Lectio Doctoralis di Mario Consorte - Dipartimento di Agraria
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Lectio Doctoralis di Mario Consorte - Dipartimento di Agraria
LA VITIVINICOLTURA DELLA SARDEGNA TRA LE PRODUZIONI DEL NUOVO MONDO, LE TENTAZIONI DEL MERCATO GLOBALIZZATO, I VALORI E LE RESISTENZE DELLA TRADIZIONE C’è stato un tempo in cui nessuno, argomentando sulla coltivazione della vite e sulla produzione del vino, non pensasse a quest’attività come ad una prerogativa dell’area europea, mediterranea in particolare, con qualche presenza residuale nella fascia nord africana, lungo la direttrice del suo percorso d’espansione verso ovest dall’originario insediamento nel Caucaso. Con la colonizzazione del continente americano, australiano, africano da parte degli europei, nell’ultimo scorcio del passato millennio, la diffusione della cultura vitivinicola è avvenuta spesso con la complicità di zelanti missionari preoccupati della perpetuazione del rito eucaristico e, con analogo intento celebrativo sul fronte pagano, da parte dei più numerosi officianti dionisiaci. Ha avuto inizio così, in forma subdola ma in continua e silente progressione, un gratuito trasferimento della coltivazione e della cultura della vite che nel corso di due secoli ha rivoluzionato la mappa della viticoltura nel mondo. Ancora in epoca recente la mancata considerazione di una potenziale vocazionalità ambientale alla viticoltura delle nuove terre d’oltre oceano, unita ad una scarsa attenzione alle evoluzioni in atto nelle scelte d’indirizzo agricolo di questi lontani paesi ed all’atteggiamento poco lungimirante nel considerare inalienabile ed irripetibile altrove un patrimonio di conoscenze tecnologiche da lungo tempo acquisito, ha reso possibile la sottovalutazione dei grandi progressi che hanno portato alla ribalta internazionale i vini di queste aree viticole emergenti. Con attonita sorpresa l’Europa della vite e del vino si accorge così, soltanto recentemente e tardivamente, che in arrivo dal Continente americano non sono le emozionanti note della sua scoperta celebrata da Antonin Dvorak nella nota “Sinfonia dal Nuovo Mondo” ma preoccupanti segnali che allertano una dura ed immediata difesa di un primato che sta per essere insidiato. I 160 milioni d’ettolitri di vino annualmente prodotti in Europa, seppure importanti, trovano una consistente diluizione nei circa 280 milioni che la vendemmia a livello mondiale è riuscita in quest’ultimo decennio a consolidare mentre, se consideriamo l’evoluzione delle superfici a vigneto, dobbiamo accusare l’avvenuto superamento dei 3.500.000 ettari europei da parte dei nuovi Paesi produttori che ne mettono in campo ben 4.350.000. La minore produzione unitaria per ettaro dei vigneti extra europei nasconde l’ultima sfida dei Paesi viticoli emergenti alla vecchia Europa, poiché il prevedibile prossimo adeguamento agli standard di resa della nostra viticoltura produrrà l’inevitabile superamento anche nella produzione complessiva di vino. Per meglio comprendere quanto avvenuto e cosa può ancora accadere in questa competizione é utile ripercorrere alcune trascurate considerazioni ed analizzare i punti di forza anziché ricercare con compiaciuta ostinazione le improbabili debolezze di un sistema produttivo diverso dal nostro. Che la vite fosse una pianta ubiquitaria forse è stata una conoscenza del botanico più che una consapevolezza del viticoltore europeo che, richiamato all’attenzione di una tale rivelazione, ha potuto sorprendersi dell’ampiezza della fascia climatica nella quale alligna oggi, ancor prima del temuto intervento dell’ingegneria genetica che minaccia una possibile espansione verso esasperate latitudini. Lectio, pag. 1 di 7 Estese superfici di vigneti possono oggi essere ammirati nell’estreme province cinesi dello Xinjiang e del Gansu ai margini dell’infuocato deserto di Gobi, alle falde della montagna sacra ai giapponesi il Fujiama, intorno al lago Ontario in Canada, dove l’apparente handicap delle basse temperature che portano al totale congelamento dell’uva sulla pianta è stato utilizzato per l’ottenimento di un’innovativa categoria di vini passiti: quella degli “ ice wines “. Nell’ambito della favorevole acclimatazione d’importanti vitigni al di fuori delle tradizionali aree d’origine europee