“L`arte non serve a nulla se non a capire tutto”.

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“L`arte non serve a nulla se non a capire tutto”.
“L’arte non serve a nulla
se non a capire tutto”.
© Alessandro Zuek Simonetti
Davide Balliano si racconta a Elisabetta Pozzetti, art curator di Studio Chiesa
Voce roca ma decisa, reduce da ore piccole e vernissage newyorkesi. Davide Balliano, in forte controluce, mi parla dallo
schermo del computer, mediante Skype. Di lui intravedo una folta barba e intuisco uno sguardo acuto, pungente. Tangibile
è la sua sagoma scura contrastata da pareti candide, alle sue spalle. E penso tra me e me che senza volerlo la situazione
è coerente col suo lavoro artistico: rigoroso, senza sbavature, per sintesi assoluta di cromie e forme, “austero” come lui
stesso l’ha definito.
La video-telefonata scorre con naturalezza e “quell’uomo nero” riserva anche inattese derive di autoironia, rendendo quel
monolite di ombra un fumetto in simpatica evanescenza. Ciò che s’impone è la sua chiarezza di pensiero, una lucidità
programmatica e visionaria.
Ci lasciamo con l’impegno di rispondere ad alcune domande, che come sempre limitano e circoscrivono, ma possono
essere un buon viatico per aver un assaggio della sua personalità e del percorso concettuale delle sue opere d’arte.
Il tuo lavoro parte dalla fotografia e migra gradualmente al coinvolgimento delle altre arti. Questa contaminazione è una naturale evoluzione della tua espressione artistica o sei stato influenzato in questa scelta? L’impressione che mi viene è che utilizzi mezzi diversi per obiettivi formali mirati…
Il mio progressivo allontanamento dalla fotografia è assolutamente parte dell’evoluzione del mio linguaggio,
della crescita di una ricerca a cui stanno troppo stretti i vestiti con cui è venuta al mondo. La fotografia è stata
il mio punto di partenza, ma mi ha sempre dato la frustrante sensazione di avere poco a che fare con la creazione e più
con l’interpretazione, o il cambio di contesto, di elementi già esistenti. Una faccenda quasi Duchampiana direi...
è stata comunque un’influenza importantissima nella mia maniera di pensare il lavoro che, indipendentemente
dal media, percepisco spesso ancora in termini di inquadratura e controllo delle luci.
Dai miei amori giovanili per Ghirri e la scuola di Düsseldorf penso anche di aver ereditato una certa tendenza a
descrivere per assenze, concentrando il cuore del lavoro proprio su quello che manca.
Nelle tue opere il passato, o meglio la classicità, affiora come citazione da cui partire o come approdo a cui arrivare?
Fino ad un paio di anni fa penso che fosse chiaramente un punto di partenza.
Ora più che al passato cerco di relazionarmi ad archetipi, forme che potrebbero essere vecchie di mille anni come
arrivare da mille anni nel futuro. Una certa atemporalità è un elemento che mi affascina estremamente nella ricerca di
altri autori e quindi cerco di farla mia.
Qualche anno fa lessi un’intervista all’anziano fondatore di un’importante casa editrice.
Interrogato sul segreto del suo successo, rispose come avesse sempre cercato di “pubblicare libri nati vecchi in modo
da durare per sempre”.
è un esempio che uso spesso e che sento molto calzante.
Quali sono, se ci sono, i maestri ai quali guardi?
La lista è lunga e in continua evoluzione ma diciamo che recentemente mi trovo spesso a pensare alle
composizioni di Agnes Martin, ai colori di Marlene Dumas e Morandi, ai materiali e alla gestione dello spazio
delle architetture di John Pawson, Louis Kahn e Carlo Scarpa, ai film di Bela Tarr, a Dino Buzzati, Rudolf Stingel...
Ce ne sarebbero molti altri.
La recente esperienza nel vicentino, a Nove precisamente, che ti ha visto partecipare a Nuove Residency e interagire con l’azienda Stylnove, la giudichi positivamente? Quanto l’imprenditoria illuminata può trarre giovamento dall’ispirazione degli artisti? Ci credi a questo connubio?
Assolutamente: è stata un’esperienza eccezionale.
Le competenze a cui ho potuto accedere lavorando con Lorenzo Zanovello di Stylnove mi hanno dato modo di
approfondire forme che finora non avevo potuto sviluppare pienamente.
è stato uno scambio da cui ho sicuramente ricevuto molto di più di quanto non abbia dato.
L’imprenditoria illuminata immagino e spero che riesca ad avere nuove idee venendo a contatto con la “leggerezza”
funzionale della pratica artistica.
L’arte non serve a nulla se non a capire tutto.
Ogni azienda all’avanguardia dovrebbe avere come priorità tradizione e innovazione: due elementi portanti di qualsiasi
ricerca artistica.
Non facciamo altro che attingere dal passato e spingere i limiti della conversazione contemporanea, e lo facciamo
senza alcuna limitazione funzionale.
In campo scientifico si chiamerebbe ricerca pura, differente dalla ricerca applicata.
Basta guardare al campo farmacologico per capire cosa una possa trarre dall’altra.
Com’è stato cimentarsi con la ceramica, materiale a cui non
eri avvezzo?
