Il problema dell`adozione e del matrimonio omosessuale nell`attuale
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Il problema dell`adozione e del matrimonio omosessuale nell`attuale
Il problema dell’adozione e del matrimonio omosessuale nell’attuale pratica dei diritti umani. Isabel Trujillo L’obiettivo di questo intervento è di saggiare le argomentazioni ricorrenti nel dibattito contemporaneo contro la discriminazione degli omosessuali in tema di matrimonio e di adozione, al fine di valutare la portata e la plausibilità di tali argomentazioni. L’attenzione alle diverse posizioni, anche quando l’esame può concludersi con la conferma di un disaccordo, è la precondizione per un dialogo non pregiudicato in partenza, cioè l’atteggiamento necessario ad evitare monologhi da una parte e dall’altra. Il contesto di riferimento entro cui queste argomentazioni sono state selezionate è quello della pratica dei diritti umani, perché questo è il più frequente orizzonte per le richieste di non discriminazione nei confronti degli omosessuali e perché sulla non discriminazione è solitamente costruita la richiesta di un diritto di accesso al matrimonio. Per svolgere il compito assegnatomi in questa tavola rotonda dividerò l’intervento in due parti. Nella prima mi soffermerò su una proposta di quello che può essere definito la “grammatica” della pratica dei diritti umani. Tale pratica, infatti, ha le sue regole, il suo scopo, le sue logiche, alcune sue caratteristiche specifiche. I diritti umani costituiscono appunto un mondo a sé, con evidenti differenze rispetto alla più generale “grammatica” del diritto tout court, che però – come è bene fin da ora notare – i diritti umani non esauriscono. Essi costituiscono un elemento importante del diritto contemporaneo e per questa ragione è necessario comprenderne la grammatica. Da questo punto di vista, uno degli aspetti da esaminare con maggiore attenzione è il peculiare rapporto tra diritti umani e principio di non discriminazione. Nella seconda parte, saranno esaminate le ragioni più ricorrenti a favore dell’accesso al matrimonio anche da parte di omosessuali, con particolare riferimento al dibattito giudiziale e accademico statunitense, dal quale provengono spinte significative in quella direzione. Queste ragioni hanno a che fare certamente con l’omosessualità e con il matrimonio, cioè con il diritto di formare una famiglia da parte degli omosessuali, ma anche e soprattutto con l’evoluzione dell’istituto familiare e matrimoniale: si potrà costatare facilmente come il particolare assetto assunto da questa istituzione nelle società occidentali alimenti indirettamente la richiesta del riconoscimento del diritto (indiscriminato?) di accesso al matrimonio. Prima parte. La non discriminazione nella grammatica dei diritti umani. Il primo passo in questa indagine è quello di mettere a fuoco cosa s’intende per “pratica dei diritti umani”. Con ciò si vuole fare riferimento ad un fenomeno sociale e giuridico di particolari caratteristiche, trasversale rispetto ai sistemi giuridici domestici e internazionali, e dunque alle comunità statali, sovranazionali e alla stessa comunità internazionale – ma anche alla società civile domestica e internazionale, con i suoi movimenti e organizzazioni –, che si propone di proteggere e tutelare i diritti di tutti gli esseri umani senza distinzioni. La prima caratteristica da notare è che la pratica dei diritti umani va distinta dalle teorie e dalle ideologie dei diritti umani. La pratica dei diritti è appunto una pratica sociale e giuridica, la cui identità e origini vanno cercati in valori significativi come quelli emersi dalla presa di coscienza della gravità dell’Olocausto, e in fatti istituzionali precisi, quali gli accordi internazionali presi a partire dalla Dichiarazione universale del 1948, seguiti poi da movimenti sociali importanti che da quel primo atto giuridico di una comunità internazionale stretta intorno ai valori della persona hanno preso vita. Rispetto alle rivendicazioni dei diritti del passato, una caratteristica significativa dell’attuale configurazione della pratica dei diritti è che essa è centrata più sulla responsabilità nella tutela dei diritti degli altri, senza distinzioni, che nella rivendicazione dei propri diritti, anche se certamente c’è posto anche per questo. I diritti umani non sono innanzitutto diritti per noi, ma diritti degli altri, che bisogna proteggere, ed in particolare che gli stati si impegnano a proteggere. Un carattere saliente della pratica consiste appunto nella rivendicazione di diritti per altri soggetti1. Questo fenomeno – in parte nuovo anche se presenta linee di continuità e di somiglianza con eventi del passato – ha uno statuto etico, sociale e giuridico insieme, come si può notare osservando sia il peso dei valori, sia l’attività dei movimenti sociali che ne sono forza portante, sia anche lo sviluppo di contesti giurisdizionali multilivello che stanno diventando sempre più centrali per la tutela di questi diritti2. La pratica dei diritti presenta anche – ovviamente – deficienze, incoerenze e limiti. I diritti, come già si è detto, non esauriscono tutto l’ambito del diritto, che ha a che vedere con istituzioni, attività e azioni comuni, finalità e scopi sociali. A differenza delle teorie dei diritti umani – che invece sono appunto dottrine elaborate per così dire a tavolino e non attraverso lenti processi etici, sociali e giuridici – nella pratica dei diritti si possono riscontrare talvolta contraddizioni, che le teorie in quanto tali non ammettono, perché tendono ad essere sistematiche a partire da certi presupposti teorici. La pratica dei diritti è cioè compatibile con più di una teoria dei diritti, mentre le teorie si escludono l’un l’altra. Così, nella pratica attuale dei diritti v’è spazio per diritti di diversa ispirazione: dall’autonomia e dall’autodeterminazione, ma anche dall’autenticità e dalla vulnerabilità. È semmai quest’ultima il tipo di approccio antropologico maggiormente appropriato per i diritti, che fanno riferimento all’interdipendenza. Ma le diverse generazioni dei diritti – che hanno ampliato poco a poco il range di diritti da riconoscere agli esseri umani e che comunque convivono contemporaneamente nella stessa pratica dei diritti – attestano la possibilità che diverse immagini dell’essere umano convivano dentro la pratica dei diritti: ora l’individuo autonomo che pretende la non interferenza da parte degli altri e dello Stato, ora quello vulnerabile bisognoso di interventi esterni di protezione e di prestazioni, ma sempre un soggetto di cui rispettare la dignità. È proprio questo scopo a rendere possibile il vaglio dei resoconti dei diritti che si candidano ad essere le migliori interpretazioni di una pratica che ha la finalità di rispettare i diritti delle persone, alla ricerca di quella che meglio vi riesce. Solitamente, le teorie dei diritti individuano sia i beni cui gli individui hanno diritto a partire da certi presupposti, sia anche gli strumenti giuridici appropriati a garantirli: diritti di libertà negativi e/o positivi, diritti alla riparazione che richiedono l’azionabilità in giudizio, diritti di base come prestazioni, e così via. Mentre le teorie tendono ad essere esclusive e alternative, la pratica sembra invece rendere compatibili più di una lettura antropologica e più di uno strumento giuridico. Di recente è stato sottolineato, non senza scandalo da parte di alcuni, che perfino le religioni possono avere un ruolo nella individuazione dei diritti da riconoscere ai soggetti e nel collaborare efficacemente a 1 Sul fenomeno dei diritti e della sua evoluzione più recente, rinvio a I. Trujillo, F. Viola, What Human Rights Are Not. A Negative Path to Human Rights Practice, Novascience Publishers, New York 2014. 2 Cfr. A. K. Sen, Elements of a Theory of Human Rights, in “Philosophy & Public Affairs”, 32, 2004, pp. 315-356. realizzarli. La pratica dei diritti è appunto ecumenica, nel senso che è capace di fare convergere contributi di diversa origine nell’ottenimento di uno scopo comune3. Quando invece si confonde una teoria dei diritti umani con la pratica dei diritti nel suo complesso si ottiene un’ideologia dei diritti: ne è un esempio quella che Michel Sandel chiama il liberalismo neutrale (che non è per nulla neutrale, fra l’altro)4. Esso consiste nell’identificare la pratica dei diritti con una delle teorie possibili per rivendicare diritti, e nello specifico con l’idea che per stabilire se qualcuno ha diritto a qualcosa basta fare appello alla libertà di scelta, all’autonomia e all’autodeterminazione. Vogliono fare questo o quello? Hanno il diritto di farlo. Non occorre prendere posizione se non a favore della libertà. Questa ideologia si fa presto confutare anche dall’interno. È facile osservare come incorra facilmente in quello che viene chiamato fallacia dell’universalismo ristretto5. Se valesse il principio che la libertà giustifica ogni diritto, i liberali dovrebbero ammettere che coloro che vogliono emigrare nelle comunità occidentali, americane ed europee, al fine di migliorare le proprie condizioni di vita, abbiano il diritto di farlo. Impedire questo è purtroppo la condizione di realizzazione del liberalismo occidentale, in cui si riconosce alle comunità liberali di stabilire controlli alle frontiere e dunque di fare distinzioni in tema di diritti tra il dentro e il fuori. Il problema che oggi dobbiamo affrontare non è questo, ma si può notare comunque che qualche cosa sfugge alla logica dell’autonomia e della libertà come valori esclusivi, non fosse altro che a ragione dell’esistenza delle comunità politiche. È pur vero però che nella grammatica dei diritti – nel suo DNA – vi è un favore per la libertà, e questo non va dimenticato: non si possono rispettare i diritti delle persone non riconoscendo loro questa caratteristica. Un’altra delle caratteristiche della pratica dei diritti è l’importante legame tra diritti umani e discriminazione, alla base del successo dell’antidiscrimination law, sempre più presente nella ricerca e nell’insegnamento universitario, oltre che come indirizzi della