di statuizione implicita, non si applicherebbe il secondo comma dell'art.
30; pertanto il giudice di appello potrebbe verificare la sussistenza della giurisdizione anche in
assenza di specifica impugnazione12.
5. La posizione del Consiglio di Stato sul tema in oggetto cambia radicalmente dopo
l’avvento del codice del processo amministrativo, nel senso di ritenere inammissibile l’appello
dell’originario ricorrente, che, soccombente nel merito, intenda contestare la giurisdizione del
giudicante.
La prima pronuncia del “nuovo corso” afferma tale principio in un obiter dictum,
nell’ambito di un giudizio in cui il difetto di giurisdizione era stato fatto valere in appello con
semplice memoria.
12
In realtà nemmeno la pronuncia dell’Adunanza Plenaria n. 4/2005 affronta espressamente il tema della
deducibilità in appello della questione di giurisdizione da parte dell’originario ricorrente, soccombente nel merito
dinanzi al TAR.
9
La decisione afferma che “l’eccezione medesima non pare più sollevabile dalla parte che
vi ha dato luogo …ritenere il contrario, infatti, si porrebbe in contrasto con i principi di
correttezza e affidamento che modulano il diritto di azione e significherebbe, in caso di domanda
proposta a giudice carente di giurisdizione, non rilevata d’ufficio, attribuire alla parte la facoltà
di ricusare la giurisdizione a suo tempo prescelta, in ragione dell’esito negativo della
controversia”13.
Altro passaggio importante è la sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, 7 febbraio 2012, n.
656, che, con due diverse argomentazioni, ha dichiarato il ricorso inammissibile14.
In primo luogo, il Consiglio di Stato ha affermato, che l'eccezione di difetto di
giurisdizione non pare più sollevabile dalla parte che vi ha dato luogo, agendo in primo grado
mediante la scelta del giudice, in ragione di quanto previsto dall'art. 9 del codice del processo
amministrativo.
In secondo luogo, il Consiglio di Stato ha fondato il proprio convincimento proprio sul
divieto di abuso del processo, che emergerebbe, a sua volta, per due motivi.
Intanto, perché la condotta del ricorrente, basata su ragioni meramente opportunistiche,
violerebbe il divieto del “venire contra factum proprium”.
Quindi, perché provocherebbe un sacrificio ingiustificato nella sfera giuridica processuale
della controparte, dato dalla violazione del principio di ragionevole durata del processo ex art. 111
Cost15.
6. Il percorso finora seguito dimostra come la sentenza della Cassazione a sezioni unite in
commento non possa, certo, essere considerata una decisione “inaspettata”, ma, al contrario, la
logica conseguenza, da un lato, dell’evoluzione giurisprudenziale su tale aspetto; dall’altra, delle
“novità” introdotte dal codice del processo amministrativo, segnatamente, dell’art. 9.
In riferimento a tale ultimo aspetto, è opportuna una considerazione più specifica.
13
Cons. Stato, sez. VI, 10 marzo 2011, n. 1537.
14
Ad essa si rifaranno, spesso limitandosi ad un sintetico richiamo del principio di diritto ivi enunciato, le successive
sentenze del Consiglio di Stato, che hanno, poi, dato continuità a tale indirizzo interpretativo.
15
Un’eccezione alla tesi contraria alla proponibilità in appello dell’eccezione di giurisdizione da parte del ricorrente
di primo grado è la sentenza della Quinta Sezione 9 marzo 2015, n. 1192, che ha accolto una tesi intermedia,
ritenendo che il divieto di abuso del processo non sia violato almeno nel caso in cui il “ripensamento” dell’originario
ricorrente sia giustificato dall’esistenza di una situazione oggettiva di incertezza in ordine alla sussistenza della
giurisdizione (in senso conforme, Cassazione, sezioni unite, 19 giugno 2014, n. 13940).
10
Autorevole dottrina ha contrastato la posizione giurisprudenziale, incline a leggere nell’art.
9 un ostacolo insormontabile alla possibilità, per l’originario ricorrente, di impugnare la sentenza
per difetto di giurisdizione.
Infatti, si ragiona nel senso, che l’art. 9 c.p.a., nel prevedere in capo al giudice d’appello
l’obbligo di pronuncia, se il difetto di giurisdizione “è dedotto con specifico motivo”, non
distingue fra le parti del processo: sicché, ogni parte (anche l’originario ricorrente) potrebbe
impugnare la sentenza per difetto di giurisdizione16.
Ebbene, si può affermare che le sezioni unite hanno prospettato una ricostruzione della
norma, che appare in grado di superare agilmente la critica mossa dall’autorevole dottrina.
Infatti, la sentenza pone l’accento proprio sul dettato dell’art. 9, sottolineando, che la
norma, occupandosi della dichiarazione (anche implicita) con la quale il giudice amministrativo
afferma la sussistenza della giurisdizione, qualifica la relativa statuizione come “capo” della
sentenza17.
Con la conseguenza (ampiamente argomentata dalla Cassazione), in primis, che la
questione della giurisdizione, è pienamente capace di passare in giudicato; quindi, che, di fronte a
una sentenza di rigetto del ricorso nel merito, il ricorrente, sul capo che attiene alla giurisdizione,
non è soccombente, ma, al contrario, risulterà vincitore.
Quindi, conclude la Cassazione, difetterà in capo all’originario ricorrente la legittimazione
a impugnare, non potendo, certo, appellare un capo della sentenza, che lo ha visto vincitore.
Ancora una precisazione.
La acclarata mancanza di interesse dell’originario ricorrente consente di superare anche la
tesi intermedia, recepita, come si è visto, da una parte della giurisprudenza amministrativa,
secondo cui l’appello della giurisdizione da parte dell’originario ricorrente sarebbe ammissibile
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In questi termini cfr. in particolare Corso, Abuso del processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2013, 3. In senso
analogo, Tropea, L’abuso del processo amministrativo. Studio critico, Napoli, 2015, 616 e ss.; ID. Spigolature in
tema di abuso del processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2015, 1262 e ss.; S. Baccarini, Giudizio
amministrativo e abuso del processo, in Dir. proc. amm., 2015, 1203 e ss.; G. Verde, Abuso del processo e
giurisdizione, op. cit.; F. Ancora, Prestazioni del servizio sanitario: riduzioni e problemi di giurisdizione. L’abuso del
diritto nel processo amministrativo, in Giurisdizione amministrativa, 2012, IV, 220 e ss.
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La questione di giurisdizione è stata tradizionalmente considerata un “punto” della sentenza, esaminato dal giudice
nell’ambito del “capo” per statuire sulla fondatezza della domanda proposta. L’eventuale esito favorevole del punto
relativo alla questione di giurisdizione non valeva, quindi, ad escludere la soccombenza rispetto al capo recante la
statuizione sulla domanda proposta. Tale tradizionale qualificazione risulta, tuttavia, oggi messa in discussione dalla
vigente qualificazione dell’art. 9 c.p.a., che qualifica in termini di “capo” della sentenza la statuizione sulla
giurisdizione.
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solo nel caso in cui egli abbia ragioni per dubitare della sussistenza della giurisdizione e, quindi,
nel caso in cui il suo ripensamento possa essere giustificato da obiettive ragioni di incertezza.
E’ evidente, infatti, che anche in questo caso difetterebbe l’interesse a impugnare un capo
della sentenza che riconosce l’originario ricorrente come vincitore.
Carlo Tack
Dottore di ricerca in Diritto amministrativo
Avvocato del Foro di Cagliari
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