catalogo mostra

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catalogo mostra
San Fedele Arte
Galleria San Fedele
Via Hoepli 3 a-b
20121 Milano
Tra Natura e Spirito.
omaggio a Giuseppe Panza di Biumo
2 ottobre al 21 novembre 2012
mostra a cura di
Andrea Dall’Asta S.I., direttore Galleria San Fedele
Gabriella Belli, direttore della Fondazione Musei Civici di Venezia
Giuseppina Caccia Dominioni Panza, collezionista
opere di
Hamish Fulton, Allan Graham, Ron Griffin,
Richard Long, Christiane Löhr, Emil Lukas,
Gregory Mahoney, Richard Nonas, Phil Sims
testi
Gabriella Belli,
Giuseppina Caccia Dominioni Panza,
Andrea Dall’Asta S.I.
coordinamento mostra e redazione catalogo
M. Chiara Cardini
allestimento
Umberto Dirai
progetto grafico
Donatello Occhibianco
organizzazione stampa
Augusto Papini
si ringraziano
Giovanna Panza di Biumo
e tutta la sua famiglia
si ringrazia inoltre
FONDAZIONE
CULTURALE
SAN FEDELE
TRA NATURA E SPIRITO
OMAGGIO A GIUSEPPE PANZA DI BIUMO
Tra Natura e Spirito.
Omaggio a Giuseppe Panza
di Biumo
Con la mostra Tra Natura e Spirito. Omaggio a Giuseppe Panza di Biumo, la Galleria San Fedele rende
omaggio a un protagonista dell’arte contemporanea. A partire dagli anni ‘50, il conte Giuseppe Panza di
Biumo giunge a costituire negli anni una collezione tra le più importanti nel mondo, oggi ripartita in nuclei
tra diversi musei: l’Arbright-Knox Gallery di Buffalo, il MOCA-Museum of Contemporary Art di Los Angeles,
il Museo Cantonale d’Arte di Lugano, la Fondazione Solomon R. Guggenheim Museum di New York, Villa
Menafoglio Litta Panza di Biumo Superiore a Varese, il Palazzo Ducale di Sassuolo, l’Hirshhorn Museum di
Washington e il Museo di San Francisco SFMOMA.
Andrea Dall’Asta S.I.
Amico di p. Arcangelo Favaro, fondatore del Centro Culturale San Fedele e in seguito di p. Alessio Saccardo
direttore Galleria San Fedele
e di p. Eugenio Bruno, è stato uno dei maggiori interlocutori della Galleria San Fedele, sin dal momento della
sua nascita, avvenuta negli anni ’50. Ricordiamo la celebre mostra del 1968 in cui, all’inaugurazione della
rinnovata Galleria San Fedele - il precedente spazio espositivo si affacciava su Piazza San Fedele 4 – furono
presentate le opere di alcuni tra i protagonisti dell’arte contemporanea del tempo, soprattutto americana,
da Franz Kline a Claes Oldenburg, da Robert Rauschenberg a Mark Rothko, senza dimenticare gli europei
Antoni Tapies e Jean Fautrier. Allo stesso modo, ricordiamo l’importante mostra di Richard Nonas realizzata
nel 1976. Di grande interesse furono ancora le recenti mostre di Alfonso Fratteggiani Bianchi (2001), di
Franco Vimercati (2002), di Lawrence Carroll (2004), di Max Cole (2006)…
La mostra Tra Natura e Spirito. Omaggio a Giuseppe Panza di Biumo presenta nove artisti, le cui opere sono
state collezionate tra il 1988 e il 1995. Le opere presenti in mostra si caratterizzano per un’attenzione alla
natura e alle sue infinite modalità di suggerire e di evocare forme e colori. Come se la natura fosse abitata
da una forza e da una energia che l’artista trasfigura e vivifica. L’artista tedesca Christiane Löhr presenta
alcuni lavori altamente poetici, dalle forme semplici e armoniche: sono bellissime composizioni di vegetali
essiccati, di piccole dimensioni, custodite in scatole di vetro. Alcuni fragili fili d’erba diventano simbolo
dell’inesorabile scorrere del tempo, del carattere effimero di tutte le cose, della vita. Anche il celebre artista
Richard Long, esponente di primo piano della Land Art, presente in mostra con Arizona Circle (1987),
interpreta la bellezza della natura a partire da un semplice cerchio di pietre, la cui presenza trasforma lo
spazio in cui è collocato in un luogo di meditazione e di contemplazione. La mostra prosegue con le opere
dell’artista americano Phil Sims. Si tratta di due grandi monocromi degli anni ’90, ottenuti attraverso strati
successivi di colori, quasi uguali. La tela si rivela come il risultato di un lento processo evolutivo, di grande
fascino e suggestione, in grado di captare la luce e di diffonderla, in modo sempre diverso, secondo il
variare della luminosità esterna. Anche l’americano Gregory Mahoney presenta alcuni monocromi degli
anni ‘90 dal titolo Sea, con i colori dell’azzurro del mare, del bianco del sale e della ruggine della terra,
molto diversi quindi dalle tele di Phil Sims, in quanto realizzati utilizzando come supporto rottami della
Death Valley negli Stati Uniti. In un gesto di recupero di materiali gettati, di scarto, poi trasfigurati dal
colore, l’artista sembra compiere un gesto di amore verso la natura. Se l’opera di Richard Nonas, The Death
of San Francisco (1976), una grande croce in ferro a terra che, nella sua essenzialità formale, esprime tutta
la sua pesantezza e il suo senso di oppressione, l’americano Ron Griffin, la cui opera affonda le radici nella
tradizione della natura morta così come si afferma dal XVII secolo, nella sua caratteristica d’imitazione
del reale e nella sua valenza simbolico/espressiva, con Phantom Summer (1994), suggerisce, attraverso
l’accostamento di tavole lunghe e strette, un tramonto nel deserto o il sole che nasce. La stessa passione
per la natura, sia pure espressa con modalità completamente diverse, caratterizza le fotografie dell’artista
inglese Hamish Fulton che ci riporta in luoghi solitari dove la natura è ancora incontaminata. Infine, se
l’americano Emil Lukas presenta oggetti che hanno affinità con le forme viventi, mostrandoci la bellezza
di quanto si viene a creare attraverso processi di stratificazione, l’americano Allan Graham, la cui ricerca
artistica non è separabile da una ricerca religiosa che lo ha avvicinato al buddismo, con Monks Foot (1986)
presenta una sorta di scultura-pittura ibrida, di grande intensità espressiva nell’eccentricità della sua
forma. Un grazie sincero a Giuseppe Panza, alla sua cara moglie Giovanna, e alla sua famiglia con la quale
la Galleria San Fedele continua a collaborare in spirito di sincera amicizia.
Tra Natura e Spirito.
Omaggio a
Giuseppe Panza di Biumo
Questa mostra dedicata a mio padre e al suo amore per l’arte, è un grande regalo che p. Dall’Asta e tutti i
Gesuiti di Milano hanno voluto fare alla sua memoria.
Il rapporto tra di loro è sempre stato molto forte, dagli anni ’50 fino alla sua morte ed ancora oggi tramite noi,
suoi eredi. La passione per l’arte che si respirava e che si respira ancora, tra queste mura, è stata la ragione
che li ha uniti per tutti questi anni: una passione profonda, legata allo spirito ed al bello, argomenti così cari
a mio padre.
Papà è sempre stata una persona schiva, quasi timida, meditativa e questo lo ha portato ad avvicinarsi a quelle
Giuseppina Panza di Biumo
discipline, come la filosofia, che lo costringevano a pensare. Da lì il passo è stato breve per arrivare all’arte, alla
collezionista
storia, alla fisica, all’astronomia, tutti argomenti così fortemente legati tra loro. Nulla resta separato dall’altro.
Per spiegare cos’era l’arte e il perché delle sue scelte, partiva sempre dalla Creazione, dal mondo che ci
circonda, dalla natura, per arrivare allo Spirito e alla spiritualità delle opere. Non poteva non pensare a Dio
come al Creatore di tutto, come a Colui che rappresenta la verità, una verità che noi uomini non possiamo
possedere fino in fondo, ma solo parzialmente, ma che è dentro di noi e nella natura.
Per papà, lo scopo della nostra vita è il progredire verso mete più alte, cioè una progressione verso il bene
infinito e l’arte è la rappresentazione di questa lenta progressione.
Forse è proprio questo modo di pensare che lo ha spinto verso scelte così drastiche e comunque sempre
coerenti in tutto il suo percorso: il bello e tutto ciò ad esso connesso. La natura è ciò che di più bello esista e
l’uomo ha sempre cercato di imitarla e di rappresentarla e le opere qui esposte ne sono la prova.
Il viaggio negli Stati Uniti del ’53 è stato per lui illuminante anche per quello che ha visto e ha sentito ammirando
i panorami che lo circondavano. Papà è stato tante volte nel deserto del New Mexico e dell’Arizona, è andato
con Gregory Mahoney nella Death Valley, ha contribuito come primo finanziatore al progetto di Turrell del
Roden Crater, è stato a vedere le opere di Heizer e De Maria nel deserto.
E poi c’era Varese, con i suoi spazi per le opere, il suo magnifico giardino, la luce particolare che entrava dalle
finestre. Tutto in quella casa era magia, per lui tutto diventava ragione di gioia e godimento, ogni angolo.
Negli ultimi anni della sua vita, dovendo passare molto tempo a Biumo, si è divertito a fotografare tramonti
e cieli. Ci ha lasciato una quantità di immagini di cieli dai colori più fantastici: rosa, rossi, arancio, e cieli
grigi, quasi plumbei con nuvole cariche di pioggia. Ancora oggi lo vedo mentre cammina pensieroso nel suo
giardino, immerso nella bellezza e nel silenzio.
Molti suoi artisti hanno utilizzato la natura come mezzo ispirante e quelli qui esposti ne sono un esempio, sia
che appartengano a correnti già conosciute come l’arte ambientale e quella concettuale o che appartengano
a quelle più recenti come l’arte del colore e quella legata ad artisti che usano materie organiche. Il dialogo tra
Christiane Löhr
Grosse Bogenform (Grande forma di arco), 2005
graminacee
10,5x21x18 cm
Collezione Panza, Lugano
Photo credit Alessandro Zambianchi - Simply.it, Milano
di loro è sereno e continuo, come se il tempo non fosse mai passato.
Tutta la collezione è un susseguirsi di movimenti artistici, di momenti storici, che ritornano ai temi della natura
e dello spirito. Essi non sono mai lontani gli uni dagli altri, ma complementari e per mio padre assolutamente
vitali.
L’unicità dell’esperienza artistica, dell’opera d’arte, di una collezione: ancora oggi sembrano questi i
Una magnifica voce fuori campo
presupposti fondamentali su cui l’arte poggia il proprio destino. Potrebbero suonare come principi di
retroguardia, ma sono piuttosto frutto di una valutazione cogente dei tempi presenti, tempi assai complessi.
