SEX OFFENDER primo capitolo
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SEX OFFENDER primo capitolo
“SEX OFFENDER” Confessioni di uno stupratore seriale - Rockshock Edizioni – www.rockshockedizioni.it www.eugeniocardi.it www.sexoffender.it Romanzo di Eugenio Cardi CAPITOLO I Non passavo davanti al cimitero di St Michaels - sulla Brooklyn Queens Expy – da molto tempo. L’ultima volta credo sia successo esattamente quattro anni fa, in occasione del funerale di mio padre. Non so del perché fosse stato ucciso, o forse potrei anche immaginarlo; fatto sta, che qualcuno aveva deciso di piantargli in testa un calibro 38, probabilmente detonato da una Smith & Wesson Special. A quell’epoca io avevo solo 17 anni, e la cosa ad esser sinceri non mi spiacque nemmeno un po’. Conducevo una vita per conto mio e se pur vivessimo formalmente sotto lo stesso tetto posso dire che quasi non me ne accorsi della sua scomparsa. O forse mi vergogno di ammettere che me ne accorsi e ne fui contento, chissà. Lo odiavo, questo è certo. Lo odiavo per tutto quel che aveva fatto a me e a mia madre, quel fottuto figlio di puttana. Era un avvocato, era spesso fuori, stava dietro alle sue cose, ai suoi affari e ai suoi traffici, leciti o meno leciti che fossero; per lo più trascorreva i suoi giorni – e le sue notti – nei vicoli immondi della città, tra immondizie, puttane e vagabondi di ogni genere. E quando lui era fuori, per noi era meglio, molto meglio. Io stavo in casa all’epoca, uscivo poco, non avevo amici. C’era mia madre con me, e tanto bastava. Vivevamo assieme in una grande casa del Queens, in un vecchio edificio stile Old English, più o meno all’incrocio tra la 76th Ave e la 174th St, poco lontano da qui, da questo spettrale cimitero nel quale è seppellito mio padre e le cui mura posso intravvedere dai vetri sporchi ed opachi di un cellulare della Polizia di N.Y. che mi porta dritto dritto verso il penitenziario di Rikers Island, l’isola dei dannati dell’Est River, dove finanche gli ultimi avanzi della società, i reietti, i ladri e gli assassini della peggior specie considerano gli stupratori come me come la feccia immonda dell’intero universo. E’ noto infatti che chi si macchia, come me, di reati a sfondo sessuale incarna e rappresenta l’aberrazione umana nella sua più eclatante e magnifica essenza. Non ero mai tornato qui prima d’ora, in tutti questi anni; dal suo funerale non sono mai più tornato a fargli visita. Non so se lei, mia madre, ci sia mai venuta, ma non credo. Per lo meno non me lo ha mai detto. Per la verità anche lei non credo provò alcun dispiacere quando le comunicarono che mio padre era riverso faccia a terra nel fango di un putrido vicolo di Sunnyside con un gran buco in testa. In realtà non ho mai capito cosa possa aver suggerito a mia madre di andare in sposa a quel bel personaggio di mio padre, ma la vita mi ha insegnato a non metter becco in certe situazioni e in particolar modo a non dar giudizi sui rapporti di coppia, spesso un vero enigma per me. Lei lo temeva, ma non era soggiogata da lui; anzi, non perdeva occasione per denigrarlo e squalificarlo ai miei occhi. Mia madre era con lui tutt’altro che una bambola; davanti a lui certo cercava di non contraddirlo, dato il suo carattere violento e incontrollabile. Ma poi, quando le voltava le spalle………… Non ho mai avuto fratelli, la mia nascita è stato l’errore di una sera. Mio padre doveva essere rincasato del tutto ubriaco evidentemente, come d’altronde faceva di solito, e non doveva essersi reso conto di quel che faceva in quel momento. Quando riuscì a rendersene conto era ormai troppo tardi; nove mesi più tardi, ero nato io. Ma per lui tutto sommato non cambiò nulla: continuò a fare la sua solita vita, fatta di clienti, affari sporchi e nottate fuori casa, chissà a far che. Di me non se ne occupava, e quando se ne occupava per me erano solo guai, botte ed insulti. Dopo la sua scomparsa improvvisa e violenta, restammo da soli in quella grande casa del Queens, solo noi due, io e mia madre. Stavo bene lì nel Queens. In realtà non