e della migliore estrinsecazione delle loro caratteristiche organolettiche varietali, oggi concordemente si ritiene che la più elevata espressione qualitativa del vitigno chardonnay e del pinot noir non appartengano più ai rinomati vini della Borgogna per i quali, da tempo immemorabile, vengono utilizzati, ma a nuove realtà produttive, rispettivamente la Nuova Zelanda e l’Oregon. Il vitigno shiraz, vanto della enologia francese nella denominazione Cote du Rhone è regolarmente surclassato nelle competizioni internazionali dalle produzioni australiane, mentre il Cabernet, che nella zona di Bordeaux ha generato un vino mito che si è meritato l’appellativo di “prestige de la France”, subisce nei mercati internazionali le insidie di un suo omonimo, trapiantato in Cile alle pendici delle Ande. Si può ben affermare che il carattere migratorio della vite dopo un lungo periodo di quiescenza si sia risvegliato ed abbia dato impulso ad una ripresa della sua diffusione verso ovest fino a completare figurativamente il giro del mondo. Le condizioni dello sviluppo della nuova vitivinicoltura in epoche più recenti ed in un teatro più ampio si sono svolte beneficiando innanzi tutto delle esperienze a lungo maturate nei paesi d’origine e mutuando dagli stessi le applicazioni tecnologiche di una moderna enologia, frutto di una continua ed onerosa ricerca innovativa. E’ amaro riconoscere che i produttori europei hanno gratuitamente contribuito alla crescita dei loro attuali temuti concorrenti. Oltre all’avvio agevolato delle attività vitivinicole degli operatori del nuovo mondo, concorrono ad una più agguerrita competizione dei loro prodotti alcune condizioni di grande rilevanza economica che possiamo ravvisare nei seguenti punti: 1) La dimensione aziendale capace di far realizzare nell’esercizio della attività importanti economie di scala e di consentire l’introduzione di soluzioni d’alta meccanizzazione nella gestione delle principali e più onerose operazioni colturali. A tal riguardo va messa a raffronto l’estrema polverizzazione del vigneto italiano che a fronte di 680.000 ettari mette in campo ben 600.000 aziende viticole con una dimensione media di appena 1.2 ettari, contro la realtà dell’Australia che può vantare una superficie media, per ciascuna entità viticola, di oltre 300 ettari. 2) L’ambiente vergine per la coltivazione della vite in questi nuovi insediamenti è caratterizzato da una sensibile minore presenza delle più comuni ampelopatie con conseguente vantaggio economico nella minore applicazione d’interventi per il contenimento delle stesse. 3) La struttura dei costi di manodopera nelle sue componenti d’incidenza diretta ed indiretta che risulta normalmente meno onerosa di quella europea ed italiana in particolare. Per inciso, con 10 US dollari oggi in Cile è remunerata una giornata lavorativa agricola per la quale una qualsiasi azienda italiana rispettosa degli adempimenti contrattuali e degli oneri sociali sopporta un costo di ben 120 US dollari. 4) La politica liberistica che caratterizza il sistema produttivo di questi nuovi Paesi in contrapposizione al dirigismo europeo e nazionale che, regolando ogni aspetto della filiera in termini restrittivi, di fatto, mortifica le possibilità di una più corretta competizione. 5) La capacità aggregativa delle diverse realtà produttive del nuovo mondo che, oltre ad estrinsecarsi nella costituzione di complessi economici per noi di difficile immaginazione, riescono a fare squadra nel momento propositivo sui mercati esteri con operazioni di forte impatto Lectio, pag. 2 di 7 promozionale. (Giova a tal riguardo ricordare che 2 aziende americane, la “Gallo Winery” e la “Constellation” producono e commercializzano ciascuna un volume di vino pari a 10 volte l’intera attuale produzione della Sardegna e unitamente ad un altro colosso, The Wine Group, gestiscono un fatturato pari al 66% del totale italiano ). La ragione per la quale oggi il mondo vitivinicolo europeo si interroga con crescente preoccupazione sul proprio avvenire va ricercata in una novità da taluni salutata come una grande opportunità, da altri come una reale minaccia: la compiuta globalizzazione del mercato. L’aver pensato in termini d’economie e mercati chiusi e non interferenti ci ha impedito, nel passato, di valutare con la