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«[…] Ha lavorato senza sosta praticando un
attraversamento dei codici linguistici raro quanto
rischioso, che l’ha collocata in una posizione
peculiare, sola regista in Francia ad aver scavalcato
radicalmente il realismo per accedere a un cinema
drammaticamente personale, “scritto” con la luce
e con il buio, dominato dalla mancanza e insieme
dal fluire del tempo.»
Enciclopedia del Cinema Treccani
«Il cinema spegne il testo,
uccide la propria discendenza: l’immaginario.
È questa la sua virtù: chiudere.
Bloccare l’immaginario.
Questo blocco, questa chiusura si chiama film.»
Marguerite Duras
hanno scritto
formebrevi
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Marguerite Duras, La ragazza del cinema
Titoli originali: Agatha; Le Camion
Copyright © Les Éditions de Minuit, 1977; 1981
Copyright © Del Vecchio Editore, 2014
Editing: Silvia Scialanca
Redazione: Vittoria Rosati Tarulli
Design. Illustrazioni. Logo: Maurizio Ceccato | ifix
www.delvecchioeditore.it
www.twitter.com/DelVecchioEd
www.senzazuccheroblog.it
ISBN: 9788861101005
ISBN: 9788861101159 (ebook)
«Vedi, per me il cinema è questo.
Tu mostri un volto roseo, bello,
occhi chiari, chiari, chiari, quasi
bianchi, madreperlati, vedi, e poi
dici che il suo è uno sguardo violetto.
Allora la parola “violetto” invade tutto.»
— MARGUERITE
DURAS
TRADUZIONE
ANGELO MOLICA FRANCO
con un’introduzione di
Sandra Petrignani
EppurE vEdEtE qualcosa sullo schErmo
di Sandra Petrignani
Passano quattro anni fra la stesura di Le Camion (1977) e
Agatha (1981), quattro anni in cui nella vita di Marguerite Duras succede una cosa importante, che cambia i suoi
equilibri. Nel 1980 il giovane Yann Andréa va a trovarla
nella casa di Trouville, in Normandia, dopo averle inviato
lettere senza risposta per cinque anni, da quando l’aveva conosciuta fuggevolmente durante una conferenza. S’istalla
da lei e diventa il suo compagno. Una relazione turbolenta, ma le resta vicino fino all’ultimo respiro. Non sapendo
che un giorno si sarebbe smentita tanto brillantemente
nella realtà, Duras aveva scritto ne Le Camion: «Una donna d’una certa età non è interessante». Attribuisce la frase
al protagonista maschile, uno di quegli uomini, un camionista, che quanto a gusti erotici è totalmente nella norma:
gli piacciono le ragazze, non degna di uno sguardo donne
“di una certa età”. Nella vita vera, imbattendosi nel bisessuale Yann, di quasi quarant’anni più giovane di lei, Marguerite scoprirà invece di poter essere interessante per un
uomo anche al di fuori del sesso, anzi forse – e ciò l’angoscia – soprattutto al di fuori del sesso.
È abituata a passioni tempestose. Fin dall’adolescenza,
nell’amore per il cinese che sarà l’eroe – negativo e positivo
– di tre libri, Una diga sul Pacifico, L’amante, L’amante della
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Cina del Nord, la scrittrice mette in rapporto l’innamoramento con un acceso coinvolgimento dei sensi e del corpo.
Mentre l’amore di Yann, che conosce a memoria i suoi libri, che l’adora e non potrebbe vivere senza essere informato per primo, sul nascere, di ogni sua nuova opera – che lui
batte pazientemente a macchina, riga dopo riga – è qualcosa di disincarnato e minaccioso, frustrante e lacerante.
Non che non passi fisicità fra loro. Marguerite lo costringe alla carnalità soprattutto all’inizio; ma non è appagata.
Yann sfugge, Yann non è interessato. Preferisce corteggiare i baristi stagionali brasiliani nei bar di Trouville. Eppure
la ama, non resiste lontano da lei. Qualche volta scappa,
esasperato dalle scenate di Marguerite, dai suoi insulti, ma
dopo tre giorni torna e si arrende: «Vi amo, vi adoro», le
dice con quel vezzo del voi con cui spesso sostituiscono il
tu anche negli scambi più intimi.