era proprio il centro città, e ci sono un sacco di immigrati, quasi la metà della popolazione viene da fuori, ma io ci sono nato lì e ci stavo bene. Ma non era solo perché ci sono nato; più che altro quel che mi piace più di ogni cosa del Queens è che mi sembra un fottuto quartiere incasinato proprio come lo è la mia testa. Forse è per quello che ci sono sempre stato bene. Le cose troppo precise non mi sono mai piaciute. A Manhattan ad esempio non ci sarei mai vissuto, ammesso e non concesso che avessi avuto i soldi per abitarci e viverci. Troppa precisione lì, tutto troppo finto. A Times Square sembra di essere sul set di un film, sembra Hollywood, non una città vera. E a me interessa la vita vera. Così non sarei andato via dal Queens per niente al mondo. Poi lì c’era mia madre e, andava bene così. E’ vero che non è mai stata un tipo semplice mia madre, appiccicosa e lamentosa, sempre con il fiato sul collo. Ma allo stesso tempo lei mi proteggeva, chissà forse fin troppo, ma a me andava bene così, ed anche a lei. Quel bastardo di mio padre se pur sparì per sempre in quel modo, veloce e imprevisto, tutto sommato qualcosa di buono per noi l’aveva fatto: ci aveva lasciato un conto con un bel gruzzolo, di cui ignoravamo del tutto l’esistenza. Cazzo, eravamo comunque suoi unici eredi, e quei soldi ci spettavano, anche se lui si era fatto dei conti diversi. In sostanza il lascito era del tutto involontario: quel conto bancario infatti non l’aveva acceso per noi, ma per lui stesso. Chissà, credo che quei soldi gli servissero per cambiar aria. Li avrebbe usati e se la sarebbe spassata un giorno, certamente lontano da noi e in altra compagnia. Ma le cose andarono in modo diverso, come d’altra parte accade quasi sempre nella vita. Venimmo a conoscenza del conto da due zelanti funzionari di banca che, avendo saputo della morte di mio padre, un giorno vennero a suonare il campanello di casa nostra e ci spiegarono che quei soldi ora erano i nostri. Erano dispiaciuti d’aver perso un così buon cliente come mio padre, ma speravano che noi avessimo continuato la sua tradizione e che avremmo lasciato gestire quei soldi a loro, come d’altronde facemmo, dato che del denaro all’epoca a me interessava poco o niente e a mia madre anche, anche se ci faceva maledettamente comodo possederne un po’, e quel conto rappresentava molto più di un pò. All’epoca infatti mia madre non aveva un lavoro ed io nemmeno. Frequentavo saltuariamente la scuola e non avevo insomma nessuna possibilità di procurarmi autonomamente del reddito. I due funzionari ci fecero mettere un bel po’ di firme e se ne andarono via soddisfatti come due scolaretti. Mi affacciai senza esser visto dalla finestra che dava sulla strada e li vidi sorridersi tra di loro e darsi gran manate sulla schiena, mentre salivano felici e contenti su una Shelby GT 500 rosso fuoco. Misero in moto e partirono sgommando. Ecco, così io e mia madre eravamo soli al mondo, ma c’era un gran bel gruzzolo di dollari a farci compagnia, compagnia da me molto apprezzata. Non avrei potuto pensare anzi a compagnia più bella. Non avevo nonni né zii, ma per me era perfetto così, non mi mancava nessuno, più di ogni altro non mi mancava certo quel figlio di puttana di mio padre, che non faceva assolutamente mistero del fatto che non mi amasse. Avevo conosciuto a sufficienza il mondo degli adulti tanto da poter aver mille ragioni per starne a distanza. Di tutti gli adulti che avevo conosciuto, salvavo soltanto lei, mia madre. A dirla tutta però una sorta di zia l’avevo, zia Mary, che più che una vera zia era una lontana cugina di mio padre. Non l’avevo vista per tanto tempo, poi si fece stranamente viva dopo la scomparsa di mio padre. Credo che avesse saputo che avevamo ereditato un bel gruzzoletto, e chissà come aveva pensato forse che potesse essercene anche per lei. Ma ebbe presto modo di pentirsene di questo suo tentato avvicinamento. Cominciò a frequentare la nostra casa con una certa assiduità, si diceva tanto dispiaciuta per la prematura perdita di suo cugino, mio padre, cercava