dovuta attenzione la crescita di quelle realtà che, dopo aver saturato rapidamente le proprie esigenze di consumo interno, hanno iniziato a riversare la loro ingente produzione nelle nostre tradizionali aree d’esportazione, a seguito dei trattati di libero scambio regolamentati dagli accordi dell’Uruguay Round e dai più recenti del WTO, dando corpo ad un mercato mondiale aperto, globalizzato, che per lungo tempo è sembrato, a molti, soltanto una teoria economica. Contemporaneamente, assistiamo al fallimento della politica agricola dirigistica dell’Unione Europea ad appena sette anni dall’entrata in funzione della Organizzazione Comune del Mercato Vitivinicolo i cui provvedimenti adottati, seppure denotano la bontà delle intenzioni, hanno rivelato una scarsa previsione degli effetti complessivi. Tale valutazione si evidenzia ogni anno con i risultati della vendemmia comunitaria che ripropongono la storica afflizione di uno squilibrio tra disponibilità e potenzialità di consumo, con un notevole livello di surplus da gestire configurabile ormai in circa 20 milioni d’ettolitri pari a più del 10% dell’intera produzione vinicola europea. Tale situazione comporta l’obbligo di ripetuti interventi da parte dell’Unione Europea volti a sottrarre al mercato le eccedenze per un avvio alla distillazione distruttiva, impegnando con questa operazione il 45% delle risorse comunitarie totali destinate dal bilancio comunitario al settore vitivinicolo. Tutto questo, ulteriormente aggravato dalla recente entrata nella Unione Europea dei paesi dell’Est, ed in un quadro di consumi interni sostanzialmente stabili, pone oggi il produttore vinicolo europeo di fronte all’imperativo di un’operatività commerciale a tutto campo in un mercato interno non più difeso, anzi permeabile a qualsiasi introduzione, ed in quelli internazionali caratterizzati da un’estrema competizione con l’apparato produttivo del nuovo mondo connotato come un’industria molto potente, molto coesa, molto concentrata. Così amaramente constatiamo che il Regno Unito, nostro storico partner nel consumo del vino italiano e francese, ha ridotto le importazioni di questi Paesi dal 65 % fino all’attuale 30 %, a favore dei vini australiani che crescono rapidi anche su altri mercati internazionali, come quello americano dove la Francia è stata retrocessa dall’Australia dal primo al terzo posto, e dove la stessa incalza ora il nostro primato in volume ed in valore con un tasso di crescita a due cifre . Influenzano questo cattivo andamento non solo situazioni esterne al mondo del vino come il mercato del cambio eurodollaro ma condizioni intrinseche come la massa critica che queste aziende riescono a mettere in campo. L’80% della produzione australiana è in mano a non più di 8 colossi mentre 4 giganti detengono il 65% del mercato statunitense; competitors e partners del circuito commerciale che ragionano in termini esasperati di marketing, di mercati, di distribuzione e di qualità dei prodotti. Proprio in tema di tipologie qualitative dei vini dobbiamo registrare un ulteriore motivo di non allineamento con la filosofia di produzione dei paesi viticoli emergenti che hanno diffuso ed affermato un gusto legato a contenuti qualitativi diversi da quelli nostri tradizionali, a volte per noi di difficile Lectio, pag. 3 di 7 ripetizione per le loro differenti e più favorevoli condizioni ambientali di produzione e per una regolamentazione in materia molto permissiva rispetto alle norme europee. Disorientati ed in alcune situazioni messi alle corde, i produttori italiani cercano rifugio in alcuni valori come i vitigni autoctoni, il territorio, la tradizione, i richiami storici ed artistici considerati come distintivi ed inimitabili. Tali peculiarità manifestano la loro valenza all’interno di un mercato domestico, quando si rivolgono ad un consumatore capace d’approcciare il vino non solo in termini sensoriali ma anche culturali apprezzando i riferimenti storici e geografici di un’appropriata informazione. Ma quale impatto può avere la stessa comunicazione rivolta ad un pubblico americano che, sia pur esagerando, in termini di nozioni geografiche, qualora non ignorata, confonderebbe la Sardegna con la Sicilia, che ha una conoscenza storica minima e sommaria se esula dalla loro guerra d’indipendenza, che