La ceramica è un materiale incredibile, che richiede rispetto e spazio per imprevisti (similmente alla fotografia analogica magari...).
è un processo naturale con zone buie in cui bisogna lasciare alla terra lo spazio di assestarsi e di muoversi come crede.
è stato estremamente stimolante dover spesso riconsiderare la
mia maniera di lavorare.
Tutte le colorazioni che richiedono un ulteriore passaggio
in forno, ad esempio, sono molto imprevedibili, basate
esclusivamente sulla competenza del ceramista.
Un salto nel vuoto difficilissimo per chi, come me, è abituato
a procedere confermando visivamente ogni passo.
è un materiale generoso e umile.
E per umile non intendo povero, ma sicuro di se stesso e quindi
non legato alla necessaria conclamazione della sua natura.
La ceramica può sembrare metallo, cemento, terra e molto
altro.
Una qualità che ho apprezzato enormemente.
Tu anteponi a tutto la forma, ritenendo che il materiale
debba piegarsi al volere della forma, che il concetto vinca sulla materia. Ci riesci sempre?
Ci provo sempre; riuscirci è raro.
Faccio una ricerca estremamente estetica e penso assolutamente
che la materia debba essere in totale comunione con la forma,
ma non penso che sia un rapporto di sudditanza.
Spesso la materia è parte integrante della forma. La superficie dei miei lavori ad esempio è un elemento
essenziale, un ingrediente che potrebbe cambiare radicalmente
la natura del lavoro stesso.
Questi dettagli sono pura materia ed è spesso proprio la forma a
dover fare compromessi nella sua direzione.
Non sono molto interessato all’idea di “concetto”, nella mia ricerca.
Non ho messaggi precisi e definiti, ma più suggestioni e profumi, che spero portino chi guarda a sentirsi libero di
associare le proprie memorie e il proprio vissuto al lavoro, traendone un’unica e totalmente soggettiva percezione.
Spesso io stesso comincio e continuo a capire i miei lavori dopo averli finiti.
Non ritengo l’interpretazione del mio lavoro parte delle mie mansioni.
Mi sembra che il mio lavoro abbia già una sua natura e che il mio ruolo sia di intuire e sviluppare il potenziale di questa
natura. Non sono la madre del mio lavoro, ne sono l’ostetrica.
Non credi che anche la materia abbia una sua libertà d’espressione? E dunque un’ipotetica forma capace di stimolarti?
Assolutamente sì: il mio lavoro parte spesso dall’innamoramento per un materiale, un peso, una sensazione tattile…
La materia è la fonte originale, l’anno zero.
Non ci può essere piena soddisfazione nella forma senza passare dalla giusta materia, ma la materia rimane spesso
prematura, vaga, quando separata dalla comunione con la forma.
La tua esigenza di riportare l’ordine nelle cose è determinata anche dal caos della società contemporanea? Le
icone vuote, eco di quelle curviline e ortodosse, sono profetiche di un nuovo credo?
Penso che la società contemporanea sia più ordinata di come sia mai stata nel passato e che sia nel mezzo
di un grosso cambiamento. Quello che viene percepito come caos o insicurezza, penso sia il collasso dei modelli
di identità su cui basiamo le nostre vite da generazioni.
Processo tanto doloroso quanto utile, ritengo.
E comunque no, non mi relaziono molto al caos della vita contemporanea: anzi lo trovo un elemento di enorme
distrazione. Purtroppo ogni evoluzione comporta stress e confusione, quindi ritengo un prezzo necessario i miei
periodici esaurimenti psicofisici, causati dai ritmi deliranti della vita delirante che conduco.
Penso che il caos quello vero, esistenziale, primordiale, l’impossibilità di capire pienamente la nostra natura,
sia un soggetto molto più interessante e longevo.
Non penso possa esistere un nuovo credo, solo nuove e diverse maniere di avanzare ipotesi di risposta a domande che
sono antiche come il pensiero umano.
Mi piace pensare che la ricerca artistica che mi appassiona, e a cui cerco di contribuire, si muova (molto più istintivamente e soggettivamente) sullo stesso fronte in cui operano filosofia, teologia e alcune scienze.
Penso che la natura (e la ragione di esistere) dell’uomo sia proprio la comprensione di se stesso e della natura che ci
regola e circonda.
Noi artisti, come diceva il Signor Nauman, possiamo ambire ad aiutare “rivelando verità mistiche”.
Le opere realizzate a Nove sono esposte a Berlino presso la
Galerie Rolando Anselmi e saranno poi visibili a Parigi per
YIA al Carreau Du Temple dal 23 al 26 ottobre.
Seguirà una sede italiana a chiudere questo prestigioso tour
espositivo. Quali sono allora, se si possono sapere, i tuoi progetti
futuri?
Sto discutendo una mostra con la galleria Timothy Taylor
di Londra, lavorando al mio primo libro, e seguendo appunto la
presentazione del gruppo di lavori in ceramica prodotti durante l’estate che sembra si svilupperanno almeno in due occasioni
di mostra nel prossimo futuro.
Le cose stanno prendendo forma, accelerando, e prendendo
finalmente solidità ed autonomia.
è davvero un momento intenso ed eccitante.