Untitled - Rizzoli Libri

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KURT VONNEGUT
GALÁPAGOS
Traduzione di Riccardo Mainardi
I GRANDI TASCABILI
BOMPIANI
© 1985 by Kurt Vonnegut
This translation is published by arrangement with Delacorte Press/ Seymour
Lawrence, an imprint of Random House, a division of Penguin Random House,
LLC
© 1990/2015 Bompiani/RCS Libri S.p.A.
via Angelo Rizzoli 8 – 20132 Milano
ISBN 978-88-452-8023-8
Prima edizione Bompiani: 1990
I edizione Grandi Tascabili Bompiani ottobre 2015
L’Editore si rende disponibile ad assolvere i propri impegni nei confronti
di eventuali diritti sull’immagine di copertina.
In memoria di Hillis L. Howie
(1903-1982), naturalista dilettante,
un uomo eccellente che
nell’estate del 1938
è partito da Indianapolis, nell’Indiana,
assieme a me, a Ben Hitz, il mio miglior amico,
e ad altri ragazzi come noi,
e ci ha condotti nel
Selvaggio West americano.
Il signor Howie ci ha fatto conoscere
dei veri indiani
e ogni notte ci ha fatto dormire all’aperto
e ci faceva seppellire i nostri escrementi,
e ci ha insegnato a cavalcare,
e ci ha detto il nome di tante piante
e di tanti animali
e cosa bisognava fare
perché potessero riprodursi in santa pace
e vivere in buona salute.
Una notte il signor Howie ci ha fatto quasi
morire di paura, e lo ha fatto apposta.
Era vicino al nostro accampamento
e si è messo a imitare il grido di un gatto selvatico.
Dopo di che si è udito il grido di un gatto selvatico vero.
Nonostante tutto, io continuo a credere
nell’intrinseca bontà del cuore umano.
Anna Frank (1929-1945)
PARTE PRIMA
La cosa era questa
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La cosa era questa:
Un milione di anni fa, nel 1986 dopo Cristo, Guayaquil era
il principale porto marittimo del piccolo stato democratico
sudamericano denominato Ecuador, la cui capitale, Quito, si
situava ad alta quota tra le Ande. Guayaquil sorgeva due gradi a sud dell’equatore, immaginaria cintura del pianeta donde
il paese traeva il proprio nome. Faceva sempre molto caldo,
a Guayaquil: caldo e umido, perché la città era ubicata nella
zona delle calme equatoriali, e per l’esattezza in una pianura
paludosa percorsa dalle acque commiste di numerosi fiumi che
defluivano dalle montagne.
Il porto distava parecchi chilometri dal mare aperto. Non di
rado strati vegetali, simili a zattere, ostacolavano il lento fluire
delle acque, aderendo tenaci alle palificazioni e alle catene delle ancore.
A quel tempo gli esseri umani erano dotati di cervelli molto
più grossi di quelli attuali, e di conseguenza potevano lasciarsi
sedurre dai misteri. Uno di tali misteri era come un numero
tanto elevato di creature incapaci di percorrere grandi distanze a nuoto fosse riuscito a raggiungere le isole Galápagos, un
arcipelago di picchi vulcanici a ovest di Guayaquil, che mille
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chilometri di acque molto profonde e molto fredde provenienti
dall’Antartide separavano dalla terraferma. Quando l’umanità
scoprì le isole in questione, già vi risiedevano i gechi e le iguane
e i ratti del riso e le lucertole e i ragni e le formiche e gli scarabei e le cavallette e gli acari e le zecche, per tacere di enormi
tartarughe terrestri.
Di quale mezzo di trasporto si erano serviti?
Molti soddisfacevano i loro grossi cervelli dandosi questa
risposta: erano arrivati a bordo di zattere naturali.
Altri obiettavano che queste zattere s’impregnavano d’acqua e marcivano con tale rapidità, che nessuno ne aveva mai
viste in alto mare, dove la costa era invisibile, e che d’altronde
la corrente che agiva tra le isole e il continente avrebbe sospinto quelle rudimentali imbarcazioni non verso ovest, bensì verso
nord.