Il sistema dell’arte contemporanea, al quale collezionismo e creatività appartengono, non è esente infatti da
una deriva nel caos degli universi speculativi e finanziari. Una deriva preconizzata da almeno due decenni
e che oggi mostra i sintomi di una sempre più grave criticità. E si badi bene non si tratta di una caduta
di significato dell’avventura artistica, bensì della fatale attrazione del sistema culturale all’interno di una
sfida economica, che ne ha radicalmente mutato la finalità e i valori. Oggi più che in passato serve dunque
Gabriella Belli
riflettere su esempi e modelli positivi, per continuare a credere nell’arte come a uno status dello spirito, per
direttore della Fondazione Musei Civici di Venezia
dare valore salvifico alla cultura.
Giuseppe Panza di Biumo rappresenta uno di questi esempi, tra i più alti della storia del collezionismo
italiano contemporaneo, nel novero non numeroso di coloro che nel corso di vite totalmente dedicate
all’arte, hanno saputo collezionare al di sopra e oltre qualunque pretesa finanziaria, di ogni cedimento alla
moda e al gusto corrente, di ogni ritorno alla maniera, guardando solo avanti, alla ricerca di una sempre
nuova sfida creativa. Chi ha avuto la fortuna di conoscere quest’uomo esile nell’aspetto eppure di ferro
nella volontà, aristocratico nei modi eppure intransigente nelle scelte, affabile e generoso nelle relazioni
eppure selezionatore di fiuto finissimo, può capire di cosa parlo. La sua storia sembra appartenere a un
mecenatismo d’altri tempi, quando, in consessi assai esclusivi il principe sapeva selezionare il nuovo e ne
pretendeva il possesso, ricavandone meraviglie per i decori delle sue case, oggi monumenti alla grande
fioritura delle arti nei secoli passati. Bellezza, armonia, dotti assunti pedagogici dell’immagine erano alcuni
degli elementi fondamentali del suo giudizio e della sua scelta artistica, categorie che apparentemente oggi
poco sembrano adattarsi alla complessità dell’arte contemporanea, ma che, a dispetto di ogni superficiale
giudizio, ritroviamo a guida della raffinatissima collezione di Giuseppe Panza di Biumo.
La sua raccolta si è formata in grande libertà ma anche rispettando alcune regole decise in comunione
d’intenti con l’adorata moglie Maria Rosa Magnifico, accanto a lui in tutte le sue scelte, e sono regole
che oggi noi riconosciamo come pietre miliari della sua collezione: l’ambito geografico rigorosamente
circoscritto nei pur amplissimi confini USA del secondo dopoguerra (con qualche eccezione giovanile e
d’impeto), l’interesse del tutto prevalente per la pittura e scultura astratta (con qualche iniziale abbandono
alla figurazione New dada e Pop), la cifra dell’acquisto mai oltre un tetto ritenuto congruo rispetto al valore
artistico dell’opera (alcune “perdite” di lavori poi rivelatesi capolavori furono proprio dettate da questo
limite economico), e, infine e soprattutto senza averne paura, la bellezza intesa come perfetto connubio di
armonia, significato, empatia.
Regole mai tradite, che hanno sancito da lungo tempo il rigore assoluto della sua collezione, di cui tanto si
è detto e scritto, ma non molto si è visto in questo nostro Paese, che non ha saputo al momento opportuno
trattenere questo inestimabile valore artistico e culturale, migrato nel disinteresse generale in USA e oggi
protagonista delle prestigiose raccolte del Guggenheim Museum di New York e del MOCA di Los Angeles.
Sapranno i tempi futuri offrire a questo nostro Paese così alti esempi di passione, di amore, di dialogo
incessante tra opera d’arte, artista e collezionista? Sarà possibile replicare tanta energia? Noi ci speriamo
e nel frattempo continuiamo a credere nell’esempio di Giuseppe Panza, che ci ha indicato una strada
per trasformare l’arte in un principio vitale della nostra esistenza, ci ha insegnato a confrontarci con il
lavoro degli artisti guidati da poche semplici regole, da molti silenzi, riflessione e coraggio, fuori da ogni
protagonismo, da ogni ostentazione.
Giuseppe Panza ha attraversato quasi 60 anni di produzione artistica, confrontandosi con le più importanti
esperienze creative americane del secondo dopoguerra, ne ha scelto solo alcune, quelle più consone alla
sua idea di felicità, di bellezza, di armonia, voci angeliche della sua vita, ispiratrici di un principio etico di
cui continuiamo ad avvertire il peso e l’importanza: esempio grande il suo, che ancora oggi rende fertile il
“mestiere” sempre più minacciato del collezionista d’arte.
HAMISH FULTON
LOOKING AT TOMORROW
(Scottish North West Highlands), 1974
fotografie e testo su carta
5 parti, ciascuna: 61x85,5 cm;
ciascuna cornice: 63,2x87,8 cm
Collezione Panza, Lugano
Photo credit Alessandro Zambianchi - Simply.it, Milano
HAMISH FULTON
EIGHT PHOTOGRAPHIC WORKS, 1970
fotografie su carta
8 set, ciascuno: 30x40 cm; ciascuna cornice: 41,8x51,8 cm
Collezione Panza, Lugano
Photo credit Alessandro Zambianchi - Simply.it, Milano
ALLAN GRAHAM
MONKS FOOT, 1986
pagine della poetica di Allen Ginsberg, inchiostro, tela, legno
244,3x20,3x123 cm
Collezione Panza, Lugano
Photo credit Alessandro Zambianchi - Simply.it, Milano
RON GRIFFIN
PHANTOM SUMMER (SIC) (RGP 239-94), 1994
inchiostro e poliuretano su legno
8,6x291,2x4,4 cm
Collezione Panza, Lugano
Photo credit Alessandro Zambianchi - Simply.it, Milano
CHRISTIANE LÖHR
KLEINER TURM (Piccola torre), 2000
semi di edera
18x20x15 cm
Collezione Panza, Lugano
Photo credit Alessandro Zambianchi - Simply.it, Milano
CHRISTIANE LÖHR
KLEINE PARABEL (Parabola di crine), 2008
crine di cavallo, aghi
3,5x53x29 cm
Collezione Panza, Lugano
Photo credit Alessandro Zambianchi - Simply.it, Milano
RICHARD LONG
ARIZONA CIRCLE, 1987
83 pietre
40x240x240 cm
Collezione Panza, Lugano
Photo credit Erica Barahona Ede, Guggenheim Bilbao
EMIL LUKAS
EGG RUB, 1994
6 pannelli doppia faccia
pittura mista su tela, plastica, carta, legno, materiale organico
aperta: 182,8x635x5 cm
ciascun pannello: 182,8x101,6x5 cm
Collezione Panza, Lugano
Photo credit Alessandro Zambianchi - Simply.it, Milano
EMIL LUKAS
WHERE ROOTS WANDER, 1993
pila in 29 sezioni
tela, carta, plastica, vetro, legno, cemento, pittura, gesso
162,5x27,9x21,5 cm
Collezione Panza, Lugano
(particolare sezione 1 di 29, faccia superiore)
(particolare sezione 29 di 29, faccia superiore)
Photo credit Alessandro Zambianchi - Simply.it, Milano
GREGORY MAHONEY
AXIS (Homage to Malevich), 1995
16 lattine in acciaio arrugginito, acciaio, pittura ad olio
238,7x12,7x12,7 cm
Collezione Panza, Lugano
Photo credit Alessandro Zambianchi - Simply.it, Milano
testo:
NATURE IS HIDDEN IN THE INFINITE AND MANY SIDED
AND DOES NOT REVEAL ITSELF IN THINGS
GREGAORY MAHONEY
SEAS, 1995
acciaio arrugginito, pittura ad olio, pigmento, sedimento, sali alcalini, sale
83,82x335,2 cm
3 pannelli ciascuno: 83,82x83,82 cm
Collezione Panza, Lugano
Photo credit Alessandro Zambianchi - Simply.it, Milano
RICHARD NONAS
THE DEATH OF SAN FRANCISCO (Giotto’s Hat), Spoleto 1976
acciaio
15x125x125 cm
Collezione Panza, Lugano
Photo credit Alessandro Zambianchi - Simply.it, Milano
PHIL SIMS
UNTITLED (Cat.#190), 1994
olio su lino
215,9x165 cm
Collezione Panza, Lugano
Photo credit Alessandro Zambianchi - Simply.it, Milano
PHIL SIMS
UNTITLED (Cat.#192), 1994
olio su lino
215,9x165 cm
Collezione Panza, Lugano
Photo credit Alessandro Zambianchi - Simply.it, Milano
1. Milano, Galleria San Fedele 31 gennaio 1968.
Al centro, il conte Giuseppe Panza di Biumo.
Intervista con Panza di Biumo.
L’arte contemporanea
alla ricerca di Dio1
Il conte Giuseppe Panza di Biumo è uno dei più importanti interlocutori dell’arte contemporanea, certamente
tra i maggiori punti di riferimento per la comprensione dell’arte durante la seconda metà del Novecento.
Paragonato più volte a Lorenzo il Magnifico, Giuseppe Panza di Biumo non si è semplicemente limitato a
collezionare o a commissionare opere d’arte, ma a interpretare il significato più profondo dell’espressione
estetica. L’arte non è solo fenomeno di carattere commerciale ma un’attività creatrice dello Spirito che mette
l’uomo in comunicazione con quanto di più “intimo” e “interiore” si situa nella sua esperienza di vita.
Sin da giovane, inizia a collezionare arte contemporanea, guidato da una grande curiosità e al tempo stesso
Andrea Dall’Asta S.I.
da una intensa passione per tutto quanto permette di conoscere il mondo che ci circonda. Studia arte
direttore Galleria San Fedele
antica e soprattutto contemporanea, occupandosi nel medesimo tempo di filosofia, di biologia, di storia, di
astronomia, di fisica delle particelle... L’arte non può essere compresa e interpretata se non all’interno di una
visione unitaria e coerente del mondo.
Il suo nome è oggi legato ad alcuni artisti le cui opere si trovano nei maggiori musei del mondo, come
il Guggheneim di New York, il Moca di Los Angeles... È certamente uno dei maggiori esperti d’arte
contemporanea, non sempre amato, talvolta temuto, per il fatto che ha saputo rompere decennali equilibri,
creare legami imprevisti, ricevere consensi al di fuori dei normali circuiti in cui l’arte è abitualmente
commercializzata. Ha talvolta pagato di persona l’avere scommesso su artisti che nessuno aveva mai
considerato, per poi ottenere straordinari riconoscimenti e assensi.
Recentemente, dona al FAI, Fondo Ambiente Italiano, un’antica villa settecentesca, Villa Litta-MenafoglioPanza, contenente all’interno una straordinaria collezione di opere di artisti viventi, per la maggior parte
americani, oltre che una splendida collezione di arte africana, di tappeti e di mobili antichi.
