camicia vodka

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camicia vodka
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Lei rimase immobile a guardarla, ma lui fu svelto a raccoglierla. Irina si mise a ridere:
«Meno male che non s’è rotta. Altrimenti avrei dovuto romperle accanto il mio
bicchiere. L’ho visto fare da mio zio Vassili per respingere la malasorte causata dal
vetro rotto della bottiglia che deve essere placata dall’altro vetro rotto, quello del
suo compagno, il bicchiere. Superstizioni cui ancora molti ci credono. Zio Vassili ci
credeva. Un matto che mi faceva ridere continuamente. Fratello di mio padre, abitava
con noi perché non s’era mai sposato e – penso – non avrebbe avuto altro luogo dove
andare, sempre povero in canna. Mia madre lo detestava e quando parlava di lui, fin da
quand’ero piccola lo chiamava ‘il porco’. Finché ero bambina non capivo perché. La
sentivo parlare sostenuta a mio padre di “quel porco che va a puttane e a ubriacarsi,
senza lasciar un rublo per la casa”. E… a te lo dico. Ti ho detto quasi tutto di me. E ora
che ho bevuto un po’ posso dirti di qualcosa che non ho detto a nessuno. E meno che
mai a mia madre Tania, a cui avrei pur detto, in seguito, che il padrone del night dove
lei lavorava, nei miei primi periodi, aveva – come si dice – abusato di me. Beh, ben
prima di lui, anche quel simpatico malandrino di mio zio Vassili aveva – come si dice –
approfittato di me. Per un paio d’anni, intorno ai miei dieci anni, quando si restava soli
in casa, in sostanza giocando e dicendo che voleva fare come il dottore, mi toglieva le
mutandine e mi toccava. E si toccava anche lui. Capisci? Eppure quei ‘giochini’ non mi
hanno mai turbata, nella loro delicatezza. Anzi, mi piacevano con lui e non ci vedevo
nulla di male. Non potevo assolutamente vederci qualcosa di male. Mi faceva ridere e
questo mi rallegrava. E mi piaceva anche veder ridere lui, cosa che non capitava mai
con gli altri. Capivo però che tutto doveva restare un segreto tra noi. Solo quando fui
più grande e cominciai a capir del sesso mi resi conto di cosa succedeva durante quei
‘giochini’. Te lo dico sinceramente? In seguito, ripensandoci, son stata felice che lui si
prendesse qualche piccola gioia da me. Gli volevo bene. Forse ero l’unica persona che
gli voleva bene e che gli ha dato inconsciamente qualcosa nella sua vita grama, fatta di
niente, di vodka e di qualche donna che doveva pagarsi. Poche anche quelle credo, date
le miserie che gli dovevano fruttare i suoi traffici di poco conto. Ai limiti del lecito, da
quel poco che ho potuto sentir di lui in casa dopo che era morto nel letto di una di
quelle disgraziate. Una specie di grassa vecchia spaventapasseri che abitava nel
quartiere, la faccia a macchie di rosso confuse col rosso posticcio dei suoi capelli, che
a me – ancora bambina – faceva spavento vederla. Forse anche per le mezze frasi che
captavo su di lei a casa, in particolare da mia madre che non aveva remore a
manifestare il suo disprezzo per quella poveraccia. Non aveva ancora quarant’anni zio
Vassili. Io avevo più o meno dodici anni e fu la prima volta che mi rendevo conto della
morte. Del finire di ogni cosa per una persona. Del doloroso vuoto che lasciava in chi
l’amava. Mi solleva il pensiero che se ne sia andato senza soffrire, spero sull’onda di un
piacere. E sai… una cosa m’ha lasciato zio Vassili senza che se ne rendesse conto per
cui dovrò sempre sentirmi grata? Mi pare d’avertene accennato. Il piacere della
lettura. Gli piacevano i classici della nostra letteratura: Tolstoj, Gor’kij, Pushkin,
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Gogol’. E poi Turgenev, Cechov, Dostoevskij. Li comprava usati nei mercatini per strada
e stava ore e ore nella sua stanza a leggerli. Mia madre lo disprezzava anche per
questo, ritenendolo un deprecabile ozio. Ogni tanto capitava che mi raccontasse
qualche episodio di quanto stava al momento leggendo, instillandomi una curiosità che
avrebbe preso corpo dopo che ci ebbe lasciati. Mia madre stava per buttare quella
piccola biblioteca sbrindellata, ma mio padre la fermò. Non che lui tenesse
particolarmente a quei libri, non ne aveva letto uno, ma “erano di suo fratello” e –
sostenuto da nonna Olga – li salvò. Su un vago tenero ricordo di zio Vassili, l’estate
successiva cominciai a leggere Delitto e castigo, vincendo la perplessità di imbarcarmi
in un volume così impegnativo. Fui subito presa dalla storia e malgrado la sua figura
negativa, mi innamorai di Raskol’nikov. Mi aveva colpito la sua idea che gli uomini si
dividono in due categorie: i ‘pidocchi’, legati alle leggi morali, e i ‘talentuosi’ che se ne
liberano. Ma la mia ‘normalità’ mi fece apprezzare che alla fine si costituisse per
pagare la colpa d’aver ucciso l’usuraia. Dopo quel romanzo, fu naturale per me
continuare con gli altri. Ragazzina qual ero, non sempre capivo tutto quanto leggevo.