C’è insomma fra loro un interdetto, come quello dell’incesto fra Agatha e il fratello, che rende l’amore eccezionale,
ancor più estenuato e disperato. E c’è l’alcol, tanto tanto
alcol, sola risorsa di Duras per far fronte a una relazione
così torturante. Non è un caso che l’autrice voglia proprio
Yann come protagonista del film Agatha. Ma Yann non sa
recitare, è un disastro, la fa infuriare, e allora decide di non
lasciargli dire una parola. Riprenderà i particolari del suo
corpo, le mani, il viso, la sua silhouette che guarda l’orizzonte attraverso la vetrata della casa, a Trouville. Guarda
lontano l’inafferrabilità di se stesso, della vita, delle relazioni umane. «Nessun amore al mondo può competere con
l’amore», aveva detto un personaggio de I cavallini di Tar-
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quinia. Perché ogni amore concreto è fantasmatico, inadeguato all’idea, all’attesa dell’Amore.
Il cinema di Duras è comunque qualcosa di speciale, di
diverso da tutto quello che uno ha imparato sul cinema.
La sceneggiatura non è mai rispettata, ogni scena sul set
rinasce in modo anche molto distante da come era stata
scritta. Perché il film, nell’immaginario durassiano, è a sua
volta un’opera letteraria, con leggi differenti, però, da quelle dello scrivere. Le parole non sono didascalie delle immagini e viceversa. Le parole raccontano una storia a modo loro, le immagini un’altra o la stessa storia, ma con altri
mezzi. Quando nell’82 girerà L’uomo atlantico, la sottrazione alle leggi di quel cinema, che considera commerciale, si estremizza, e allora avvertirà il pubblico dalle pagine
di “Le Monde” che il film «è fatto per la maggior parte di
nero, non andate proprio a vederlo, perché è stato girato
totalmente ignorando la vostra esistenza».
Il pubblico di Duras deve essere pronto a tutto, sia al cinema sia leggendola. Deve abbandonarsi a un flusso, oscillare, regredire, crederle ciecamente, credere che lei comunque stia dicendo la verità, e solo questo conta: la sincerità,
l’autenticità di un autore. E gli attori devono abbandonarsi anche loro, come il pubblico. Quando Gérard Depardieu scopre che, interpretando Le Camion, non può ricorrere ai suoi consueti strumenti interpretativi, ma deve
semplicemente limitarsi a leggere la sceneggiatura seduto
accanto all’autrice a un tavolo della casa di Neauphle–le–
Château, non oppone resistenza. Sa che girare con Duras
è un’esperienza a parte, un’avventura dello spirito prima
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che della professione. Così accetta di diventare voce fuoricampo, o timido attore che chiede cosa diavolo stiano facendo: «È un film?», «Sarebbe stato un film». «È un film,
sì». Un film che fa i conti con la delusa coscienza politica della scrittrice per interposta persona, attraverso quella
donna anziana che chiede un passaggio, quella matta che
passa i giorni a chiedere passaggi, e a un certo punto afferma, grazie alla stessa Duras che nel film la racconta a Depardieu: «E poi lei dice: sa, personalmente, penso che Karl
Marx sia finito».
Non sono un critico cinematografico, né abbastanza cinéphile per tentare un giudizio sul cinema ammaliante, disorientante di Duras. Lo amo e lo odio, dipende. Lo interrogo e me ne faccio interrogare, cerco di abbandonarmi al
suo flusso, appunto. È la stessa autrice a spiegarlo, quando
nelle note e nell’intervista all’amica Michelle Porte*, dichiara: «Vi diranno che non si tratta di cinema. Eppure vedete
qualcosa sullo schermo. Qualcuno che parla, è un’immagine». Lei non vuole che gli attori recitino, interpretino.
Vuole piuttosto che giochino, che si mettano in gioco.
Io mi attengo ai testi. Ne Le Camion è evidente la sostanza di gioco del suo fare cinema, perché il gioco è sempre
sperimentazione; ne è spia quel tempo verbale, il condizionale, utilizzato abbondantemente da Duras, e non solo in questa “sceneggiatura”, il “condizionale preludico”
dei bambini. I bambini usano l’imperfetto e il condizionale quando organizzano il gioco: «Facciamo che eravamo
m. duras, La minaccia della luce. Intervista con Michelle Porte, Del Vecchio Editore, 2014 (ebook).