Il suo sogno: potere intervenire con uno o più artisti all’interno di una Chiesa antica o contemporanea,
in modo tale da creare un luogo che inviti alla meditazione e alla preghiera. Non a caso, Giuseppe Panza
di Biumo è stato all’origine del celeberrimo intervento all’interno della “Chiesa Rossa” di Milano, grazie
all’artista americano Dan Flavin. Un intervento di straordinaria importanza che si situa nel solco delle grandi
commissioni compiute in età rinascimentale e barocca, in cui tutto l’apparato pittorico e scultoreo, ben
lungi dall’essere concepito come semplice decorazione, si pone al contrario al servizio della riflessione, della
preghiera, di uno spazio privilegiato in cui il fedele è chiamato a entrare in dialogo con le dimensioni più
profonde del proprio essere.
Inutile stupirsi: se l’arte cristiana ha talvolta interrotto quello stretto legame che la metteva in comunicazione
con la cultura del suo tempo, si tratta ora di ricreare quelle condizioni culturali e spirituali, affinché questo
dibattito tra Chiesa e mondo possa riprendere nella fiducia e nella stima reciproche, nel desiderio di ricercare
insieme nel mondo e col mondo quei valori umani e spirituali che l’arte ha sempre saputo infondere. Nel solco
1 L’articolo è apparso sul Quaderno n° 3657 del 02/11/2002
di Civiltà Cattolica, IV, pp. 213-318.
di queste rapide riflessioni, abbiamo chiesto a Giuseppe Panza di Biumo di aiutarci nella comprensione del
dibattito attuale che anima il mondo dell’arte.
Andrea Dall’Asta S. I.
L’espressione artistica non può mai essere scissa dal mondo in cui nasce. L’arte rispecchia e interpreta
l’universo dell’uomo in tutte le sue varie espressioni e manifestazioni.
Tuttavia, se il mondo classico era caratterizzato dal principio d’unità tra Bello, Buono e Vero, sembra difficile
riconoscere le direttrici fondamentali all’interno delle quali si muove l’arte contemporanea. Una fragilità
inquietante si aggiunge a un senso d’incertezza e di precarietà. Il tradizionale significato dell’arte è messo in
discussione. Alla ricerca oggettuale di buona parte dell’arte contemporanea che troppo spesso si limita alla
presentazione di una parata di oggetti vuoti e insignificanti, di frammenti illogici e incoerenti, interpretando
spesso in modo arbitrario l’atto dissacratorio di Duchamp, va aggiunto tutto un mondo dell’“immagine” che
molto difficilmente potrebbe essere identificato come “artistico”.
Nuove categorie sono apparse, come quelle dell’orrore, della dissacrazione blasfema, del ripugnante, del
sadismo, del post-human. Gusto della perversione, della violenza, del sangue. Basti ricordare le inquietanti
trasformazioni di Orlan e al modo con cui l’artista si sottopone alla chirurgia estetica, nella finalità di mutare
la propria immagine corporea, o al modo con cui Witkin ci presenta mostri, identità impreviste, corpi osceni
che scardinano il mondo della “normalità” naturale o ancora alle recenti trasmissioni televisive americane che
fondano la propria audience sul truculento, sul disgusto al tatto e alla vista...
Una “discutibile” nostalgia del sacro sembra poi esprimersi attraverso immagini apocalittiche, come nelle
performances di Athey, creatore di spettacoli crudeli, spesso concepiti come messe in scena di tradizionali
immagini religiose. Esperienze performative con automutilazioni, tagli, incisioni, perdite di sangue... Athey
parla di una ricerca della verità attraverso la percezione del dolore del corpo, nel desiderio di andare al
cuore della propria identità. Avvertiamo tuttavia perplessità, malessere e disagio nella volontà dell’artista di
scuotere le coscienze dell’uomo contemporaneo, volendo suscitare violente emozioni, shock visivi. La verità
si offre solo nel pudore, nella discrezione, in un riconoscimento sofferto...
In molte manifestazioni di arte contemporanea è evidente un ambiguo rapporto con la morte. Come nel
francese Molinier. L’artista si spoglia, si traveste, trasgredisce l’idea normale di sessualità, mette in primo
piano organi genitali, utilizza maschere inquietanti e oggetti sado-maso... Tutto appare attraversato
dall’ambiguità, dal desiderio di violare i confini naturali della sessualità. Tutto appare avvolto da una sorta di
crudele non-senso. Come se si avesse la morte per amica, direbbe il libro della Sapienza. Immagini scioccanti.
Fascino della morte, come nelle seducenti e tragiche fotografie di Mattlethorpe.
Giuseppe Panza di Biumo
Il mondo contemporaneo è certamente caotico, frammentario, confuso nelle sue varie manifestazioni. Ne
emergono tuttavia valori grandissimi. Certo, è come se si assistesse a un fenomeno di entropia, in cui non
sembra più possibile un’organizzazione “sensata” della vita, che sussiste solo nella centralità di un preciso
rapporto con Dio, in una profonda riflessione sul destino ultimo dell’esistere. Il mondo in cui viviamo è
attraversato da una frammentazione, da una dispersione. Tutto vi appare relativo. Tutto sembra avere perso
un centro, un punto di riferimento preciso attorno al quale orientarsi. Un nichilismo di fondo sembra avvolgere
l’orizzonte dell’esistenza dell’uomo contemporaneo che si muove sempre più secondo coordinate incerte e
confuse. Dopo Niezstche, la filosofia e la teologia hanno più volte parlato della morte di Dio, dell’assenza
di Dio dal nostro mondo. L’arte riflette certamente questa condizione d’insicurezza, d’indeterminazione, di
fondamentale fragilità.
Un esempio: attraverso la rappresentazione di figure lacerate e contorte poste su di un fondo uniforme, Bacon
esprime questo carattere tragico che pervade il senso della vita dell’uomo d’oggi. Tuttavia, se Bacon esprime
in modo straordinario la tragedia di un uomo solo di fronte al mondo e a Dio, attraverso la rappresentazione
di volti agghiaccianti che emettono grida soffocate, senza suoni, troppo spesso, oggi, non si può parlare di
arte per il motivo che il rapporto tra la forma e i valori trasmessi appare dissolto in una spettacolarizzazione,
in un gusto della provocazione, in un vacuo desiderio di suscitare shock visivi ed emotivi. In questo modo,
l’arte parla solo del vuoto, dell’insignificante.
Credo tuttavia che il mondo contemporaneo sia attraversato da una profonda ricerca di spiritualità, da un
grande desiderio di aprirsi ai valori fondamentali dell’uomo, di andare al cuore del senso ultimo dell’esistenza,
nella sua verità e autenticità. Anche se, troppo spesso, questa esigenza non compare proprio in quei luoghi
che sarebbero invece deputati a caratterizzarsi come spazi della vita dello spirito, accogliendo opere di artisti
che appaiono invece fondamentalmente banali e superficiali nella loro ricerca estetica e spirituale. Opere
che sembrano svalorizzare quel desiderio dell’uomo di prendere sul serio il significato più profondo delle sue
possibilità e capacità creative, come si può facilmente constatare in tante Chiese contemporanee. Anche la
sezione di arte moderna dei Musei Vaticani manca delle opere di quegli artisti che hanno segnato in maniera
inconfondibile la ricerca umana e spirituale del Novecento.
Andrea Dall’Asta S. I.
Sono d’accordo che il mondo di oggi, pur tra tante contraddizioni, è attraversato da un sincero slancio
animato dal desiderio d’interpretare il mistero dell’uomo nella sua relazione con Dio. Si tratta tuttavia di un
aspetto che in ambito cattolico non appare sufficientemente preso in conto dal mondo dell’arte. A partire
dagli esempi concreti di arte sacra contemporanea, potremmo infatti chiederci quale arte cristiana è oggi
possibile.
Da Paolo VI a Giovanni Paolo II, numerose aperture sono state avanzate e formulate. Numerosi testi hanno
cercato d’incoraggiare gli artisti a essere autentici interpreti della loro fede inscritta negli spazi e nei tempi
della loro cultura. Gli artisti sono stati più volte invitati a creare opere che possano esprimere l’autenticità
dell’esistenza dell’uomo nella sua relazione con quanto di più profondo si situa nella sua vita. Infatti, l’artista
non può limitarsi a rappresentare semplicemente un contenuto, ma è chiamato a inscrivere nell’opera stessa
la presenza della sua esperienza religiosa. Creare un’opera d’arte è esperienza della propria fede. Dipingere,
scolpire, è creare vita. La tela, la scultura..., vengono dalla vita. In questo, risiede l’efficacità dell’immagine. È
tuttavia difficile riscontrare questo desiderio di rinnovamento nei vari esempi di arte sacra contemporanea.
La difficoltà con cui in un passato non troppo lontano un artista come Roualt fu accettato ne è un chiaro
esempio... Come è possibile pensare oggi a un’arte cristiana? Esiste un’arte che possa definirsi tale?
Giuseppe Panza di Biumo
Per quanto riguarda la maggior parte dell’arte cristiana di oggi, si potrebbe affermare che esiste un’arte delle
buone intenzioni. Tuttavia, le intenzioni non sono sufficienti a creare una buona arte. Quale arte cristiana è
oggi possibile? Esiste un’arte che va al cuore della vita, del suo senso più profondo, nella sua continua ricerca
di aprirsi a Dio. Oggi, a mio avviso, come hanno spesso mostrato le manifestazioni più alte e significative
dell’arte contemporanea, i valori più profondi dell’uomo sono espressi dall’arte astratta piuttosto che dall’arte
rappresentativo-figurativa, che non appare andare al cuore dei problemi dell’uomo, limitandosi troppo spesso
a un superficiale e vago pietismo religioso, a una epidermica esigenza di carattere narrativo e descrittivo, a
un devozionismo scontato e banale. In questo senso, l’arte non-figurativa appare più “realista”, perché più
spirituale. Cerco di spiegarmi meglio.
Occorre andare al cuore del significato della visione. Si tratta di “vedere” che cosa vive al cuore dell’immagine.
Non si tratta certo di un vedere superficiale, come ricorderebbe Klee, quanto piuttosto di comprendere la
visione come ricerca verso la conoscenza dell’uomo e di Dio, come possibilità dell’uomo di entrare in dialogo
con l’assoluto. “Vedere” significa cogliere un senso nella propria esperienza di vita, riconoscerne la “verità”
nella sua relazione con Dio.
Se la scienza permette di avere una comprensione del reale, potremmo dire da un punto di vista analitico,
l’arte si caratterizza come strada d’accesso privilegiata a Dio, alla trascendenza. Oggi, per esempio, manca
una seria riflessione sul senso dell’arte come esperienza mistica, come lo è stata invece per i grandi artisti
del passato. L’arte cristiana, sin dal momento della sua nascita fino al XVIII secolo, è stata attraversata da
una religiosità profondissima. Ha saputo essere interprete straordinaria del desiderio dell’uomo di dialogare
con Dio, di creare spazi privilegiati di comunione. Il mondo dell’immagine si trasformava in uno spazio
meraviglioso, in cui tutto si faceva relazione, scambio affettivo, condivisione di gioie e di sofferenze. Oggi
si scade invece troppo spesso nella mediocrità. Dal punto di vista dell’arte cristiana, la Chiesa si è spesso
rinchiusa in una sterile difesa contro il laicismo, senza cercare di capire seriamente la religiosità inscritta nel
gesto creatore dell’artista.
