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Nuova Narrativa Newton
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Dello stesso autore la Newton Compton ha pubblicato
Il bambino della città ghiacciata
Titolo originale: Mike Larssons rymliga hjärta
Copyright © 2010 by Olle Lönnaeus
First published by Damm Förlag, Forma Books AB, Sweden
By arrangement with Thésis Contents s.r.l., Firenze-Milano
Traduzione dallo svedese di Mattias Cocco
Prima edizione: marzo 2011
© 2011 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-2758-6
www.newtoncompton.com
Stampato nel marzo 2011 presso Puntoweb s.r.l., Ariccia (Roma)
su carta PamoSuper della Cartiera Arctic Paper Mochenwangen
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Olle Lönnaeus
Cuore nazista
Storie vere di salvataggi impossibili ad alta quota
A cura di Hamish MacInnes
Newton Compton editori
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CAPITOLO 1
Con ogni probabilità, Mike Larsson non avrebbe mai tirato fuori dal
portafogli quella fotografia consumata per mostrarla all’ispettrice incaricata della libertà vigilata, se la donna non avesse avuto due tette enormi. Per un momento pensò che sarebbe potuta diventare un’ottima madre. Proprio ciò di cui Robin aveva bisogno.
Una donna amorevole, di quelle che accolgono il figlio al ritorno da
scuola con una tazza di cioccolata calda. Una che lo avrebbe aiutato a
fare i compiti, che si sarebbe sempre preoccupata di non far mancare
a lui e a Mike le mutande pulite nel cassetto e che la domenica avrebbe invitato i parenti, servendo per pranzo bistecche con la besciamella e cetrioli in salamoia.
Cioè, se avessero avuto dei parenti, s’intende.
«Ha quattordici anni. Ne compie quindici la vigilia di Natale. È un tipo incazzoso. Proprio come suo padre».
Mike sfoderò il suo sorriso più smagliante.
L’ispettrice storse la bocca. Lanciò uno sguardo indifferente alla foto
che l’uomo teneva tra pollice e indice e che lui le metteva proprio davanti agli occhi.
«Ah sì…».
La donna non fece alcun gesto per prendere la foto. Rivolse invece lo
sguardo fuori, verso il sole autunnale che tentava di filtrare attraverso il
vetro sporco della finestra, dove un piccolo ragno attendeva nella sua
ragnatela. Mike ripose con cura la foto al suo posto, in uno scomparto
del portafogli accanto al suo secondo sogno: un annuncio pubblicitario
ritagliato da un giornale.
Infilò bruscamente il portafogli nella tasca interna della giacca. Capì
di essersi sbagliato. A quanto pare, la donna non doveva essere un tipo
materno.
Erano state quelle magnifiche tette a trarlo in inganno. Spuntavano
ampiamente dal bordo rosa di pizzo della scollatura. Era come se sotto
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la camicia di seta tenesse nascosti due animali vivi. Due animali morbidi e palpitanti che respiravano con un’intensità tale da consumare tutto
l’ossigeno nella stanza.
Mike annaspò per riprendere fiato.
«Lo riporterò da me», mormorò.
«In questo caso, dovrai prima impegnarti a mettere un po’ di ordine
nella tua vita».
Gli occhi dell’ispettrice lo penetravano come punteruoli per rompere
il ghiaccio. Con discrezione, Mike spostò l’attenzione sulle sue labbra
rosse. Per una frazione di secondo, intravide la punta della lingua nell’angolo della bocca. Il rossetto scintillò. L’uomo si schiarì la voce e deglutì.
«Sì, ma ho un piano…».
L’ispettrice sembrava non ascoltarlo più. Estrasse alcune carte dalla
ventiquattrore che aveva poggiato accanto alla sedia.
«Mike Lorne Larsson…».
Fece una breve pausa e alzò un sopracciglio.
Mike fece finta di non accorgersene. Tamburellava impaziente sul pavimento con le sue nuove scarpe da jogging. Delle Asics argento e blu,
belle ma care.
Quello snob lampadato della Löplabbet1 gliele aveva fatte pagare oltre mille corone. Quando il tizio gli aveva detto il prezzo, Mike era stato sul punto di mollargli un cazzotto in faccia. Meno male che era riuscito a trattenersi. Malmenare qualcuno durante l’ultimo permesso prima della fine della pena non sarebbe stata certo una mossa intelligente.
«Sai che, se vuoi, possiamo darti dei farmaci», disse l’ispettrice. «Ansiolitici e roba del genere… Possiamo chiedere al medico».
«Niente pillole!».
Mike si sentì bruciare la testa, mentre le vene delle tempie iniziavano
a gonfiarsi. La donna dall’altra parte del tavolo incontrò senza alcun timore il suo sguardo fisso e rabbioso.
«Disulfiram. Hai avuto problemi piuttosto seri con l’alcol».
«Niente pillole, ho detto!».
La donna fece spallucce e il profumo di shampoo alla frutta arrivò fino a Mike.
«Come vuoi».
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Negozio specializzato in scarpe e articoli sportivi.
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Mentre la donna continuava a sfogliare le sue carte, il pensiero di poco
prima gli tornò in mente. Una vera donna in casa. Dopotutto, forse non
era un’idea irrealizzabile. La casa sarebbe stata ordinata e pulita. Lui
avrebbe potuto dare una mano a passare l’aspirapolvere e lavare i piatti.
Avrebbe addirittura potuto avviare la lavatrice. Mentre lui passava la cera alla macchina sulla rampa del garage, lei avrebbe bussato dall’interno
della finestra della cucina, gli avrebbe fatto un cenno con la mano e
avrebbe riso, mostrando i suoi denti bianchi. A Natale avrebbe appeso
alla finestra, con dei nastrini rossi, tre biscotti allo zenzero a forma di
cuoricino. E su due avrebbe scritto con lettere di zucchero glassato
“Mike” e “Robin”. Sul terzo… sbirciò i documenti sul tavolo per trovare un indizio, ma senza risultato. “Solveig”2, forse. Sì, era un bel nome:
un sole generoso che portava calore in famiglia.
Mike sorrise di nuovo, questa volta senza accorgersene.
Dopo cena avrebbero potuto vedere un film insieme. Lei avrebbe preparato un piccolo vassoio con una tovaglietta bianca, due tazze di caffè,
qualche biscottino e un bicchiere di sciroppo al lampone. Indiana Jones,
forse. Sicuramente sarebbe piaciuto a Robin. Oppure l’ultimo film di
Bond.
E poi, una volta messo il ragazzino a letto, avrebbero potuto accendere un paio di candele e mettere un po’ di musica soft. Eros Ramazzotti.
Amore3…
Mike socchiuse gli occhi, sbirciando la profonda piega tra i seni, l’umida insenatura che nascondeva un segreto sotto quei merletti e quella seta. Sentiva il sangue che gli pulsava all’inguine, mentre i jeans gli si facevano stretti. Quando Mike avrebbe infilato la sua mano sotto la maglietta, liberando quelle tette sudate, lei avrebbe emesso un gemito. Avrebbe
cominciato ad ansimare e a mordersi le labbra. Poi avrebbero spinto da
parte il tavolino, presi dall’eccitazione, e lei si sarebbe messa lì carponi
sul tappeto davanti a lui. Avrebbe girato la testa all’indietro, con alcune
ciocche di capelli in disordine davanti agli occhi che brillavano, pregandolo ansimante di prenderla con forza. E lui avrebbe tirato giù i pantaloni, afferrato le sue natiche bianche e sode e…
«Due asciugabiancheria!?».
La donna gli rivolse uno sguardo che non mostrava alcuna eccitazione.
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Etimologicamente questo nome significa “Sole”.
In italiano nel testo.
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Mike sbatté le palpebre, risvegliandosi dal suo sogno a occhi aperti.
«Cosa?»
«Hai rubato due asciugabiancheria dalla lavanderia collettiva in un condominio di Föreningsgatan. È per questo che ti hanno messo dentro».
«Sì…».
«Solo per curiosità», fece l’ispettrice. «Voglio dire, che diavolo ti è
passato per la testa? A me non sembra un piano criminale ben congegnato. Chi si comprerebbe due asciugabiancheria rubati?».
Mike arrossì, aprì la bocca ma non gli venne in mente nulla di intelligente da dire. Assolutamente nulla.