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due principesse», «Quella sarebbe una montagna», «La tua
cartella sarebbe il tavolino»…
Nel 1980 Marguerite Duras ha una crisi da abuso di alcol e sonniferi e deve essere ricoverata. Nella convalescenza legge Musil e si dichiara felice di quel che le è accaduto
perché ha avuto il tempo di leggere interamente L’uomo
senza qualità. Senza questa lettura non avrebbe scritto Agatha, storia di due amanti, fratello e sorella nel momento
di una separazione insostenibile. Nel testo di questa pièce
si agitano gli elementi durassiani più noti: l’amore, la musica, l’incapacità di suonare al livello desiderato, lo scacco
dell’amarsi, gli specchi, la figura della madre, il ricordo di
un passato che non passa, lo spazio vuoto di una casa grande, desolata, abbandonata, ma perfettamente ammobiliata (la casa di India Song?). Elementi analitici o onirici. Elementi che sarebbero stati perfetti per stuzzicare ancora una
volta Jacques Lacan, morto però proprio nell’81, Lacan
che aveva tentato – inutilmente – di diradare la nebbia
dell’inconscio dell’amica scrittrice, refrattaria a qualsiasi
indagine psicanalitica, ai tempi de Il rapimento di Lol V.
Stein (1964).
Ci si potrebbe anche chiedere se – lontani più nell’ispirazione che nei tempi di composizione – i testi qui presentati insieme abbiano qualcosa in comune oltre l’essere stati scritti per il cinema, sia pure un cinema che li avrebbe
“traditi” per suo stesso statuto. Risponderei che sì, hanno
qualcosa in comune di molto forte: il senso di sconfitta.
I fratelli amanti si separano per troppo amore, un amore
impossibile, proibito, senza sul serio riuscire davvero a se-
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pararsi. Di loro, del loro incendio, “non resta niente”, solo
“le grandi cataratte del deserto” scriveva la stessa Duras,
perché l’incesto è nascosto sempre, che sia un incesto reale
o quello che è sempre sotteso, e sottinteso, in qualsiasi relazione amorosa: l’incesto primordiale, l’innamoramento
sfrenato e insostituibile per il corpo materno. Ne Le Camion la sconfitta è planetaria: è il mondo intero a essere
destinato alla perdita, perché “non vale più la pena” di
fare film come di fare politica, di amare, di vivere forse.
«Che il cinema vada in rovina, è il solo cinema possibile.
Che il mondo vada in rovina, in rovina, è la sola politica
possibile».
Sandra Petrignani,
gennaio 2014
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AGAThA
Un salone in una casa disabitata. C’è un divano. Alcune poltrone. Una finestra lascia passare una luce d’inverno. Si sente
il rumore del mare. La luce d’inverno è nebbiosa e cupa. Non
vi sarà nessun’altra luce, solo questa luce d’inverno.
Lì ci sono un uomo e una donna. Tacciono. Si può supporre
che parlino da molto prima che li vedessimo. Non sanno della
nostra presenza. Sono in piedi, addossati alle pareti, ai mobili,
come esausti. Non si guardano. Nel salone ci sono due valigie e
due cappotti, ma in punti diversi. Sono quindi arrivati separatamente. Hanno trent’anni. Si direbbe che si somiglino.
La scena comincia con un lungo silenzio durante il quale non si
muovono. Si parleranno con una dolcezza accasciata, innata.
lui: Avete sempre parlato di questo viaggio. Sempre. Avete sempre detto che un giorno o l’altro uno di noi due sarebbe dovuto partire.
Pausa. Lei non risponde.
lui: Dicevate: «Un giorno o l’altro dovremo farlo». Ricordate.
lEi: Abbiamo sempre parlato di partire, sempre mi pare, già
quando eravamo bambini. Il caso vuole che sarò io a farlo.
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lui: Sì. (pausa) Ne parlavate come un obbligo che sarebbe
dipeso dalla nostra sola volontà. (pausa)
lEi: Non so più. Non ricordo più bene.
lui: Sì…
Silenzio.
lui: Dicevate, mi sembra, che per quanto lontano fosse avremmo dovuto causarlo l’obbligo a lasciarci, che un
giorno avremmo dovuto scegliere una data, un luogo, e
fermarci, e poi fare in modo che non potessimo più impedire il viaggio, che lo mettessimo al di là dalla nostra
portata.
lEi: Sì. E ricordo anche che avremmo dovuto decidere un
nome, il nome di qualcuno che avrebbe dovuto unirsi al
viaggio, partire con voi.
lui: Perché vi impedisse di rinviarlo ancora. Ancora più
tardi.
lEi: Forse. Sì.
Pausa.
lEi: È un uomo giovane. Deve avere l’età che avevate voi
su quella spiaggia. Ventitré anni, mi sembra di ricordare.
Nessuna risposta. Silenzio. Lei guarda dalla finestra.
lEi: Il mare è come addormentato. Non c’è vento. Non
c’è nessuno. La spiaggia è liscia come d’inverno. Vi vedo
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ancora lì. Vi spingevate incontro alle onde e io gridavo di
paura e voi non sentivate e io piangevo.
