camicia vodka
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camicia vodka
9 Lei rimase immobile a guardarla, ma lui fu svelto a raccoglierla. Irina si mise a ridere: «Meno male che non s’è rotta. Altrimenti avrei dovuto romperle accanto il mio bicchiere. L’ho visto fare da mio zio Vassili per respingere la malasorte causata dal vetro rotto della bottiglia che deve essere placata dall’altro vetro rotto, quello del suo compagno, il bicchiere. Superstizioni cui ancora molti ci credono. Zio Vassili ci credeva. Un matto che mi faceva ridere continuamente. Fratello di mio padre, abitava con noi perché non s’era mai sposato e – penso – non avrebbe avuto altro luogo dove andare, sempre povero in canna. Mia madre lo detestava e quando parlava di lui, fin da quand’ero piccola lo chiamava ‘il porco’. Finché ero bambina non capivo perché. La sentivo parlare sostenuta a mio padre di “quel porco che va a puttane e a ubriacarsi, senza lasciar un rublo per la casa”. E… a te lo dico. Ti ho detto quasi tutto di me. E ora che ho bevuto un po’ posso dirti di qualcosa che non ho detto a nessuno. E meno che mai a mia madre Tania, a cui avrei pur detto, in seguito, che il padrone del night dove lei lavorava, nei miei primi periodi, aveva – come si dice – abusato di me. Beh, ben prima di lui, anche quel simpatico malandrino di mio zio Vassili aveva – come si dice – approfittato di me. Per un paio d’anni, intorno ai miei dieci anni, quando si restava soli in casa, in sostanza giocando e dicendo che voleva fare come il dottore, mi toglieva le mutandine e mi toccava. E si toccava anche lui. Capisci? Eppure quei ‘giochini’ non mi hanno mai turbata, nella loro delicatezza. Anzi, mi piacevano con lui e non ci vedevo nulla di male. Non potevo assolutamente vederci qualcosa di male. Mi faceva ridere e questo mi rallegrava. E mi piaceva anche veder ridere lui, cosa che non capitava mai con gli altri. Capivo però che tutto doveva restare un segreto tra noi. Solo quando fui più grande e cominciai a capir del sesso mi resi conto di cosa succedeva durante quei ‘giochini’. Te lo dico sinceramente? In seguito, ripensandoci, son stata felice che lui si prendesse qualche piccola gioia da me. Gli volevo bene. Forse ero l’unica persona che gli voleva bene e che gli ha dato inconsciamente qualcosa nella sua vita grama, fatta di niente, di vodka e di qualche donna che doveva pagarsi. Poche anche quelle credo, date le miserie che gli dovevano fruttare i suoi traffici di poco conto. Ai limiti del lecito, da quel poco che ho potuto sentir di lui in casa dopo che era morto nel letto di una di quelle disgraziate. Una specie di grassa vecchia spaventapasseri che abitava nel quartiere, la faccia a macchie di rosso confuse col rosso posticcio dei suoi capelli, che a me – ancora bambina – faceva spavento vederla. Forse anche per le mezze frasi che captavo su di lei a casa, in particolare da mia madre che non aveva remore a manifestare il suo disprezzo per quella poveraccia. Non aveva ancora quarant’anni zio Vassili. Io avevo più o meno dodici anni e fu la prima volta che mi rendevo conto della morte. Del finire di ogni cosa per una persona. Del doloroso vuoto che lasciava in chi l’amava. Mi solleva il pensiero che se ne sia andato senza soffrire, spero sull’onda di un piacere. E sai… una cosa m’ha lasciato zio Vassili senza che se ne rendesse conto per cui dovrò sempre sentirmi grata? Mi pare d’avertene accennato. Il piacere della lettura. Gli piacevano i classici della nostra letteratura: Tolstoj, Gor’kij, Pushkin, 1 Gogol’. E poi Turgenev, Cechov, Dostoevskij. Li comprava usati nei mercatini per strada e stava ore e ore nella sua stanza a leggerli. Mia madre lo disprezzava anche per questo, ritenendolo un deprecabile ozio. Ogni tanto capitava che mi raccontasse qualche episodio di quanto stava al momento leggendo, instillandomi