Non aveva memoria di quella notte. Si ricordava soltanto di essersi risvegliato in una cella del commissariato, con un mal di testa così forte che
avrebbe preferito morire. Quando il responsabile per le indagini gli aveva
spiegato il motivo dell’arresto, lui stesso si era posto quella domanda:
“Che diavolo ti è passato per la testa?”. Beccato in flagrante mentre cercava di spingere su per le scale dello scantinato quei maledetti asciugabiancheria pesanti, ubriaco fradicio, con ferite da taglio al braccio destro
che aveva avvolto in un paio di mutande insanguinate. Oh Gesù!
Di per sé, sentirsi a pezzi dopo una sbornia non era insolito per Mike
Larsson. Fra due mesi avrebbe compiuto quarantacinque anni. Nel corso di una notte insonne in cella, dopo essersi stufato della TV, delle riviste porno e di fissare la luna fuori dalla finestra, aveva calcolato che durante gli ultimi trent’anni era stato ubriaco per circa un terzo del tempo.
Nonostante ne avesse trascorso buona parte dietro le sbarre.
Quando Mike, in quell’attimo di lucidità, ripensò a tutto ciò che aveva perso, a quanto aveva sperperato, ebbe paura. Tanta paura da cominciare a sentire brividi di freddo. Si spaventò a tal punto che, per
amor del vero, nella sua solitudine arrivò persino a versare due lacrime,
proprio lui che detestava gli uomini che frignavano come femminucce.
Ma ora si era lasciato tutto questo alle spalle. Adesso era proprio arrivato il momento, per Mike Larsson, di riprendere il controllo della sua vita.
Il furto degli asciugabiancheria, un tentativo di furto con scasso non
riuscito in una videoteca dalle parti di Triangeln (la polizia l’aveva identificato grazie al filmato della telecamera di sorveglianza) e un boccale di
birra che gli era capitato di tirare in testa a un tizio che gli aveva dato del
“maledetto frocio” nel ristorante Nyhavn in piazza Möllevångstorget,
gli erano costati due anni di carcere. Al momento Mike aveva scontato
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sedici mesi e, grazie al suo comportamento esemplare, stava per ottenere la libertà condizionata dal penitenziario Kirseberg, a Malmö.
«Ti sei comportato bene. Vedo che hai lavorato in officina e che hai
partecipato agli incontri sulla droga», commentò l’ispettrice, dopo aver
sfogliato le sue carte.
Appoggiandosi allo schienale della sedia, Mike si passò il palmo della
mano tra i capelli appena tagliati a spazzola.
«E hai fatto un bel po’ di palestra, a quanto vedo».
Accavallò le gambe, lasciando dondolare leggermente il piede.
Mike la scrutò con sguardo indagatore. Lo stava forse prendendo in giro? Sentì nuovamente la rabbia montargli dentro, e non poté fare a meno di tendere i pettorali tanto da muovere i peli sotto la camicia aperta.
Incrociò le possenti braccia sul petto.
«La cosa importante è stare alla larga dalle cattive amicizie e dalla droga», puntualizzò l’ispettrice. «E ricominciare a lavorare. Mi risulta che
una volta lavoravi in un’impresa di autodemolizioni».
«Un lavoro fantastico. E io ho proprio le qualifiche richieste».
Mike ripensò alla proposta che gli aveva fatto Dragan quella volta,
mentre si riposavano dopo una sessione d’allenamento con i pesi in
quello sgabuzzino che puzzava di sudore, in fondo allo scantinato del
carcere. «Conosco un tizio a Tomelilla che ha bisogno d’aiuto. Tu sei di
quelle parti, non è vero? È una brava persona. Si chiama Boris. Ha un
sacco di grana. Mi ha chiesto se conoscevo una persona fidata che potesse dargli una mano con… un po’ di tutto».
Mike aveva subito accettato. Per una volta gli dèi che governavano il
destino erano stati benevoli. Era proprio a Tomelilla che stava andando.
Era lì che si trovava Robin. E Dragan gli aveva assicurato che si trattava
di un lavoro regolare. Niente droga o altre schifezze con cui potevano
inchiodarti. A Mike, Dragan era piaciuto sin dall’inizio, nonostante fosse jugoslavo e avesse quindici anni meno di lui. Era vero che stava dentro per aver contrabbandato metandrostenolone dalla Polonia, ma poi
aveva detto di essersene pentito. Avevano parlato un bel po’, laggiù tra i
manubri nello scantinato. Anche Dragan aveva un ragazzino che gli era
stato portato via. Capiva perfettamente quello che provava Mike.
Per sicurezza, Mike infilò la mano nella tasca dei pantaloni per controllare che il bigliettino con il numero di telefono fosse ancora lì.
«Sì, dovremmo aver finito. È tutto».
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L’ispettrice, che forse si chiamava Solveig, raccolse le sue carte e chiuse la cartella con un colpo secco. Nel compiere quel movimento si fermò
a guardare Mike con un’espressione che per la prima volta lasciò intendere che provava curiosità.
«Hai menzionato qualcosa riguardo a un piano…?».
Lui fece spallucce.
«Mah, niente d’importante. Riguarda Robin. Ho pensato che, se ora
ricomincio a lavorare e a guadagnare dei soldi e lascio perdere l’alcol,
forse le cose si rimetteranno a posto. Allora forse lui e io…».
Ammutolì, cercando di scorgere nel viso di lei un qualche cenno di
comprensione. L’ispettrice rimaneva immobile e inespressiva, nell’attesa che Mike proseguisse. Respirava pesantemente. Sembrava affannata.
Ma non faceva mica così caldo, nella stanza. Il ragno era ancora lì in attesa, nella sua ragnatela sulla finestra. Mike sentì di nuovo quella tensione allo stomaco. Era come se ci fosse una maledizione nella prosperosa natura di quella donna, come se emanasse onde ipnotiche dal suo
corpo che profumava di fiori. Inesorabilmente, il suo sguardo fu di nuovo attirato dalle labbra, da quel seno prorompente, poi proseguì lungo
una gamba coperta di seta, fino allo stivaletto nero che lei si ostinava a
far dondolare incessantemente. Dentro di sé la vedeva ancora una volta,
bianca, scintillante e nuda, a quattro zampe sul morbido tappeto davanti alla TV, col tavolino scaraventato di lato.
«Hai mica voglia di andare a bere qualcosa stasera?».
Le parole gli erano uscite dalla bocca alla velocità della luce e lo avevano spaventato a morte. Se avesse potuto, si sarebbe lanciato per cercare di riacchiapparle, come fa un pescatore cui sia sfuggita un’anguilla
appena presa all’amo.
Mike deglutì con forza.
Senza dire una parola, la donna si alzò dalla sedia, guardandolo dall’alto in basso. In un secondo, Mike venne trasformato in una minuscola e insignificante cacca di mosca.
«In bocca al lupo», gli disse con freddezza mentre lasciava la stanza
camminando con la schiena ben dritta.
***
Arrivato in fondo alle scale del carcere, Mike mise giù il borsone con
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i suoi effetti personali e fece un respiro profondo. Rivolse lo sguardo in
su, verso la telecamera di sorveglianza che teneva sotto controllo il portone verde e le alte mura sovrastate dal filo spinato, prima di tirare fuori un pacchetto di Marlboro dalla tasca e accendersi una sigaretta.
L’aria ottobrina era limpida, fredda come la libertà e fresca come la
promessa di una vita nuova e migliore. Gli aceri intorno al piazzale, dove un gruppo di ragazzini giocava a calcio, sfavillavano di rosso e di giallo. Il cielo era azzurro, e sopra la testa di Mike un paio di cornacchie
gracchiavano nel vento.
“Corvus corone cornix”, registrò com’era sua abitudine. “Chissà se a
Robin interesseranno gli uccelli?”. In ogni caso, il libro era al sicuro nel
suo borsone tra i vestiti gualciti.
Mike sentì il fumo che gli scaldava il petto. Colse l’odore di terra e foglie umide proveniente dal piccolo parco dall’altra parte del muro. Più
in là, il brusio dall’autostrada per Lund. Lanciò un rapido sguardo alle
sue spalle per assicurarsi che nessuno degli sbirri acidi al varco di controllo lo stesse osservando attraverso la barriera di vetro antiproiettile.