giurisprudenza. In realtà si deve dire che nella pratica dei diritti i due principi vanno insieme: il principio della tutela dei diritti degli individui, da un lato, con l’obiettivo di garantire alcuni beni fondamentali, e il principio della non discriminazione, dall’altro, che assicura la massima ampiezza nel riconoscimento del bene. L’importanza della non discriminazione è strettamente collegata con la portata universalistica dei diritti. Così, le dichiarazioni e gli accordi internazionali in tema di diritti sono soliti contenere sia una lista di diritti, sia un divieto di discriminazione. La Convenzione Americana dei diritti dell’uomo nel suo primo articolo afferma di voler assicurare i diritti e le libertà contenuti nella convenzione “without any discrimination for reasons of race, color, sex, language, religion, political or other opinion, national or social origin, economic status, birth, or any other social condition”. Nella Convenzione Europea dei diritti, un articolo apposito, l’art. 14 recita: “Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza distinzione di alcune specie, come di sesso, di razza, di colore, di lingua, di religione, di opinione politica, o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di appartenenza a una minoranza nazionale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione”. Queste o simili clausole, tuttavia, non sembrano 3 B. de Sousa Santos, If God Were a Human Rights Activist, Stanford University Press, Stanford (forthcoming 2015). 4 M. Sandel, Giustizia. Il nostro bene comune (2009), tr. it. Di T. Gargiulo, Feltrinelli, Milano 2010, pp. 278-281. 5 S. Black, Individualism at an Impasse, in “Canadian Journal of Philosophy”, 21, 1991, pp. 347377. configurare nella pratica dei diritti un diritto autonomo generico alla non discriminazione, o per lo meno non è stato finora così ritenuto dalla giurisprudenza6. Il divieto di discriminazione si fa reagire insieme ad un altro diritto, di carattere sostanziale, cioè con oggetto un bene specifico da riconoscere agli individui. È così che nel sistema CEDU dall’interpretazione congiunta dell’art. 8, che riconosce il diritto al rispetto della vita privata e familiare, e dell’art. 14 appena citato si è riconosciuto per esempio il diritto di non ingerenza nella vita privata per soggetti omosessuali e dunque una qualche forma di riconoscimento delle loro unioni. Questo schema congiunto di un diritto ad un bene e il principio di non discriminazione è stato utilizzato in molti casi, non solo con riguardo ad omosessuali e con riguardo alla famiglia: con il diritto al lavoro, la libertà di espressione o la libertà di coscienza, il diritto dei genitori ad educare i figli come ritengono meglio7. Quale rapporto sussiste allora tra questi due principi? Una prima risposta è che i diritti umani hanno certamente una forte valenza antidiscriminatoria. Questa tesi può essere spinta fino all’estremo, fino a sostenere cioè che in ultima istanza i diritti umani mirino a non altro che alla non discriminazione. Storicamente, questa tesi è collegata all’idea che la genesi dei diritti sia giustificata dalla presa di coscienza di una gravissima discriminazione, quella razziale nei confronti del popolo degli Ebrei. A questa consapevolezza ne sono seguite altre, riguardanti la discriminazione contro le donne, quelle fondate sul criterio della razza, sull’orientamento sessuale, sulla disabilità. Compito della pratica dei diritti è che violazioni e discriminazioni vengano rimosse e ciò spiega la valenza universalista dei diritti e la loro forza. In fondo, questo sviluppo è in continuità con l’evoluzione dei diritti nella storia: da diritti degli inglesi e dei francesi, i diritti sono diventati diritti degli americani, e poi anche diritti dei neri americani e così via. Questo andamento si accorda bene con l’idea che i diritti abbiano svolto un ruolo progressivo di smantellamento di pregiudizi: da diritti di maschi, bianchi, proprietari, protestanti, verso i diritti di donne, di colore, nullatenenti, credenti di altre fedi oppure non credenti. Si tratta – di nuovo – di diritti degli esseri umani senza distinzione. Il rapporto stretto tra diritti e non discriminazione rende la pratica dei diritti strumento idoneo a realizzare quello che viene chiamato il “debiasing effect of law”8, in questo contesto meglio indicato come “debiasing effect of rights”. L’idea è che in genere o almeno talvolta il diritto sostantivo serve ad ampliare la ragione di chi ne è sottoposto: per esempio, spingendo il consumatore a considerare gli effetti nocivi di un prodotto, o correggendo un ottimismo ingiustificato e dunque prevedendo rischi possibili, oppure inducendo a considerare l’altro lato dell’argomentazione in contesti negoziali. Il diritto amplia la ragione nel senso che introduce informazioni che prima non erano presenti nelle deliberazioni di chi usa il diritto. Questa chiave di lettura degli effetti del diritto è senza dubbio interessante, anche se presta il fianco a facili obiezioni, perché rischia precisamente di limitare l’autonomia dei soggetti, la loro libertà di pensiero e l’autodeterminazione, consentendo invece manipolazioni da parte dei governi e assecondando posizioni paternalistiche. Chi assicura che il diritto proponga ragioni più o meno 6 S. Millns, Prospettive europee sulla discriminazione basata sull’orientamento sessuale, in “Ragion Pratica”, 36, 2, 2011, pp. 75-94. 