per le opere d’arte manifesta spesso un interesse legato più al loro supposto valore venale che allo stato emozionale che sono capaci di suscitare? Non a caso oggi nel mercato americano il vino australiano di maggior successo, venduto in più di 100 milioni di bottiglie, si presenta al consumatore con un’etichetta raffigurante un canguro dalla coda gialla o rossa denominato appunto “Yellow Tail” e “Red Tail” seguito da altri marchi di zoologia applicata come “Little Penguin” e “Crocodile Rock” il cui evidente obiettivo di marketing è di dare un’immediata e generica connotazione geografica nei processi d’acquisto sempre più veloci e semplificati. In un quadro di tali difficoltà come si pone e con quali prospettive la produzione vitivinicola sarda? Premesso che la Sardegna in questi ultimi vent’anni si è irrimediabilmente impoverita nel suo patrimonio viticolo passando da 70.000 ettari agli attuali 30.000 e considerando che l’Unione Europea ha determinato il blocco degli impianti fino all’anno 2015, in possibile estensione fino al 2018 con la nuova OCM, dobbiamo ritenere a grandi linee che l’autoproduzione garantirà a malapena il consumo interno e l’attuale livello di modesta esportazione e che nel breve-medio periodo i problemi di una crescente esigenza di interessare altri mercati, molto avvertiti a livello nazionale, non sembrano, al momento, costituire una pesante turbativa del sonno dei nostri viticoltori. Pur tuttavia ad una più approfondita analisi emerge la convinzione che per mantenere in prospettiva le posizioni acquisite nel mercato interno e per difendere il valore aggiunto in un quadro di più esasperata competizione sarà necessario intervenire sui costi di produzione nell’unica componente slegata da quelle dinamiche evolutive che non dipendono dall’operatore, quali il costo del lavoro, l’acquisto di mezzi e servizi. L’elemento su cui incidere è la resa d’uva per ettaro, suscettibile di notevoli miglioramenti e finalizzata a conseguire un’ apprezzabile fattore di diluizione nei costi. L’aumentato rendimento quantitativo, qualitativamente perseguibile da una corretta e moderna viticoltura, potrà far conseguire, a parità della attuale superficie vitata, un prevedibile incremento di almeno il 60% della attuale produzione vinicola sarda, confinata alla media più bassa tra tutte le regioni vinicole italiane come evidenziato dalla più recente analisi dei dati Istat. Il risultato ipotizzato comporterebbe, se non un allineamento, almeno un modesto avvicinamento della produzione isolana, prevedibile in 50 ettolitri per ettaro, alle medie nazionali italiana e francese che raggiungono rispettivamente valori di 74 e 61 ettolitri per ettaro. Non mi sembra velleitario il perseguimento di detto obiettivo in presenza di un più eclatante primato della viticoltura della Germania che denuncia, sempre da fonte UE, ben 92 ettolitri per ettaro di resa nazionale, quasi interamente classificata come VQPRD, anche in considerazione di una riconosciuta Lectio, pag. 4 di 7 minor vocazione ambientale nella quale viene praticata la viticoltura tedesca, rispetto alle nostre aree mediterranee. Contemporaneamente al beneficio economico derivante dal progetto di riqualificazione quantitativa delle produzioni vitivinicole della Sardegna che consentirà il consolidamento dei mercati acquisiti, si porrà il problema commerciale di un ampliamento di vendita degli incrementati volumi che una stima di larga massima può prevedere in 60-70 milioni di bottiglie. E se il mercato domestico e buona parte di quello europeo possono oggi ragionevolmente considerarsi saturi, diventerà inevitabile riversare all’esportazione la quota eccedentaria della nostra produzione verso quei Paesi, come gli Stati Uniti d’America, dove forte è la competizione ma al quale il più accreditato studio mondiale di congiuntura del settore del vino ( International Wines and Spirits record ) attribuisce nel futuro il tasso di crescita dei consumi più elevato. Ma quali filosofie di produzione adottare per difendere i risultati di ieri e dare una serena continuità al domani ? La risposta, apparentemente ovvia, risiede nella necessità che l’esercizio quotidiano del produrre sia sempre rivolto ad una consapevole certezza del poter vendere, abbandonando quelle scelte che, se pur meritevoli sul