Poi tirò fuori il portafogli. Con cura aprì l’annuncio pubblicitario ritagliato con la fotografia della barca. Aveva l’aspetto di una bagnarola
piuttosto in là con gli anni. Il prezzo non era indicato. «Un rimorchiatore restaurato», diceva l’annuncio. “In grado di resistere a tempeste e
uragani”, pensò. Per un vecchio marinaio come Mike, non sarebbe stato troppo difficile gestire un’imbarcazione del genere.
Si vide già in piedi sulla prua a scrutare l’orizzonte con espressione severa, mentre gli schizzi alzati dalla barca che avanzava colpivano il suo
volto sano e abbronzato. Avrebbe potuto essere l’inizio di un percorso
su una nuova rotta. Avrebbe potuto essere l’inizio della loro nuova rotta insieme.
Ripiegò l’annuncio pubblicitario e tirò fuori la piccola foto di Robin.
Ormai era vecchia di un paio d’anni e cominciava a consumarsi ai bordi.
Era dei tempi della scuola, se ben ricordava. Aveva i capelli arruffati, e
fissava il fotografo con una strana espressione che rendeva difficile sapere con certezza se fosse arrabbiato o se stesse per scoppiare a ridere.
Mike sentì una sensazione di calore pervadergli il cuore.
«E adesso, stronzetto, ti faccio vedere io chi è tuo padre!», mormorò
tra sé.
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CAPITOLO 2
La luce gialla della lampada a petrolio dava l’illusione che i ragazzi nel
capanno di caccia custodissero un segreto comune.
Robin li osservava con un misto di timore e orgoglio. Sei facce contratte, in una penombra che trasformava brufoli e rossori in ombre
severe. I loro occhi brillavano. Erano guerrieri ed esigevano rispetto.
Ora gliel’avrebbe fatta vedere lui, a tutti quei dannati che si lamentavano
sempre. Alle maestre della scuola materna, ai professori della scuola, alle
impiegate dell’assistenza sociale. E a suo padre, non ultimo a suo padre.
Robin provava una sensazione di calore nel petto. Sarebbe stato fiero
di lui suo padre, se avesse potuto vederlo ora?
Tirò fuori il cellulare e diede un’occhiata all’orologio. Si stava facendo
tardi. Il silenzio strisciava lungo il pavimento come un’anima invisibile e
li avvolgeva in un abbraccio umido. La pioggia tamburellava quasi impercettibile sul davanzale della finestra, dall’altra parte del vetro nero.
Un odore di muffa penetrava nelle narici. Gocce pesanti cadevano da
una falla nel tetto.
Bullen avrebbe rimediato delle torce, l’aveva promesso.
Ma dov’era adesso?
Per lo meno, gli altri erano riusciti a finire le uniformi in tempo. “Meno
male”, pensò Robin. La disciplina era importante. Così aveva detto Kenny,
e lui faceva presto a incazzarsi se le cose non andavano come voleva lui. Robin gli diede un’occhiata di sguincio: quello se ne stava seduto vicino alla
porta a giocherellare con il suo coltello a serramanico. Tra le sue dita, si intravedeva sul manico un teschio che ghignava. Ogni volta che la lama usciva e rientrava si sentiva uno scatto ben oliato. “Sembra pericoloso”, rifletté
Robin. Pantaloni mimetici verdi. Il cappuccio tirato su, a coprire la fronte.
«Potere Bianco1. Patria. L’ultima Thule. Questo è affar nostro. Siamo i
prescelti. Avete capito?».
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Movimento ideologico che si origina dal Nazismo, basato sul concetto che l’uomo bianco
sia superiore agli altri gruppi razziali.
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Kenny esaminava la sua piccola comitiva con occhi pallidi, incavati nel
grasso della sua faccia. Gli altri ragazzi si scambiavano sguardi e annuivano con grande serietà.
«Gli slavi e gli arabi ormai sono dappertutto. Si stanno impossessando del nostro Paese. Li faremo cagare addosso dalla paura».
«Ieri ho visto due negri al Konsum», affermò Jocke, il più giovane tra
loro. «Veri negracci. Di sicuro stavano comprando delle banane».
Un sorriso compiaciuto si dipinse sul viso di Kenny. Nella penombra
della casa echeggiavano un ghigno nervoso da adolescente e colpi di tosse per schiarire la voce.
Robin restava in silenzio. Prima che Kenny avesse cominciato a tirare fuori l’argomento dei maledetti stranieri, non è che ci avesse prestato troppa attenzione. Non aveva mai pensato che fossero poi tanto diversi. Ora però tutto gli appariva chiaro. Che ci stavano a fare in Svezia? Era proprio così che andavano le cose, ed era arrivato il momento
di dire basta.
Ma, ciò nonostante, provava una strana sensazione nello stomaco. La
prima volta che Kenny aveva esposto il suo piano, qualcuno aveva cercato di buttarla sul ridere, chiamandolo il “Rambo della guardia civile”.
Ma Kenny aveva reagito digrignando i denti e con uno sguardo inquietante. A quel punto, tutti avevano capito che si faceva sul serio. «È ora
di dimostrare che ci sono degli svedesi che ne hanno abbastanza», aveva sentenziato. «Patrioti stufi di starsene in un angolo a piagnucolare
senza far nulla».
La determinazione era fondamentale. Robin l’aveva letto su internet.
Era solito navigare tra quelle pagine utilizzando il vecchio computer di
Gunborg in salotto, quando non c’era nessuno in casa. La Resistenza
Nazionale. L’identità svedese. Potere Bianco. Una volta, per caso, Sune
aveva intravisto una svastica. Era arrivato di soppiatto, da dietro, quello
spione. Quando aveva visto le immagini sullo schermo, si era fatto scuro in volto e se ne era uscito con un commento acido. Robin l’aveva ricambiato con un ostinato sguardo di sfida.
Durante il primo periodo in casa di Sune e Gunborg, Robin aveva
paura. A quel tempo, insaccava la testa tra le spalle aspettando che arrivasse un pugno, come un cane terrorizzato aspetta la cinghiata. In seguito aveva capito che forse poteva non essere così terribile. Ci si poteva fare l’abitudine. Indurirsi e spegnere il cervello, per così dire. Ma il
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peggio veniva dopo, quando Gunborg gli faceva quello sguardo da
mendicante. Come se fosse quella da compatire. Sune picchiava anche
lei, questo Robin lo aveva capito.
Ma era giunto il momento di farla finita. Lui non aveva più intenzione
di subire. Se quel vecchio avesse provato a trascinarlo giù in cantina
un’altra volta, gli avrebbe dato ciò che si meritava. Gli avrebbe spaccato il naso, a quella merda.
La cosa strana era che sembrava che Sune avesse avuto un presentimento. Proprio quella sera, quando aveva sorpreso Robin davanti al
computer, era parso chiaro. Prima si era lasciato sfuggire qualche parolaccia ma, quando il ragazzo si era girato e aveva sostenuto il suo sguardo, aveva indietreggiato ed era rimasto in silenzio. Non aveva capito
niente, quel maiale. Ma niente davvero.
«Pensi che finiremo sul giornale, Kenny?».
Era di nuovo Jocke.
«Certo che finiremo sul giornale. Quella checca di un giornalista a cui
ho dato la dritta si è eccitato tanto da venire nel telefono».
Gli altri ridacchiarono. Si udì un sibilo quando qualcuno aprì una lattina di birra. Poi un rutto mezzo soffocato.
«Non credi che arriveranno gli sbirri?».
Usando il pollice Kenny fece scattare la lama del coltello, poi fece un
cenno in direzione di Jocke.
«Forse. Sono proprio cretini, ma non si sa mai. Ho avvertito quel giornalista frocio di non spifferare nulla. Ma non ce n’era bisogno. Ha detto che voleva fare lo scoop senza dividerlo con nessuno».
Con uno sbuffo sprezzante, Kenny li fissò diritto negli occhi, uno dopo l’altro, come un ufficiale che ispeziona le sue truppe.
«Dobbiamo essere molto rapidi. Entrare in scena velocemente e uscirne altrettanto velocemente. Nessun errore. Così gli sbirri non avranno il
tempo di intervenire».