La Chiesa si è spesso preoccupata di andare incontro a immediate necessità pastorali, puntando la
propria attenzione alla rappresentazione dell’arte come narrazione, come storia da cui il fedele deve trarre
insegnamenti precisi. Tuttavia, si è spesso trattato di un adattamento semplicistico. È mancata una seria
inculturazione, una reale presa in considerazione della posta in gioco della modernità, dimenticando come
la Chiesa stessa aveva accettato, anzi, aveva fatto proprie straordinarie rivoluzioni epocali. È sufficiente
ricordare Cimabue o Giotto quando iniziarono a rappresentare Dio in modo umano, raffigurandolo secondo
le forme e le espressioni dell’uomo reale, prendendo in questo modo posizione, senza possibilità di ritorno,
rispetto all’estetica bizantina. O come fece in seguito Michelangelo nella Cappella Sistina, mettendo a sua
volta in discussione il linguaggio del Rinascimento, a partire dalla sua travagliata esperienza spirituale.
Oggi, si assiste a una sorta d’incapacità a trovare seri punti di orientamento. Se nel passato la Chiesa era
stata formidabile ispiratrice di nuovi fenomeni culturali, oggi sembra avere talvolta smarrito il dialogo con la
contemporaneità. Appare in qualche modo emarginata dal mondo culturale. Gli stessi grandi autori cristiani
dei secoli XIX e XX, come Claudel o Mauriac, appaiono come dimenticati, quasi appartenessero a un mondo
ormai perduto per sempre.
Andrea Dall’Asta S. I.
Se fino a un certo momento della storia dell’Occidente, la Chiesa ha costituito il centro propulsore della
spiritualità e della cultura, il luogo ispiratore della società a livello simbolico, politico, ideologico e religioso,
il mondo contemporaneo l’ha talvolta relegata a un ruolo marginale e secondario. Non senza responsabilità,
infatti, la Chiesa ha prestato più attenzione ai contenuti da veicolare che alle modalità con le quali il
messaggio era trasmesso, non sempre riuscendo a creare quelle mediazioni con le quali dialogare col mondo
contemporaneo, a inculturarsi nelle varie situazioni concrete.
In relazione al mondo dell’arte, potremmo dire che non è sufficiente trascrivere in immagini un contenuto,
per riconoscere che quella forma estetica è il luogo in cui l’invisibile si manifesta all’uomo. L’arte sacra
contemporanea non appare attraversata da una seria preoccupazione di farsi interprete del proprio tempo.
Manca una continuità di soluzioni sensate e coerenti. Per il fedele non basta riconoscere un contenuto, perché
l’immagine inviti alla preghiera. Se la Bellezza è la manifestazione dello spirito presente al cuore dell’uomo,
questa deve incarnarsi nelle situazioni particolari di un tempo e di una cultura determinati. Troppo banali e
superficiali sono la maggior parte delle immagini religiose che ci circondano, perché ci parlino realmente della
vita di Dio. Potremmo anche parlare d’immagini auto-referenziali, d’immagini che concentrano l’attenzione
su se stesse. Opera senza vita.
Al contrario, la Bellezza implica il riconoscimento di una “presenza” che l’artista è chiamato a fare emergere
attraverso la sua intelligenza e le sue mani, grazie al suo farsi passaggio, al suo diventare mediazione di quel
soffio di vita che agisce in lui e attraverso di lui. In questo senso, la Bellezza è anticipazione della Gloria,
splendore del fondamento, teofania. Ignazio di Loyola diceva che contemplare è vedere Dio in tutte le cose.
L’opera d’arte è certamente uno dei luoghi privilegiati in cui questa visio è possibile. Grazie alla Bellezza,
l’opera d’arte è via d’accesso al mistero dell’Essere, luogo di passaggio verso l’assoluto.
La forma estetica vive di un’esistenza che la pone in stretta relazione con la scena originaria della rivelazione,
come quando il Cristo si trasfigurò sul monte Tabor. “È bello per noi stare qui” (Mt 17, 4). Una Bellezza va
sperimentata, riconosciuta. Con timore e tremore. Bellezza che è all’origine di un rapimento estatico, del
desiderio di un sostare silenzioso, di un contemplare. Questa aspirazione a una risalita verso la Bellezza delle
Origini, contraddistingue tutte le grandi espressioni artistiche del passato.
Giuseppe Panza di Biumo
L’arte contemporanea deve ricordare che è accesso privilegiato all’assoluto. Occorre che gli artisti sappiano
ascoltare l’infinito che vive in loro per poterlo evocare e rappresentare attraverso forme e colori.
Questo è possibile solo se l’artista è attraversato dal desiderio di comporre le contraddizioni dalle quali è
segnata la sua esistenza. Come in Dan Flavin, tra l’altro vicino alla spiritualità della Compagnia di Gesù. Era
certamente un uomo pieno di contraddizioni, diviso tra il piacere della vita e il desiderio di essere vicino a Dio,
di potere comunicare con Lui. Era abitato da un dissidio, da una frattura tra ciò che sentiva di non essere e
ciò a cui si sentiva chiamato. Lacerazioni, ferite che riusciva a comporre solo attraverso l’arte. Una intenzione
mistica, un desiderio di comunione con Dio ha sempre caratterizzato la sua opera.
Grazie all’arte è riuscito a creare spazi di straordinaria intensità spirituale. Spazi di trascendenza, di preghiera,
di profonda meditazione, che invitano alla contemplazione. Luoghi che permettono di superare i limiti dello
spazio e del tempo, per dischiudere la nostra vista all’assoluto. La luce che crea attraverso le sue installazioni
presenta i connotati di una totale immaterialità. Si tratta di campi di energia, d’interazione di forze, di spazi
fisici che sviluppano la possibilità di muoversi. Sono luoghi che possiamo abitare, in cui possiamo sostare e
vivere.
Non si tratta più di opere a due dimensioni. Ci troviamo nell’opera, vi partecipiamo attivamente. Non siamo
di fronte a un “oggetto”, come quando osserviamo un quadro del Rinascimento, con la sua griglia prospettica
che presenta una narrazione collocata in un tempo e in uno spazio determinati. Nelle stanze di Flavin, l’opera
d’arte non è più di fronte a noi, ma la abitiamo, la viviamo. Siamo immersi in un silenzio di luce. Attraverso
una installazione che c’introduce in uno spazio aperto e concreto, la distanza tra l’opera e lo spettatore è
abolita. Esiste quindi un rapporto molto più diretto con l’opera d’arte. La superficie a due dimensioni era un
espediente per rappresentare su di una superficie bidimensionale il nostro mondo, il nostro desiderio di vivere
un’esperienza d’assoluto. In questo senso, le installazioni di Flavin sono molto vicine ai diversi modi con i quali
l’uomo ha cercato di vivere il proprio rapporto con il senso più profondo dello spazio sacro.
Flavin sembra interpretare con grande originalità l’architettura del mondo antico, quando l’uomo pone
pietre secondo una forma circolare, per definire uno spazio separato da quello profano, fino a considerare
l’architettura sacra del Rinascimento o del Barocco, in cui lo spazio è concepito come luogo abitato dalla
presenza divina, luogo in cui il fedele può entrare con familiarità in dialogo con Dio stesso. In questi luoghi
avvertiamo la presenza della trascendenza, abbiamo la possibilità di “rientrare” in noi stessi, in comunicazione
con quanto di più profondo risiede nella nostra vita. In continuità con questa secolare tradizione, Flavin è
in grado di creare un fortissimo senso di ascensione verso l’infinito. Certo, l’assoluto ci sovrasta in modo
radicale. Tuttavia, negli spazi di Flavin, è come se ci immettessimo o c’immergessimo nell’assoluto, facendoci
tutto nel tutto. Come se diventassimo la spazio che abitiamo. L’arte di Flavin diventa, in questo modo, una
risalita verso l’Origine, un cammino dal visibile all’invisibile, un andare alle sorgenti del tutto.
Flavin crea questa spazialità colorata intrisa di misticismo radicale, attraverso la tecnologia, sfatando il luogo
comune che la scienza o che i nuovi strumenti tecnologici si pongano contro la sacralità dell’arte. Anzi, si
potrebbe dire che il fine della tecnologia è proprio quello di esprimere la sacralità dell’espressione estetica.
In questo senso, occorre che l’arte contemporanea recuperi il concetto di classicità, che consiste non tanto
nel ripetere quelle caratteristiche formali che hanno caratterizzato un periodo artistico particolare, che
generalmente si fanno coincidere con l’arte greca, quanto piuttosto in una risalita verso una purezza e una
perfezione originarie, insite in ogni cultura che le incarna e le realizza secondo le proprie forme particolari.
Un ritorno al luogo delle nostre Origini. Classicità, dunque, presente in tutte le culture, nella misura in cui le
forme riescono a esprimere quei valori universali che appartengono a ogni uomo.
Altri grandi artisti hanno espresso una dimensione “sacrale”, attraverso la rappresentazione di un dramma
personale/universale. Le loro stesse opere sono come una immersione nel mistero stesso dell’uomo.
Immersione che è sofferenza, dramma, continua ricerca, come in Dostoievskji o in Bacon. Tormento.
Esplorazione continua del senso della vita. O come in Carrol, la cui arte nasce dal vivere insieme agli altri,
meglio, dal condividere le sofferenze altrui. Si tratta di un artista americano che vive nelle periferie, con
gente povera, misera, con i rifiutati e gli emarginati della società, con i disperati, esprimendo una profonda
partecipazione del loro dramma. Comprendiamo come la sua arte sia realizzata attraverso oggetti semplici,
apparentemente privi di bellezza, come stracci, pezzi gettati via, materiali di scarto, con colori smunti, che
manifestano nella loro stessa materialità un dramma profondamente umano. È la partecipazione dell’uomo
di fronte all’umanità sofferente, attraverso forme che non sembrano essere più attraversate dalla vita ma che
desiderano intensamente aprirsi alla vita, alla trascendenza.
È forse proprio questa la Bellezza, su cui tanti filosofi hanno riflettuto, senza mai, tuttavia, poterla definire
una volta per sempre: una continua tensione verso l’assoluto. La Bellezza è come l’espressione del desiderio
dell’uomo di aprirsi all’infinito. Ogni uomo manifesta questo tendere verso, questo risalire verso i luoghi
dell’infinito, secondo la propria esperienza di vita. E come riconoscerla se non attraverso un desiderio, un
istinto, meglio, attraverso il renderci sensibili allo spirito che abita in noi?