7 Ibidem. 8 C. Jolls, C.R. Sunstein, Debiasing Through Law, in “Journal of Legal Studies”, 35, 2006, pp. 199241. illuminate? In particolare, il rischio appare serio quando il diritto impone soluzioni strutturalmente problematiche in campi moralmente controversi9. Perché mai si dovrebbe ritenere di default che il diritto è portatore di un progresso e non invece di interessi (economici, di poteri forti, o quant’altro)? La vera difesa dell’autonomia richiede che gli individui possano e debbano poter partecipare ad un processo di verifica delle ragioni che volta per volta sostengono questa o quella soluzione. L’alternativa è sostenere la vecchia ideologia del sovrano illuminato… Per illustrare questo punto e collegarlo al tema concreto della tavola rotonda, vale la pena di ricostruire alcuni aspetti della vicenda riguardante la sentenza Windsor v. Usa del 2013, in cui la Corte Suprema Americana dovette pronunciarsi sulla costituzionalità o meno delle leggi che definiscono il matrimonio come l’unione tra uomo e donna. La questione riguardava due signore sposate validamente in uno degli stati degli USA in cui questo era permesso, e residenti poi in altro stato. Alla morte di una delle due, non vennero riconosciuti alla sig.ra Windsor alcuni benefici collegati al matrimonio, perché la legge federale fino a quel momento collegava tali benefici al matrimonio eterosessuale (in realtà, la legge federale era subordinata al concetto di matrimonio degli stati di riferimento, in modo che negli stati in cui gli omosessuali avevano accesso al matrimonio si poteva ovviare a questa incongruenza con la legge federale). La Corte Suprema, con una decisione difficile, dichiarò incostituzionale la legge federale laddove dava una definizione del matrimonio come unione di uomo e donna, ma, allo stesso tempo, riconobbe la libertà degli stati di decidere democraticamente se riconoscere o meno la libertà di sposarsi alle coppie omosessuali. Nel dibattito – intenso e teso – che precedette la sentenza, si fecero ipotesi diverse. I sostenitori del “debiasing effect of law” si auguravano una decisione “eroica”10, cioè coraggiosa, nel senso che i giudici avrebbero dovuto, oltre a dichiarare incostituzionale la parte della legge federale in cui si parlava di matrimonio eterosessuale, dichiarare pure la incostituzionalità delle leggi degli stati che non consentono agli omosessuali di sposarsi. In ultima istanza, l’augurio era quello di spingere per via giudiziale un esito che democraticamente era stato rifiutato. La maggioranza dei giudici della Corte non ha ritenuto di poter fare questo ulteriore passo, sebbene nell’argomentazione della sentenza si lasci sentire la disapprovazione nei confronti degli stati che ancora non riconoscono questo diritto e si lamenti apertamente che ciò crei disparità di trattamento ingiustificate11. Evidentemente, per compiere questo passo o anche solo per augurarlo sembra essere necessaria una grande convinzione di essere dalla parte giusta o addirittura di essere certi che gli altri sbaglino. Se 9 Del resto gli autori che la propongono sono ben accorti del pericolo di manipolazione da parte del governo: ivi. p. 231. 10 C. R. Sunstein, Same-Sex Marriage Has Four Possible Paths, 27 Marzo 2013. In http://www.bloombergview.com/articles/2013-03-26/same-sex-marriage-law-has-four-possiblepaths (visto ultima volta il 26 dicembre 2014). 11 Sunstein sostiene la tesi che i giudici lavorano tramite analogie, ed in attesa della sentenza aveva ipotizzato almeno quattro analogie possibili del caso Windsor: con il caso Brown v. Board of Education, esempio massimo della lettura eroica che aveva condannato la segregazione scolastica (ma è significativo che poco dopo la Corte non volle ascoltare il caso Naim v. Naim che riguardava il divieto di matrimonio interraziale); con il caso Roe v. Wade, a favore del rispetto della decisione democratica perché è dubbia la fondazione costituzionale del diritto all’aborto; con West Coast Hotel Co. v. Parrish, in cui si sostiene l’idea della constitutional humility, a favore della discussione democratica (lettura restrittiva); oppure con il caso Reed v. Reed in cui si prospettava una risposta minimalista. Cfr. ibidem. è vero che il diritto talvolta esercita l’effetto di ampliare la ragione, è pur vero che esso è una creazione umana, dunque aperta alla possibilità di errore. In questo senso, un atteggiamento epistemologico più modesto porterà a riconoscere che si tratta di questioni sensibili e moralmente controverse sulle quali è lecito e ragionevole consentire un dibattito ed essere aperti a nuovi elementi, da entrambe le parti. In ogni caso, la chiave antidiscriminatoria non è sufficiente a capire la pratica dei diritti. Per