Robin sentiva una specie di formicolio alle gambe. Si guardò intorno
nel capanno. In un angolo c’era un materasso macchiato, un paio di vecchie coperte e qualche lattina di birra vuota. Accanto alla porta una vanga e degli stivali di gomma infangati. Nessuno aveva fatto lo sforzo di accendere la stufa di ghisa. Robin si alzò e raggiunse la finestra. Il vetro era
appannato. Lo strofinò con la manica e sbirciò fuori. L’unica cosa che
vedeva era un bosco nero e una mezzaluna pallida.
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«Ma quando cazzo arriva Bullen?»
«Arriva, arriva… Sarà meglio per lui. Dobbiamo trovarci sul posto a
mezzanotte in punto. Così ho detto a quell’idiota del giornale».
Click.
Gli altri seguirono lo sguardo rapito di Kenny dirigersi verso la lama
del coltello, che era fuoriuscita con uno scatto.
Click.
Sparita di nuovo. Robin fece uno sforzo per scrollarsi di dosso l’irritazione. Che bisogno c’era di giocherellare tutto il tempo con quel dannato arnese?
«Hai mai ammazzato qualcuno con quel coso?», gli sfuggì.
Kenny sollevò gli occhi con un’espressione perfida dipinta in volto. Si
accarezzò i baffi radi con il pollice. Con un colpo del polso passò il coltello a serramanico nella mano sinistra, lo riprese con la destra, dopodiché lo chiuse e lo fece scomparire nella tasca della giacca.
«Non fare queste domande, se non hai il coraggio di sentire la risposta», disse a bassa voce.
Robin trattenne il respiro. Era pentito di aver parlato. Ma era colpa
della sua irrequietezza.
«Mi credi se ti dico che ho squartato uno straniero di merda?».
Tutto d’un tratto, l’espressione di Kenny si era fatta minacciosa. Ecco
il suo lato sgradevole. Un momento se ne sta lì a cazzeggiare e a ridere
come chiunque altro, il momento dopo diventa il diavolo in persona.
Quel ghigno feroce gli allungava gli occhi, facendoli apparire due strette fessure.
Robin fece spallucce e si mise di nuovo a sedere.
«Non lo so…».
Kenny lo fissò, stizzito. Robin sentì una stretta allo stomaco.
Avrebbe dovuto sostenere quello sguardo o soltanto voltarsi con calma? Gli altri stavano in silenzio, ma lui notò che si erano fermati, avevano percepito qualcosa.
Kenny allungò il braccio di scatto, un cobra che ghermì il polso di Robin. Quando quello fece un tentativo di liberarsi, era già troppo tardi.
Era imprigionato tra le fauci del serpente.
Gli occhi velenosi di Kenny scintillavano. Adesso era talmente vicino
che Robin sentiva il suo respiro acido. Inesorabilmente, la sua mano fu
spinta giù verso il tavolo, una larga asse sistemata su due cassette di birra.
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«Allarga le dita!».
Robin non aveva il coraggio di disobbedire. Allargò le cinque dita sull’asse più che poteva.
«Se chiudi gli occhi sei una femminuccia, un vigliacco!».
E il coltello a serramanico era di nuovo lì, nella mano di Kenny. Un riflesso dalla lampada a petrolio fece luccicare la lama. Robin ansimava
per prendere aria. Gli sembrava che un ratto affamato gli stesse tirando
e strappando le budella, e allo stesso tempo provava lo stimolo di cagare. Gli altri erano impietriti. Qualcuno tossì. Per un’eternità silenziosa,
l’unica cosa che videro fu quella punta aguzza come un punteruolo.
Con un movimento veloce, Kenny girò il coltello, preparandosi a colpire.
«Marchialo!», sussurrò Jocke, eccitato.
«Stai zitto!», sibilò Kenny, senza distogliere l’attenzione dalla sua preda neanche per un attimo.
La morsa intorno al polso di Robin si fece più salda. Le sue dita erano
sempre più bianche.
Zac.
Il primo colpo penetrò con violenza nello spazio tra il pollice e l’indice di Robin, conficcandosi nell’asse di legno. Nel capanno si udì un
mormorio.
La punta era penetrata di due centimetri nell’asse e Kenny dovette
sforzarsi e fare leva per staccarla. Sorrise, appagato.
Dalle tempie di Robin colava sudore freddo. Istintivamente, sentì che
avrebbe dovuto fare qualcosa. Implorare pietà o almeno fare una risata
smielata ed esclamare qualcosa del tipo: «Cazzo, che spavento mi sono
preso!», per far rilassare Kenny e fargli cambiare rotta. Ma era impossibile. Non riusciva a pronunciare una singola parola. Rispose invece al
ghigno dispotico di Kenny con uno sguardo ribelle, benché tutto il suo
corpo da quattordicenne fosse consapevole che non si trattava di una
buona idea.
E la sua intuizione era giusta: il viso di Kenny virò dal rosso dell’eccitazione a un viola livido di rabbia.
«Ok, ora vediamo se sei davvero un duro!».
Ancora una volta, il coltello penetrò nell’asse di legno con un rumore
sordo, stavolta tra il dito medio e l’indice di Robin. Ma Kenny non si accontentò di un singolo attacco: estrasse fulmineo la punta del coltello e
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cominciò ad affondare freneticamente tra le dita allargate. Il braccio destro, gonfio di muscoli d’acciaio, si era trasformato in una macchina da
cucire omicida con il coltello a serramanico a mo’ di gigantesco ago.
Zac-zac-zac-zac-zac.
Robin avrebbe voluto chiudere gli occhi. Avrebbe voluto spostare il
braccio, ribaltare il tavolo, uscire di corsa dalla casa e fuggire lontano,
lontano nel bosco. Ma il polso era bloccato come in una morsa e tutto
quello che poteva fare era seguire la punta scintillante che volava su e
giù tra le sue dita e il legno.
«AHI!».
Un dolore violento gli attraversò la mano.
Il coltello era penetrato alla base del pollice di Robin e aveva aperto
una ferita profonda.
Affiorava del sangue scuro che andò a formare una pozza sull’asse.
Un’espressione di sorpresa si diffuse sul viso di Kenny, come se si fosse
svegliato da un’estasi. Lasciò la presa sia della mano di Robin sia del coltello che rimase dov’era, oscillando.
Proprio nel momento in cui stava per aprire bocca per dire qualcosa,
si sentì il motore di un’auto, e poco dopo la luce di un paio di fari si propagò attraverso la finestra.
«È arrivato Bullen!».
Tutti tranne Robin si precipitarono fuori, dove furono bloccati dai fari, accecati come pipistrelli.
«Ciao, avete finito di farvi le seghe là dentro?», sentirono gridare una
voce rauca.
«Ma che fine avevi fatto?»
«Il vecchio si è messo a fare gli straordinari in ditta. Credevo che non
sarebbe più tornato a casa. Si è pure portato via le chiavi del pick-up, ho
dovuto collegare i fili dell’accensione».
«Hai le torce?»
«Stanno sul pianale. Dovete salirci sopra. State attenti a non sporcarvi i vestiti con il catrame».
«Dobbiamo aspettare Robin».
«Dov’è?».
Fuori calò il silenzio. Robin sentiva il sangue pulsargli nella mano. La
manica del maglione si era macchiata, e sgorgava ancora sangue dalla ferita al pollice. Porca troia, quanto faceva male. Si guardò intorno e scor19
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se dei fagotti sul materasso. Con la mano sana tirò fuori a strattoni il coltello a serramanico dal tavolo, si sollevò sulle gambe tremanti e afferrò
un vecchio telo di stoffa. Con un paio di tagli ne strappò una striscia con
la quale fasciò la ferita.
Chiuse gli occhi per allontanare il giramento di testa e la nausea.
Aspettò un attimo per tentare di placare il respiro. Poi aprì la porta socchiusa con lo scarpone e uscì.
Lì fuori, nel buio, era come se il tempo si fosse fermato. Robin non parlava. Se ne stava lì, con il coltello a serramanico stretto nel pugno sano.
«Ciao, Robin! Ti sei fatto male?».
Bullen guardava lo straccio insanguinato intorno alla mano di Robin.
Gli altri fissavano il coltello. Nessuno rispondeva.
Robin fece qualche altro passo e poi si fermò. Sbatté le palpebre un
paio di volte per schiarirsi la vista. Lentamente sollevò il coltello a serramanico puntandolo diritto agli occhi di Kenny.