una curiosità che avrebbe preso corpo dopo che ci ebbe lasciati. Mia madre stava per buttare quella piccola biblioteca sbrindellata, ma mio padre la fermò. Non che lui tenesse particolarmente a quei libri, non ne aveva letto uno, ma “erano di suo fratello” e – sostenuto da nonna Olga – li salvò. Su un vago tenero ricordo di zio Vassili, l’estate successiva cominciai a leggere Delitto e castigo, vincendo la perplessità di imbarcarmi in un volume così impegnativo. Fui subito presa dalla storia e malgrado la sua figura negativa, mi innamorai di Raskol’nikov. Mi aveva colpito la sua idea che gli uomini si dividono in due categorie: i ‘pidocchi’, legati alle leggi morali, e i ‘talentuosi’ che se ne liberano. Ma la mia ‘normalità’ mi fece apprezzare che alla fine si costituisse per pagare la colpa d’aver ucciso l’usuraia. Dopo quel romanzo, fu naturale per me continuare con gli altri. Ragazzina qual ero, non sempre capivo tutto quanto leggevo. Eppur ne ero sempre catturata. Il più impegnativo fu quell’opera ponderosa che è Guerra e pace. Ricordo che lo cominciai che già lavoravo nel night lì a Mosca. Riuscii a finirlo in qualche mese». L’aveva ascoltata in silenzio. Serio. Guardandola quasi parlasse tra sé. Notava come nel ripescare i suoi ricordi e nell’esporli Irina era come si assentasse, rivivendoli intensamente. E si meravigliava di quanto gli stava raccontando, degli abusi dello zio, ma particolarmente della sua precoce propensione alla lettura, nonostante l’ambiente famigliare poco stimolante, innescatale da quello zio che poteva apparirle quasi una variante miserevole di Raskol’nikov, per cui Irina ragazzina propendeva. Ancora presa, si versò un po’ di vodka e ne versò a lui. Ormai ne restava un fondo di bottiglia. Accostò il bicchierino alle labbra guardandolo. E si accese. «Ehi, dov’è la chitarra? È rimasta in camera tua?». L’espressione seria era divenuta in un attimo sorridente. Vuotò d’un colpo il bicchierino. S’alzò prendendolo per mano e trascinandolo verso la camera. Prese la chitarra sul letto e gliela porse. «Eravamo rimasti a “another Italian song of ‘amore’”. Me lo ricordo bene. Dai!». Si sedette sul letto. Lei gli si distese accanto e chiuse gli occhi. Do maggiore. “Se la pioggia mi bagna, se il sole mi scalda…”. Gli venne di getto L’amore di Don Backy. Antica come lui. Era una delle sue preferite da giovane. Ora, la ricantava dopo molti decenni. La cantava e guardava Irina che sembrava addormentata. “L’amore di un’amica quando mi sento solo…”. Ma una mano si mosse e gli si posò sulla coscia. Si meravigliò a non esserne imbarazzato. Finita la canzone, lei si tirò su. Guardandolo con occhi lucidi gli si accostò col viso e le labbra sfiorarono le sue labbra in un quasi aereo bacio, staccandosene subito appena appena. Gli occhi fissi sui suoi per lunghi secondi. Poi gli prese la chitarra appoggiandola sul tappeto per terra e posandogli una mano sulla nuca lo attirò a sé. Ora il bacio fu un bacio. Lievi tocchi di lingua, le dita leggère sulla nuca. Lui rispose. Ogni imbarazzo era volato via lontano e ora lui si lasciava andare alla morbidezza di quelle labbra meravigliandosi di quanto fosse dolce baciar le labbra di 2 una donna. Si sorprese ad accarezzarle i piccoli seni e sentì i capezzoli inturgidirsi sotto l’inconsistente maglietta. Quando Irina, infilandogli una mano sotto la camicia, gli sfiorò la schiena ebbe un brivido di piacere. Fu un bell’inaspettato amore. Leggero, disinibito, spontaneo. Naturale e appagante come un bicchier d’acqua fresca quando si ha sete. Rimasero distesi sul letto in silenzio. Lei gli aveva preso la mano e la stringeva. Lui assaporava quel nirvana abbandonato senza remore, senza alcun pensiero. Minerva, la gattina, s’era raggomitolata e dormiva ai loro piedi. Li scosse il trillo del telefono. «Nabìl?». (continua alla prossima) 3