capire questa pratica infatti dobbiamo tenere presente l’altra faccia dei diritti: il riconoscimento dei beni per gli individui. Non si tratta solo di non discriminare, ma semmai di non discriminare nel riconoscere un bene: si tratta di non discriminare nel lavoro, nella libertà di coscienza, nella vita familiare. Inoltre, questa esigenza non dovrebbe portare all’annientamento delle differenze. Altrimenti, ci si troverà nella circostanza di dover riconoscere tutto a tutti, con ovvi problemi per l’efficacia dei diritti. Alcune differenze sono necessarie precisamente in ordine alla protezione dei diritti: dei bambini, degli anziani, dei disabili, dei poveri. Vi è dunque il problema delicato dell’individuazione di quali diritti riconoscere e a quali soggetti. Il punto è che le differenze devono essere decise tutti insieme. L’alternativa è – a dimostrazione che alcune differenze comunque bisogna farle – la possibilità di confondere le differenze con le preferenze o con i desideri, come pare potersi derivare dall’ideologia della neutralità liberale. A questo pericolo si può ovviare – anche se parzialmente e provvisoriamente, perché la pratica dei diritti è in cammino – solo se si procede volta per volta alla giustificazione e al vaglio dei diritti. Ogni diritto è una ragione per l’esistenza di un dovere e dunque avanza una ragione che deve essere esplicitata, esaminata e vagliata. Questo lavoro non è solo compito delle Corti, anche se esse costituiscono un laboratorio privilegiato di ragioni valide ma che si applicano ad un caso concreto. In molte questioni, occorrerà poi prendere delle determinazioni di carattere generale, che non possono che trovare spazio in un dibattito politico aperto e senza preclusioni, che vada al di là di esigenze soggettive. In relazione al tema del matrimonio, nella prospettiva dei diritti, occorre notare che esso viene visto certamente come un bene. Come ha affermato Martha Nussbaum, una delle autrici più esposte nella difesa del matrimonio degli omosessuali in America, vi sono due ordini di ragioni per sostenere che il matrimonio è un bene per l’individuo: quello dei benefici che implica sul fronte dei diritti civili (in tema di testamento, tassazione, reversibilità delle pensioni, benefici assicurativi, in materia d’immigrazione o in materia processuale); e quello espressivo o simbolico. Ebbene, è importante notare che il dibattito sul matrimonio omosessuale – afferma Martha Nussbaum – riguarda soprattutto quest’ultimo punto. D’altra parte, occorre notare che la famiglia è un bene anche per il minore, ma che non lo è alla stessa maniera che per gli adulti. Per questi ultimi il diritto di accesso al matrimonio è un diritto negativo, cioè una libertà: ciascuno deve poter sposare chi vuole, a meno che lo stato abbia un interesse sufficientemente forte da ritenere di dovere impedirlo (come nel il caso della poligamia, fino ad ora vietata a favore dell’eguaglianza dei sessi, o nel caso del divieto di matrimoni incestuosi, per ragioni di salute pubblica). Se non vi è una ragione di peso, allora è facile sostenere che la negazione di tale diritto agli omosessuali è discriminante, e che tale discriminazione li configura come cittadini di seconda classe. Nel caso del diritto dei minori alla famiglia essa è invece un loro interesse e nel loro interesse. Tra poco si tornerà sulla questione dell’adozione da parte di omossessuali. Ora si può notare invece che a partire dalla storia di questo istituto, che peraltro non è oggetto di un diritto da parte del bambino, è possibile notare la differenza di finalità che ha assunto lungo la sua storia. L’adozione “assistenziale” nei confronti del bambino è l’esito di uno sviluppo recente, ma sembra essere l’unica logica compatibile con la pratica dei diritti umani (in questo caso dei bambini). La storia invece ha conosciuto versioni dell’adozione non rispondenti all’esigenza di dare una famiglia al bambino, ma piuttosto di conservazione del nome o del patrimonio12. La capacità di adottare è stata attribuita a soggetti diversi, ma sembra mirare oggi ad un’unica finalità, appunto quella di dare una famiglia ad un bambino che non ne ha. Anche quando si accettasse la fondatezza del diritto di accesso al matrimonio da parte di omosessuali, dunque, l’eventuale riconoscimento della capacità di adottare adozione dovrebbe rispondere al bene del bambino e non configurarsi come il coronamento di un’approvazione simbolica. Seconda parte. Il matrimonio omosessuale dal punto di vista (appunto) del matrimonio. Martha Nussbaum ha brillantemente sintetizzato (e criticato) in cinque brevi passaggi le argomentazioni contro il matrimonio omosessuale13. La mia proposta è quella di riflettere attentamente su questi argomenti e sulle loro confutazioni. Tra le pieghe di questo dibattito su possono ricavare informazioni importanti per la comprensione del problema. La prima tesi solitamente usata contro il matrimonio omosessuale è quella secondo cui il matrimonio è per la procreazione. La risposta che l’autrice e molti altri sostenitori del libero