«Che cazzo fai, Robin…».
Gli altri si fecero da parte, borbottando qualcosa. Kenny indietreggiò
di qualche passo, dandosi una rapida occhiata alle spalle. Si guardò intorno, agitato, come per cercare sostegno. In quel momento, Robin vide
qualcosa nel suo viso. Un’espressione che non riconosceva: Kenny aveva paura.
Per qualche secondo l’ebbrezza del potere gli fece dimenticare il dolore.
Poi premette il pollice sul pulsante del coltello, facendo rientrare la lama.
Con una mossa distratta del polso, lo lanciò in direzione di Kenny.
«Ecco a te! Riprenditi il tuo fottuto coltello!».
***
Nelle sue notti insonni, Amela aveva l’abitudine di camminare fin
quando non veniva sopraffatta dalla stanchezza. Se piovigginava, tanto
meglio. La nebbia, che spesso avvolgeva le case in una coltre umida,
aveva un effetto calmante sui suoi nervi. Se n’era accorta non appena era
arrivata in quel nuovo Paese.
La gente parlava di lei?
Forse.
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Amela non ne aveva la più pallida idea. Durante le sue passeggiate
notturne non le capitava quasi mai di incontrare delle persone. Se qualcuno stava lì a osservarla di nascosto mentre passeggiava, da dietro le
tende nelle case con le luci spente, era una cosa che non la riguardava.
Non le importava affatto.
Si fermò fuori dal portone, le piaceva sentire l’umidità che le entrava
nei polmoni. Si strinse nelle spalle e chiuse un altro bottone del cappotto. Faceva freddo.
Lentamente alzò lo sguardo al cielo, lasciando che qualche goccia
fredda le accarezzasse le guance. Poi cominciò a camminare lentamente, con quel ritmo meditativo che di solito le consentiva di liberarsi dai
pensieri. Non le ci volle molto perché svanissero, proprio come aveva
sperato. Il vuoto arrivava sempre come una liberazione.
Quando giunse in piazza, non avrebbe saputo dire per quanto tempo
era rimasta in giro. Un’ora, forse due. Improvvisamente, qualcosa la immobilizzò. Forse un suono che non apparteneva a quel luogo, forse
qualcosa che aveva intravisto senza dargli troppo peso ma che aveva trasmesso un segnale al suo cervello.
Era proprio come se si fosse svegliata di soprassalto. Senza saperne il motivo, si fermò, nell’ombra, accanto all’edificio della Banca di risparmio.
La piazza era quasi deserta, illuminata soltanto da un paio di lampioni e dalla luce fioca di una vetrina. Sulla panchina fuori dal Systembolaget2, dove si ritrovavano gli ubriaconi, c’era un fagotto ammassato in un
angolo che, nonostante tutto, sembrava un essere umano. Un po’ più in
là, verso il passaggio a livello, un signore anziano con un sacchetto di
plastica nera in mano aspettava impaziente il suo bassotto, penosamente accucciato in un rigagnolo. Da una finestra aperta al terzo piano provenivano dalla TV delle voci alterate.
Un altro individuo esile stava appoggiato contro la parete accanto al
portone di un’abitazione. Non che si stesse nascondendo: aveva il tipico
linguaggio corporeo di chi voleva destare la minima attenzione, ma allo
stesso tempo apparire disinvolto. Forse era stata la macchina fotografica, che di tanto in tanto l’uomo tirava su e rigirava tra le mani, ad attirare l’attenzione di Amela. Sembrava che lui stesse aspettando qualcosa. E
ciò la fece incuriosire.
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Catena di negozi di proprietà dello Stato, che ha il monopolio della vendita di bevande
alcoliche.
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La donna indugiò nel buio, accanto al massiccio palazzo in pietra. Un
paio di colombe, ridestate dal loro sonno, svolazzarono in alto accanto
alla statua di Artemide e a una fontana senz’acqua. L’uomo minuto e
mingherlino con la macchina fotografica guardava nervosamente il suo
orologio.
“La calma prima della tempesta”, pensò Amela.
Proprio in quel momento, la quiete fu spezzata dal motore di un’auto
che rombava e da una musica gracchiante che proveniva da un altoparlante. Un pick-up a pieno carico girò l’angolo, si accostò al chiosco del
take-away e frenò all’improvviso, facendo stridere gli pneumatici. La
piazza fu inondata da un canto sgangherato:
Ragnarök, befriare och död
Ragnarök, Ultima Thule frös…3
«Go, go, go! Datevi una mossa, cazzo!», incitò una voce eccitata attraverso quel frastuono.
Cinque individui che indossavano una specie di uniforme saltarono
giù dal pianale del pick-up.
Si alzò una fiammata, seguita da altre. Altre due figure si precipitarono fuori dalla cabina, uno di loro aveva un grosso stereo portatile tra le
braccia. Pigiò un paio di tasti, la musica cessò per un istante per poi riprendere, adesso a volume ancora più alto. Tra le mura delle case risuonò l’inno nazionale svedese:
Du gamla, du fria, du fjällhöga nord.
Du tysta, du glädjerika sköna…4
Armati di torce ardenti, i sette commandos si precipitarono verso la
statua, srotolarono un grosso striscione e si misero rigidi sugli attenti.
“Nessuno straniero di merda nella nostra città – i patrioti svedesi”, ci
avevano scritto sopra con uno spray nero.
Evidentemente era proprio ciò che l’uomo con la macchina fotografica stava aspettando. Dal momento in cui il pick-up aveva fatto il suo ingresso in scena, l’uomo si era messo a scattare foto. Si aggirava, eccitato
come un furetto, per trovare nuove inquadrature; prima salì su una panchina, poi si arrampicò sulla statua al centro della fontana e infine si
sdraiò a pancia in giù sul selciato bagnato davanti a quei guerriglieri ma3
4
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“Fine del mondo, liberazione e morte, / Fine del mondo, l’ultima Thule era fredda…”.
“O nord antico, libero e montuoso, / bellezza silenziosa e ricca di gloria…”.
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scherati. Continuava a gridare in preda all’esaltazione, ma le sue parole
si perdevano nel loro canto.
Istintivamente, Amela indietreggiò ancora di qualche passo nella penombra dell’edificio.
Nel suo Paese, ne aveva avuto più che abbastanza di giovani uomini
adrenalinici in uniforme. Sentì una fitta allo stomaco, e una sensazione
come di acido corrosivo che si faceva strada su per la gola.
Poi, tutto d’un tratto, la musica si interruppe. Amela udì un urlo, seguito da due colpi secchi. Si alzò del fumo denso, una nuvola gialla e
una blu, che in breve si mischiarono in una nebbia verde impenetrabile
che avvolse la piazza. Passi di corsa. Vetro in frantumi. E poi il rombo
d’un motore e un’automobile che si allontanava nella notte.
Poco dopo, si spalancarono un paio di finestre e si udì un vociare
preoccupato. Il fotografo uscì barcollando dalla coltre di fumo. Si diresse dritto verso Amela, tossendo incontrollatamente. Mentre le passava accanto, la donna fece in tempo a notare le lacrime che gli solcavano
le guance.
Amela lasciò il suo punto d’osservazione accanto all’edificio della
banca e cominciò a pedinare l’uomo magrolino che si allontanava dalla
piazza. Gli occhi iniziarono a bruciarle. L’aria della notte era pesante.
***
Quando Robin aprì la porta, si rese subito conto che Sune era ancora
sveglio. L’ingresso dell’appartamento era al buio, ma dal salotto proveniva la luce fredda della TV e si sentivano delle risate in lontananza. Il
volume era basso. Non si distingueva alcuna voce in particolare.
“Che cavolo sta guardando nel cuore della notte?”, si chiese Robin.
La puzza di fumo gli si era appiccicata addosso, la sentiva bene. A parte questo, non aveva addosso altri segni. Le uniformi erano state riposte
con cura nel capanno da caccia.
Si tolse le scarpe e appese la giacca al gancio dell’attaccapanni. Forse
il vecchio si era addormentato sul divano. Robin entrò in punta di piedi. Ma arrivato a metà delle scale, sentì un rumore alle sue spalle. Si
voltò di scatto.