di essere gentile e non perdeva tempo per mostrare tutta la sua mercanzia, vestendo con gonne corte e maglioncini scollati e aderenti. Era sempre stata una bella donna e seppur ormai di una certa età – aveva superato già da un pezzo il quarantesimo compleanno – si manteneva ancora in forma, era formosa ed appariscente, e non faceva nulla per nascondere le sue forme. Così un giorno decisi di farle visita. Lei mi ricevette con gran gioia, pensando forse che la sua tattica di avvicinamento a noi ed al gruzzolo stava iniziando a funzionare. Ma non funzionò come lei avrebbe potuto credere, non almeno in quel senso. Lei si presentò come al solito vestita in modo provocante, mostrandomi senza pudore alcuno le sue tette targate quarta misura di reggiseno. Era sola in casa, non si era mai voluta sposare, credo preferisse mantenere una certa libertà di movimento. E credo si muovesse abbastanza. Forse io recepii male il messaggio, chissà, fatto sta che mentre preparava il caffè in cucina io la cinsi da dietro con le mie braccia allungando le mani sulle sue belle tette e provando a baciarla. Lei mi respinse violentemente e mi diede anche uno schiaffo, gridando “Ma cosa fai Alan, smettila!!!”. Era troppo, non potevo sopportare che quella stronza ruffiana mi respingesse, dopo avermi provocato così a lungo. Non ultimo, di schiaffi ne avevo presi a sufficienza da quel bastardo di mio padre, e avevo giurato su me stesso che non ne avrei presi più da nessuno, per nessun motivo al mondo. Figuriamoci quindi se potevo sopportarli da lei, da quella troia di zia Mary, che non aveva saputo far altro nella vita che star lì a far l’oca con tutti mostrando le sue cosce a chiunque le capitasse a tiro. No, non ci stavo, era troppo da sopportare, aveva passato la misura. Ritirali le mani dal suo seno e non dissi nulla, ma fui svelto a sfilare la mia cintura dei pantaloni. Gliela passai velocemente intorno al collo, ero molto robusto, non poteva resistermi. Con la forza di un braccio tenevo la sua schiena appoggiata al mio petto, con l’altra mano le frugavo sotto la maglietta e la gonna. Non avevo una così approfondita conoscenza del corpo delle donne a quell’epoca avevo avuto più che altro solo dei rapporti con prostitute fino ad allora, veloci e saltuari - ma i suoi seni mi apparvero ancora sodi e le gambe robuste e ben tornite. Mi eccitai, la trascinai fino al letto e la scopai lì, con la forza, quella stupida oca starnazzante. Lei era attonita, spaventata, ma ancora capace di reagire. Scalciava come un mulo, e più lei si dimenava più io mi eccitavo, e più mi eccitavo più stringevo. Ad un certo punto lo capì, che magari avrei potuto ucciderla stringendole la gola, e così la smise di ribellarsi e si arrese, sembrò aver accettato la cosa con rassegnazione. Mentre le stavo sopra e la violentavo, non faceva che lamentarsi, emettendo una specie di leggero guaito. Io me ne fregavo di quel che poteva pensare lei o cosa facesse, io stavo lì e mi interessava solo fare con calma i miei comodi, e così feci fino a che non ebbi finito. Non so però perché non sembrava piacerle così tanto come mi sarei aspettato; tutto sommato non aveva fatto altro che provocarmi in tutti quei mesi. Quella reazione mi sorprese, mi sconvolse. Tutto sommato, ero certo che mi volesse. Non mi disse niente di carino, ma anzi la lasciai lì sul letto che piangeva sommessamente. Eppure avevamo avuto un rapporto amoroso in un qualche modo, no? Non era così che si faceva? Ero in piedi e la guardavo, dopo che era finito tutto mi sentii anche un po’ in colpa, ma ormai era fatta, anche se non capivo proprio bene cosa avevo fatto; ovvero se volevo solo scoparmi zia Mary o se volevo vendicarmi di mio padre attraverso quella troia di mia zia – dato che era anche sua cugina - o se invece tutte e due le cose. Non lo, era troppo complicato per me, smisi di starci a pensare, mi veniva solo un gran mal di testa. Andai via, accostando piano la porta. Da quel giorno zia Mary non la vedemmo più. Ma non potrei mai dimenticarla: è stata lei la prima donna che ho stuprato.