Un altro esempio straordinario di arte contemporanea potrebbe essere la splendida cappella ecumenica di
Rothko a Houston. Malgrado l’artista sia ebreo, la cappella esprime un profondo sentimento cristiano, come
suggerisce il simbolismo dei colori viola, rosso scuro, chiare allusioni alla passione e alla morte di Cristo, al
suo sangue versato, al suo sacrificio, all’al di là della vita che ci attende. Il momento centrale è caratterizzato
dalla presenza del rosso scuro del sangue, chiara allusione alla morte di Cristo sul Calvario.
Altri artisti come Ryman hanno cercato di approfondire il tema dell’interiorità, del momento miracoloso della
creazione, attraverso una profonda riflessione e meditazione..., come se al cuore della coscienza umana ci
fosse un’illuminazione divina, un’alterità che la abita. Come se la creazione artistica fosse possibile soltanto
nel momento in cui il Creatore agisce, si facesse presente nel più profondo dell’uomo. Si potrebbe, infine,
ancora ricordare Bruce Nauman, che ha saputo creare video abitati da una forte carica religiosa, espressa
attraverso la ripetizione di un gesto, grazie al quale è riuscito a creare un senso profondo di ritualità.
Andrea Dall’Asta S.I.
L’arte contemporanea, che affonda le sue radici agli inizi del Novecento con la nascita delle Avanguardie
storiche, ha fatto spesso riferimento al rapporto astrazione/figurazione, destrutturando i modelli tradizionali
dell’arte, che si fondavano su di una ormai estenuata rielaborazione del lessico rinascimentale. La messa in
crisi della figurazione-rappresentativa non segna tuttavia la negazione del mondo reale, dei suoi oggetti, dei
suoi avvenimenti concreti, quasi fosse una sorta di arte disincarnata, quanto piuttosto esprime il desiderio di
riconoscere nella forma e nel colore “l’anima interiore” del mondo. Se la figurazione tradizionale appare oggi
sempre più oggetto della ricerca fotografica o del video, l’arte “astratta” continua oggi la sua indagine sulla
forza espressiva del colore, come luogo di conoscenza della realtà che ci circonda, di noi stessi, del modo
con cui entriamo in relazione con l’assoluto. Come dice la tradizione estetica dell’Occidente, da Platone a
Maritain, l’arte è conoscenza.
In questo senso, l’astrattismo si pone in termini diametralmente opposti a un prometeismo che cerca di
catturare il senso delle cose. L’arte è umile ascolto del mondo, meglio di quell’abisso che sta all’origine
delle cose. Non a caso, l’arte astratta, dagli inizi del secolo a oggi, fonda la propria ricerca sul colore, ma
soprattutto sulla luce, in tutta la sua valenza simbolica. Ricerca millenaria, sulla quale moltissime religioni
e filosofie hanno riflettuto. Cristo non è forse la luce del mondo? Nell’estetica neo-platonica, se Dio è luce
e Bellezza infinita, l’universo non è forse una cascata luminosa che sgorga dalla sorgente originaria, in una
meravigliosa irradiazione di splendori sensibili, secondo diversi gradi d’intensità? La luce che si condensa nei
fondi oro dei mosaici bizantini o delle tavole medioevali, è sempre stata concepita come la manifestazione
visibile del sacro. Theilard de Chardin ricorda che il mistico è in grado di percepire la realtà, come se fosse
abitata da una luce interna, quasi potesse attraversare l’opacità della materia.
Giuseppe Panza di Biumo
Già l’Impressionismo era rivolto a rappresentare la realtà soprattutto attraverso l’uso del colore. Tuttavia,
l’interesse per la descrizione e per il dettaglio realistico diminuisce gradualmente. Tutto si concentra sulle
possibilità espressive del colore. Da questa continua ricerca sul modo con cui la nostra vista percepisce i
colori, scaturisce l’arte non-figurativa. L’interesse per la referenzialità dell’opera d’arte lascia il posto a un
rapporto diretto tra emozioni e immagini. Occorre ricordare come il colore è quanto di più espressivo esista
nella natura; come sia in grado, quindi, di esprimere le più profonde esigenze di spiritualità dell’uomo, quanto
di più interiore è presente nella sua esistenza.
Certo, il nostro occhio percepisce una varietà infinita di colori, anche se i colori dell’iride si limitano al blu,
al rosso, al giallo, al verde... Tuttavia, la loro combinazione è infinita. I colori con i quali entriamo in
relazione col mondo sono innumerevoli. Viviamo in un universo “colorato”, per il fatto stesso che il colore
è la ri-flessione che il raggio luminoso crea quando incontra gli oggetti. Il colore è luce e la luce è un’onda
di energia pura che si diffonde nello spazio. Quello che interessa, tuttavia, non è solo l’aspetto fisico della
luce, quanto quello simbolico. Tutta la storia dell’arte occidentale e orientale l’hanno abbondantemente
studiato e insegnato.
In questo senso, il colore permette un accesso privilegiato al mondo. Se dunque il Novecento passa da un
sistema di carattere narrativo, descrittivo ed espressivo a un altro che privilegia l’istinto di ricerca, è per
meglio riconoscere le emozioni della nostra coscienza, il modo con cui entriamo in relazione con la nostra
interiorità. Il Novecento ha mostrato come il mondo della figurazione tradizionale, che si fonda sulla visione
oculare rinascimentale, non sia necessario per giungere a una rappresentazione diretta della vita.
L’artista tra i più radicali è certamente Rothko, ebreo abitato da una profonda coscienza religiosa, anche
se non arriva a una totale eliminazione della forma. Tuttavia non si tratta più di una forma visibile, ma
completamente astratta, quasi si trattasse di uno stato di coscienza, che ci immerge in una particolare
visione del reale, in un mondo interiore. Se questa ricerca “astratta” inizia idealmente con Mondrian e
Kandinsky, per poi continuare con Klein e Newman insieme all’astrattismo americano, trova oggi un punto
di riferimento nelle ricerche di Simpson, di Fratteggiani Bianchi, della Fredenthal, che propongono immagini
come fossero la manifestazione dell’assoluto, l’immersione della nostra coscienza in un tutto, in un
infinito. Occorre riconoscere nell’opera l’infinito che è noi, perché possiamo trasmetterlo nel dipinto, nella
scultura. Come nelle pitture della Fredenthal in cui, attraverso un complesso processo di sovrapposizione di
colori leggermente diversi, riesce a creare la sensazione di un qualcosa in continuo movimento, che segue
il mutare continuo della luce. La superficie del quadro sembra scomparire, per diventare pura vibrazione.
Questa sensazione diventa percezione dell’infinito, di qualcosa che non ha limite. Si tratta di cogliere
l’infinito in una rappresentazione. Simpson elabora invece una superficie che cambia in continuazione a
seconda dell’incidenza della luce durante le ore del giorno e dell’angolo visivo dello spettatore. Le immagini
sono dunque sempre mutevoli, offrendo un’esperienza completamente diversa e straordinariamente
ricca, se ci muoviamo dinanzi a loro. La rappresentazione è sempre mutevole, infinita, come se il nostro
sguardo intravedesse sempre un ulteriore. Un altro artista, Fratteggiani Bianchi usa il colore allo stato puro,
realizzando opere di particolare intensità espressiva. Il colore è luce riflessa, la sua visibilità è strettamente
legata alla sua qualità...
Andrea Dall’Asta S. I.
Il riconoscere il valore della luce nei suoi aspetti fisici e simbolici è necessario per pensare e progettare
qualunque spazio. Non a caso, si parla spesso di arte ambientale, in cui il rapporto luce/spazio risulta una
componente fondamentale. Quali caratteristiche dovrebbe presentare una Chiesa contemporanea?
Giuseppe Panza di Biumo
Penserei una Chiesa abitata dalla luce. L’artista è un manipolatore della luce artificiale e della luce naturale.
A partire da queste abilità, si tratta di creare uno spazio immateriale, concepito come puro campo di
energia. Occorre applicare le conoscenze sviluppate dall’arte ambientale. L’arte, infatti, non può limitarsi alla
semplice visione di un oggetto, come un quadro o una scultura, ma è un’esperienza di vita che si presenta
diversamente rispetto al modo quotidiano di rapportarsi alle cose, in modo certamente più intimo, interiore.
Occorre pensare a un luogo in cui si cerca di vivere, rendendole reali ed esistenti, le mete e i desideri più
alti dell’umanità. Si tratta di creare uno spazio privilegiato in cui si rende possibile l’incontro dell’uomo
con Dio. Occorre bene pensare al modo con cui le opere d’arte sono collocate, al loro rapporto con la luce,
l’architettura e la sua storia...
Penso a una Chiesa fatta di luce, in cui non esiste più nulla, salvo la luce stessa, grazie l’uso, per esempio, di
pannelli riflettenti all’interno. Se gli esempi ideali realizzati restano quello di Rothko a Houston e di Dan Flavin
alla Chiesa Rossa di Milano, penso soprattutto alla realizzazione di spazi con interventi di artisti che lavorano
sul tema della luce, come Turrel, Irwin... Come non ricordare lo splendido esempio di Turrel a Santa Monica in
California? L’artista crea uno spazio completamente vuoto, caratterizzato da un’apertura nel soffitto. Verso
sera, guardando attraverso la finestra e contemplando il cielo, si ha come la visione del mutare continuo del
colore della volta celeste..., da blu intenso a leggermente viola. In seguito, il cielo appare assumere colorazioni
rosse, arancio, gialle, verdi... Inizialmente, si ha la sensazione che il cielo sia materia che chiude la finestra,
come se fosse la continuazione della parete. Tuttavia, dopo pochi istanti, abbiamo la percezione del vuoto
infinito, la sensazione di vivere in uno spazio senza confini. Viviamo la sensazione di essere in un luogo che
non provoca una paura senza speranza, ma la possibilità di un’attesa. Luce e cielo sono qui la stessa cosa.
Non è forse questo il modo di vedere la natura nella sua realtà più assoluta? Il cielo e la luce non sono forse
le manifestazioni della vita dell’universo che si perde nel mistero dell’Origine, del momento iniziale in cui Dio
crea l’universo?
Andrea dall’Asta S.I.
Vorrei ringraziarLa per il Suo intervento e concludere questa nostra breve conversazione, esprimendo il
desiderio che l’arte contemporanea, anche in ambito cristiano, possa sempre più inculturarsi nel nostro
tempo, parlandoci dell’esistenza dell’uomo, “in Spirito e Verità”.
2. Milano, Galleria San Fedele 31 gennaio 1968. Padre Forni
e Giorgio Kaisserlian in un momento dell’inaugurazione della
mostra con le opere della collezione di Giuseppe Panza di
Biumo.