piano del perseguimento dell’obiettivo della massima distintività e qualità, valide per un mercato di nicchia, possono invece, con una politica di prezzi poco confrontabile, scontrarsi duramente con le reali possibilità di recepimento di un mercato di più grandi numeri. Sarà necessario quindi uno sforzo produttivo che nasca, non casualmente, ma da una precisa progettualità che deve sottendere un’attività imprenditoriale fatta non solo di una applicazione delle più professionali tecniche vitivinicole ma anche di conoscenze dei mercati e dei loro trend di crescita, di marketing e di comunicazione. Ci si interroga oggi se la piattaforma tipologica vinicola della Sardegna sia adeguata a coprire le esigenze di un mercato interno in continua evoluzione ed ancor più se sarà idonea ad essere esportata e ad affermarsi in quei Paesi caratterizzati da abitudini di consumo diverse dalle nostre e dove, più che altrove, vige la dura regola della miglior qualità al minore costo. La produzione vinicola sarda ha partecipato, al pari di quella italiana in generale, al formidabile recupero di credibilità sul piano dell’immagine che ha caratterizzato gli anni ’90 e che ha spostato il consumo interno verso prodotti di maggior qualità e di più alto apprezzamento. Lo sviluppo è avvenuto sostanzialmente a carico d’alcune tipologie tradizionali opportunamente rivisitate ed ha interessato 20 denominazioni d’origine controllata e 15 indicazioni geografiche tipiche; una produzione che appare pletorica nel raffronto con la rappresentazione commerciale ridotta a non più di 5 denominazioni che riescono ad avere un minimo di notorietà al di fuori dell’isola: Vermentino di Sardegna, Vermentino di Gallura, Cannonau di Sardegna, Carignano del Sulcis, ed i vini della denominazione Alghero. La restante produzione, ancorata a denominazioni locali, a vitigni poco conosciuti, a schemi qualitativi di lunga tradizione ma di difficile interpretazione dal moderno consumatore, non riesce ad uscire dall’isola e resta confinata ad un consumo interno, favorita da reiterate abitudini e dal supporto dei tanti valori storici, aneddotici, ambientali che solo noi possiamo pienamente apprezzare e riverberare nel godimento qualitativo e nella elevazione di immagine di queste produzioni. Lectio, pag. 5 di 7 La Malvasia di Bosa, la Vernaccia d’Oristano, il Semidano, il Monica, il Girò di Cagliari, l’Anghelu Ruju, sono casi emblematici di vini di grande qualità, qualità che viene sicuramente amplificata nel godimento dalla conoscenza evocata di tutte quelle nozioni che dal nostro bagaglio culturale riusciamo ad estrarre con carattere d’attinenza. Ma pensare che simili vini possano aspirare ad un pubblico più vasto dell’attuale ed essere proposti al consumo al di fuori dei confini regionali mi sembra pura utopia anche considerando i limiti della loro risibile produzione. Quale futuro allora per l’affermazione in termini di notorietà e per l’ampliamento del mercato dei vini sardi? Accantonati i vini del ricordo destinati sempre di più ad assumere le connotazioni di un reliquato prezioso del nostro passato, e per questo proponibili preferibilmente per un consumo interno, in un mercato di nicchia, magari in interazione con le attività turistiche del territorio di cui ben rappresentano il “ genius loci “, possiamo ipotizzare due distinte linee di possibile crescita. La prima rivolta ad un mercato nazionale ed anche all’esportazione, qualora venisse sostenuta da un’opportuna ed adeguata regia di comunicazione a carattere regionale, dovrebbe valorizzare le uniche due produzioni che attualmente identificano la nostra regione con vitigni pressoché esclusivi: il vermentino ed il cannonau entrambi legati nella loro denominazione al nome della Sardegna. Una scelta peraltro già fatta dalle grandi catene del sistema distributivo moderno che nel razionale utilizzo degli spazi di vendita nei mercati esterni all’Isola, riservano a questi due soli vini la rappresentazione della tipicità regionale. La seconda linea, indirizzata prevalentemente ai mercati esteri dell’area anglofona, dovrebbe consentire la collocazione di quelle ipotizzate produzioni incrementative che possono trarre origine dalla piena estrinsecazione del potenziale produttivo dell’attuale dimensione del vigneto sardo, in un quadro di