M. RICHTER, Considerazioni sul problema di tradurre Les fleurs du

Transcript

M. RICHTER, Considerazioni sul problema di tradurre Les fleurs du
MARIO RICHTER
INTRODUZIONE ALLA TAVOLA ROTONDA
Per questo nostro incontro dedicato a Raboni vorrei cominciare
con un ricordo, con l’evocazione di qualche sentimento personale.
Ho ben presente il giorno in cui l’amico e collega Mengaldo prese il telefono di fronte a noi della Giuria del “Monselice” per raggiungere a Milano il poeta Giovanni Raboni e chiedergli se accettava di far parte del nostro gruppo. E ricordo con quale viva soddisfazione noi tutti sentimmo che la risposta fu subito positiva, convintamente positiva.
Quando poi Raboni cominciò a venire qui, tutto lasciava pensare che si stesse avviando un nuovo e simpatico periodo di feconda
collaborazione.
Le discussioni di quella sua prima mattinata di lavoro fra noi furono infatti particolarmente vive, costruttive. Per la circostanza, fummo poi accolti nella bella, ospitale casa del nostro amico Aldo Businaro.
E lì – nella più cordiale atmosfera favorita dalla convivialità – le nostre conversazioni si allargarono, si approfondirono. Lasciavano
prevedere, almeno per me, l’inizio di un buon lavoro comune, e anche (credo) di un buon rapporto di amicizia.
Ma, ahimè, così non avevano decretato le potenze supreme (per
voler riprendere le parole stesse di Baudelaire).
Di lì a poco, Raboni – che pure, a vederlo, bello com’era sembrava l’immagine stessa della salute – cominciò ad accusare alcune difficoltà di natura fisica. Non sembravano particolarmente gravi. Comunque sia, ogni volta Raboni si trovava impedito e non poteva raggiungerci per le successive riunioni.
Poi, con il passare dei mesi, le cose presero una piega inquietante e da ultimo precipitarono, fino al triste giorno (era il 16 settembre
dell’anno scorso) in cui venimmo a sapere che il nostro illustre amico non era più fra noi. Così, ogni nostra più bella speranza dovette
spegnersi quasi sul nascere.
229
Eccoci dunque privati di un collaboratore di vasto sapere, un
uomo animato da molteplici e vivi interessi, protagonista attento della
letteratura contemporanea nelle sue manifestazioni più avanzate e
significative.
Eccoci soprattutto privati di uno fra i più autorevoli, incisivi e
noti traduttori dell’ultima generazione letteraria del Novecento.
Occorre infatti riconoscere che Raboni si è distinto per aver saputo affrontare e risolvere, spesso con risultati di indubbia efficacia
artistica, l’arduo compito di trasferire nella lingua italiana due opere
basilari della poesia e della narrativa francese (e mondiale) moderna: Les Fleurs du Mal di Charles Baudelaire e A la recherche du temps
perdu di Marcel Proust (entrambe pubblicate da Mondadori).
Queste due opere costituiscono dunque il principale oggetto di
studio dell’incontro di oggi e ci servono anche a tenere viva la presenza del nostro amico fisicamente assente.
Per l’illustrazione delle due opere abbiamo la fortuna di poter
contare sulla competenza di alcuni fra i più riconosciuti specialisti
italiani di Proust e Baudelaire (Alberto Beretta Anguissola, Mariolina
Bertini Bongiovanni e Antonio Prete).
230
MARIO RICHTER
CONSIDERAZIONI SUL PROBLEMA DI TRADURRE
LES FLEURS DU MAL
Credo che non esista poeta francese (e non solo francese) che,
più di Baudelaire, abbia suscitato l’interesse dei traduttori italiani
(e non solo italiani), traduttori che sono per la maggior parte, specialmente negli ultimi cinquant’anni, anche poeti in proprio, e poeti
di non poco rilievo (penso almeno a traduttori parziali come Diego
Valeri e Alessandro Parronchi, ma soprattutto a Caproni1, Attilio
Bertolucci, Muscetta, Bufalino, Cosimo Ortesta, Antonio Prete e
naturalmente Raboni).
