Lettere al futuro
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Lettere al futuro
LETTERE AL FUTURO Prefazione Lavorando con tanti imprenditori come consulente su temi di strategia, organizzazione o miglioramento operativo, ho avuto sovente occasione di discutere anche il tema della successione in azienda. Mentre nel mondo delle scelte di business e di gestione prevalgono fattori razionali (e anche l’intuizione dell’imprenditore si basa su elementi razionali, analisi ed analogie), quando si parla di rapporto padre-figlio la razionalità sparisce, e prevalgono elementi quali l’affetto, l’orgoglio, ed il desiderio di tramandare la proprietà dell’impresa. Per un consulente gli spazi per dare consigli utili si restringono notevolmente, perché bisognerebbe conoscere intimamente le storie individuali, comprendere scale di valori personalissime, prevedere reazioni a comportamenti atipici e immaginare l’evoluzione nel tempo delle dinamiche interpersonali fra membri appartenenti alla stessa famiglia. Sull’argomento della successione dell’imprenditore sono stati scritti molti libri, soprattutto in Italia dove l’argomento è particolarmente sentito e, alla svolta di questo secolo, è anche particolarmente di attualità per tutte le imprese che sono nate nel dopoguerra. Per dare un ulteriore contributo alla conoscenza del fenomeno ho pensato di stimolare alcuni imprenditori a rendere pubbliche le proprie riflessioni, scrivendo in una lettera al presumibile successore (in genere un figlio o i figli), la sintesi delle proprie convinzioni ed esperienze dirette. Molti imprenditori hanno aderito con entusiasmo all’iniziativa, e questo libro raccoglie le loro lettere; altri imprenditori hanno declinato l’invito ritenendo l’argomento troppo personale o trovando difficoltà a sintetizzare in una breve lettera un mondo di emozioni. Tutti però si sono dichiarati molto curiosi di leggere le lettere degli altri, per comprendere quanto la propria esperienza sia condivisa e per ottenere qualche idea ulteriore su di un tema che, comunque, è difficile per tutti. Nel leggere le lettere suggerisco di comprendere bene la specifica realtà di ogni azienda descritta sinteticamente all’inizio. Ci sono infatti imprese specializzate e imprese diversificate: è naturale che nelle prime prevalga l’attenzione per il prodotto e la preoccupazione per una successione unitaria, mentre nelle seconde prevale il concetto di imprenditorialità e la successione è più facile potendo assegnare ogni business ad un erede diverso. Dall’insieme di queste lettere possono scaturire varie osservazioni: la più importante di tutte è che, nella totalità dei casi, c’è il desiderio (talvolta dichiarato solo con riluttanza) di mantenere la proprietà ma anche la gestione dell’azienda. Ovviamente ci sono tante parole che dimostrano il rispetto dei desideri dei figli e delle loro aspirazioni di vita e professionali, ma leggendo con attenzione si comprende che sono parole “dovute”: in realtà tutti vorrebbero che i figli continuassero nel mestiere dei padri. Per le figlie non sembra esserci spazio in azienda, segno questo di una mentalità maschilista. Quest’impostazione è abbastanza diversa da quella prevalente all’estero, soprattutto fra gli imprenditori di origine anglosassone, per i quali spesso il coronamento di una vita di successo consiste nella vendita dell’impresa (a terzi o ad una fondazione) in modo da misurare l’aumento di valore realizzato e da mettere in sicurezza il patrimonio familiare. Per un imprenditore italiano l’impresa non è quindi un bene commerciabile e quindi si applicano ad essa gli stessi ragionamenti che si applicano alle case avite o ai gioielli di famiglia. Al limite, e solo, quando si ha l’impressione che la dimensione e la complessità dell’impresa travalichino le capacità imprenditoriali dei figli si auspica una distinzione fra proprietà e management, distinzione che però è temperata dal “permesso” dato ai figli, di svolgere comunque dei compiti in azienda. Un’altra interessante conclusione è l’importanza