La Galleria San Fedele
e Giuseppe Panza di Biumo:
la mostra d’inaugurazione
del 1968
La Galleria San Fedele
“Il nostro non è che un modo di interpretare la religione per gli uomini di oggi”. Così i giornali dell’epoca
riportavano le parole dei pp. gesuiti di San Fedele, al momento dell’inaugurazione della nuova Galleria,
progettata dagli architetti Edoardo Sianesi e Giulio Bacchetti, contrassegnando il Centro Culturale come uno
dei centri più vitali del mondo cattolico del tempo. Con una mostra della collezione di Giuseppe Panza di
Biumo, con opere centrate sull’arte americana di Robert Rauschenberg, Mark Rothko, Roy Lichtenstein, Franz
Kline, Claes Oldenburg, James Rosenquist e con la presenza di altri artisti dell’avanguardia internazionale del
Andrea Dall’Asta S.I.
tempo come Antoni Tapies e Jean Fautrier (presente con due tele del gruppo “Otages” degli anni 1945-1950),
direttore Galleria San Fedele
insieme ad alcuni lavori dello spagnolo Antoni Tapies. La mostra della Galleria San Fedele non è tuttavia una
sorpresa agli occhi del mondo artistico milanese.
La Galleria San Fedele nasce infatti col desiderio di aprire un dibattito tra mondo ecclesiale e cultura laica
contemporanea. Dopo il rientro dei gesuiti in Milano, avvenuto nel 1946 grazie al Cardinale Ildefonso Schuster,
la Galleria San Fedele, fondata da padre Arcangelo Favaro nel 1949, s’inserisce all’interno della cultura milanese
del secondo dopoguerra, come uno tra i tentativi più coerenti e articolati di trasformare e di aggiornare la
cultura artistica del tempo. Di fatto, la Galleria San Fedele supera la connotazione “confessionale” cattolica,
per porsi come interlocutore tra il mondo della Chiesa e cultura laica, come forse nessun’altra istituzione
cattolica del tempo. Un punto di riferimento, in un periodo storico come quello del dopoguerra in cui regna
la frammentazione, la precarietà e la confusione. Sin dagli inizi, la Galleria si segnala nel promuovere l’arte
contemporanea, suscitando una riflessione sul significato dell’espressione artistica, intesa quale luogo in cui
l’uomo riflette su se stesso e sul suo universo simbolico, affettivo, spirituale, al di là di ogni credo religioso o
ideologico. La sacralità dell’arte è in questo modo interpretata nella sua capacità d’interrogare e d’interpellare
la vita dell’uomo, evitando ogni facile formalismo o puro compiacimento, aprendo la dimensione estetica a
uno spazio di ricerca di senso. In modo particolare, durante gli anni, La Galleria San Fedele si segnala per il
Premio San Fedele, istituito nell’intento di promuovere il mondo artistico giovanile.
La Galleria San Fedele nasce in modo “informale” nello studio di padre Favaro, quando, di giorno, sposta gli
armadi dal suo studio, per fare posto alle opere dei giovani artisti che, negli anni della ricostruzione, non
trovano spazi per esporre. Dopo questi primi tempi improvvisati e avventurosi, la “Galleria” si trasferisce in un
ampio salone che si affacciava su piazza San Fedele, di fianco a Palazzo Marino, sede del Comune di Milano.
Due personaggi resteranno per sempre legati allo spazio espositivo: il grande critico d’arte d’origine armena
Giorgio Kaisserlian e la contessa Marigena dal Verme che, con il suo generoso contributo finanziario, permise
la realizzazione del Centro Culturale e della Galleria. Sin dagli inizi della sua attività, grande è l’apertura
culturale delle iniziative, slegate da qualunque carattere commerciale. Di fatto, la Galleria si pone come centro
a-politico indipendente sia dagli ambienti ecclesiastici, in modo molto diverso, per esempio, dall’Istituto
Beato Angelico, che guarda con sospetto l’arte “profana” del tempo ritenuta spregiudicata e dissacratoria,
sia da quelli politici che, attraverso la Casa della Cultura, appoggiano senza riserve un’arte figurativa, che si
esprimeva in uno stanco e artificioso “realismo socialista” di stampo sovietico.
La storia della Galleria di quegli anni è attraversata da lacerazioni, drammi e grandi rivoluzioni culturali.
Immediatamente, si mette in luce per la sua capacità di dialogare con le espressioni artistiche più significative
dell’epoca. Già nella breve descrizione dedicata all’attività del Centro Culturale San Fedele, p. Arcangelo
Favaro, scrive: “Per noi il cristianesimo è sempre un fatto di avanguardia, un messaggio inquietante destinato
a disturbare le comode sistemazioni, a rompere costantemente gli equilibri troppo stabili, le situazioni
stagnanti.” Le scelte della Galleria, che ammettono diverse tendenze artistiche e differenti orientamenti
ideologici, suscitano indignazione e polemica, soprattutto quando toccano temi attinenti alla dimensione
religiosa. Una delle preoccupazioni maggiori della Compagnia di Gesù era quella di dimostrare che si può
superare la frattura che si era creata ormai da decenni fra Chiesa e arte. Anzi, si vuole mostrare la fecondità
di questo dialogo. Il programma del Centro Culturale, di cui la Galleria San Fedele è parte integrante, come
ricorda ancora p. Favaro si incentra sul dialogo con la modernità:
“Vogliamo riallacciare, dopo un lungo periodo di frattura, l’arte e la cultura alla Chiesa, riaprire il dialogo
con la fede. (…) Problemi dell’arte, problemi del pensiero saranno affrontati con serenità e coraggio, sicuri
che se l’ateismo del secolo che ci ha preceduti ci ha lasciato in eredità un mondo sepolto nella notte, il sole
non per questo ha cessato di sorgere”1. E continua: “Il Centro Culturale San Fedele è sorto come un libero
ritrovo intellettuale che si propone di esaminare e di favorire con varie manifestazioni di carattere culturale
e artistico le correnti vive del pensiero contemporaneo, ricercando particolarmente di porre in luce il loro
contenuto spirituale (…). Nel nostro dialogo con le correnti vive del pensiero e dell’arte, non intendiamo
escludere dal nostro programma le grandi parole del passato, patrimonio perenne dell’umanità; ma il nostro
particolare impegno è rivolto alle verità nuove ed è nostro intento aiutare gli artisti a dirle. Vogliamo che il
nostro lavoro sia (…) la presa di coscienza della coscienza spirituale del mondo in cui viviamo e insieme un
«atto di fiducia» verso coloro che forse troveranno spesso tra loro dei cristiani migliori di noi, e degli interpreti
della storia che, in cambio di una luce più alta, potranno fornire qualche dato che ci aiuterà ad aggiornare le
nostre concezioni”.
Il Centro Culturale e la Galleria San Fedele sono dunque intesi come luogo di confronto e di dialogo pensati
nell’intento di servire l’arte e gli artisti, nella consapevolezza che la qualità estetica dell’opera d’arte è in stretta
relazione alla sua connotazione etica e spirituale, alla profondità di un discorso sull’uomo.
La mostra d’inaugurazione della Galleria San Fedele (1968)
La mostra d’inaugurazione della Galleria San Fedele con le opere del conte Giuseppe Panza di Biumo,
avvenuta il 31 gennaio 1968, suscita non poche reazioni. Come interpretare una mostra che asseconda le
più aggiornate correnti artistiche internazionali? Certo, la Galleria aveva ospitato il Movimento Nucleare
negli anni ‘50 e sempre negli stessi anni il Realismo esistenziale, aveva dato ampio spazio a numerosi artisti
dicalibro internazionale come Lucio Fontana o Marc Chagall. Tuttavia, come interpretare il significato di una
1 Favaro A., Attività del Centro Culturale san Fedele dal 1954 al 1959, Archivio del Centro Culturale San Fedele, Milano, 1959
mostra prevalentemente americana?
Grande è lo scalpore suscitato per questa mostra di carattere internazionale. I giudizi sono spesso contrastati.
L’Avanti! segnala “Rothko, presente con alcuni stupendi dipinti che con il colore dilatano lo spazio visivo, e
Franz Kline, che la violenza tracciata dei suoi grandi segni neri costituisce uno degli esempi più significativi
del nuovo corso della pittura americana.” E il giornalista continua: “Segue subito dopo il manipolo dei «new - dada» e «pop» americani: Oldenburg, che con i suoi strani ingrandimenti si riferisce specificamente
alla modernità e alla volgarità dell’America d’oggi: Lichtenstein, il più intelligente dei «pop» che usa immagini
trovate, ironizzando quadri famosi e umettando scherzi visivi con commenti verbali salatissimi; Rosenquist,
che chiama il suo lavoro «inflazione visiva» per la grande quantità di espedienti ch’egli usa per creare un
incredibile intreccio di giochi d’immagini e spaziali; Rauschenberg, che con la sua opera ha creato una svolta
e ha influenzato tutti gli artisti pop americani”2. Non dimentichiamo che la pop art è presentata in maniera
clamorosa alla Biennale di Venezia nel 1964: il Premio è riservato proprio a Robert Rauschenberg.
Giorgio Kaisserlian, il critico d’arte della Galleria San Fedele, consulente da numerosi anni di p. Favaro,
riconosce il carattere dirompente della mostra, con alcune considerazioni sullo stato dell’arte italiana. Come
scrive sul quotidiano Il Popolo:
“In effetti, nella mostra che ci è offerta alla galleria San Fedele, si potrebbe riconoscere, nelle opere esibite,
la presenza di alcuni momenti dialettici, più importanti dell’arte attuale, come l’informale, l’espressionismo
astratto, il non figurativismo lirico, il materismo, la Pop Art”3. Il critico d’origine armena continua la sua
recensione, descrivendo le opere dei singoli autori: “Abbiamo assai apprezzato nelle due tele informali di
Fautrier (…) la carica emotiva che riesce ad addensare in grumi compatti la materia, cui si aggiunge, come
di soppiatto, una sottile e magica ironia. Le grandi tele di Franz Kline vanno invece addebitate al migliore
espressionismo astratto newyorkese. Si potrà qui osservare come l’intensità dell’impegno faccia oscillare il
pittore dall’astrattismo a una sorta di nuova figurazione. I suoi tratti neri, incalzanti e timbrici, occupano
l’orizzonte come un’immensa impalcatura di grattacielo e finiscono col parlarci direttamente di New York.
L’americano (d’origine lituana) Rothko ci appare invece sereno, idilliaco, elegiaco. Con poche, grandi stesure
dipinte, egli costruisce la composizione, perché le sue stesure, cariche di luce sotterranea, sono dense e piene,
come dei personaggi in primo piano. Con i dipinti dello spagnolo Tapies approdiamo al più recente materismo.
Infatti, la materia pittorica, densa e raggrumata, e per contrasto dilatata con leggerezza, costituisce il centro
dei dipinti di Tapiès, ed egli sa imbastire con essa infinite variazioni tematiche. La Pop-Art fa irruzione in
questa rassegna con vari dipinti di Rauschenberg, il vincitore della Biennale di Venezia del 1964, appartenenti
al primo ciclo creativo dell’artista (1955-’59), cioè al suo periodo più specificamente neo-dada. È interessante
notare come sia importante, per il Rauschenberg di questo periodo, la lezione di Schwitters, con i suoi
collages che diventano, sempre più chiaramente, elementi compositivi. In Rosenquist è il rapporto uomomacchina che costituisce il rovello perenne ed il contenuto più insistente.
2
3
Passoni F., Nella nuova sede della Galleria San Fedele – Un’interessante rassegna di pittori statunitensi in “Avanti!”, Milano, 4 febbraio 1968.