accesso al matrimonio forniscono è che tale tesi è falsa, posto che se ne consente l’accesso a soggetti anziani e sterili. Solitamente a quest’obiezione si controbatte affermando che quello che si riconosce in astratto non è necessario che si dia in tutte le concrete versioni dell’istituto matrimoniale. Tale osservazione è appropriata se il suo senso è la distinzione tra due piani, quello della giustificazione dell’istituto matrimoniale e quello delle sue realizzazioni concrete. Ma resta da argomentare che l’istituto matrimoniale sia per la procreazione, o piuttosto che continui ad esserlo, in seguito a cambiamenti epocali provenienti anche dalla diversificazione e diffusione delle tecniche biomediche di procreazione. Cioè resta da verificare che la giustificazione dell’unione tra matrimonio e procreazione non sia in qualche modo decaduta. A margine si potrebbe notare che coloro che distinguono il problema del matrimonio da quello della procreazione dovrebbero sganciare la questione del matrimonio da quella dell’adozione: una cosa è l’accesso al matrimonio, altra l’adozione. Eppure l’idea che matrimonio e cura dei figli siano collegati è dura a morire. John Rawls, per esempio, considera la famiglia una struttura di base della società “perché uno dei suoi ruoli principali è fare da cardine della produzione e della riproduzione ordinata della società e della sua cultura di generazione in generazione. Sappiamo che la società politica è sempre concepita come un sistema di cooperazione sociale che si prolunga indefinitamente nel tempo; l’idea che vi sia un momento futuro in cui i suoi affari devono giungere a termine e la società sciolta è estranea alla concezione della società politica. Il lavoro riproduttivo è dunque un lavoro socialmente 12 Cfr. la relazione per questo convegno del prof. Marco Cavina, dal titolo L'adozione: concetto storico controverso. necessario. Accettando di farsene carico, la famiglia si assume il compito centrale di provvedere in modo ragionevole ed efficace all’allevamento e alla cura dei bambini, di assicurare il loro sviluppo morale e di prepararli a partecipare alla cultura della società”14. È evidente in questa citazione che la famiglia è un’istituzione della società, che non può essere ricondotta esaustivamente ai diritti degli individui, anche se deve essere compatibile con essi. Quello che si vuole dire è che, in ultima analisi, questo tipo di discussione pone sul tappetto un aspetto centrale del matrimonio, che è quello delle sue finalità. Da questo punto di vista ha ragione Nussbaum quando asserisce che il problema non è dunque il matrimonio omosessuale, ma appunto quello del matrimonio. Bisognerebbe dunque domandarsi se si possa continuare a parlare di una “natura” del matrimonio, se questa natura – posto che ci sia – ha a che vedere con la differenza di genere e con la procreazione oppure con il riconoscimento e l’approvazione morale. La seconda tesi è simile alla prima e muove dalla convinzione che il matrimonio miri alla protezione dei bambini, considerandosi incerto che l’adozione da parte di omosessuali sia positiva per la loro crescita. La confutazione passa attraverso la costatazione – anche se ancora poco studiata – che i bambini fanno bene egualmente con genitori omosessuali. Forse addirittura fanno meglio che con genitori eterosessuali. La tesi e la sua confutazione però sono di carattere empirico e non provano definitivamente nulla. La questione è piuttosto di carattere antropologico: nella valutazione delle finalità del matrimonio e della relazione tra due (o più) persone e la continuità generazionale si gioca la preferenza per uno o l’altro modello oppure la loro indifferenza. In questo caso, però, quello che sembra essere in gioco non è tanto il diritto di libertà degli adulti, ma i diritti dei bambini e del loro interesse superiore. Il valore espressivo e simbolico del matrimonio dovrebbe passare ad un secondo piano. La terza tesi introduce un elemento particolarmente delicato. Secondo Nussbaum, una terza forma di argomentazione contro il matrimonio omosessuale consiste nel ritenere che l’approvazione del same-sex marriage sarebbe qualcosa di disgustoso. “The first and most widespread objection to same-sex marriage is that it is immoral and unnatural. Similar arguments were widespread in the anti-miscegenation debate, and, in both cases, these arguments are typically made in a sectarian and doctrinal way, referring to religious texts. (Anti-miscegenation judges, for example, referred to the will of God in arguing that racial mixing is unnatural.) It is difficult to cast such arguments in a form that could be accepted by citizens whose religion teaches something different. They look like Jewish arguments against the eating of pork: good reasons for members of some religions not to engage in same-sex marriage, but not sufficient reasons for making them illegal in a pluralistic society”15. Il senso di disgusto è un sentimento di cui occorre capire la portata e l’origine, perché, se fosse vero che è questa la ragione per sostenere il rifiuto del diritto di accesso al matrimonio, questo atteggiamento sarebbe in effetti contrario al senso di umanità. Secondo Nussbaum, inoltre, tale sentimento di disgusto è collegato all’influenza morale e al potere politico delle religioni, 13 M. Nussbaum, A Right to Marry? Same-sex Marriage and Constitutional Law, in “Dissent” 2009 (http://www.dissentmagazine.org/article/a-right-to-marry-same-sex-marriage-and-constitutionallaw, visto il 26 dicembre 2014). 