dei valori e dell’insegnamento della storia aziendale. In decenni di attività ogni imprenditore ha dovuto affrontare moltissime decisioni operative e strategiche importanti, superare crisi e confrontarsi con situazioni impreviste; la ricetta che l’imprenditore ha ricavato dalla propria esperienza e che vuole tramandare al figlio non è mai un metodo analitico, ma una serie di principi comportamentali quali l’amore per il prodotto, il rispetto per le idee dei collaboratori, la rettitudine, la capacità e l’inevitabilità di prendere decisioni. E’ interessante anche notare un tema che non è mai trattato, quasi ad esorcizzarlo, e che invece è molto frequente nelle famiglie di imprenditori: la divisione dell’impresa fra molti eredi, i litigi possibili quando vi sono aspirazioni e capacità divergenti, la cessione di quote di minoranza o anche di maggioranza a terzi. In genere si spera che l’esempio dell’armonia dato dai fratelli fondatori dell’attività sia seguito anche quando la proprietà viene frazionata fra molti figli e nipoti. Forse, in realtà, non ci sono consigli da dare quando gli obiettivi divergono: c’è solo da gestire in modo razionale e senza animosità un’inevitabile separazione. Un altro tema che non viene mai toccato in termini di consigli specifici è il futuro. Mi sarei immaginato che gli imprenditori identificassero dei megatrend da seguire, quali lo spostamento dell’impresa verso il mondo dell’“on line”, la delocalizzazione produttiva, la terziarizzazione e smaterializzazione dell’impresa, l’acquisizione di una quota di mercato dominante in un mercato sempre più globalizzato, l’utilizzo aggressivo della finanza aziendale, lo spostamento della focalizzazione dalla produzione alla commercializzazione ecc. Conoscendo bene, per ragioni professionali, molte delle imprese rappresentate in questo libro, sono in grado di individuare per ciascuna impresa almeno un megatrend che deve (o dovrebbe) essere l’asse portante della strategia per il prossimo decennio; le lettere dell’imprenditore, però, non ne fanno cenno, quasi che si vogliano dare messaggi di più lunga durata. Ecco quindi che il contenuto delle lettere si focalizza sui comportamenti e sui valori che sono indelebilmente impressi nei cromosomi imprenditoriali, mentre le strategie possono cambiare secondo le circostanze. Infine, leggendo con attenzione le lettere, si sente una specie di rimpianto di non poter trasferire tutta le propria esperienza e tutte le proprie memorie. L’imprenditore, che ha creato ogni tassello della propria azienda, ha un ricordo vivido e pieno di emozioni per i momenti in cui sono state prese le decisioni, per le cose fisiche che sono state costruite, per le persone che hanno collaborato, mentre è inevitabile che, per chi succede all’imprenditore in azienda, un impianto costruito con passione si trasformi in un “asset” da ammortizzare e un compagno di viaggio dell’avventura imprenditoriale si trasformi in un semplice collaboratore. Nella vita possiamo trasferire la proprietà dei beni e dare buoni consigli, ma non possiamo trasferire la memoria: rammaricarsene è un atteggiamento più “paterno” che “imprenditoriale”. Come consulente potrei fare ovviamente molte critiche e queste lettere (per noi è sempre facile, e ci pagano anche per farlo!) e la principale è che manca un adeguato riconoscimento del ruolo fondamentale avuto, per il successo dell’impresa, da uno o più collaboratori. Certo, se le imprese si sono sviluppate, l’imprenditore è stato bravo (e fortunato), ma è stato soprattutto bravo a dare spazio ad un tecnico che ha inventato i prodotti o ad un commerciale che ha aperto un certo mercato. Inoltre, quando si studia la storia di un impresa, si trovano sempre dei clienti e dei fornitori fondamentali che hanno collaborato, indirettamente ma in modo significativo, allo sviluppo dell’impresa: un credito dovrebbe essere dato anche a loro. Sono particolarmente sensibile a questo argomento in quanto oggi più che mai il successo dell’impresa è determinato dalla rete dei “vincenti” a cui