Kaisserlian G., Il Popolo, Roma, 7 febbraio 1968.
Nei gessi di Oldenburg che imitano curiosamente degli oggetti naturali, è ravvisabile invece una notevole
vivacità ironica. Lichtenstein, presente con alcuni grandi lavori in bianco e nero, (o comunque dai tratti
solo disegnati su fondo bianco), freddi ed efficacissimi, conclude la rassegna. Indubbiamente, ci si può
rammaricare che in essa siano assenti pittori italiani. Ma tranne forse Burri e Fontana, dobbiamo pur
renderci conto che su questo piano di ricerca, è molto difficile fare dei nomi altrettanto importanti, come
quelli che si sono qui esibiti.” Infine, Giorgio Kaisserlian sottolinea l’assenza di p. Favaro all’inaugurazione: “Ci
duole solo che, in questa splendida e nuova sede della galleria San Fedele, sia assente p. Arcangelo Favaro
che, della Galleria San Fedele stessa, è stato il fondatore e l’instancabile, fervido ammiratore. Benché egli
sia ora gravemente infermo, il suo spirito è in mezzo a noi”. Non potendo intervenire direttamente, segue
dall’ospedale l’inaugurazione per telefono. Tutta la folla lo saluta con un applauso interminabile. Di fatto, p.
Favaro morirà dopo poco tempo, seguito dalla contessa Marigena dal Verme, che l’aveva sempre sostenuto.
La mostra della Galleria San Fedele suscita anche critiche senza riserve, come quelle apparse sul Corriere della
Sera da parte dello scrittore Dino Buzzati:
“Con un nutrito campionario della collezione del conte Giuseppe Panza di Biumo si è aperta nei giorni scorsi
questa nuova sede artistica. (…). In quanto all’esposizione non ci racconta niente di nuovo ma mi sembra
di singolare interesse per questo motivo. Il conte Panza di Biumo è uno dei più importanti raccoglitori, non
solo in Italia, di pop art. E la pop art domina infatti nelle sale. Ebbene confesso che cinque anni fa, quando
a New York potei vedere esempi di questa «scuola», già allora trionfante, rimasi molto impressionato, e in
senso favorevole. Poi la pop art venne in forza alla Biennale di Venezia – dove Rauschenberg ebbe il massimo
premio, - per tornarvi due anni fa con Lichtenstein. Poco tempo è passato dunque, almeno agli effetti del
cammino dell’arte. Oggi, visitando la nuova galleria, addirittura spavento la velocità incredibile con cui quegli
artisti, ancora ieri mattina sulla cresta dell’onda, sono catastroficamente invecchiati: specialmente i collages
di Rauschenberg e i manufatti di Oldenburg, che appaiono retrocessi quasi al rango di miseri sporchi morti
detriti. La degradazione risulta tanto più grave, accanto alle opere informali di Kline, Rothko e Fautrier, che
fanno parte dell’esposizione e che, rispetto ai pop, poterono allora apparire sorpassate. Il paragone, lo so, ha
scarso valore critico, ma è come se, nella gara per rimanere alla ribalta della modernità e del plauso mondiale,
quegli astrattisti, con vigorosa ripresa, avessero raggiunto i colleghi più di moda, sorpassandoli di diverse
lunghezze e lasciandoli anelanti in coda. E ancora una volta si conferma come in qualsiasi opera d’arte la
buona fattura artigianale, per non parlare delle qualità pittoriche, abbia un’immensa importanza. Quelli
che, relativamente si salvano, e appaiono meno deperiti sono Lichtenstein (quello dei fumetti ingigantiti) e
Rosenquist (il magnificatore delle immagini pubblicitarie) i quali lavorano con estrema cura professionale.
Insomma, sono rimasto mortificato: a quei bizzarri e dopo tutto simpatici tipi, io ci avevo creduto.”4
La severa condanna di Dino Buzzati è tuttavia contestata con toni accesi dal critico de “Il Borghese”, Antonio
Fornari che scrive: “Dino Buzzati non opera col cervello incappucciato nella cultura libresca, bensì con la
4
Buzzati D., D’Arte – Cellezione Panza di Biumo, Corriere della Sera, Milano, 11 febbraio 1968.
sottile bacchetta indovinatoria del «conoscitore» che scopre il bello al pari del rabdomante quando, senza
scienza geologica, individua acque e metalli sotto terra celati. Perciò, già cinque anni fa, a New York, avrebbe
dovuto rendersi conto che la pop art, nonostante fosse «trionfante», apparteneva a quell’arido «deserto dei
non poeti», dove si accumulano statue e sinfonie, romanzi e quadri, poemi, racconti e tutta quell’arte nata
morta, che non invecchia perché mai fu viva”5.
Il dibattito si fa acceso e senza esclusione di colpi. In un articolo apparso su Panorama i gesuiti di San Fedele
sono chiamati gli “avanguardisti di Sant’Ignazio”, aggiornati culturalmente, aperti a tutte le idee. Attraverso le
arti e la cultura avvicinano persone non credenti o agnostiche6. “Non abbiamo chiusure di nessun genere”, dice
p. Gaetano Bisol nel medesimo articolo. “È sempre stato nostro programma quello di aprire un dialogo con
tutte le espressioni della cultura di oggi.” E continua: “Dieci anni fa abbiamo avuto delle resistenze, più o meno
larvate, nel mondo cattolico: era indispensabile essere cauti, allora nel portare avanti un discorso culturale
aperto come il nostro. Il Concilio ecumenico, poi, ha rotto ogni barriera, sprovincializzando il chiuso ambiente
italiano. Dopo quel lungo lavoro, che ha anticipato e in un certo senso reso possibili le aperture di oggi, tutto
è diventato più naturale e più sereno.” I gesuiti cercano di interpretare la fede cristiana per gli uomini di oggi.
Con questa importante mostra si chiude tuttavia un’epoca storica per la Galleria. Dei tre grandi fondatori,
p. Arcangelo Favaro e Marigena dal Verme muoiono nello spazio di poco tempo. Anche Giorgio Kaisserlian
morirà nel 1969. Per la Galleria San Fedele si tratta di ricominciare con p. Alessio Saccardo prima e poi con
p. Eugenio Bruno. Le preoccupazioni della Galleria resteranno tuttavia immutate. In questo senso, la mostra
d’inaugurazione del conte Giuseppe Panza di Biumo resta esemplare di un dialogo intrapreso con la cultura
laica. È questo un dialogo che la Galleria San Fedele ha saputo mantenere nel tempo. Kaisserlian sosteneva
la necessità di costruire “un mondo per l’uomo”7, rivolto a un impegno concreto. Questo impegno concreto è
rimasto immutato ancora oggi.
5 Fornari A., Il Conte “popo”, Il Borghese, Milano, 7 marzo 1968.
6 Intervista a p. Gaetano Bisol, “Panorama”, Milano, 8 febbraio 1968.
7 Il Pittore, Giorgio Kaisserlian nel ricordo di un amico pittore, Archivio Centro Culturale San Fedele, vol 1969.
Note biografiche
Giuseppe Panza di Biumo
Giuseppe Panza di Biumo nasce a
Milano nel 1923.
Si interessa di arte fin da giovane
e, dopo aver conseguito la laurea
in legge, inizia ad assemblare la sua
collezione di arte contemporanea con
lavori di Antoni Tapies e Jean Fautrier.
Nel 1955 sposa Rosa Giovanna
Magnifico da cui ha cinque figli. In
tanti anni di collezionismo acquista
più di 2500 opere, concentrando il
suo interesse sull’arte americana,
seguendo ricerche di artisti emergenti
o delle maggiori personalità artistiche:
dall’Espressionismo Astratto alla Pop
Art, dall’Arte Minimal e Concettuale
all’Arte Ambientale californiana,
dall’Arte Monocromatica a quella
derivata da forme organiche o
primarie.
Tra il 1973 e il 1976 fa realizzare
alcune installazioni permanenti, di luce,
spazio e percezione, nei rustici della
settecentesca Villa di Biumo (Varese),
dove già parte della collezione viene
mostrata a rotazione.
A partire dal 1983 consistenti nuclei di
opere vengono ceduti al Museum of
Contemporary Art di Los Angeles, alla
Fondazione Solomon R. Guggenheim
di New York, al Museo Cantonale di
Lugano.
Nel 1996 la Villa di Biumo è donata
da Giuseppe Panza al FAI, Fondo per
l’Ambiente Italiano. La donazione
comprende 133 opere, degli anni ’60 ’70 - ’80 - ’90.
Nell’autunno del 2000 si aprono
mostre sulla Collezione alla Fondazione
Peggy Guggenheim di Venezia e al
Museo Guggenheim di Bilbao, sotto
il controllo dello stesso Panza sia
per la scelta degli artisti che per
l’allestimento.
Nel 2005 cinquantuno opere sono
donate al Palazzo Ducale di Sassuolo
(Modena). Nel 2007 trentanove
opere sono vendute allo Smithsonian
Institution Hirshhorn Museum and
Sculpture Garden di Washington,
l’anno dopo settantuno opere sono
acquistate da The Albright Knox Art
Gallery di Buffalo e nel 2010 ventinove
opere sono acquistate dal Museo di
San Francisco SFMOMA.
Giuseppe Panza di Biumo muore a
Milano nell’aprile 2010.
Hamish Fulton
Nasce a Londra nel 1946.
Tra il 1964 e il 1969 frequenta
l’Hammersmith College of Art, la
St. Martin’s School of Art e il Royal
College of Art di Londra.
Il suo lavoro si colloca tra l’arte
concettuale e la Land Art e consiste
in lunghe camminate della durata di
più giorni, di cui l’artista restituisce
emozioni e impressioni fotografando
il paesaggio. L’arte di Fulton è il
“viaggio” a piedi soprattutto (e a
piedi nudi talora) anche per città
e per sconfinati paesaggi naturali:
attraverso luoghi semidesertici e
lande coperte dalla neve, tra monti e
vallate dove non si scorge presenza
umana. Egli si autoproclama “Walking
Artist” ed il suo camminare è un
modo di vivere che diventa arte.
È un’esperienza solitaria, come
dovrebbe essere ogni viaggio: di
ricerca, di scoperta.
Riporta dal suo viaggio scatti
fotografici in bianco e nero
con didascalie precise e vi aggiunge
il contrappunto coloristico di walldrawings (dipinti sulle pareti della
galleria, fatti di parole e numeri,
simili a strane segnaletiche stradali),
e ancora piccole istallazioni lignee
e appunti su fogli di quaderno
incorniciati.
Le sue opere fanno parte di collezioni
pubbliche e private internazionali.
Allan Graham
Nasce a San Francisco nel 1943.
Graham ha frequentato il San
Francisco Art Institute e la San Jose
State University. Nel 1967 si diploma
in Fine Arts presso la University of
New Mexico.
Nella metà degli anni settanta, i suoi
quadri sono composizioni aperte,
con forme di archi e a lisca di pesce.