Sune se ne stava lì, nel vano della porta del salotto. Robin lo guardò
disgustato: la camicia aperta e la canottiera che cadeva come un sacco
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addosso a quel corpo informe e flaccido, le borse sotto gli occhi che lo
facevano assomigliare sempre più a un bulldog. Restarono entrambi in
silenzio. Robin non abbassò lo sguardo. Sune non faceva altro che starsene fermo lì, a fissarlo, con le braccia penzoloni.
Non era affatto minaccioso. Per parecchi secondi rimasero come impietriti. Poi Sune scosse la testa, e strusciando i piedi tornò al divano e
alla TV. Robin riprese a salire le scale.
Era andato tutto liscio. “Proprio secondo i piani”, pensò, mentre se ne
stava sdraiato sul letto.
Tuttavia, sentiva un bruciore allo stomaco. Spense la lampada sul comodino e restò a fissare il buio. Ad ascoltare il battito del proprio cuore. Batteva veloce e forte, come se quel muscolo volesse a qualsiasi costo
mandare quanto più sangue possibile alla testa, che ne era già piena. Robin accese di nuovo la lampada. Gli doleva il capo e i pensieri ronzavano come un nugolo di zanzare. In effetti era arrabbiato. Era così fastidioso sentirsi costantemente incazzato, ma senza sapere bene con chi. Si
rigirò nel letto e sferrò un pugno furibondo al cuscino.
Cercò quindi di ragionare. Da dove proveniva tutta quella rabbia? Per
quanto potesse andare indietro nel tempo con la memoria, di tanto in
tanto, capitava che gli salisse il sangue alla testa senza che ne capisse la
ragione. Spesso sentiva il cervello andargli in cortocircuito. Ogni volta
che lo trasferivano in una nuova scuola, succedeva la stessa cosa. All’improvviso, chissà come, si ritrovava coinvolto in una rissa. Nonostante fosse piccolo di statura, i compagni di classe avevano paura di lui. La
cosa a volte gli faceva provare una sorta di piacere. Non era mai entrato
in confidenza con nessuno di loro.
“Papà”, pensò. “Forse è proprio con lui che sono incazzato?”.
O con quegli stranieri di merda. Quando Kenny gliene aveva parlato,
era stato come se i pezzi del puzzle fossero andati tutti al posto giusto.
Come se ogni cosa fosse diventata semplice e chiara. Come se fosse più
facile essere arrabbiati, quando si sapeva contro chi indirizzare l’odio.
Robin rimase del tutto immobile a fissare a lungo il soffitto, dove un
modellino di aereo in plastica, assemblato tanto tempo prima, fluttuava
senza meta.
Si addormentò con un peso sul petto.
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CAPITOLO 3
Il buio era calato su piazza Möllevångstorget senza che Mike ci avesse
fatto caso. Ruttò sommessamente e premette il naso contro il vetro della finestra.
Doveva essersi fatto tardi.
Tentò di schermare la luce del locale con la mano e socchiuse gli occhi
per vedere all’esterno. Ma il vetro appannato sfocava le immagini. La luce dei fari delle macchine brillava sull’asfalto della Bergsgatan, e sul selciato della piazza si affrettavano ombre nere chine su loro stesse. Era cominciato a piovere.
“Merda, si sta facendo tardi”, pensò.
Ma, d’altra parte, si trattava solo di una perdonabile debolezza umana. Un paio di birre quando uno è appena uscito dal carcere non è mica
pretendere troppo. Si era scolato la prima in un unico meraviglioso sorso. Un benessere gorgogliante aveva pervaso il suo corpo. Si era preso
più tempo per gustarsi la seconda. Amara, rotonda e piena, sapore di
malto e luppolo. Ne aveva subito ordinata un’altra.
Dopo la settima birra cominciò a sentire i morsi della fame e ordinò
pyttipanna1 con uova e barbabietole e un bicchierino di Gammeldansk2.
Tutto davvero buono!
Si scolò l’ultimo goccio di birra rimasto nel boccale e si guardò intorno dentro al locale. Era proprio ora di iniziare a pensare a come tornare a casa.
Stavano accalcati intorno al bancone del bar uomini giovani e pochissime donne.
Giacche di pelle e di jeans e facce non rasate. “Un sacco di jugoslavi e
arabi in tuta da ginnastica, proprio come in carcere”, pensò Mike. Il barista era un tipo magro con la coda di cavallo e un orecchino sul lobo.
La faccia pallida come quella di un impresario di pompe funebri. Mike
1
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Piatto tipico svedese, composto da cubetti di carne fritta, patate e cipolla.
Bevanda alcolica, prodotta in Danimarca.
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sentiva la testa che gli girava e non era in grado di stabilire se fosse soltanto una sua impressione ma, quando fissava qualcuno degli avventori
più vecchi seduti al bar, quelli rivolgevano lo sguardo altrove, quasi come se avessero paura di lui. Gli sembrò di riconoscere l’alcolizzato che
aveva appena lasciato il locale. Mike si strinse nelle spalle. Nessuno che
conosceva, probabilmente.
Quando si alzò dal tavolo, i giramenti di capo aumentarono. Mike
scosse la testa per schiarire i pensieri, ma non gli fu di grande aiuto. Si
avvicinò barcollando al bancone del bar e inserì il suo gomito tra due ragazzi con delle giacche lucide. Erano avvolti in una nube di colonia.
Mike gli diede una rapida occhiata. Gli era difficile sopportare quei bellimbusti sbarbatelli con i capelli un po’ lunghi che sembrava si fossero
pettinati con il grasso di maiale.
«Posso avere il conto?», farfugliò in direzione del barista.
«Scusa, che hai da spingere in questo modo!?».
Il più alto dei due tipi in completo lo guardò con aria offesa, delimitò
il suo posto sul bancone del bar con il gomito e riprese la conversazione
con l’amico. Ma quella rapida occhiata era bastata perché Mike avvertisse il suo disprezzo.
Sentì che le tempie gli iniziavano a prudere. Era il primo segnale. Il
prurito appena sopra le orecchie era ciò che lo avvisava che la temperatura della testa cominciava a salire, e che c’era il rischio di un surriscaldamento. Si passò le mani tra i capelli tagliati a spazzola. Si sentiva
nervoso.
«Che cosa hai detto, sacco di merda impomatato?».
Il ruggito di Mike fece cessare il brusio intorno a loro. Quello più alto
si voltò lentamente, squadrandolo. Mike non gli arrivava neanche all’altezza del naso, ma la sua nuca era larga come quella di un toro. L’ira nei
suoi occhi iniettati di sangue fece indietreggiare l’altro per il terrore.
Quell’allegria tipica della sbornia che poco prima aveva pervaso Mike
era stata spazzata via. Le morbide nebbie si erano dissolte. Ora vedeva
con chiarezza il nesso: la colpa di tutte le sue disgrazie era proprio di
pezzi di merda come quei mocciosi.
Snob del mercato azionario e froci delle agenzie immobiliari che pensavano di essere i padroni del mondo. Figli di papà a cui i padri avevano dato tutto, che se ne andavano in giro a sperperare i soldi ereditati.
Ragazzini presuntuosi che non avevano mai fatto un lavoro onesto in vi26
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ta loro e per i quali lui non contava più di un misero verme. Erano quelle carogne presuntuose che avevano sempre messo i bastoni tra le ruote
ai poveracci come lui. E che avrebbero sempre continuato a farlo… e
anche a Robin.
«Ho chiesto cosa hai detto, sacco di merda».
Mike si teneva in equilibrio in punta di piedi. Sbuffava dalle narici e
stringeva il pugno destro talmente forte da far sbiancare le nocche e
conficcarsi le unghie nella piega della carne accanto al pollice. L’unica
cosa che sentiva nel cervello era il calore.
Quello alto fece un passo indietro. Il suo viso d’improvviso era diventato grigiastro e senza segreti. La bocca spalancata lo faceva somigliare
a un pesce che boccheggiava per prendere ossigeno in un acquario. L’amico, con il labbro inferiore che gli tremava, si nascondeva dietro la sua
schiena. Nessuno dei due riuscì a pronunciare una sola parola e probabilmente questa fu la loro salvezza.
«Mike, stai calmo…», lo ammonì il barista.
In un momento di confusione, Mike girò la testa.
«Ragazzi, sarebbe meglio per voi filare via ora», fece il barista pallido,
senza né alzare la voce né distogliere l’attenzione da Mike.