Eppur ne ero sempre catturata. Il più impegnativo fu quell’opera ponderosa che è
Guerra e pace. Ricordo che lo cominciai che già lavoravo nel night lì a Mosca. Riuscii a
finirlo in qualche mese».
L’aveva ascoltata in silenzio. Serio. Guardandola quasi parlasse tra sé. Notava come nel
ripescare i suoi ricordi e nell’esporli Irina era come si assentasse, rivivendoli
intensamente. E si meravigliava di quanto gli stava raccontando, degli abusi dello zio,
ma particolarmente della sua precoce propensione alla lettura, nonostante l’ambiente
famigliare poco stimolante, innescatale da quello zio che poteva apparirle quasi una
variante miserevole di Raskol’nikov, per cui Irina ragazzina propendeva.
Ancora presa, si versò un po’ di vodka e ne versò a lui. Ormai ne restava un fondo di
bottiglia. Accostò il bicchierino alle labbra guardandolo. E si accese.
«Ehi, dov’è la chitarra? È rimasta in camera tua?». L’espressione seria era divenuta in
un attimo sorridente. Vuotò d’un colpo il bicchierino. S’alzò prendendolo per mano e
trascinandolo verso la camera. Prese la chitarra sul letto e gliela porse. «Eravamo
rimasti a “another Italian song of ‘amore’”. Me lo ricordo bene. Dai!».
Si sedette sul letto. Lei gli si distese accanto e chiuse gli occhi. Do maggiore. “Se la
pioggia mi bagna, se il sole mi scalda…”. Gli venne di getto L’amore di Don Backy. Antica
come lui. Era una delle sue preferite da giovane. Ora, la ricantava dopo molti decenni.
La cantava e guardava Irina che sembrava addormentata. “L’amore di un’amica quando
mi sento solo…”. Ma una mano si mosse e gli si posò sulla coscia. Si meravigliò a non
esserne imbarazzato. Finita la canzone, lei si tirò su. Guardandolo con occhi lucidi gli si
accostò col viso e le labbra sfiorarono le sue labbra in un quasi aereo bacio,
staccandosene subito appena appena. Gli occhi fissi sui suoi per lunghi secondi. Poi gli
prese la chitarra appoggiandola sul tappeto per terra e posandogli una mano sulla nuca
lo attirò a sé. Ora il bacio fu un bacio. Lievi tocchi di lingua, le dita leggère sulla nuca.
Lui rispose. Ogni imbarazzo era volato via lontano e ora lui si lasciava andare alla
morbidezza di quelle labbra meravigliandosi di quanto fosse dolce baciar le labbra di
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una donna. Si sorprese ad accarezzarle i piccoli seni e sentì i capezzoli inturgidirsi
sotto l’inconsistente maglietta. Quando Irina, infilandogli una mano sotto la camicia,
gli sfiorò la schiena ebbe un brivido di piacere.
Fu un bell’inaspettato amore. Leggero, disinibito, spontaneo. Naturale e appagante
come un bicchier d’acqua fresca quando si ha sete.
Rimasero distesi sul letto in silenzio. Lei gli aveva preso la mano e la stringeva. Lui
assaporava quel nirvana abbandonato senza remore, senza alcun pensiero. Minerva, la
gattina, s’era raggomitolata e dormiva ai loro piedi.
Li scosse il trillo del telefono. «Nabìl?».
(continua alla prossima)
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