migliorata competitività riconducibile ai minori costi di produzione. E’ ovvio pensare che per questi vini la possibilità d’affermazione, o meglio di minor resistenza, alla loro diffusione in un mercato globalizzato dovrebbe passare attraverso l’assecondamento delle esigenze di un gusto altrettanto globalizzato che ha avuto origine dall’utilizzo dei vitigni internazionali Cabernet, Merlot, Chardonnay e Sauvignon che hanno dimostrato anche nel nostro ambiente eccellenti risultati d’acclimatazione e che si sono potuti imporre al consumo con il carattere deciso di una diversificazione mediterranea oggi particolarmente apprezzata. L’appellativo di “ internazionali “ ai summenzionati vitigni, merita una considerazione. La ragione per la quale si sono diffusi nei più disparati Paesi risiede nella loro grande attitudine ad una diversificata ambientazione mantenendo integre le caratteristiche di facilità di coltivazione, di buona produttività e di altrettanto buona estrinsecazione qualitativa. In contrapposizione, molti vitigni autoctoni che oggi in maniera indiscriminata si cerca di recuperare, a volte per improbabili e velleitarie rivitalizzazioni, possono nascondere i rischi legati alle cause dimenticate del loro abbandono. Comunque il vitivinicoltore che affida le sue produzioni ad un mercato diverso e più ampio di quello che si sviluppa all’ombra del proprio campanile, dovrebbe aver presente che la strada del successo non sempre passa attraverso la convinzione che “ piccolo “ sia anche sinonimo di “ buono “ e che il vino derivato da un vitigno autoctono debba essere migliore e di più alto appeal rispetto ad altri di diversa origine. Non a caso le più alte espressioni qualitative della enologia nazionale, consacrate da un grande successo di critica e di consumo a livello internazionale, sono rappresentate da due “supertuscan” Lectio, pag. 6 di 7 Sassicaia ed Ornellaia che, pur provenendo da una regione di indiscussa grande tradizione, traggono origine rispettivamente dai vitigni Cabernet e Merlot. La vera originalità intesa come distintività di un determinato vino non è tanto riposta nel vitigno impiegato, oltretutto poco difendibile per il suo carattere di bene strumentale di proprietà universale, ma è legata piuttosto a valori unici, non ripetibili altrove e non alienabili, come le condizioni ambientali in cui crescono i vigneti e nell’insieme di quelle pratiche di carattere viticolo ed enologico che costituiscono il patrimonio di un sapere antico, ma aperto, che sa identificarsi in una tradizione vissuta non in maniera statica ma dinamica. Nella convinzione della grande forza di questi inalienabili valori dovrebbero confluire le future scelte imprenditoriali della vitivinicoltura isolana sia per il rafforzamento di alcune produzioni destinate al mercato domestico che per la più facile affermazione di altre su quello internazionale. Soprattutto per quest’ultimo sarà necessario una stringata ma efficace comunicazione rivolta al consumatore circa l’origine geografica e di vitigno, veicolata attraverso le diciture in etichetta. Si potrebbe pensare all’utilizzo di un identificativo con funzione di ombrello, che evidenzi, oltre il nome “Italia” che ormai nel mondo rappresenta da solo un marchio, anche il nome “Sardegna”, che abbiamo legato nella denominazione dei vini tipici Vermentino e Cannonau della prima linea, esercitando, così, quella auspicabile azione congiunta nella non facile memorizzazione della comune origine geografica. Nazione e vitigno rappresentano tutte le informazioni che un consumatore medio del Nuovo Mondo desidera sapere nei confronti di un vino per soddisfare le sue esigenze in termini di provenienza e gusto; la regione è già un “di più” che può aggiungere fascino a chi la conosce. Ritengo questa via l’unico possibile compromesso per affrontare con una residuale dignità di vecchio produttore europeo il disinibito mercato del nuovo mondo dove forse un vino bianco ed uno rosso della nostra isola, contraddistinti in etichetta dall’immagine di un muflone dalle corna rispettivamente gialle o rosse, e con il supporto di una costosissima e per questo, impraticabile, campagna pubblicitaria, potrebbero probabilmente cogliere al meglio le opportunità di un facile successo. Sassari, 22 Febbraio 2008 Lectio, pag. 7 di 7