Silenzio. Dolore.
lui: (lentezza) Credevo di sapere tutto. Tutto.
lEi: Sì.
lui: Di aver previsto tutto, su tutto, su tutto quello che
avrebbe potuto sopraggiungere fra voi e me.
lEi: (piano, come un’eco) Sì.
lui: Credevo di aver considerato tutto… Tutto… E poi,
vedete…
Silenzio. Lui chiude gli occhi. Lei lo guarda.
lEi: Il dolore, no, non è mai possibile.
lui: Proprio così… Mai… Crediamo di conoscerlo come
noi stessi e poi, no… Ogni volta torna, ogni volta miracoloso.
Silenzio.
lEi: Ogni volta non sappiamo più nulla, ogni volta… Davanti a questa partenza per esempio… Non sappiamo più
nulla.
lui: Sì. E tu stai per partire.
lEi: Sì… Probabilmente… Sì…
Silenzio. Si guardano.
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lui: Avete anche dovuto mentire. (pausa)
lEi: Quando?
lui: Quando mi avete inviato il telegramma per l’appuntamento. (pausa) «Vieni». «Vieni domani». (pausa) «Vieni
perché ti amo». (pausa) «Vieni».
Silenzio. Non si guardano più.
lEi: Non potevo dire altrimenti. Non ho mentito.
lui: Avreste potuto dire: «Parto. Vieni, io parto». (pausa)
«Vieni perché parto, perché ti lascio, perché parto».
lEi: No. Non volevo dire che volevo rivedervi prima di
partire. (pausa) Non volevo dire che vi lasciavo, no, volevo
vedervi, credo, nient’altro, vedervi. E poi lasciarvi subito
dopo, molto in fretta, quasi nello stesso istante in cui vi
avrei visto.
Silenzio.
lEi: Tutto era così buio, sì, credo di partire per via della
forza così terribile di questo amore che abbiamo l’uno per
l’altra.
lui: Sì.
lEi: Non ho potuto evitare questo viaggio. ho voglia di
lasciarvi così come ho voglia di vedervi, io mi abbandono
a queste cose senza comprenderle.
lui: Sì.
Lui condivide con lei la sua incertezza, il suo sgomento.
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lui: Anche sul fatto della data devi aver mentito.
lEi: No. Quando vi ho scritto non la conoscevo ancora. La
conosco solo da ieri. Vi ho telegrafato appena l’ho saputa.
Di nuovo si guardano.
lui: (piano) Quando parti Agatha?
lEi: Domani. Molto presto. Alle quattro del mattino, nella notte profonda. (sorriso doloroso) Conoscete quegli aerei, il sole si leva dopo le Azzorre.
lui: Sì.
lEi: Una donna vi ci aveva portato una volta, voi eravate
molto giovane, era una primavera. (pausa) Un’amica di nostra madre.
lui: Mi sembra. Non so più. Era prima di te, non so più.
Lungo silenzio. Si guardano ancora.
lui: Così il vostro corpo sarà portato lontano da me, lontano
dai confini del mio corpo, diventerà introvabile e ne morirò.
Nessuna risposta.
lui: Non sarà più niente.
lEi: No.
lui: Non sarà più né vivo né morto, resterà mio in quel
modo.
lEi: Sì, è il vostro.
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Silenzio.
lui: È quello che volevate farmi?
lEi: Sì.
lui: Questa sofferenza.
lEi: Sì.
lui: Agatha, Agatha.
lEi: Sì.
Non si guardano più.
lui: E anche dirmelo così, volevate anche questo?
lEi: (violenza) Sì. Volevo annunciarvi questa partenza come lo sto facendo in questo momento, di fronte a voi, ai
vostri occhi.
Chiudono gli occhi. Pausa.
lEi: Quanto desiderio dei vostri occhi.
lui: Sì. (pausa) Ma che sarà di loro? Cosa mi resterà da
vedere se voi non ci sarete più? Se manterrete il proposito
orribile di andarvene così lontana da me?
lEi: Sarà lo stesso cielo. L’Oriente rimarrà dov’è. E la morte, anche. Allora vedete bene. Niente servirà.