Nel 1983 abbandona la tela a forma
quadrata per nuove forme eccentriche
e verso la metà degli anni ottanta dà
forma ad una serie di dipinti-sculture
ibride che ricordano in parte l’arte
africana, create con materiali quali il
legno, la tela, i giornali e pagine
dei libri. Segue un nuovo periodo
caratterizzato da dipinti quasi
monocromi su telai convessi, sculture
create con libri e dipinti dalle forme
irregolari e circolari sulle quali l’artista
utilizza pagine di libri come la Bibbia
dei Navajo e l’Inferno di Dante.
Durante gli anni novanta dipinge
una serie di lavori intitolata “Cave
of Generation”, caratterizzata da
diversi stadi che portano a pitture
monocrome e di due colori, di grandi
dimensioni. Ne segue una nuova
serie di lavori intitolata “Pre-hung
(for those who suffer form)”, serie di
porte singole o doppie dipinte con la
paletta.
Nel 1990 Graham inizia a firmare
i suoi lavori con lo pseudonimo di
Toadhouse, il cui nome
ha origine da una struttura
sotterranea che suo figlio e lui
costruiscono in Albuquerque, Nuovo
Messico, e che attrae molti rospi
(Toadhouse, in italiano “Casa dei
rospi”). I lavori firmati Toadhouse
sono caratterizzati dall’utilizzo della
parola scritta.
Piccole parole scritte con la grafite
caratterizzano invece i lavori
appartenenti alla serie Cosmo-logical
e UFO. Graham è stato influenzato dal
Buddismo Zen e dalla poesia buddista.
Il suo lavoro “Time is Memory”,
esposto in SITE, Santa FE, è una
grande installazione comprendente
sedici zafu di fronte ai quali sono
posti famosi poemi buddisti sul tema
della morte. Le sue opere fanno parte
di collezioni pubbliche e private.
Vive nel Nuovo Mexico.
Ron Griffin
Nasce nel 1954 a Pomona in
California.
Frequenta il CalArts (California
Institute of the Arts) e prima ancora
l’University of California Irvine.
La sua opera affonda le radici nella
tradizione della natura morta. Griffin
dipinge nature morte, prodotto di
un’evoluzione del genere che ha
attraversato le rivoluzioni più audaci.
Nelle sue opere, oggetti banali (buste,
sacchetti, scatole, tovaglioli), isolati
al centro dello spazio e schiacciati
sul piano, inducono all’idea di
una composizione ready made. In
realtà, sono il frutto di una grande
padronanza del mezzo pittorico in
funzione della mimesi del reale.
L’insieme risulta così severo che
forme e colori portano l’astrazione
dell’immagine allo stesso livello del
suo realismo.
Un secondo periodo della sua
pittura è caratterizzato da superfici
cupe e lucide, in cui la sfida passa
dall’emulazione della realtà fisica
degli oggetti di carta a quella più
Note biografiche
degli artisti
ardua della realtà virtuale. L’imitazione
maniacale nell’esecuzione manuale
del disegno computerizzato ripropone
la freddezza di una logica fredda ma
falsa, di una realtà ingannevole ma
virtuale, di una libertà di movimento
programmata. Le sue opere fanno
parte di collezioni pubbliche e private.
Vive e lavora a Venice, California.
Richard Long
Nasce a Bristol in Inghilterra nel 1945.
Dopo aver studiato presso il West
England College of Art di Bristol
(1962-65) e la St. Martin’s School of
Art di Londra (1965-68), ha presto
orientato la sua ricerca verso la
sperimentazione di nuove forme
espressive. Alternando i soggiorni a
Bristol con lunghe marce in luoghi
lontanissimi, dalla Lapponia al
Nepal, dal Circolo Polare Artico al
Sahara, al Sudamerica, dai primi anni
Settanta l’autore si è affermato tra i
protagonisti della Land Art.
Il suo lavoro, che ha ottenuto
riconoscimenti quali il Turner Prize
della Tate Gallery di Londra (1989),
è stato presentato in importanti
mostre personali (1986, New
York, S.R. Guggenheim Museum, e
Madrid, Palacio de Cristal, Centro
de arte Reina Sofía; 1990, Londra,
Tate Gallery; 1994, Roma, Palazzo
delle Esposizioni; 1996, Houston,
Contemporary Arts Museum) e
rassegne internazionali (Biennale di
Venezia, 1976, 1980; Documenta di
Kassel, 1972, 1982; Biennale di San
Paolo, 1994; ecc.).
Dai segni lasciati dal suo camminare
su un terreno alle semplici sculture
geometriche in materiali naturali
(legno, pietra, sabbia, carbone, zolle
erbose, fango) realizzate in situ o
riproposte in ambienti espositivi,
Long ha incentrato la sua ricerca sui
concetti di spazio e di tempo in un
dinamico e armonico rapporto con
la natura e il paesaggio. Dagli anni
ottanta i consueti motivi aniconici
ritornano anche nelle pitture sui muri
eseguite con fango. Complementari
al suo lavoro, e allo stesso tempo
opere d’arte autonome, sono anche
le fotografie, le mappe e i percorsi
trascritti con parole (es. A walk across
England: a walk of 382 miles in 11 days
from the West coast to the East coast
of England del 1997).
Christiane Löhr
Christiane Löhr nasce a Wiesbaden in
Germania nel 1965.
Dopo studi di Archeologia e Arte
classica presso la Friedrich-WilhelmUniversität di Bonn e la JohannesGutenberg-Universität di Mainz,
frequenta alla fine degli anni novanta
la Kunstakademie di Düsseldorf nella
classe di Jannis Kounellis.
La sua prima personale è nel 1996 alla
Galerie Brückenturm di Mainz.
Crea sculture e installazioni attraverso
il contatto diretto con la natura, con
materiali inconsueti come i semi di
diverse piante - cardo selvatico, edera,
bardana - oppure crini di cavallo per
realizzare le sue installazioni che,
come microcosmi lievi e raffinatissimi,
rimandano a un’architettura
immaginaria ma allo stesso
tempo espressione di una solidità
rassicurante. La sua arte è sospesa
tra la leggerezza irreale delle sue
costruzioni oniriche e la semplicità
dei materiali utilizzati che, parte
integrante del mondo in cui viviamo,
rimandano a forme pure ed eleganti
libere da inutili sofisticazioni.
Vive e lavora a Colonia in Germania
e a Prato.
Emil Lukas
Nasce nel 1963 a Pittsburgh
(Pennsylvania).
Frequenta la Edinboro University negli
anni ’80.
Lukas utilizza per le sue opere una
vasta e diversificata gamma di
elementi, che spaziano dal gesso
al legno, alla tela, ai rifiuti. Alcuni
dei suoi lavori nascono proprio dai
rifiuti che egli quotidianamente
accumula nel suo studio fino a
formare un’alta pila, successivamente
fissata e tagliata in sembianze di
scultura. Le opere di Lukas, tuttavia,
non possono essere propriamente
catalogate come scultura o pittura:
sono piuttosto lavori tridimensionali,
costituiti da diversi strati sovrapposti
in cui interno e esterno, superficie e
supporto perdono la loro distinzione
gerarchica per assumere uguale
importanza. Opere di Emil Lukas
fanno inoltre parte di collezioni di
livello internazionale, come della
Guerlain Foundation of Contemporary
Art, della collezione del Museum of
Modern Art di San Francisco e di
molte altre in diverse parti del mondo.
Vive e lavora a Stockertown.
Gregory Mahoney
Nasce nel 1955 a Los Angeles, in
California.
Nel 1980 si laurea presso la University
of Southern California.
La sua arte parte dall’immersione
nella natura e negli gli ampi spazi
aperti del West americano. Mahoney
è un attento osservatore che viaggia
attraverso siti geologicamente
affascinanti, raccoglie materiali e
tenta di simulare la potenza delle
forze naturali.
Invece di iniziare con una tela bianca,
utilizza un pannello in acciaio o
una lastra di cemento o di sale. I
pannelli sono in seguito sottoposti
alle intemperie e spesso combinati
con altri materiali, come la terra: “Ho
sotto controllo la situazione, ma il
resto è aperto al caso”, dice.
Alcuni suoi lavori fanno parte della
collezione del Museo Cantonale
di Lugano e del Museum of
Contemporary Art di Los Angeles.
Vive e lavora a Los Angeles.
Richard Nonas
Nasce a New York nel 1936.
Dopo gli studi in Letteratura e
Antropologia (University of Michigan,
Lafayette College, Columbia
University e University of North
Carolina) lavora per 10 anni da
antropologo, sia insegnando sia
direttamente sul campo in America
Latina, Nord Ontario e Yukon in
Canada, Messico e Sud Arizona. Alla
fine degli anni ’60 decide di lavorare
come artista a tempo pieno. Comincia
la sua ricerca sulla manipolazione
della materia verso la fine degli anni
’60, con una prima serie di lavori
a terra e grandi quadrati fatti con
travi in legno sovrapposte. Nei suoi
lavori usa materiali comuni (legno,
ferro, pietre) trovati per strada - in
città, in foreste e montagne; li
sceglie, li raccoglie e poi li dispone
ordinatamente. Definirlo però
minimalista è riduttivo: il suo lavoro
infatti ha una profonda valenza
emotiva rispetto alla fredda struttura
del minimalismo; è una vera
vocazione “al limite tra la testa e la
pancia”.
I suoi lavori sono ospitati presso le
più importanti raccolte pubbliche e
private del mondo.
Vive e lavora a New York.
Phil Sims
Nasce a Richmond in California nel
1940.
Dopo aver studiato pittura al San
Francisco Art Institute, viaggia per tre
anni in Europa, Medioriente e Asia.
Tornato in California vi resta una
decina di anni, nel 1977 si sposta a
New York, dove ha la possibilità di
confrontarsi con numerosi artisti.
Qui sposta la sua pittura verso il
monocromatismo, caratteristica che
segna il suo lavoro fino ad oggi.
Ottiene riconoscimenti in Europa,
a partire da una mostra in Svezia
seguita da esposizioni in Germania e
in altri paesi. Con la mostra Radical
Painting, al Williams College Museum
of Art, anche il pubblico americano
riconosce la grandezza della pittura
monocromatica e il talento di Sims.
Nel 1992 espone alla Stark Gallery
di New York e colpisce l’attenzione
di Giuseppe Panza di Biumo, che ne
diventa un collezionista.
La pittura monocromatica esige uno
sguardo contemplativo, necessario
per cogliere la ricchezza e la leggera
varietà tonale che la tecnica esecutiva
conferisce alla stesura del colore.
L’uniformità è solo apparente, ogni
autore che dedica la propria ricerca
artistica al monocromo presenta
caratteristiche peculiari, ma comune a
tutti è la concentrazione sull’elemento
colore, quintessenza della pittura:
le tele di Phil Sims presentano una
vibrazione cromatica ottenuta grazie
alla sovrapposizione di molti strati di
colore steso con pennellate incrociate.
Dal 2000 vive e lavora in
Pennsylvania.