I due ragazzi non esitarono. In tre secondi, avevano tirato fuori una
carta di credito, l’avevano messa sul bancone ed erano usciti, senza
nemmeno riprenderla, inciampando sull’uscio.
«Non sei cambiato, Mike…».
Il barista lo osservava con un sorriso all’angolo della bocca.
«Ci conosciamo?»
«No, non proprio. Ma mi è già capitato di vederti in action, tanto tempo fa. Sai, non mi andava di farmi sfasciare il bar e di attirare un sacco
di sbirri…».
Mike annuì. Il calore più intenso aveva cominciato a sbollire e i battiti del cuore stavano tornando normali. Meno male che quei vigliacchi se
l’erano svignata. Cercò con lo sguardo attraverso la porta a vetri e vide
che stavano indugiando là fuori, gesticolando animatamente, come se
stessero discutendo di chi fosse la colpa della loro fuga. Ormai gli erano
del tutto indifferenti.
Al contrario, Mike si sentiva socievole.
«Sono appena uscito. Dal carcere, voglio dire…».
«Oh, cazzo…».
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«Comincerò una nuova vita. Lavoro onesto, niente più furti».
«Allora ho fatto bene a fermarti».
Mike scrutò il tizio con la coda di cavallo, che per il momento non
sembrava avere niente da fare.
«Ho un ragazzino qui a Tomelilla. Ho pensato di prendermi cura di
lui adesso. Educarlo, per così dire».
«Sembra una buona cosa…».
Il barista lo guardò diritto negli occhi. Mike fissò il suo viso, ma non
riuscì a scorgervi alcuna traccia di ironia. Quindi tirò fuori il portafogli
e pescò ancora una volta la piccola fotografia.
«Si chiama Robin».
Il barman si piegò in avanti e osservò con interesse la foto che Mike gli
mostrava.
«Un bel ragazzo».
Poi si voltò rapidamente, digitò qualche cifra sul registratore di cassa
e mise il conto davanti a Mike.
«Ora che hai il portafogli in mano, forse sarebbe meglio pagare. Sono
cinquecento corone».
Mike emise un grave sospiro. Tutto d’un tratto, si sentì molto stanco.
Con cura ripose la foto nel taschino e tirò fuori sei biglietti da cento corone dal portafogli. Non gli rimaneva molto.
Proprio mentre stava per andarsene, il barista lo fermò.
«Forse ti andrebbe un’ultima birra. Per rinfrescarti un po’ prima di
iniziare la tua nuova vita. Offro io».
Una volta lasciato il calore del locale, Mike si ritrovò a tremare per il
freddo nella piazza che si andava svuotando. Si rese conto che probabilmente aveva tralasciato di pianificare il suo primo giorno fuori dal carcere.
Diede un calcio a una lattina di birra che qualcuno aveva lasciato per
terra, facendole fare un gran volo che terminò con un tonfo contro il cerchione in alluminio di una Mercedes luccicante parcheggiata sul ciglio
della strada. Che idiota! Sprecare mezza lattina di birra in quella maniera! Si guardò intorno di scatto, senza scorgere alcun segnale che qualcuno l’avesse visto.
A Mike pareva però di avere un’idea abbastanza chiara del suo piano
a lungo termine. Era su quello a breve che aveva delle carenze. Non poche, in effetti. Ad esempio, dove cavolo avrebbe dormito quella notte?
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E come sarebbe andato a Tomelilla l’indomani? Dragan gli aveva dato il
numero di telefono di quel Boris. Ma adesso era veramente troppo tardi per chiamare.
Infilò le mani nelle tasche della giacca di pelle, tirò su le spalle e, senza un’idea precisa, cominciò a barcollare verso Ystadgatan. Sentiva odore di città e di autunno.
Davanti al fruttivendolo all’angolo c’era un mucchio di cavolfiori
mezzi marci, e nel ristorante thailandese un inserviente accatastava le sedie sopra i tavoli. Aveva cominciato a fare piuttosto freddo.
Passato il fornaio libanese che vendeva baklava, Mike cominciò a ragionare seriamente sulle alternative che aveva a disposizione. La prima che si
presentò alla sua mente era l’ostello dell’Esercito della Salvezza. Ma ancora non era caduto così in basso. Non gli sovvenne nessun amico che gli
avrebbe potuto offrire un letto per la notte. E rannicchiarsi per qualche
ora in un portone non era nel suo stile. Un po’ d’orgoglio bisognava pure
averlo. In particolare ora che stava per cominciare una nuova vita.
Una vita onesta.
Nell’attimo seguente il suo sguardo cadde su una Ford Sierra arrugginita parcheggiata accanto al marciapiede. Proprio come quella che Mike
possedeva una volta.
Una ottantotto blu scuro con spoiler e pneumatici extra large che valevano un sacco di soldi. Mike provò una forte sensazione di calore. Era
come se avesse rivisto un carissimo amico di vecchia data. Impossibile
che si trattasse soltanto di un caso.
Gettò uno sguardo alla strada deserta e poi uno verso l’alto, nella speranza di ricevere un qualche segno dal cielo. Non avendone avuti, si lasciò guidare da un impulso che gli veniva dalla spina dorsale.
Gli ci vollero meno di tre minuti per ficcare un cacciavite, che per caso aveva con sé, nella fessura della portiera, aprire la macchina, spaccare il blocco dell’accensione e intrecciare un paio di fili.
L’automobile si mise in moto con un rombo familiare. Mike premette
il pedale del gas fino in fondo, lasciò quello della frizione e si godette la
sensazione degli pneumatici che facevano presa sull’asfalto.
Mentre sfrecciava via, sorrise con tutta la sua faccia larga. Sapere di aver
rubato l’ultima macchina della sua vita gli dava una sensazione piacevole.
***
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I riflessi del ghiaccio colpiscono come spilli i suoi occhi spalancati, e
si propagano attraverso i nervi oculari fino al cervello, dove vengono
trasformati in dolore lancinante. Mike tenta di serrare le palpebre, ma
non riesce nemmeno a socchiuderle. Il frastuono è tutt’intorno a lui, come se il mare stesse mandando in pezzi quell’infinita distesa di ghiaccio.
Ha la nausea, ma sa che non deve vomitare e sporcare il nitore e la bellezza che lo circondano.
L’eterna bellezza.
Ovunque, nient’altro che ghiaccio e un inclemente cielo azzurro.
Dov’era andata a finire la barca con cui era arrivato?
Fa freddo, e a ogni suo respiro si forma una nuvoletta di condensa.
Mike si stringe nelle spalle e trema. Guardando giù verso i suoi piedi,
vede che sono nudi.
«Perché non ho i vestiti addosso?», si domanda.
Si piega in avanti e con le mani raschia la neve per raccoglierne un po’.
Il ghiaccio gli fa arrossare le dita. La sete, deve placare quella sete! Mette la neve in bocca, la lascia sciogliere sulla lingua e sente l’acqua ghiacciata scorrergli in gola. Ancora e ancora.
Poi si ricorda del perché si trova in quel posto. Il ragazzo. Con un atto di volontà, riesce a chiudere gli occhi, lasciando aperte soltanto delle
strette fessure. Il dolore martellante è ancora lì, ma per lo meno ora ci
vede un po’ più chiaro. La distesa di ghiaccio non ha fine.
Si volta in modo da avere i raggi del sole alle spalle. L’ombra davanti a
lui è comunque corta e stranamente chiara, come se lui stesso fosse diventato quasi trasparente.
«Non dovrebbero esserci degli orsi polari qui?».
Mike sente il rombo del ghiaccio. Il mare impatta con grande violenza. Nero e profondo. Sente delle vibrazioni sotto i piedi. Forse manca
soltanto qualche ora prima che il ghiaccio si rompa.
Deve trovare il ragazzo.
Comincia a camminare. Là dovrebbe esserci il nord, visto che ha i raggi del sole alle spalle. La cosa strana è che a malapena sente il freddo sui
piedi, invece il dolore alla testa è intenso.
Spietati colpi di martello contro la fronte e le tempie.
Finalmente lo vede. È soltanto un piccolo punto all’orizzonte, ma
Mike sa chi è, e sa anche che deve fare in fretta.