Asserivano pertanto che quella gente aveva percorso a piedi
asciutti un ponte naturale, e che aveva coperto a nuoto i brevi
intervalli che separavano le pietre di un guado, dopo di che l’una
o l’altra di queste formazioni era stata inghiottita dalle onde.
Ma nel 1986 gli scienziati, utilizzando all’uopo i loro grossi
cervelli e una vasta gamma di strumenti altamente sofisticati,
avevano tracciato una mappa completa dei fondali oceanici, e
non vi era traccia – dicevano costoro – di una massa terrestre
intermedia, di qualunque tipo.
Altre persone, sempre in quell’era di grossi cervelli e fervido
pensiero, affermavano che in altri tempi le isole avevano fatto
parte della terraferma e che se n’erano staccate per effetto di
qualche portentoso cataclisma.
Ma nulla nelle isole lasciava credere che fossero state strap12
pate da qualcosa. Si trattava con ogni evidenza di vulcani di
recente data, vomitati alla superficie là dove esistevano. Molti erano così neonati, che sembrava lecito aspettarsi di vederli
riattivarsi da un momento all’altro. Nel 1986, non avevano ancora prodotto grandi quantitativi di corallo. Mancavano pertanto le candide spiagge e le lagune azzurre, piacevolezze che
molti esseri umani usavano considerare le pregustazione di un
ipotetico, favoloso Aldilà.
Oggi, un milione d’anni dopo, le isole vantano realmente
spiagge candide e lagune azzurre. Ma all’epoca in cui ha inizio questa storia erano ancora un orrido succedersi di groppe
e cupole e coni e cocuzzoli di lava, friabile e abrasiva, tutta
fenditure e conche e valli e cavità che non sovrastava sorgenti
d’acqua dolce o fertili distese di terriccio, ma depositi di cenere
vulcanica, finissima e asciutta.
Un’ulteriore teoria di quei tempi remoti sosteneva che l’Onnipotente avesse creato quegli esseri umani nel luogo stesso in
cui gli esploratori li avevano trovati, sicché era inutile formulare congetture sul mezzo di trasporto.
Secondo certuni gli abitanti erano invece stati scaricati a due
a due dalla passerella dell’arca di Noè.
Se davvero ci fosse stata un’arca di Noè – e può darsi davvero che sia esistita – potrei intitolare il mio racconto “Una
seconda Arca di Noè”.
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Non c’era alcun mistero, un milione d’anni fa, su come un
trentacinquenne americano di nome James Wait, che a nuoto
non sapeva fare nemmeno una bracciata, si proponesse di arrivare alle Galápagos partendo dal continente sudamericano.
Non si apprestava certo ad accoccolarsi su una zattera naturale
di qualsivoglia materia vegetale e a confidare nella buona sorte.
Nel suo albergo, nel centro di Guayaquil, aveva appena comprato un biglietto per una crociera di due settimane a bordo
della Bahía de Darwin, una nuovissima nave passeggeri ecuadoriana che compiva il suo viaggio inaugurale. Nel corso dell’anno precedente, quella prima traversata della Bahía de Darwin
alla volta delle Galápagos era stata pubblicizzata e reclamizzata
in tutto il mondo come “la Crociera-Natura del Secolo”.
Wait viaggiava solo. Era tozzo, basso di statura, precocemente calvo, aveva un brutto colorito, simile alla crosta di un
pasticcio di carne in un self-service economico, e portava gli
occhiali, cosicché poteva plausibilmente affermare di aver doppiato i cinquanta, qualora avesse ritenuto che una simile affermazione gli sarebbe stata di qualche vantaggio. Voleva aver
l’aspetto di un uomo timido e innocuo.
In quel momento era l’unico cliente nella sala cocktail
dell’Hotel El Dorado, affacciato sull’ampia calle Diez de Agosto, dove occupava una stanza. Dal canto suo Jesús Ortiz, di14