l’impresa è collegata. Ho sviluppato questo tema nel libro “Il successo degli altri”, anche quello pubblicato da Baldini & Castoldi: in un mondo sempre più complesso nessun imprenditore riesce più a dominare tutte le scelte strategiche, ed è quindi indispensabile collegarsi con fornitori, clienti, finanzieri, professionisti e, soprattutto, con altri manager/imprenditori che abbiano il potenziale cogliere opportunità di business impercettibili ed inaccessibili per l’imprenditore. Il limite culturale di molte imprese gestite da manager o da imprenditori è di pensare che, assumendo persone brave, sia possibile cogliere le opportunità, mentre invece, l’abbondanza di capitali e le numerose storie di successo permettono oggi ai manager bravi di mettersi in proprio, per cui non si può più assumerli, bisogna solo associarsi ad essi. Una seconda critica è relativa al mancato riconoscimento del fattore “fortuna”, che certamente ha giocato un ruolo fondamentale nello sviluppo di molte imprese. Tutti noi pensiamo di essere stati bravi, e ci dispiacerebbe ammettere di essere stati solo fortunati: eppure, essersi trovati per caso in un mercato in espansione o aver ereditato una tecnologia vincente è stato talvolta più importante delle decisioni di investimento o delle scelte dei collaboratori. Sono rari anche i riferimenti agli errori fatti, che pure sono stati utili e potrebbero essere utilissimi all’erede dell’impresa per evitare di ripeterli. Sembra quasi che nello scrivere una lettera ai figli dia fastidio fare riferimenti a fatti che potrebbero sminuire la figura dell’imprenditore o del padre. Eppure, saper distinguere merito da fortuna e saper imparare dagli errori sono consigli importanti da dare a chi si appresta a diventare imprenditore. Infine, un consiglio che darei io agli attuali e futuri imprenditori è di aver ben presente la teoria e la pratica della creazione del valore. La distinzione fra un imprenditore ed un capitalista sta nella capacità del primo di generare nel tempo un valore superiore a quello che gli stessi capitali avrebbero generato se investiti in un indice di borsa con lo stesso livello di rischio. Così come un giocatore di golf misura l’evoluzione nel tempo del proprio handicap, un vero imprenditore dovrebbe misurare periodicamente il valore della propria azienda e raffrontarlo ad un indice. Poiché nessun imprenditore ha scritto un lettera in cui spiega al figlio perché non gli permetterà mai di dirigere l’azienda, ho ritenuto utile chiedere ad un professore universitario, che invece ha avuto molte esperienza di casi in cui tale proibizione sarebbe stata appropriata, di scriverla lui. Il prof. Gianfranco Piantoni ha firmato quindi una lettera che spero farà riflettere molti imprenditori. Per inquadrare il tema della successione in azienda ho chiesto ad un altro esperto, il prof. Guido Corbetta, di sintetizzare in un capitolo ad hoc la letteratura manageriale e di preparare anche una bibliografia ad uso di chi voglia approfondire l’argomento. Il Prof. Corbetta inquadra all’interno della letterature manageriale alcune soluzioni che gli autori di queste lettere cercano di perseguire per addestrare per tempo ogni figlio al mestiere di imprenditore (responsabilizzarsi su alcuni progetti specifici, lavorare per qualche anno in aziende estere, ecc.) e per programmare una transizione morbida (regole per l’inserimento in azienda di parenti e affini, quotazione in borsa come disciplina per una gestione orientata alla creazione di valore, ecc. Infine un ringraziamento: a ciascuno degli imprenditori che ha dedicato del tempo a costruire questo libro e soprattutto al dott. Pier Paolo Preti che con abilità, tatto e grande impegno ha aiutato molti degli imprenditori a scrivere la “loro” lettera, loro per contenuti ma anche per pathos, stile e carica affettiva. E, naturalmente, un augurio a tutti gli eredi delle aziende qui rappresentate di saper distinguere se sono dei capitalisti o degli imprenditori, e di sapersi comportare di conseguenza. 21 giugno 1999 Gianfilippo Cuneo