Accelera il passo, comincia a correre. Gesticola con le braccia e urla al
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punto che gli sembra di spaccarsi i polmoni e sente il sapore di sangue salirgli in bocca. Ma la sua voce è sopraffatta dal frastuono del ghiaccio, e
non gli pare che la piccola figura nera in lontananza si stia avvicinando.
Non lo vede? Il dolore pulsante alla testa gli rende così difficile pensare.
Ode uno scoppio, come un colpo di pistola, quando la prima fessura
si apre proprio accanto a lui, e improvvisamente la lastra di ghiaccio,
che poco prima era così limpida e pulita, si trasforma in un mosaico di
schegge addensate. Potrebbero spezzarsi in qualsiasi momento, trasformando quel bianco paradiso in un inferno gorgogliante, ribollente,
freddissimo.
Mike cerca disperatamente il puntino nero all’orizzonte. Non c’è più.
E ora sente delle forti vibrazioni dal basso, percepisce la forza tremenda
del mare sotto i suoi piedi che ruggisce e ulula mentre le prime lastre di
ghiaccio si frantumano. Si innalzano come giganteschi guerrieri che si
fronteggiano, sfregando e cigolando, e creando delle cascate d’acqua
tutt’intorno; il frastuono è talmente forte che sembra che tutto il pianeta stia per sprofondare.
Lentamente Mike scivola giù nell’acqua scura e fredda, le unghie graffiano nel tentativo di trovare un appiglio, ma sa che non c’è speranza.
“Spero che almeno il ragazzo faccia in tempo a salvarsi”, pensa.
Risvegliandosi, Mike sentì le sue gambe rigide come quelle di un cadavere. Per un bel pezzo, non fu sicuro di essere vivo o morto. Cercò di
stiracchiarsi, ma qualcosa glielo impediva. Sentì un fruscio dalle parti
dei piedi ma, per quanto puntasse i piedi e tirasse calci per raddrizzarsi,
rimaneva stretto, intrappolato nella stessa posizione. Mike tremava di
freddo e non aveva la più pallida idea di dove si trovasse.
Piano piano riaprì le palpebre appiccicate. Una luce grigia gli colpì gli
occhi. C’era puzza di benzina. La testa era pesante come una zucca
troppo matura. Al suo interno sentì echeggiare prima un brontolio e poi
un mormorio.
Oltretutto, qualche idiota gli stava premendo la canna di una pistola
contro la schiena.
Mike si alzò di scatto e sbatté la testa contro lo specchietto retrovisore. Porca miseria! Era stata la leva del cambio contro la quale aveva dormito a minacciarlo ripetutamente. Mike non riuscì a trattenere l’impulso di tirarle un cazzotto, cosa che provocò un cigolio da qualche parte
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giù tra gli ingranaggi. Sentì bruciare le nocche. Poi fissò come uno scemo il sacco nero della spazzatura in cui doveva essersi infilato durante la
notte per scaldarsi.
Con mani tremanti, riuscì ad aprire la portiera, ne uscì barcollando e
strappò via la busta di plastica dalle gambe.
Era avvolto in una nebbia fitta e umida. Ovunque indirizzasse lo
sguardo, non vedeva altro che asfalto. Un parcheggio, deserto e infinito
come un mare grigio in bonaccia. E freddo, un freddo tremendo.
“Devo rimettere in moto la circolazione”, pensò Mike.
Intrecciò di nuovo i fili d’avviamento e riuscì a far ripartire il motore.
Aspettando, accanto alla macchina, che funzionasse il calore del sistema
di riscaldamento, si dava dei colpetti sul corpo per scaldarsi, ma ben
presto si rese conto che non gli sarebbe stato di grande aiuto. Passò
quindi a saltellare divaricando le gambe. Prima salti rigidi ed esitanti,
poi con più vigore ed energia: aprire e chiudere le gambe e battere le
mani sopra la testa, proprio come la vecchia ginnastica che si faceva a
scuola.
Mentre sbatteva le braccia come un mulino a vento e ansimava tenacemente, la sua attenzione fu catturata da un carrello nella nebbia. Senza interrompere gli esercizi, lo raggiunse saltellando. “Ikea”, c’era scritto sulla piccola targhetta sull’impugnatura. Si guardò intorno confuso,
cercando invano di ricostruire gli avvenimenti della serata precedente,
per capire come diavolo fosse capitato nel parcheggio riservato ai clienti fuori Bulltofta.
Dopo un po’, Mike sentì che il sangue circolava con più facilità.
Come al solito, provava un doloroso senso di piacere quando le tracce d’alcol scorrevano via dalle arterie e nuovo sangue ossigenato veniva
pompato fino al cervello. Per Mike smaltire una sbornia era sempre stata una battaglia da vincere con violenza: inutile aspettare nel letto come
un vigliacco piagnucoloso. Ed era orgoglioso di avere un fisico abbastanza forte da farcela ancora, a quarantacinque anni.
La macchina della Securitas emerse dalla nebbia senza emettere alcun
suono. Mike non reagì finché due portiere non sbatterono, chiudendosi quasi all’unisono alle sue spalle. Interruppe i suoi esercizi, si girò e fissò i due addetti alla sicurezza sovrappeso, che se ne stavano lì a osservarlo a gambe larghe con i pollici infilati nelle cinte. Il più grasso dei due
sorrideva sprezzante. Quello un po’ più magro tirò fuori una tabacchie32
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ra dal taschino della giacca con un gesto indolente e si infilò un mucchietto di snus3 sotto il labbro.
«Ehi tu, cosa stai combinando?».
Mike li fissava con ostinazione.
«Sto facendo dei saltelli, che cazzo ti credevi?».
Quello più grosso fece un sorriso di circostanza.
«Friskis e Svettis4, giusto? Sì certo, ho sentito che hanno l’abitudine di
fare un turno mattutino verso le cinque e mezza nel parcheggio dell’Ikea. Ma quest’oggi si sono fatti vedere pochi fanatici dello sport…».
Compiaciuto per la propria prontezza di spirito, l’agente strizzò l’occhio
all’amico. Il più magro dei due fece un cenno in direzione della Sierra.
«È tua la macchina?».
Mike intuiva già un leggero prurito a una tempia.
«Mmm…».
«Ci hai dormito dentro?»
«È forse vietato?».
Gli addetti alla sicurezza lo scrutarono increduli, senza rispondere.
«Forse pensavi di scassinare il nostro grande magazzino?», chiese
pensieroso quello più grasso. «Spaccare una vetrata, portarti via un sacco di roba e poi andartene con la tua bella macchina?».
Mike si sforzò di apparire calmo.
«Sì, sì, un letto ad acqua».
«Cosa?»
«Avevo intenzione di rubare un letto ad acqua»
«Ah sì…?»
«Sai, uno di quei letti morbidi, dondolanti, dove tipi affascinanti come me si scopano belle donne tutti i giorni».
Mike sorrise beffardo.
«Un letto che si spacca come un palloncino sotto un ciccione come te».
Soddisfatto, constatò come il colore del viso dell’addetto alla sicurezza cambiava da bianco pallido a rosso, arrivando poi fino a un tono tra
il violetto e il nero.
«Maledetto!».
Proprio mentre i due uomini della Securitas stavano per tirare fuori i
manganelli, la radio della loro macchina cominciò a gracchiare. Si fer3
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Termine svedese per indicare il tabacco da masticare.
Nome di un’organizzazione no profit che tiene corsi di ginnastica.
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marono per ascoltare, immobili come statue. Poi si guardarono l’un l’altro, smarriti, come se si sentissero divisi tra il senso del dovere e la voglia di spaccare la testa a quello sfacciato barbone che avevano appena
beccato.
La loro esitazione non durò a lungo, ma per Mike fu sufficiente. Con
simulata noncuranza, si diresse verso la Ford, entrò, e prima di richiudere la portiera gridò: «Non dimenticate i croissant per colazione, ragazzi! C’è rischio che deperiate!».
Poi partì sgommando, facendo stridere gli pneumatici.
Mentre usciva dal parcheggio, Mike pensò che in effetti il suo secondo giorno in libertà, nonostante l’incubo notturno, fosse iniziato piuttosto bene.
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INDICE
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43
53
63
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86
96
109
118
128
140
148
152
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
p. 164
175
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253
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280
294
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Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32
Epilogo
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