14 J. Rawls, Il diritto dei popoli (1999), a cura di S. Maffettone, Edizioni di Comunità, Milano 2001, p. 209. 15 M. Nussbaum, A Right to Marry? Same-Sex Marriage and Constitutional Law, ovviamente, quelle che ritengono riprovevole il comportamento omosessuale. Dunque il sentimento di disgusto sarebbe generato da un giudizio di riprovazione di certe azioni. Il percorso andrebbe dal giudizio negativo sull’azione al sentimento di disgusto nei confronti delle persone e, tramite l’influenza politica delle religioni, all’esclusione da un diritto. Resta certamente da dimostrare che il giudizio su un’azione sia per forza collegato al disgusto per quelle persone e che questo sia quanto le religioni insegnino ai loro seguaci. In ogni caso, si potrebbe notare che l’orientamento sessuale non è un dato che il diritto debba prendere necessariamente in considerazione, mentre si capisce che lo possano fare le tradizioni religiose. Il diritto prende in considerazione l’orientamento sessuale quando si concreta in una relazione lesiva di diritti di altri oppure quando è ragione di discriminazione. Non vi è dubbio che gli ordinamenti giuridici sono stati influenzati dalle tradizioni religiose e può darsi che sia arrivato il momento che queste tradizioni facciano un passo indietro. (In fondo nel Vangelo non sembra che Gesù dica ai suoi ascoltatori – dopo aver spiegato che il matrimonio secondo Dio è indissolubile e che Mosè ha accettato il divorzio per la debolezza dell’uomo – di darsi da fare per cambiare la legislazione esistente. È sempre possibile distinguere l’insegnamento religioso dal diritto). Come dice bene Sandel, le posizioni possibili degli stati rispetto al matrimonio sono tre: a) la comunità politica deve tutelare le unioni eterosessuali; b) la comunità politica deve tutelare le unioni eterosessuali e omosessuali; c) la comunità politica non ne deve tutelare alcuna forma, per cui occorre procedere alla de-pubblicizzazione del matrimonio. Solo in quest’ultimo caso la comunità politica non si pronuncia e solo in questo caso si può parlare di neutralità. L’insistenza sul valore simbolico – riparatorio – del riconoscimento del matrimonio omosessuale si può spiegare anche come reazione alla dominanza di alcune idee (ipoteticamente di origine religiosa), ma certamente non di natura neutrale. Ciò ovviamente una volta stabilito cosa sia il matrimonio, quale sia la sua natura e se tale natura sia compatibile con un uso simbolico strumentale di questo tipo. A mio modo di vedere, qui il problema riguarda il senso delle istituzioni politiche e giuridiche, se esse abbiano appunto qualche scopo o finalità, oppure se si possano ricondurre senza residui alla tutela dei diritti delle persone (pur dovendo essere ovviamente compatibili con tali diritti). Si è già detto però che la consacrazione della libertà di scelta come unico e ultimo criterio etico e giuridico è una sola delle tradizioni che possono convergere nella pratica dei diritti, pur non essendo la più appropriata a spiegarne il senso. Tale ideologia non è nemmeno sufficiente a spiegare la pratica del diritto in senso oggettivo, cioè nelle sue istituzioni. Queste ultime sembrano piuttosto incentrate su cose che si possono fare insieme, su azioni comuni che decidiamo di intraprendere assieme, mirando alla realizzazione di certi beni e scopi sociali (quello della continuità generazionale è uno). In ogni caso, le varie tradizioni religiose possono dare un contributo alla ragione pubblica quando si tratta di definire la natura e il fine delle istituzioni, così come possono dare un contributo alla pratica dei diritti, insieme con altre tradizioni di pensiero, ma non possono monopolizzare la ragione. Per lo meno nel caso del cristianesimo questo è un punto qualificante dalle sue origini. Le tradizioni religiose devono trovare il modo di interagire con pratiche che non approvano sul piano religioso, ma che vanno tollerate sul piano politico-giuridico. Il perfezionismo di San Tommaso, per esempio, gli consente comunque di dire che lo stato non può vietare tutto quello che è moralmente sbagliato16. La quarta tesi contro il matrimonio omosessuale constata che l’approvazione del same-sex marriage metterebbe in crisi il cosiddetto matrimonio tradizionale. Ma – controbatte Nussbaum – si può dire che esso sia stato mai in buona salute? La domanda allora è: perché bisogna preservare il modello cosiddetto tradizionale? E cosa si intende per matrimonio tradizionale? Dall’evoluzione dell’istituto sembra giustificato affermare che “[n]ella rappresentazione attuale e secondo una lettura semplicistica, il matrimonio