Lungo sarebbe l’elenco delle traduzioni integrali e parziali che
seguirono alla prima, che fu pubblicata, in prosa, da Riccardo Sonzogno nel 1893. Ci sarebbero anche da ricordare, ad esempio, il compianto Mario Luzi (che per vari anni fece parte della nostra Giuria),
Mario Bonfantini, Luigi De Nardis, Bernard Delmay2 ecc. (se ne
può trovare un elenco piuttosto nutrito nella Bibliografia del “Meridiano” curato da Raboni nel 1996 o anche nel volume di Ortesta).
C’è da chiedersi per quale ragione la poesia di Baudelaire abbia
potuto ottenere un così grande successo presso i traduttori.
Non c’è dubbio che il fenomeno è innanzitutto legato alla straordinaria qualità poetica delle Fleurs du Mal, all’influenza profonda e
al singolare prestigio che l’opera ha avuto per l’affermazione della
modernità nel suo insieme. Basti dire che per Baudelaire ebbero un
autentico culto poeti e scrittori del calibro di Rimbaud, Proust e Valéry.
Non so se sbaglio, ma sembra anche esistere una particolare attrazione dovuta a una suadente docilità (non dico facilità) dell’opera a farsi tradurre, a solleticare l’esercizio traduttivo.
Infatti il verso di Baudelaire si presenta spesso nella sua tornita
classicità, nella sua ben calibrata scansione di gusto sostanzialmente
1
2
Traduzione in prosa (salvo “Le Voyage”), Roma, Curcio, 1967.
Firenze, Sansoni, 1972 (traduzione isometrica).
231
parnassiano, nel suo lessico trasparente e spesso comune. A ben vedere (lo si è detto molte volte) non c’è una grande distanza fra la lingua
poetica di Baudelaire e quella di Racine (che lo precede di un secolo
e mezzo). Tutto ciò è invitante e sembra sollecitare in molti, appunto, la traduzione.
In realtà, chi si lascia attrarre da questa sirena baudelairiana e
procede alla traduzione si trova subito a dover fare i conti – come
ben sa ogni traduttore del poeta – con un testo dalle innumerevoli
insidie. Ne posso indicare qui almeno un paio.
Già nei versi d’apertura, quelli esplicitamente destinati al lettore, si legge qualcosa che solitamente imbarazza i traduttori. Mi riferisco alla strofa in cui si dice che noi assomigliamo a un “débauché
pauvre qui baise et mange / Le sein martyrisé d’une antique catin”.
Quel verbo mange che conclude il verso è spesso trasformato in qualcosa d’altro, in qualcosa di più verosimile (“sbava e strizza” traduce
Romano Palatroni3; De Nardis traduce “morde”, Ortesta traduce
“succhia”; Prete, caricandone il significato, traduce “divora”; Raboni “succhia e assapora” nel 1973 e soltanto “assapora” nel 1996...).
Bene invece traduce Luciana Frezza (1993): “che bacia e che mangia”. Infatti, il verbo francese manger non significa succhiare, né propriamente divorare, mordere, strizzare, assaporare ecc., ma significa
semplicemente ed esclusivamente mangiare. Qui dunque si impone
al traduttore – anche se ciò gli può dispiacere – il normale e quotidiano
mangia. Non ha senso girarci intorno, attenuando o accentuando.
Veniamo a un’altra difficoltà. Questa è legata a un personale vecchio ricordo scolastico.
Al ginnasio, il professore di francese (che doveva essere di formazione vagamente crociana) era solito portare come esempio di
brutto verso (non poetico) quello che dà il via al sonetto De profundis
clamavi di Baudelaire (30° delle Fleurs du Mal, ed. 1861):
J’implore ta pitié, Toi, l’unique que j’aime.
Metteva in evidenza il sintagma l’unique que. “Sentite quel queque – diceva –, è intollerabile; un vero poeta non dovrebbe fare simili errori di gusto”.
3
Baudelaire, trad. di R. Palatroni, introd. di E. Balmas, note di G. Regini, Milano,
Nuova Accademia Editrice, 1959, p. 51.
232
E così, ricordo, ci ripeteva il seguente assioma: “Tout ce qui est
poésie est chant” (scopersi più tardi che si tratta di un’affermazione
del parnassiano Banville, amico di Baudelaire e autore di un fortunato trattatello di metrica francese).
Certamente, dal suo punto di vista, il professore non aveva torto. Si tratta indubbiamente di una cacofonia (ripetizione contigua di
sillabe uguali).