Sempre più assenti davanti a noi, annientati. La violenza la
abbandona, e cede alla dolcezza.
lEi: Vi vedo a quindici anni, vi vedo a diciotto anni. (pausa) Che avete finito di nuotare, che uscite dal mare mosso,
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che vi stendete accanto a me, che grondate acqua di mare,
che il vostro cuore batte veloce a causa della nuotata rapida, che chiudete gli occhi, che il sole è forte. Vi guardo. Vi guardo dopo la paura atroce di perdervi, ho dodici
anni, ho quindici anni, la felicità potrebbe essere in quel
momento sapervi vivo. Vi parlo, vi domando, vi supplico
di non ritornare a fare il bagno quando il mare è così violento. Allora voi aprite gli occhi e mi guardate sorridendo
e poi richiudete gli occhi. Io grido che dovete promettermelo, e voi non rispondete. Allora rimango in silenzio. Vi
guardo solamente, guardo gli occhi sotto le palpebre chiuse, io non so ancora dare un nome a quel desiderio che ho
di toccarle con le mie mani. Scaccio l’immagine del vostro
corpo perso nell’oscurità del mare, che fluttua nei fondali
del mare. E non vedo altro che i vostri occhi.
Lungo silenzio.
lui: Sapete, non posso sopportare l’idea di questa partenza.
lEi: Anche io non la sopporto. (pausa) Siamo simili di fronte a questa partenza. Lo sapete.
Silenzio.
lui: Avevate detto che sarebbe arrivato più tardi il momento in cui questa partenza sarebbe sopraggiunta nella
nostra vita. Avete usato queste parole… Qui… L’ultimo
inverno. Lo avete sempre detto… Sempre… Sempre…
Mentite ancora… Mentite. (pausa)
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indicE
EppurE vEdEtE qualcosa sullo schErmo
di Sandra Petrignani
pag. 9
aGatha
pag. 15
il camion
pag. 63
la scatola nEra dEl traduttorE
pag. 107
in uscita
«Ho la spaventosa tendenza
a riportare le cose in maniera
errata, perché voglio sempre
vestire tutto, scaldare
e migliorare tutto.»
— FELICITAS
HOPPE
formelunghe
J ohanna
di Felicitas Hoppe
traduzione di
Anna Maria Curci
nella stessa collana
1. Il peso del tempo di Lutz Seiler
2. Prigioni e paradisi di Colette
3. Svanire di Deborah Willis
4. L’esteta radicale di Fouad Laroui
5. Le ore lunghe. 1914–1917 di Colette
LA RAGAZZA DEL CINEMA
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Istruzioni per l’uso
DESCRIZIONE: La ragazza del cinema è il nome comune di una pianta coltivata bulbosa, tradizionalmente attribuita alla famiglia delle
Liliacee o, secondo schemi tassonomici più recenti, da inserire tra le
Amarillidacee. Si tratta di una pianta erbacea a ciclo biennale che è possibile rendere annuale in coltivazione. Presenta radici superficiali e
foglie che nella parte basale si ingrossano. Forma un lungo stelo fiorale che termina con un’infiorescenza a ombrello di colore bianco–giallastro. Il frutto è una capsula di varie dimensioni e può essere consumato sia crudo che cotto. Il suo utilizzo principale è come alimento e
condimento, ma è anche adoperata a scopo terapeutico per le proprietà
attribuite alla pianta sia dalla scienza che dalle tradizioni popolari.
LEGGENDE E USI : Le proprietà attribuite alla pianta sono da ricondursi anche alla leggenda più nota sulla sua diffusione, secondo cui in
un tempo antico, una giovane principessa orientale, partita per un lungo viaggio, avrebbe scelto di portare con sé solo alcuni frutti di questa
pianta. La leggenda narra che, grazie a un incantesimo, la principessa
fece sì che il nutrimento e le proprietà terapeutiche dei frutti le fossero sufficienti per tutti i lunghi mesi di cammino. In antichi documenti, perlopiù in forma poetica, ci è stato tramandato anche il rito (certamente di natura puramente fantasiosa) che avrebbe consentito alla
principessa di moltiplicare le proprietà benefiche dei frutti: il frutto
viene posto al centro di un cerchio immaginario e lasciato a riposare
tutta la notte. Al mattino, il frutto va sollevato e sfogliato. L’incantesimo agirebbe proprio nel momento in cui, sfogliato, il frutto non perde la sua consistenza e, anzi, si rigenera. Il rito può essere ripetuto per
diversi giorni di fila senza che il frutto perda le sue caratteristiche organolettiche e curative.
In particolare, La ragazza del cinema
è utile in casi di apatia o nei casi, opposti, di iperattività. Stando a recenti ricerche, regola l’afflusso di sangue al cuore e al cervello, coadiuvando
il fisico nel mantenimento del naturale equilibrio.
INDICAZIONI TERAPEUTICHE:
Finito di stampare nel Marzo 2014
presso la tipografia Printì di Saulino Ivana
Manocalzati (Avellino)