è l’avvenimento sociale del riconoscimento di un legame affettivo. Definizione minimale e soggettivista, che fornisce al tempo stesso la chiave di ciò che è rivendicato, un riconoscimento”17. L’inconsistenza dell’istituto del matrimonio tradizionale aumenta proporzionalmente il peso dell’argomentazione a favore dell’estensione a individui dello stesso sesso. Nussbaum ha anche ragione di notare che per risolvere il problema del matrimonio tradizionale si possono fare molte cose, anziché vietarlo agli omosessuali: promuovere il lavoro, tutelare le donne, diffondere strategie contro l’alcol e le dipendenze, ecc. Forse anche quella di fornire una formazione alla lealtà, cioè alla virtù che sostiene le relazioni quando sono difficili da mantenere nel tempo, al fine di godere di un bene prezioso, come è quello delle relazioni durature (non solo matrimoniali). La quinta e ultima tesi contro il matrimonio omosessuale è da collegare alla tesi del disgusto e alla considerazione di alcuni soggetti come inferiori o second class citizens. L’accesso al matrimonio viene visto come il suggello del definitivo cambiamento di prospettiva da un mondo in cui il giudizio morale sull’omosessualità era negativo (con il conseguente disgusto), a un mondo in cui si danno il rispetto e l’umanità verso tutti. In questa prospettiva ritorna l’idea che l’accesso al matrimonio sia per lo più un fatto simbolico. A parziale riparazione per comportamenti omofobici, la strategia è comprensibile e non va minimizzata18. Rispetto alla discriminazione contro omosessuali occorre reagire come si è reagito contro la segregazione razziale, cioè compiendo atti “eroici” di rottura significativi con il passato. Ed era questo quello che molti intellettuali si aspettavano dalla Corte Suprema degli Stati Uniti quando si attendeva la soluzione della sentenza Windsor v. USA. Questa formulazione dell’argomento è molto insidiosa perché chi non lo condivide rischia di essere ritenuto razzista. Come si diceva prima, comunque, nemmeno la Corte suprema americana ha ritenuto di dover soddisfare pienamente l’attesa eroicità, adottando piuttosto un atteggiamento modesto, ma rispettoso del pluralismo e della democrazia. Il risultato – a giudizio della maggioranza della Corte e di molti sostenitori della linea eroica – è un’umiliazione inflitta anche ai figli degli omosessuali, considerati anch’essi second class citizens. 16 Somma teologica, II-II, q. 10, a. 11 resp.: “Il governo dell'uomo deriva da quello di Dio, e deve imitarlo. Ora, Dio, sebbene sia onnipotente e buono al sommo, permette tuttavia che avvengano nell'universo alcuni mali che egli potrebbe impedire, per non eliminare con la loro soppressione beni maggiori, oppure per impedire mali peggiori. Parimente, anche nel governo umano chi comanda tollera giustamente certi mali, per non impedire dei beni, o anche per non andare incontro a mali peggiori”. 17 X. Lacroix, In principio la differenza. Omosessualità, matrimonio, adozione, Vita e Pensiero, Milano 2005, p. 43. 18 F. D’Agostino, Sessualità, Giappichelli, Torino 2014, p. XVII. Qui di nuovo appare dubbio se il matrimonio omosessuale sia una questione riguardante il diritto e le sue istituzioni (peraltro in un terreno moralmente controverso e dunque di pertinenza di decisioni democratiche), oppure se sia una questione di espansione dei diritti soggettivi per via giudiziale. Così come le tradizioni religiose devono sapere dare un contributo senza imporre le soluzioni che preferiscono, così anche chi sostiene certe posizioni deve saper convincere senza imporre in modo surrettizio. Tutte queste questioni sono di carattere costituzionale o quasi-costituzionali. Non nel senso che non si possano cambiare, ma nel senso che il cambiamento deve riscontrare l’appoggio significativo di una maggioranza qualificata, rispettosa delle minoranze. La stessa Martha Nussbaum conclude così il suo intervento: “What ought we to hope and work for, as a just future for families in our society? Should government continue to marry people at all? Should it drop the expressive dimension and simply offer civil-union packages? Should it back away from package deals entirely, in favor of a regime of disaggregated benefits and private contract? Such questions, the penumbra of any constitutional debate, require us to identify the vital rights and interests that need state protection and to think how to protect them without impermissibly infringing either equality or individual liberty”19. L’aspetto più insidioso, a mio modo di vedere, resta la questione del disgusto. Da un lato, occorre certamente reprimere penalmente le manifestazioni di omofobia, in modo che non si sospetti che il dibattito è viziato da questo elemento. D’altro lato, come del resto nel caso del problema della violenza contro le donne, lo sradicamento di questi comportamenti di disprezzo e disgusto, va al di là della questione politico-giuridica, per collocarsi sul fronte della educazione morale e della cultura del rispetto e della tolleranza reciproca. 19 M. Nussbaum, A Right to Marry?, cit.