Ebbene, tornando anni dopo a rileggere questa poesia nel suo
contesto (cioè nelle Fleurs del 1861), mi resi conto di quanto fosse
limitante il criterio di fluidità o armonia “musicale” col quale quel
mio pur bravo professore giudicava i poeti e, in particolare (con
rimprovero), il citato verso di Baudelaire. Mi resi conto che quel
biasimato aggettivo unique era, per Baudelaire, assolutamente necessario, perché a lui, in questo caso, importava soprattutto il senso,
ossia gli importava instaurare una perfetta ambiguità fra il genere
maschile e femminile del Toi (oggetto dell’amore) a cui si rivolge chi
implora pietà. Infatti unique è ambigenere. Il traduttore italiano, se
vuole tradurre questo aggettivo, è costretto a scegliere o il maschile
o il femminile. Ho notato che quasi tutti (forse confortati dalla spiegazione fornita da Antoine Adam, che ritiene l’aggettivo unique riferito a Jeanne, donna peraltro del tutto assente, come tale, nelle
Fleurs du Mal) optano per il femminile (così De Nardis e Ortesta,
purtroppo anche Raboni, in tutte le quattro edizioni). Ma è un arbitrio, un tradimento grave del testo (bene ha fatto chi – come Gesualdo
Bufalino, come la Frezza, come il qui presente Prete – ha tradotto
“Imploro la tua pietà, o Te, mio unico amore”).
Vediamo di capire bene.
Nel testo precedente (quello stupendo e famoso intitolato Une
charogne, 29°), il Poète (il protagonista del libro) ha offeso simultaneamente sia la grande Nature (terza strofa, Nature che afferma la
vitalità universale attraverso il continuo rinnovamento delle vite individuali), sia il Dio cristiano (che afferma l’immortalità dell’anima
individuale). In quel testo, il Poète messo in scena da Baudelaire ha
finito col compiere un atto d’orgoglio riprendendo un tema classico-neoclassico o anche parnassiano, quello che fa del poeta il vero
garante d’ immortalità:
233
Alors, ô ma beauté! dites à la vermine
Qui vous mangera de baisers,
Que j’ai gardé la forme et l’essence divine
De mes amours décomposés!
(si pensi, ad esempio, ai Sepolcri di Foscolo, alle Muse che “siedon
custodi dei sepolcri” ecc.).
Se Baudelaire avesse preso questa strada, Les Fleurs du Mal avrebbero avuto suppergiù il senso di una delle tante raccolte di certi
bravi parnassiani dell’epoca (fiduciosi nell’immortalità della poesia
e per i quali appunto “tout ce qui est poésie est chant”).
Sarebbe stata un’opera certo bella. Ma di una bellezza senza calore, senza vita (una bellezza che, in fondo, non importa davvero a
nessuno). Sarebbe stata un’opera morta, bella come può essere bello un sole di ghiaccio (un “soleil de glace”, difatti nel sonetto in questione si parla dell’orrore insopportabile di un desertico uniforme
gelo polare).
Invece il libro – dopo tanto orgoglio – prosegue sorprendentemente con l’invocazione di pietà più desolata che esista, appunto
con la preghiera ebraico-cristiana della penitenza De profundis clamavi ad te, Domine (6° salmo) unita al Miserere (4° salmo).
Ma chi può dunque essere questo Toi (con l’iniziale maiuscola),
l’amore unico a cui il Poète ora si rivolge? Credo che dobbiamo rispondere così: dato il titolo (che sottintende il Dominus), Toi e dunque unique sono da intendersi maschili, e si riferiscono a Dio (al Dio
cristiano, al Dominus del salmo, offeso con la negazione dell’immortalità dell’anima). Ma, dato il contesto (che mette in scena donne, e
l’ultima è la grande Nature personificata, con l’iniziale maiuscola),
Toi e dunque unique sono da intendersi femminili, e sembrano riferirsi, appunto, alla grande Nature (offesa con la conservazione individuale a cui mira l’arte).
Eccoci introdotti in uno spazio tipicamente baudelairiano, un
ignoto in cui l’unicità rinvia a una duplicità, un ignoto che si nasconde fra i termini in opposizione del maschile Dio cristiano e della
femminile Natura (entrambi offesi dal Poète).
Si aggiunga che quello sgraziato que-que – oltre che affermare, in
questo caso, la preminenza del senso sulla perfezione formale cara a
Gautier – mima quasi un singhiozzo, la difficoltà di esprimersi (o il
balbettare) di chi è prostrato dal dolore.
234
In conclusione: il verso “cacofonico” risulta strettamente funzionale al testo, al testo letto con rispetto, cioè – in questo caso – considerandolo anche in rapporto al suo contesto.
Questo esempio ci consente di formulare una regola molto generale di lettura (e di traduzione), regola – si dirà – molto semplice e
forse anche scontata, ma – a giudicare dai fatti – di assai difficile
applicazione: leggere scrupolosamente quello che è scritto nel testo;
rispettare il testo; non volerci leggere quello che già sappiamo, quello che è già presente nella nostra testa o nella nostra cultura (il mio
professore di ginnasio, ad esempio, aveva in testa il pregiudizio musicale. Ma ci sono anche pregiudizi più profondi). Naturalmente non
si tratta di fare tabula rasa di quello che siamo e sappiamo. Non
sarebbe possibile.
Cerco di spiegarmi meglio: la cosa importante sta nel non accostarci al testo con la preoccupazione di volere a tutti i costi applicare
parametri o metodi prescelti o prefabbricati. No. Questo ci esclude
a priori dalla possibilità di fare ingresso nel mondo indagato dallo
scrittore, e specialmente da un poeta come Baudelaire, che è il
capostipite della poesia moderna.
Dobbiamo infatti sapere che proprio con Baudelaire la poesia si
propone come suo scopo specifico la perlustrazione di tutta quella
grande parte di realtà che è tenuta nascosta dalla cultura regolata
dalla logica e da quella cosa che si chiama “buon senso” o anche
“buon gusto”. La critica e i metodi che la “nobilitano” sono parte
integrante del sistema logico dal quale invece la poesia, a partire da
Baudelaire, si propone di uscire.
Se noi pretendiamo di ingabbiare, di costringere la poesia all’interno delle coordinate della cultura (o del gusto) che esiste, ci condanniamo a mancare lo scopo principale della poesia, che è appunto quello di
portarci fuori dal nostro spazio mentale, dallo spazio pensabile in termini logico-razionali (ecco il pregiudizio più profondo e resistente,
ben più profondo di quello del professore di cui parlavo). La poesia
vuole perlustrare ciò che sta fuori. E ciò che sta fuori è l’ignoto: non è
soltanto ciò che non si conosce, ma anche ciò che non si può conoscere,
voglio dire ciò che i princìpi che regolano la nostra conoscenza e, con
questa, anche la nostra lingua, ci impediscono, ci vietano di conoscere.
Dunque non si tratta di criticare in senso proprio, ossia di applicare un metodo critico come prodotto dei fondamentali princìpi che
235
regolano la realtà che c’è, ma semplicemente di seguire: ciò significa
che non si tratta di portare il testo a noi, ma di andare noi verso il
testo. È insomma un’avventura. L’avventura è appunto il senso della
poesia moderna, inaugurata da Baudelaire.
Ebbene, al rispetto di questa avventura (cosa non facile) dovrebbe mirare ogni traduttore.
Raboni era ben consapevole di tutto ciò, di tutte le infinite difficoltà che comporta la traduzione di un testo poetico, specie di un
testo come quello di Baudelaire. Mi piace dunque concludere questa mia chiacchierata con alcune sue parole, che davvero gli fanno
un grande onore:
Anche a prescindere dalla mia personale esperienza sono [...] convinto
che il compito di un traduttore di poesia sia un compito infinito, un compito che è lecito immaginare concluso solo in un punto puramente ipotetico posto al di là del tempo, così come ipotetico e posto al di là del tempo
è il punto nel quale sono destinate a incontrarsi due rette parallele.4
4
G. RABONI, L’arte della dissonanza, in BAUDELAIRE, Opere, Milano, Mondadori, 1996,
p. xliv. Prima trad. Milano, Mondadori, 1973; seconda Torino, Einaudi, 1987; terza Torino,
Einaudi, 1992; quarta Milano, Mondadori, 1996. Le maggiori modifiche sono fra la prima e
la seconda.
236